Francia

Dizionario di Storia (2010)

Francia


Stato dell’Europa centroccidentale. Le invasioni barbariche del 5° sec. eliminarono rapidamente il dominio romano sulla Gallia tanto che nel 476, alla caduta dell’impero d’Occidente, vi sussisteva ancora soltanto una piccola zona romana attorno a Soissons; il resto del territorio faceva parte di tre distinti regni barbarici: a S quello dei visigoti, che si estendeva anche su buona parte della Penisola Iberica, a E quello dei burgundi, comprendente pure buona parte dei territori dell’attuale Svizzera, e a N quello dei franchi sali. Ma i primi due regni erano destinati a scomparire assai presto e l’inizio della storia della F. medievale si può far coincidere con le imprese militari dei franchi sali e della loro dinastia, che prese il nome di merovingia dal re Meroveo, federato dell’impero, sebbene fino all’843 ca. si debba parlare piuttosto di regnum Francorum, con implicazioni territoriali sensibilmente diverse, anziché di Francia. Morto nel 482 il re merovingio Childerico, il governo dei franchi sali di Tournai passò al giovane Clodoveo, che pose fine alla presenza dei romani di Soissons (486-487) e riuscì a costituire il proprio popolo in un regno compatto e ad assicurargli una notevole espansione. Con la vittoria di Vouillé (507) su Alarico II, Clodoveo assorbì il regno dei visigoti, a eccezione della Settimania, occupata dall’ostrogoto re Teodorico. Il programma espansionistico di Clodoveo fu realizzato, attraverso fasi alterne, dai suoi successori. La concezione tipica dei franchi, che il regno fosse proprietà privata della dinastia, da dividere come un patrimonio, produsse alla morte di Clodoveo (511) la spartizione del regnum Francorum tra i figli Teodorico (re di Metz), Clodomiro (re di Orléans), Childeberto (re di Parigi), Clotario (re di Soissons). Tuttavia, per il momento, tale divisione, foriera di futuri, aspri contrasti, non arrestò il processo di espansione della monarchia merovingia. Nel 558 Clotario I poté nuovamente riunire in uno solo i vari regni franchi, ma alla sua morte (561) prevalse nuovamente il criterio patrimoniale e il regno fu diviso tra i quattro figli del defunto. Si aprì così un nuovo periodo di guerre civili in cui la dinastia merovingia, sebbene potesse annoverare dei ritorni di potenza e di relativa unità territoriale con Clotario II (613-629) e il figlio Dagoberto (629-638), finì con l’esautorare sé stessa. Il regnum Francorum era ormai diviso in Austrasia, Neustria, Borgogna e Aquitania. Lo strumento dell’aristocrazia per soppiantare il potere monarchico fu la nuova istituzione dei maggiordomi o maestri di palazzo, capi dell’aristocrazia locale e di fatto, se non di diritto, veri sovrani. Costoro raggiunsero una notevole potenza già nella prima metà del 7° secolo. In Austrasia si affermò Pipino II (di Héristal), figlio di un maestro di palazzo; fu suo figlio, Carlo Martello, a imporre un dominio effettivo su Neustria, Austrasia e Aquitania, ricostituendo l’unità del regno. Così, quando l’ondata islamica superò i Pirenei, Carlo Martello, effettivo detentore del potere in F., poté fermarla a Poitiers (732 o 733) e successivamente liberare le zone ove i musulmani si erano annidati (Avignone, Béziers ecc.). Con la scomparsa di Carlo Martello (741), si profilò subito un nuovo corso politico sotto i figli e successori Carlomanno (maggiordomo di Austrasia) e Pipino (maggiordomo in Neustria e Borgogna): nel 745 la monarchia merovingia, formalmente mai abrogata, conobbe un nuovo esponente nella persona di Chilperico III, e la politica di Carlo Martello di spoliazione dei benefici ecclesiastici cedette il posto a una politica di protezione del clero. Così, quando il volontario ritiro di Carlomanno dal potere (747) ebbe lasciato il campo libero al fratello Pipino, questi mise termine alla monarchia merovingia e si fece proclamare re dall’assemblea dei grandi (751). Il papa Zaccaria approvò e il suo successore Stefano III, spinto dalla minaccia longobarda, si recò nel 753 alla corte di Pipino, consacrando lui e i suoi figli col sacro crisma, e dando così alla nuova dinastia, che fu poi detta carolingia, un carattere sacerdotale e sacro. Con il regno di Pipino (751-768) iniziò un periodo nuovo nella storia dei franchi che si dilatò, con il suo successore Carlomagno (768-814), quasi a storia dell’Occidente europeo. Carlomagno combatté con successo contro longobardi (774), arabi, sassoni (772-804), avari, creando un dominio che si estendeva dall’Ebro all’Elba, dalla Frisia a parte dell’Italia. Durante il suo regno promosse una vasta opera di riordino legislativo e giuridico e favorì un’importante, per quanto effimera, rinascita intellettuale. All’antico regnum Francorum, sempre sussistente, si sovrappose, con la consacrazione di Carlomagno a imperatore, da parte di Leone III (800), l’universalità del Sacro romano impero sorto in quell’occasione. Una dimensione propriamente francese della storia dei Carolingi si rintraccia durante le lotte tra il successore di Carlomagno, Ludovico il Pio (814-840), che con l’Ordinatio imperii dell’817 aveva tentato di affermare il criterio dell’unità imperiale, e i figli che a ciò si ribellarono, e poi durante le lotte intestine tra quegli stessi figli. L’esito di questo travaglio fu il Trattato di Verdun (843), che sancì la divisione dell’impero carolingio in tre zone che prefiguravano tre rispettive future entità politiche: mentre a Lotario restò il titolo imperiale, la Lotaringia e l’Italia, a Carlo il Calvo (843-877) toccò il territorio francese tranne le terre a E della Mosa, Saona e Rodano, e a Ludovico il Germanico il regno orientale tra l’Elba e il Reno. Con il trattato di Ribemont (880) il confine tra le future Francia e Germania venne spostato a O della Mosa e sulla Schelda. Carlo il Calvo venne riconosciuto come re dei franchi occidentali e lui e i suoi successori, pur continuando a nutrire aspirazioni imperiali, assunsero di fatto una figura sempre meglio definita di sovrani di un determinato territorio. Deposto Carlo il Grosso (887), che si era dimostrato incapace di affrontare l’invadenza normanna, l’aristocrazia francese scelse come re un proprio pari, il difensore di Parigi dai normanni, Eude o Oddone (887-898), figlio di Roberto il Forte, conte di Parigi. Per un secolo la F. oscillò fra gli ultimi rampolli della gloriosa dinastia carolingia e quelli della nuova dinastia dei conti di Parigi, mentre la stessa autonomia della F. veniva messa più di una volta in pericolo dall’intervento degli imperatori tedeschi. Nel 987 la partita fu definitivamente vinta da Ugo Capeto (figlio e successore del potentissimo conte di Parigi Ugo), che i grandi riconobbero loro sovrano.

