Zabarella, Francesco

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia (2012)

Francesco Zabarella

Chiara Valsecchi

Parlare di Francesco Zabarella significa, senza tema di esagerazione, tracciare il quadro della storia europea tra la fine del Trecento e i primi anni del Quattrocento; egli infatti, da un lato, è pienamente immerso nei più importanti movimenti culturali del suo tempo, aderendo con convinzione ai valori dell’Umanesimo, dall’altro vive, e non da semplice spettatore, molti eventi epocali che coinvolgono le massime istituzioni politiche ed ecclesiastiche. Il suo impegno intellettuale, oltre che all’insegnamento del diritto canonico, è indirizzato in special modo alla soluzione del drammatico scisma che lacera la Chiesa occidentale, distinguendosi per la notevole originalità e indipendenza di pensiero.

La vita

Francesco Zabarella nasce Padova il 10 agosto 1360, da agiata famiglia, probabilmente già assurta da qualche tempo alla classe nobiliare. Dopo i consueti studi di grammatica, logica e retorica, inizia i suoi corsi universitari a Bologna, dove consegue la licenza in diritto canonico il 27 maggio 1382.

Già dottore, si trasferisce a Firenze, dove tuttavia prosegue e perfeziona la sua preparazione, aggiungendo al canonico il diritto civile. A Firenze egli infatti si laurea in utroque iure nel 1385, iniziando immediatamente l’insegnamento. Secondo un iter divenuto ormai consueto, comincia dai corsi minori (sulle raccolte normative Liber sextus e Clementinae), per approdare in breve tempo all’incarico più prestigioso, la sua cattedra ordinaria mattutina di Decretales.

Durante il soggiorno fiorentino ha inizio anche la carriera ecclesiastica: egli, infatti, diviene canonico metropolitano di Santa Maria del Fiore e vicario generale del vescovo.

Dai primi del 1391 è poi a Padova, dove terrà per quasi vent’anni, fino al 1410, il corso ordinario sulle Decretales. Zabarella rifiuta in più occasioni gli inviti che gli vengono da altre università, come la stessa Firenze o Vienna, e non interrompe il suo insegnamento neppure con il passaggio di Padova sotto il dominio veneziano.

All’intensa vita culturale, che lo vede protagonista negli ambienti umanistici anche al di fuori della giurisprudenza, Francesco affianca un altrettanto vivace ruolo nell’agone politico, sia a livello locale, sia nell’ambito della Chiesa universale.

Dal primo punto di vista, vanno segnalate le numerose ambascerie svolte per conto dei signori di Padova, i Carraresi (o da Carrara), specie nel corso della loro guerra contro la Repubblica di Venezia. Dopo la sconfitta padovana, egli prende parte alle trattative che accompagnano la dedizione della città alla Serenissima nel 1406. In seguito, sarà legato di Venezia in importanti trattative ed eventi internazionali.

Procede al contempo la sua ascesa nella gerarchia ecclesiastica: nel 1397 è arciprete della cattedrale di Padova, e nel giugno 1410 ottiene da parte di papa Giovanni XXIII, poi deposto dal Concilio di Costanza nel 1415, la nomina a vescovo di Firenze. L’esperienza dura però solo un anno, poiché il 6 giugno 1411 giunge la porpora cardinalizia, e Francesco rinuncia prontamente all’episcopato per il nuovo incarico, nel quale subito si distingue.

Nell’estate del 1413 viene inviato a Como, presso l’imperatore Sigismondo, con pieni poteri circa la decisione del tempo e del luogo per un nuovo Concilio con il quale affrontare e risolvere la drammatica questione dello scisma che lacera la Chiesa fin dal 1378. Il Concilio viene fissato a Costanza (Germania meridionale) a partire dal 1° novembre 1414, e ivi Zabarella è attivamente presente a partire dall’ottobre di quell’anno.

Con intensissimo lavoro diplomatico, egli è tra gli artefici degli accordi che porteranno, l’11 novembre 1417, all’elezione papale di Oddone Colonna, con il nome di Martino V. Zabarella non può però cogliere i frutti del suo impegno, che secondo alcune testimonianze lo avrebbe potuto condurre addirittura al soglio pontificio: muore infatti, improvvisamente, proprio a Costanza, il 26 settembre 1417.

Un protagonista della storia europea, tra diritto, religione e politica

Il profilo intellettuale di Zabarella si snoda, come la sua biografia, su più livelli: accanto al lungo magistero universitario, testimoniato da classiche opere di esegesi, ma anche da importanti interventi di natura metodologica, vi è la riflessione e l’azione svolta nel cuore delle vicende politiche dell’Italia e dell’Europa.