La monarchia feudale

La nuova monarchia, che sarà poi detta capetingia, fu una monarchia tipicamente feudale. I re si consideravano signori di diritto di tutte le terre che si estendevano dalla Schelda all’Ebro; ma di fatto erano signori solo del Paese a N della Senna, l’Île-de-France. I re Capetingi si trovarono a lungo nell’impossibilità di imporre alcuna politica unitaria. Riuscirono comunque ad attuare una lenta e costante espansione del possesso regio diretto e un rafforzamento del potere, mirando a imporre la successione dinastica in linea maschile. Un crescente prestigio religioso circondava la figura del re, in relazione alla consacrazione divina che riceveva per il tramite della Chiesa e alle virtù taumaturgiche che venivano attribuite ai sovrani per la loro funzione. Con il successore di Filippo I, Luigi VI (1108-37), si ebbe il primo tentativo organico di affermare la sovranità della corona: egli si preoccupò anzitutto d’imporre la sua autorità ai vassalli diretti ribelli e di ristabilire la pace nelle proprie campagne; in un secondo momento di controbilanciare il potere nobiliare ricercando anche un più diretto collegamento con i nuovi ceti emergenti nella città. Luigi VI operò anche un’accorta politica matrimoniale, riuscendo a combinare l’unione tra suo figlio, il futuro Luigi VII (1137-80), ed Eleonora, erede del ducato di Aquitania (1127): con queste nozze la dinastia capetingia portava i suoi confini ai Pirenei. Ma quando Luigi ripudiò la moglie Eleonora, questa strinse nuove nozze con il più temibile vassallo avversario della dinastia francese, Enrico Plantageneto, conte d’Angiò e duca di Normandia e, dal 1154, re d’Inghilterra. Il conflitto che scoppiò tra Enrico II e Luigi VII continuò anche sotto il successore di Luigi VII, Filippo Augusto (1180-1223), che approfittò della difficile situazione dell’Inghilterra sotto Riccardo I e suo fratello Giovanni Senzaterra, riuscendo a confiscare agli inglesi la maggior parte dei loro possedimenti sul continente. La vittoria riportata dai francesi a Bouvines nel 1214 contro le forze dello stesso Giovanni, del conte di Fiandra e dell’imperatore, risultò un vero trionfo della monarchia. Filippo Augusto riorganizzò l’amministrazione del regno, dando spazio all’elemento borghese e istituendo magistrati regi e tribunali d’appello, e fissò definitivamente la capitale del regno a Parigi, che con la sua università divenne presto uno dei maggiori centri di irradiazione di cultura in Europa. I successori ne continuarono la politica e consolidarono le conquiste, anche se la repentina morte di Luigi VIII (1223-26) rese necessaria una reggenza, funestata da torbidi di carattere feudale. Con Luigi IX (1226-70) la F. raggiunse l’apice del suo prestigio morale e politico: il re «santo» venne spesso invocato dagli altri sovrani europei come arbitro delle loro contese. Luigi IX svolse un’intensa, anche se sfortunata, politica meridionale e mediterranea, perseguendo a un tempo, nella sesta e nella settima crociata, l’antico ideale della conquista cristiana e le più recenti sollecitazioni a una politica di potenza provenienti dal nuovo re di Sicilia, il fratello Carlo d’Angiò. Sul piano interno, domò una rivolta della grande feudalità, mentre nei confronti dell’Inghilterra Luigi ottenne, con il Trattato di Parigi del 1259, la formale rinuncia di Enrico III alle pretese sui possessi inglesi nel continente. Con il regno di Luigi IX si perfezionò l’organizzazione del potere regio. Con i suoi successori Filippo III l’Ardito (1270-85) e Filippo IV il Bello (1285-1314) il programma di espansione e di egemonia della potenza francese venne perseguito con finalità esclusivamente politiche. Ne seguì tuttavia un aspro contrasto con papa Bonifacio VIII, che culminò nella cattura del pontefice (col noto episodio dello «schiaffo di Anagni», 1303), con l’elezione di un papa francese, Clemente V (1305) e il trasferimento della sede pontificia ad Avignone (1309). Nella lotta che lo vide opporsi al potere pontificio, Filippo poté valersi del concorso di tutta la nazione, forte anche del sostegno dei rappresentanti dei ceti borghesi chiamati per la prima volta a sedere negli Stati generali del 1302 a fianco della nobiltà e del clero. Filippo ampliò inoltre i possessi regi aggiungendovi la Champagne e il Lionese. Proclamato re di Navarra (1289), riuscì ad annettersi la Fiandra di lingua francese (1304).

Lo Stato nazionale

Prima che la F. potesse divenire realmente un forte Stato, era necessario che il duello anglo-francese avesse fine. Questo duello si riaccese alla morte di Carlo IV (1328) per l’opposizione del re d’Inghilterra Edoardo III a riconoscere l’avvento sul trono francese del ramo capetingio dei Valois; e fu la guerra dei Cent’anni, che nel suo periodo centrale si trasformò anche in guerra intestina della feudalità francese, divisa tra le due opposte fazioni degli armagnacchi (fautori, per lo più, dei re di F.) e dei borgognoni (fautori degli inglesi). A dispetto dei durissimi colpi subiti, la F. seppe trovare, grazie all’azione di Giovanna d’Arco, l’energia necessaria per superare il pericolo. La pace del 1453 ridusse così il dominio inglese in F. alla sola Calais, che venne riunita alla F. solamente nel 1558. Rimarginate, nel corso del regno di Carlo VII (1422-61), le più gravi ferite del lungo conflitto, la monarchia francese riacquistava in pieno la sua potenza per l’abile politica del figlio e successore Luigi XI (1461-83), il quale completò l’opera di indebolimento della feudalità iniziata dai suoi antecessori. Sconfitto nel 1468 dal potente duca di Borgogna Carlo il Temerario, Luigi XI poté comunque portare innanzi il suo programma approfittando della lotta che oppose il duca di Borgogna agli svizzeri e che si concluse con la sconfitta e la morte di Carlo nella battaglia di Nancy (1477). Parte dei possessi di Carlo passarono agli Asburgo quale dote di sua figlia Maria, sposa di Massimiliano I. Luigi XI tuttavia riuscì ad annettersi la Borgogna. Occupato l’Angiò, si annetteva nel 1480 anche la Provenza per l’estinzione del ramo angioino e, con il matrimonio del figlio Carlo VIII con Anna di Bretagna, preparava la riunione alla corona francese di quest’ultimo grande dominio feudale.