Alla scuola, Zabarella dedica un quarto di secolo, godendo di chiara fama e di uno straordinario gradimento tra gli studenti, nel cui novero vi sono diversi personaggi destinati a loro volta alla celebrità, come pure alcuni giovani suoi parenti, per i quali egli è ospite generoso e sostegno negli studi e nella carriera ecclesiastica.

Tra i giuristi, il suo allievo più illustre è senza dubbio Niccolò de’ Tedeschi (il celeberrimo Abbas modernus, detto anche Siculus o Panormitanus), uno dei più grandi canonisti del 15° sec., cui si aggiungono i professori Pietro e Giacomo Alvarotti, Prosdocimo Conti, Giovan Francesco Capodilista, Giovanni Ubaldini e altri; ma un rapporto di discepolato, oltre che di amicizia, lega Zabarella anche a Pietro Paolo Vergerio il Vecchio, che darà di lui giudizi assai lusinghieri (cfr. Epistolario di Pier Paolo Vigerio, a cura di L. Smith, 1934, pp. 362-78).

I frutti del suo lungo e capillare insegnamento si traducono in diverse opere esegetiche e didattiche. Egli scrive dotti commentari alle leggi canoniche, il più importante dei quali (Commentaria in quinque libros Decretalium) riguarda naturalmente i 5 libri delle Decretales di papa Gregorio IX, oggetto del suo più lungo e impegnativo magistero; un analogo lavoro esegetico è poi dedicato alle Clementinae, che egli aveva insegnato a Firenze agli esordi della carriera accademica. Il suo commento (Lectura super Clementinis) godrà di grande credito e conoscerà molteplici edizioni.

A testimoniare la passione con cui il maestro patavino si dedica alla didattica è poi, oltre ad alcune interessanti repetitiones, specialmente il singolare trattato intitolato De ordine docendi et discendi, interamente volto a riflettere sui modi di trasmissione del sapere, nel quadro dell’interesse umanistico per il perfezionamento morale e intellettuale dell’uomo, ma con spunti anche originali, e soprattutto con la finalità, non scontata, di individuare un metodo di insegnamento, specie della materia giuridica, che consenta agli studenti un rapido e sicuro ‘profitto’ delle loro fatiche.

Pur mantenendosi nell’alveo di una consolidata tradizione, tanto sul piano della metodologia, quanto dei contenuti, anche i testi legati al magistero accademico offrono a Zabarella occasione per trattare, con equilibrio e con spunti di originalità, temi assai delicati nel quadro della politica e dell’economia bassomedievale.

Un esempio eloquente è quello delle usure che viene affrontato sia nei commentari ai testi canonici, sia in alcuni consilia: la rigorosa condanna del prestito a interesse, dichiarato contrario tanto allo ius divinum quanto all’humanum, è infatti ribadita da Zabarella sulla scorta di autorevole e tradizionale dottrina, risalente in special modo a Innocenzo IV, ma arricchita, oltre che dalla nitidezza espositiva, da una particolare attenzione ai profili di etica civile e, si direbbe, ai risvolti concreti e umani di tale tematica, che lo inducono a maggiore sottigliezza nell’indagine e flessibilità nel proporre soluzioni.

Così, per es., nel rispondere all’interrogativo an uxor et familia usurarii possint vivere licite de bonis usurariis, («se la moglie e i familiari dell’usuraio possano lecitamente vivere dei proventi dell’usura») egli si distanzia dalla tesi più rigida, che nega drasticamente tale liceità, e rinuncia persino a distinguere tra redditi usurari e altri, eventualmente acquisiti in modo lecito dallo speculatore, per approdare alla più favorevole soluzione secondo la quale, se la donna e i figli dell’usuraio non habent unde commode possunt vivere, possunt ali de supradictis male acquisitis («non hanno di che vivere altrimenti in modo decoroso, possono trarre gli alimenti dai suddetti redditi malamente acquisiti», Lectura super Clementinis, 1497, De usuris, v. Octavo quaero).

Similmente, nell’accuratissima disamina della svariata casistica dubbia, le risposte del dotto canonista sono naturalmente rigorose quanto ai profili spirituali e morali, ma rivelano una conoscenza altrettanto profonda delle pratiche commerciali e della quotidiana economia, per il cui buon funzionamento alcuni meccanismi sono necessari e altri profondamente distruttivi.