La lotta per l’egemonia in Europa

Con l’avvento al trono di Carlo VIII (1483-98), la politica francese subì una svolta: cessato lo scontro con gli Asburgo, Carlo VIII si rivolse alla Penisola Italiana, rivendicando contro gli aragonesi i suoi diritti in Italia sull’eredità degli Orléans-Visconti e degli Angioini. Iniziarono così le guerre d’Italia, condotte inizialmente da Carlo e poi continuate da Luigi XII, con un iniziale successo francese. Ma fu proprio in Italia che la politica francese vide risorgere davanti a sé gli Asburgo, divenuti gli eredi della politica italiana degli Aragonesi nella persona di Carlo V imperatore, e re di Castiglia e di Aragona. Le mire francesi sull’Italia furono ben presto rintuzzate nella guerra combattuta a partire dal 1521 tra Carlo V e il successore di Luigi XII, Francesco I; la F. si trovò addirittura costretta sulla difensiva contro il disegno dell’impero universale di Carlo V che accerchiò in una morsa di ferro la nazione francese. Dal 1521 al 1559 il conflitto ebbe sorti alterne, ma la strapotenza, almeno iniziale, di Carlo V non riuscì mai a infliggere un colpo decisivo alla F. e la Pace di Cateau-Cambrésis, sostanzialmente, sancì la vittoria del successore di Francesco I, Enrico II (1547-59); l’accerchiamento ispano-asburgico era rotto, non essendo più il regno di Spagna unito ai possessi ereditari asburgici né alla corona imperiale, e se la Penisola Italiana restava chiusa alla F., questa tuttavia accresceva il proprio territorio nazionale con Calais, Metz, Toul e Verdun. La contrapposizione alla Spagna si trasferì anche nel Nuovo Continente. Contestando la validità del Trattato di Tordesillas (1494), che aveva trasformato la rotta atlantica in una prerogativa esclusiva di Spagna e Portogallo, Francesco I aveva posto le premesse per la nascita della Nuova F., il dominio di maggiore estensione all’interno di quello che divenne il primo impero coloniale francese. In nome di Francesco I, i navigatori Giovanni da Verrazzano (1524-28) e Jacques Cartier (1534-41) raggiunsero il Nord America e si spinsero fino al Brasile, nel tentativo di individuare un passaggio verso il Pacifico. La sostanziale vittoria francese era dipesa in parte dalle complicazioni religiose sorte in seno all’impero di Carlo V per effetto della Riforma protestante; tuttavia la Riforma, con le guerre di religione, mise in serio pericolo l’esistenza dello Stato francese. Infatti i calvinisti francesi (ugonotti) si fecero anche portavoce della reazione dell’alta nobiltà alle tendenze accentratrici della monarchia. D’altra parte, le persecuzioni religiose e la guerra civile spinsero il mondo protestante ad accentuare le posizioni antimonarchiche e i numerosi libelli dei monarcomachi giunsero a ipotizzare il tirannicidio. Le gravi difficoltà in cui era costretta a dibattersi, spinsero la reggente Caterina de’ Medici ad attuare una difficile politica di equilibrio, che di volta in volta la rendeva schiava ora dei Borboni, ugonotti, ora dei Guisa, cattolici. Mentre la corona trovava la salvezza solo in atti di spietata energia (tipica la strage della notte di s. Bartolomeo del 1572), le guerre di religione si susseguirono incessantemente e la F. stessa divenne la posta di un più ampio gioco diplomatico internazionale. L’assassinio di Enrico III (1589), risposta al precedente assassinio del duca di Guisa, lasciò come diretto erede al trono Enrico di Borbone Navarra, il capo degli ugonotti. Per rimuovere l’ostacolo religioso Enrico si convertì al cattolicesimo. Arrivato per ben due volte fino alle porte di Parigi ma sempre respinto, Enrico IV trovò un alleato decisivo nella stanchezza che il governo dei Sedici aveva generato nella borghesia e nel popolo di Parigi e, alla fine, fu invocato come unico re di F. dagli Stati generali del 1593. Riaffermata la potenza francese all’estero nella guerra contro la Spagna (1595-98), pacificato il Paese garantendo i diritti dei suoi ex correligionari con l’Editto di Nantes (1598), Enrico IV (1589-1610) diede un notevole impulso alla vita economica del regno, ma cadde vittima del fanatico cattolico F. Ravaillac (1610). Maria de’ Medici, reggente per il piccolo Luigi XIII (1610-43) cercò di allineare la F. su posizioni di intransigente cattolicesimo controriformista, il che riaccese i conflitti con la nobiltà. Divenuto maggiorenne (1617), Luigi XIII assunse direttamente il potere, anche se in un rapporto conflittuale con la regina madre che si risolse definitivamente solo nel 1630. Dal 1624 aveva accettato che entrasse a far parte del Consiglio del re il cardinale di Richelieu, pur sapendo che questi era stato l’uomo di C. Concini e di Maria de’ Medici. L’azione di Richelieu si svolse in una duplice direzione: all’interno, si adoperò per limitare il potere politico della nobiltà e diede impulso alla centralizzazione dell’ordinamento amministrativo della F., la cui spina dorsale divennero progressivamente, in luogo dei governatori nobili, gli intendenti di provenienza borghese, veri funzionari dello Stato; all’estero, si propose l’espansione territoriale francese e l’indebolimento degli Asburgo. Ambedue le direttive politiche del Richelieu furono proseguite dal successore Mazzarino, non appena questi ebbe partita vinta sull’estremo sussulto della classe nobiliare e di tutti coloro che erano stati danneggiati dall’assolutismo monarchico. Grazie alla minorità di Luigi XIV (1643-1715) e ai vincoli affettivi che lo univano alla reggente Anna d’Austria, grazie anche al fatto che Luigi XIV, una volta proclamato maggiorenne, gli mantenne integralmente il precedente potere, il Mazzarino fu fino alla morte (1661) l’assoluto arbitro della Francia. Con le paci di Vestfalia (1648) e dei Pirenei (1659) egli ottenne la sconfitta degli Asburgo sia d’Austria sia di Spagna. Mantenne la Germania in uno stato di grande frammentazione politica e militare, condizione basilare per l’affermarsi dell’egemonia francese in Europa; con il matrimonio tra Luigi XIV e l’infanta Maria Teresa pose le premesse per le future rivendicazioni francesi sulla Spagna; all’interno, la politica antinobiliare e assolutistica del Richelieu fu proseguita sistematicamente, sebbene con minore duttilità.