Zabarella perciò non ha dubbi nel ritenere circostanza aggravante del reato usurario un comportamento pravo e spregevole come quello di chi esercita il prestito inhumaniter tractando eos quibus mutuat («trattando colui al quale presta il denaro in modo disumano», Lectura, cit., De usuris, § Sane, Sexto quero); chiamato poi a esprimersi come consulente su una costituzione del patriarca di Aquileia, che sancisce la nullità per simulazione di ogni atto giuridico sottoscritto da chi risulti usuraio manifesto, non esita a dichiarare invalida la cessione di una casa, estorta a uno sfortunato giocatore dal medesimo gestore del tabularium, che gli aveva contestualmente somministrato in prestito il denaro necessario per cimentarsi nel gioco d’azzardo (Consilia, 1581, cons. 81, cc. 75-76).

Non può, al contrario, essere sanzionato, a suo parere, il caso di chi richieda il pagamento di un interesse al debitore moroso per il danno che il ritardato pagamento abbia causato all’attività commerciale del creditore (Lectura, cit., De usuris, § Sane, Octavo quero).

Pare qui davvero di cogliere il tentativo di tracciare un quadro del sistema giuridico ed economico, ove l’equilibrio è dato dai due fondamentali «ideali dell’aequitas e della charitas, che devono reggere la società cristiana, regolandone i rapporti tra i membri» (O. Capitani, Sulla questione dell’usura nel Medio Evo, in L’etica economica medievale, a cura di O. Capitani, 1974, p. 33).

Se peraltro la tematica dell’usura è affrontata da Zabarella mantenendosi sostanzialmente nell’alveo di una dottrina ormai largamente acquisita in ambito canonico, su altri temi egli non si limita all’analisi scolastica dei testi pontifici, ma unisce alla preparazione teorica la personale e diretta esperienza, per giungere così a maturare convinzioni del tutto personali.

L’esempio più eloquente di tale elaborazione è quello della drammatica questione concernente lo scisma che da decenni divide la Chiesa d’Occidente: sulla vicenda egli si impegna non solo con gli scritti, ma con l’azione diretta.

Alla delicatissima tematica dedica un importante trattato (De eius temporis schismate tractatus longe appositissimus), destinato nei secoli a rappresentare un punto di riferimento fondamentale per la dottrina, pur risultando assai discusso e controverso. Su questo testo egli, consapevole evidentemente della delicatezza e insieme dell’urgenza del caso, torna ripetutamente con successive stesure e rimaneggiamenti, tra il 1402 e la morte, rivedendo e ampliando le sue teorie, impostate da giurista oltre che da uomo di Chiesa e plasmate dall’esperienza di chi si adopera con zelo tenace anche in prima persona.

Occasionata in un primo momento dalla richiesta di consulenza giuntagli da un’«excellentia» a oggi non identificata con certezza, la riflessione di Zabarella si alimenta e approfondisce, per approdare dapprima a una più ampia stesura, inserita nella raccolta edita dei suoi Consilia con il numero 150, e in seguito estendersi e arricchirsi di ulteriori spunti. Il testo assumerà così la diversa e più articolata forma della repetitio, svolta a partire da un passo del Liber sextus (VI, 1.6.6), e sarà infine incorporato nei Commentaria in quinque libros Decretalium, pur ottenendo un’immediata grande diffusione anche in veste autonoma di trattato, dapprima per tradizione manoscritta e in seguito a stampa. In quest’opera Zabarella offre un saggio mirabile di come in lui dottrina scientifica e impegno politico si uniscano proficuamente.

L’obiettivo essenziale della sua disamina rimane costante attraverso gli anni, nel susseguirsi degli eventi, diplomatici, politici, militari, e delle varie stesure, ampliamenti e rimaneggiamenti del testo. Senza mezzi termini, infatti, Zabarella dichiara essenziale e imprescindibile la riunificazione della Chiesa, e tutta la sua ricerca è volta a individuare quali e quanti modi consentano di giungere all’auspicato e indefettibile esito.

Egli, che vescovo è stato per breve tempo, e forse senza neppure conseguire l’ordine episcopale, come cristiano e anche nella sua qualità di canonista sente tuttavia fortemente la responsabilità morale e istituzionale di impegnarsi per tale obiettivo: afferma solennemente che

unitatem Ecclesiae firmiter tenere ac vindicare debemus omnes catholici [...] sed maxime episcopi qui praesident ibi in ecclesia, ut sic etiam doctores iuris, maxime canonici, qui in Dei ecclesiam debent afferre fructum opportunum

tutti noi cattolici dobbiamo fermamente conservare e rivendicare l’unità della Chiesa [...], ma soprattutto è dovere dei vescovi, che nella Chiesa hanno ruolo di guida, così come dei professori di diritto, specialmente canonico, che nella Chiesa di Dio devono apportare il proprio valido contributo (così l’incipit del cons. 150, in Consilia, cit., c. 153v).