L’età di Luigi XIV. La crisi dell’assolutismo monarchico

Preso in mano il potere effettivo nel 1661, Luigi XIV, detto il Re Sole, portò alla sua massima espressione la politica dei grandi ministri e pose il proprio assolutismo anche a base della politica religiosa: combatté i protestanti (revoca dell’Editto di Nantes, nel 1685) e i giansenisti, entrò in aspri contrasti col papato per alcuni privilegi dell’ambasciatore francese a Roma e soprattutto per i quattro articoli della dichiarazione gallicana del 1682. Sebbene il re, in teoria, governasse da solo, Luigi XIV, almeno nella prima parte del suo regno, ascoltò e attuò i consigli di ministri assai esperti: si deve al Vauban il pregevole sistema difensivo delle grandi fortezze, a M. Le Tellier e a suo figlio François-Michel marchese di Louvois la riorganizzazione dell’esercito francese. Ma nulla eguagliò per importanza la politica economica e finanziaria di J.-B. Colbert, il quale, dopo aver risanato le finanze compromesse dal disordine precedente, iniziò una nuova politica economica di tipo mercantilista, che, se a lungo andare si rivelò dannosa per aver reso più aspri e meno sanabili i contrasti internazionali, fu tuttavia uno strumento mirabile per realizzare il programma di Luigi XIV, assolutista all’interno e imperialista all’estero. Il regno di Luigi XIV fu, infatti, caratterizzato da una serie quasi ininterrotta di campagne militari volte a guadagnare le frontiere naturali e a piegare ancora una volta gli Asburgo. Le guerre furono quanto mai fortunate all’inizio: la guerra di devoluzione, con la Pace di Aquisgrana del 1668, diede a Luigi XIV numerose città fiamminghe; la guerra di Olanda, con il successivo Trattato di Nimega del 1678, attribuì alla F. altre città fiamminghe e la Franca Contea; la politica delle «Camere di riunione» portò all’annessione di Strasburgo e Casale. Non diedero invece apprezzabili vantaggi né la guerra della Grande alleanza del 1688-97, né la guerra di Successione spagnola del 1701-14. A parte l’innegabile successo in Spagna (insediamento di Filippo V d’Angiò, su quel trono), la lunga guerra risultò dannosa alla F., che ne uscì con le frontiere non compromesse, ma con le finanze esauste e le energie infrante. Al termine degli scontri di religione, la corona francese aveva recuperato le sue ambizioni coloniali e aveva promosso la fondazione di Quebec e di altri insediamenti commerciali legati al mercato delle pellicce, nell’area del fiume San Lorenzo. La presenza francese si era quindi estesa a S, lungo la fascia atlantica, e alla fine del 17° sec. era giunta a comprendere i governatorati di Acadia, Canada, Baia di Hudson, Terranova e Louisiana (bacino del Mississippi) e le isole caraibiche di Guadalupa, Guiana e Martinica, con la parte occidentale di Haiti. I timidi tentativi di penetrazione nell’America del Sud, erano stati invece vanificati dalla Spagna, che in seguito alla fusione con la corona di Portogallo (1580), era divenuta la potenza egemone nella metà meridionale del continente, e nell’America Centrale e istmica. Con la creazione del Consiglio della Nuova Francia (1663), la fisionomia delle colonie francesi, in origine quella di semplice rete di scali commerciali fortificati sul modello portoghese e olandese, aveva assunto un’impronta invece molto simile a quella dei limitrofi domini spagnolo e inglese. Piantagioni di zucchero e cotone, per esempio, erano sorte anche in Louisiana, e avevano richiesto l’introduzione di schiavi africani. Si era inoltre deteriorato il rapporto tra i colonizzatori francesi e le popolazioni indigene, colpite dai primi provvedimenti di espulsione o repressione. La proiezione dei commerci francesi nell’altra metà del globo, aveva frattanto prodotto risultati affini a quelli del Nord America: in Senegal erano stati aperti empori per il commercio di avorio e schiavi, e sempre sulla rotta orientale delle Indie erano sorte numerose colonie come Pondicherry (1674). Erano state istituite anche la Compagnia delle Indie occidentali e quella delle Indie orientali (1664), specializzata in merci di maggiore pregio come la seta e le spezie. Le Compagnie rappresentarono un tassello chiave del mercantilismo francese, ossia della politica economica elaborata da Colbert e si ispirarono al modello delle omonime società inglese e olandese. Tuttavia quella francese non si sviluppò mai in un’organizzazione di operatori commerciali privati, rimanendo piuttosto dipendente dall’iniziativa statale. Nonostante gli ingenti investimenti della corona e della stessa famiglia Colbert, l’aristocrazia francese rimase riluttante all’impresa, conservando un’ottica prevalentemente mediterranea e dimostrandosi scarsamente sensibile all’attrattiva del commercio marittimo. Questo aspetto ebbe conseguenze decisive per il colonialismo francese, come dimostra il caso del barone John Law, studioso di economia, cui fu concesso di fondare una Banca generale legata ai profitti dei possedimenti francesi in Mississippi (1716). A fronte degli alti dividendi promessi agli azionisti, i risultati si rivelarono deludenti, e il timore di perdere i capitali investiti generò il panico fra gli investitori, decretando il fallimento dell’iniziativa e la fuga di Law. Un clima che influenzò grandemente il confronto commerciale fra F. e Inghilterra, contrasti che hanno anzi suggerito la definizione di «seconda guerra dei Cent’anni» (1688-1789). La reggenza del duca di Orléans, troppo personalisticamente interessata, per il piccolo Luigi XV (1715-74), poi il noncurante sistema di governo dello stesso re aggravarono la situazione lasciata in eredità dal Re Sole. Sul piano interno, furono anni di ripresa degli ordini privilegiati e di spericolata politica finanziaria; i gesuiti furono espulsi; nel 1771 furono soppressi i parlamenti. Con il Trattato di Utrecht (1713), che sancì il passaggio dell’Acadia agli inglesi, era cominciata anche l’espansione dell’impero coloniale inglese, a danno di quello francese, proseguita con la guerra dei Sette anni (1756-63), durante la quale questi ultimi conquistarono la maggior parte della Nuova Francia e la Spagna ottenne l’intera Louisiana. I francesi conservarono il possesso delle isole caraibiche e dei possedimenti nelle Indie orientali, ma il primo impero coloniale francese si era dissolto, e né il sostegno che la F. garantì ai futuri Stati Uniti, né la successiva stagione rivoluzionaria e napoleonica, poterono ricomporlo. Per esempio, la campagna d’Egitto (1798), di cui fu protagonista lo stesso Napoleone, si tradusse in un insuccesso e la riconquistata Louisiana (1800) venne infine venduta agli USA (1803), a causa della rivolta antifrancese che era frattanto scoppiata a Haiti e che portò all’indipendenza dell’isola. Nel 1770 fu sciolta anche la Compagnia delle Indie orientali, provvedimento che ancora una volta incrinò il rapporto di fiducia tra la corona e gli azionisti privati, a danno dell’intera economia francese. Anche i tratti linguistici e culturali che sono ancora oggi caratteristici di ampie zone del Canada fanno parte dei lasciti di questa prima colonizzazione. Battuta dall’Inghilterra sul piano delle ambizioni coloniali, la F. riuscì però a compensare questa sconfitta col rafforzamento della propria posizione europea e mediterranea e, alla fine, approfittando della rivolta delle tredici colonie inglesi dell’America Settentrionale, col suo intervento, prima di volontari (La Fayette ecc.) poi di forze regolari, riuscì a prendersi la rivincita sulla nemica Inghilterra (Pace di Versailles del 1783).