Benché consapevole, per diretta esperienza, che la questione si presenta assai ardua, Zabarella si dice persuaso che esistono e possono essere praticate molteplici vie per giungere a riunire i fedeli cattolici sotto un unico pontefice.

Per comprendere appieno il suo pensiero, che solo sbrigativamente potrebbe definirsi semplicemente ‘conciliarista’, è opportuno tener presente che egli non solo non pone minimamente in dubbio l’autorità del pontefice in ambito ecclesiale, ma sposa addirittura le posizioni ierocratiche più decise, giungendo a sostenere apertamente la superiorità del papa rispetto all’imperatore, sia nei suoi discorsi pubblici, come quello tenuto di fronte a papa Bonifacio IX per incarico del signore di Padova Francesco Novello da Carrara nel 1398, sia nei commentari, per es., laddove interviene sul delicato tema della validità della donazione di Costantino (cfr. D. Maffei, La donazione di Costantino nei giuristi medievali, 1964, in partic. pp. 255-60).

Con riguardo allo scisma, dunque, Zabarella imposta la risoluzione dei diversi aspetti problematici, da buon giurista, sul piano dei principi fondamentali di equità e giustizia, e in definitiva di quel bene comune dal quale deve vincolarsi anche la somma autorità ecclesiastica.

Per tale ragione egli giunge ad affermare apertamente che la «potestas universalis» spetta alla Chiesa, intesa come «fidelium congregatio» e che quindi, nel caso di conflitto tra due papi, entrambi asserenti la propria legittimità, l’unico giudice può essere un Concilio, che rappresenti appunto la voce dell’intera Christianitas. La convocazione di tale Concilio, poi, è onere degli stessi contendenti, ma se nessuno di loro accetta di provvedervi, secondo Zabarella – ed è uno dei punti più discussi e delicati della sua tesi – può intervenire il collegio cardinalizio, preposto all’elezione del pontefice così come autorizzato a deporlo qualora cada in eresia. Un ruolo propulsivo può essere poi ancora riservato all’imperatore, cui pure, in forza della sua funzione di «advocatus et defensor Ecclesiae», deve stare a cuore la pace nella sede romana, ma soprattutto cui spetta un compito quale rappresentante dell’intero popolo cristiano.

Interessante è infatti il principio secondo il quale a colui che non riesca a ottenere giustizia «a superiore» è lecito riappropriarsi del proprio diritto originario, invocato da Zabarella per attribuire al popolo cristiano l’ultima parola sul destino della Chiesa stessa (Consilia, cit., cons. 150, cc. 154v-155r).

La ricerca di soluzioni al problema dello scisma è pure l’occasione, per Zabarella, per alcune ulteriori riflessioni sull’importanza di una guida retta e salda della cosa pubblica, poiché talis rector civitatis, tale habitantes in ea, nam id quod dogmatizat principes, facile amplectuntur subditi («tale è colui che regge la città, tali sono coloro che vi abitano; infatti ciò che si impone come regola per il principe, si estende facilmente anche al suddito», Consilia, cit., cons. 150, c. 155r).

Si tratta di convinzioni profondamente sentite da Zabarella, che le ripete in più occasioni fin dai suoi primi interventi giovanili, prendendo parte al dibattito umanistico che da più parti si va alimentando su tali temi. È nota, infatti, la grandissima abilità oratoria di Zabarella, cui le autorità universitarie, religiose e politiche, affidano sovente pubbliche orazioni in momenti solenni e rituali.

Tra le innumerevoli da lui scritte o pronunciate in diverse circostanze, è interessante sotto questo profilo specialmente l’orazione funebre per Francesco da Carrara, morto durante la dura prigionia impostagli da Giovanni Visconti: ivi, pur nel contesto di un elogio d’occasione, Zabarella non manca di sottolineare quelle che reputa le virtù necessarie all’esercizio del potere, ove al valore militare si accompagna l’attenzione alle istituzioni religiose (per es., erigendo chiese nelle città) e più in generale alla bellezza e al decoro urbano, mentre sul piano della condotta personale di un governante si sottolineano la cultura e la frugalità di costumi.

I temi del buon governo e della virtù pubblica e privata tornano in altri scritti, di grande valore non solo letterario e retorico, ma anche politico ed economico, tra i molti che arricchiscono la sua ampia bibliografia.