La Rivoluzione

La guerra americana tuttavia aggravò il bilancio dello Stato; l’opinione pubblica, sostenuta dagli esponenti dell’Illuminismo, reclamava una riforma radicale dell’assetto amministrativo e politico del Paese. Il nuovo sovrano Luigi XVI (1774-92), debole e indeciso, non seppe contrastare la riscossa degli ordini privilegiati. Ristabiliti i parlamenti, appoggiata e poi rinnegata la politica di R.-J. Turgot (1774-76), che aveva abolito le corporazioni, il re finì con lo scontentare tutte le classi. Il debito pubblico apriva le porte alla Rivoluzione, che si prospettava, ai suoi primi inizi, come reazione dei privilegiati all’assolutismo monarchico e come rivoluzione nobiliare (1787-89: duplice assemblea dei notabili; richiesta di convocazione degli Stati generali). L’apertura degli Stati generali (5 maggio 1789) segnò l’inizio della fase propriamente borghese della Rivoluzione: convocati entro il vecchio sistema monarchico-feudale allo scopo di fornire al sovrano i mezzi per colmare il deficit di bilancio, per volontà del Terzo stato, cioè della borghesia, essi si trasformarono in Assemblea nazionale costituente (9 luglio) e si arrogarono il potere di dotare la F. di una Costituzione e di risanarne le piaghe. Dall’Assemblea la spinta rivoluzionaria passò al Paese; si ebbero così, accanto alla rivoluzione borghese, una rivoluzione popolare, il cui momento più saliente fu l’assalto alla Bastiglia e la sua distruzione (14 luglio), e una rivoluzione contadina (assalti ai castelli, fenomeno della «grande paura» ecc.). La confluenza di queste tre forze provocò i due atti più solenni di questo inizio rivoluzionario: il voto della notte del 4 ag. 1789, col quale l’Assemblea costituente abolì tutti i privilegi di natura feudale, e quello (20-26 ag.) della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, vero atto di morte dell’ancien régime. L’opposizione della corte e l’atteggiamento oscillante del re Luigi XVI da una parte, l’organizzazione dell’opinione pubblica in club dall’altra, diedero nuova esca al torrente rivoluzionario: il 5-6 ott. turbe di popolo parigino, rovesciatesi a Versailles, costrinsero la famiglia reale e l’Assemblea stessa a trasferirsi a Parigi, ove, sotto la diretta e continua pressione della piazza, la situazione precipitò. La monarchia, tuttavia, si salvò grazie alla volontà dell’alta borghesia, i cui deputati, timorosi della carica eversiva popolare, nel sett. 1791 fecero giungere in porto una Costituzione basata sul sistema censitario e sulla monarchia costituzionale; il 1° ott. 1791, sciolta l’Assemblea costituente, fu eletta l’Assemblea legislativa, prevista appunto dalla Costituzione. La fase successiva, che vide il prevalere deciso delle forze propriamente rivoluzionarie e il tracollo della monarchia, fu strettamente connessa alla minaccia straniera, determinata dall’alleanza austro-prussiana in funzione antifrancese e antirivoluzionaria. Dopo i primi rovesci, divenuta la monarchia ancora più sospetta, ne derivò, dopo le manifestazioni del 20 giugno 1792, la giornata del 10 ag., in buona parte opera di Danton, con l’arresto del re e della sua famiglia e la proclamazione fatta dall’Assemblea della decadenza della monarchia. Seguirono, in settembre, le stragi di centinaia di «sospetti» e la proclamazione (21 sett.) della Repubblica da parte della nuova assemblea, la Convenzione, eletta a suffragio universale in sostituzione della Legislativa, e riunitasi lo stesso giorno della vittoria di Valmy (20 sett.). Si apriva così un nuovo periodo, caratterizzato dalla definitiva liquidazione del passato e dall’aggravarsi del pericolo esterno. L’occupazione francese del Belgio seguita alla grande vittoria di Jemappes (6 nov. 1792) e poi l’esecuzione del re avevano indotto l’Inghilterra, la Spagna e alcune minori potenze europee alla guerra; la prima coalizione antifrancese (1° febbr. 1793) otteneva decisivi successi già nel marzo, rioccupando per la vittoria di Neerewinden il Belgio e penetrando in F. da E, mentre truppe spagnole oltrepassavano il confine meridionale. All’incubo dell’occupazione militare straniera si aggiungeva inoltre il precipitare della situazione finanziaria interna per le eccessive emissioni di assegnati, il duello mortale tra i girondini e i giacobini e la rivolta antirivoluzionaria scoppiata in vari luoghi (Vandea, soprattutto, e Bretagna). Sgominato il partito della gironda nella giornata del 2 giugno 1793, il potere si accentrò nelle mani del vero capo del partito giacobino, M. Robespierre. Fu il «periodo del terrore», dominato dal Comitato di salute pubblica e contraddistinto da uno sforzo continuo e fortunato contro la pressione militare straniera, da un esperimento di economia regolata (legge del Maximum), dall’ascesa politica delle classi meno abbienti (artigiani soprattutto). Ma la lotta intrapresa da Robespierre con le ali estreme del suo stesso partito (la destra dantonista e la sinistra hebertista), insieme con gli eccessi della sua dittatura, provocarono il crollo della politica giacobina e la giornata del 9 termidoro (27 luglio 1794). Con la caduta di Robespierre e la reazione termidoriana cessò la fase radicale della Rivoluzione; la parte più ricca della borghesia riprese il sopravvento e, varata la Costituzione dell’ott. 1795, ebbe inizio il periodo del Direttorio, oscillante senza posa tra una possibile restaurazione monarchica (colpo di Stato del 22 fiorile VI, cioè 11 maggio 1798) e una ripresa neogiacobina. Si giunse allora, grazie anche alle incessanti guerre che provocarono la trasformazione del soldato-cittadino del 1793 in soldato professionale, all’instaurazione della dittatura militare di Napoleone.