Alla fine del 15° sec. è attivo a Padova, sulle orme di Francesco Petrarca, un circolo di intellettuali umanisti, accomunati da una vasta cultura e da un grande amore per la storia e l’antichità classica, la grammatica e la retorica, la filosofia morale e la poesia, al quale certamente Zabarella appartiene a pieno titolo. Egli tiene strette relazioni di amicizia e una fitta corrispondenza con numerosi personaggi di tale cerchia. Al già ricordato Vergerio, con il quale scrive persino una metrica (cfr. R. Sabbadini, La metrica e prosodia latina di Francesco Zabarella, in «La biblioteca delle scuole italiane», 1904, 10, fasc. 2, pp. 3-5, e fasc. 12, pp. 5-8), si possono aggiungere Coluccio Salutati e Poggio Bracciolini; a quest’ultimo, in occasione della morte di Zabarella, toccherà di pronunciarne un appassionato elogio (Poggii florentini oratio in funere Francisci Zabarellae [...], in F. Zabarella, De felicitate libri tres, 1655).

Anche di questi interessi Zabarella lascia importante documentazione, attraverso diversi scritti di carattere filosofico-teologico. Benché rimasti per lo più inediti e privi di vasta circolazione anche in forma manoscritta, essi sono certamente noti agli amici e sodali dell’ambiente umanistico patavino, e acquistano per tale via un certo influsso sugli sviluppi del pensiero politico ed economico italiano.

Spicca in particolare, tra le sue opere di tal genere, il trattato in tre libri De felicitate, dedicato all’amico Vergerio, e conservato, inedito, in un unico esemplare, sulla base del quale nel 1655 l’illustre nipote, il filosofo Giacomo Zabarella, curerà a Padova un’edizione a stampa.

L’opera, proposta come una riflessione sulle vie tramite le quali conseguire la felicità, secondo la diretta testimonianza dell’autore e del dedicatario, nasce in un contesto particolare, allorché i due intellettuali, tra l’estate e l’autunno del 1400, sono ospiti dell’abbazia benedettina di Praglia, dove si sono rifugiati per sfuggire a una pestilenza che affligge Padova, ritardando di oltre un mese il regolare inizio delle lezioni accademiche.

Il confronto aspro e drammatico con l’esperienza della caducità della vita conduce Zabarella a sviluppare il tema prescelto secondo un climax ascendente, come un percorso verso la sola vera felicità, che egli individua cristianamente tribus in rebus, Deo intelligendo, tenendo, fruendo («in tre cose: comprendere Dio, entrare con Lui in relazione e godere della sua presenza», De felicitate, cit., p. 119).

In questa chiara prospettiva, Zabarella fin dalle prime righe si oppone con decisione al diffuso convincimento, di impronta epicurea, secondo il quale la felicità terrena coinciderebbe con il piacere, con la mera «voluptas», per affermare viceversa che, anche nella prospettiva secolare, essa risiede piuttosto nella pace e serenità d’animo e di corpo, via alla quale sono il rigore della condotta e la sobrietà dei costumi.

Tali indicazioni sono rivolte dall’autore non solo al singolo individuo, ma anche e soprattutto a chi ha la responsabilità della cosa pubblica. La felicità del principe e dei suoi sudditi – asserisce e dimostra Zabarella con dovizia di citazioni filosofiche, teologiche e letterarie – non ha nulla a che fare con l’accumulo di ricchezze (fonte al contrario di gravissimi mali), né con il potere, l’onore o la fama, e neppure con la speculazione filosofica fine a se stessa (è l’occasione per Zabarella di intervenire in difesa della giurisprudenza nella disputa da tempo in atto sul valore delle artes), ma si trova piuttosto nel rigoroso esercizio della virtù, tanto sul piano della morale privata quanto nella vita pubblica, e nella tensione costante alla giustizia. È questo monito, probabilmente, il più alto lascito ideale di Zabarella.

Opere

Lectura super Clementinis, Romae 1469, Venetiis 1481, 1487, Augustae Taurinorum 1492, Venetiis 1497, Lugduni 1502, Venetiis 1504, Lugduni 1511, 1513, Vercellis 1522, Lugduni 1534, 1543, 1551, Venetiis 1579, 1602.

Commentaria in quinque libros Decretalium, Venetiis 1502, Lugduni 1517-1518, 1557-1558, Venetiis 1602.

De eius temporis schismate tractatus longe appositissimus, Argentorati 1545; riedito anche con il titolo De schismatibus authoritate Imperatoris tollendis, in Syntagma tractatuum de imperiali iurisdictione, authoritate et praeeminentia, ac potestate ecclesiastica, Argentorati 1609, pp. 235-47.

Consilia, Pisciae 1495, Mediolani 1496, Papiae 1510, Mediolani 1515, Venetiis 1581.

De felicitate libri tres, Patavii 1655.

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