Il periodo napoleonico

I travolgenti successi conseguiti a partire della campagna d’Italia del 1796 proiettarono Napoleone Bonaparte ai vertici della vita non solo militare, ma anche politica della F. del Direttorio. In seguito al successo delle imprese militari, che con l’invio di sempre maggiori contributi finanziari dai Paesi sottomessi salvarono il bilancio della F. rivoluzionaria, crebbe il peso politico del potere militare, soprattutto allorché le sorti della guerra ritornarono a essere rovinose per la F., e le incertezze politiche del Direttorio, corroso all’interno da contrasti e ondeggiante fra una politica filomonarchica e una ripresa di azione montagnarda, ebbero scontentato un po’ tutti. Abbandonando l’impresa di Egitto, sbarcato a Fréjus il 9 ott. 1799, Napoleone attuò il colpo di Stato del 18-19 brumaio (9-10 nov. 1799) che pose fine al Direttorio e iniziò quel governo personale che lentamente si andò precisando sotto il profilo costituzionale. Per prima cosa Napoleone riorganizzò l’ordinamento politico attraverso varie costituzioni a carattere sempre più autoritario. Il Concordato del 1801 pose fine alla crisi religiosa, controbilanciato dagli articoli organici dell’anno successivo. Un’intensa opera legislativa e l’emanazione di nuovi codici, resero per sempre più profondo e irreversibile il distacco dall’ancien régime, promossero lo sviluppo dell’economia francese e, con la creazione della Banca di F., il 18 genn. 1800, la regolamentazione del credito nazionale. Infine, dopo una nuova fortunata campagna in Italia (vittoria di Marengo), Napoleone realizzò la pace con Austria e Inghilterra (1801-02), conservando le conquiste rivoluzionarie del Belgio e dell’Italia (repubblica Cisalpina, dal 1805 regno d’Italia). L’acme della potenza napoleonica si ebbe nel 1809, allorché l’Austria, battuta a Wagram, firmò la Pace di Vienna e concesse la mano dell’arciduchessa Maria Luisa a Napoleone, che per le nuove nozze aveva ripudiato l’imperatrice Giuseppina. Ma la reazione nazionale della Spagna, il sostanziale fallimento del grande blocco marittimo, decretato il 21 nov. da Berlino per isolare l’Inghilterra, le scissioni nella stessa famiglia Bonaparte e, soprattutto, il continuo tributo di sangue e di ricchezza, cominciarono a minare la potenza napoleonica; la disastrosa campagna di Russia (1812) e le reazioni nazionali dei popoli oppressi fecero il resto: persa la partita militare nella grande battaglia di Lipsia (16-18 ott. 1813), dopo un’estenuante campagna di F., mirabile per perizia strategica ma impotente a capovolgere il rapporto delle forze in campo, Napoleone il 6 apr. 1814 fu costretto a sottoscrivere a Fontainebleau la propria abdicazione, per ritirarsi all’Isola d’Elba.

Dalla Restaurazione al Secondo impero

Per volontà soprattutto dello zar Alessandro e per l’attività del partito realista, furono restaurati i Borboni nella persona di Luigi XVIII (1814-24). Il regime politico della Restaurazione, interrotto all’inizio dalla breve parentesi del ritorno di Napoleone dall’Elba e dei Cento giorni, fu di tipo costituzionale, basato su una «carta» concessa  dal sovrano dall’alto, attraverso un atto della sua spontanea volontà autolimitatrice. Essa prevedeva la condivisione da parte del re del potere legislativo con un Parlamento bicamerale, formato da una Camera alta di nomina regia e una Camera dei deputati eletta su strettissima base censitaria. Nonostante la ristrettezza della partecipazione popolare, la vita politica francese dopo il 1815 ebbe due momenti ben diversi: nel primo, durato fino al 1824, l’avveduto senso politico di Luigi XVIII impedì che la restaurazione monarchica e il ritorno dei nobili emigrati assumessero un carattere di totale e assoluta negazione dei frutti del periodo rivoluzionario e napoleonico. Il secondo invece s’identificò nella volontà reazionaria di Carlo X (1824-30), che fece suo il programma degli ultras, suscitando notevoli opposizioni nel Paese. Ciò ebbe l’effetto di provocare la rivoluzione del popolo di Parigi (24-28 luglio 1830) e l’avvento di una nuova monarchia, quella di Luigi Filippo d’Orléans (1830-48), che diede una nuova Costituzione, più liberale, anche se basata su un sistema elettorale più largo di quello precedente ma pur sempre censitario. Tuttavia il fatto politico più importante fu costituito dal cambiamento delle basi di legittimazione della sovranità monarchica. A differenza di Luigi XVIII e Carlo X, Luigi Filippo d’Orléans fu infatti re non più di Francia, ma dei francesi, a sottolineare la riaffermazione del principio della legittimazione dal basso in luogo di quella per diritto divino. Il regime orleanista si dimostrò in grado di promuovere una notevole crescita economica e una forte affermazione sociale dell’alta borghesia. Ben presto tuttavia il fervore delle nuove idee democratiche portò a una crescente richiesta di allargamento delle basi della vita politica, non accolta dalla monarchia. Il divieto del governo di tenere, il 21 febbr. 1848, il grande banchetto che l’opposizione costituzionale aveva progettato per premere in favore di una riforma elettorale, fu la scintilla per un nuovo scoppio rivoluzionario: il 24 febbr. fu proclamata la Repubblica e costituito un governo provvisorio. La Seconda repubblica, opera del partito repubblicano e degli operai di Parigi, nacque con un volto decisamente democratico-socialista; ma il popolo delle campagne era estraneo agli ideali repubblicani e l’Assemblea costituente risultò composta in prevalenza da moderati e democratici: l’insurrezione operaia del giugno 1848 fu repressa nel sangue dal generale L.-E. Cavaignac e la Seconda repubblica iniziò rapidamente quel processo di distacco dalla democrazia che l’avrebbe portata dalla presidenza del principe Luigi Napoleone (10 dic. 1848), allo stretto connubio di questo coi cattolici, che ebbe in politica estera il corrispettivo del soffocamento della Repubblica romana del 1849, al colpo di Stato del 2 dicembre 1851, e infine alla proclamazione del Secondo impero (1852) di Napoleone III. Fino al 1859 il Secondo impero fu rigorosamente autoritario e in politica estera si unì all’Inghilterra contro la Russia nella guerra d’Oriente. Sotto il regno di Napoleone III, proseguendo una linea che era stata già inaugurata da Carlo X con la conquista dell’Algeria nel 1830, si ricostituì anche un impero coloniale francese; nuova concentrazione di domini che crebbe ulteriormente nei primi decenni della Terza repubblica (1870-1940) e poi in seguito alla Prima guerra mondiale, e che non ebbe più una prevalente impronta atlantica, ma fu espressione del rafforzamento degli interessi francesi in diverse regioni dell’Africa e in Asia (Medio Oriente e Indocina soprattutto). Continenti in cui, venuta meno l’ingerenza della rete commerciale olandese (18° sec.), a fronte della debole iniziativa tedesca e degli altri Stati europei, e del crollo dell’impero turco (al termine della Prima guerra mondiale), il più importante interlocutore e obbligato alleato della Francia fu la Gran Bretagna. Lo dimostra il caso del canale di Suez, costruito nel corso di un solo decennio (1859-69) per iniziativa dei francesi, che cambiò la storia dei rapporti commerciali tra Europa, Africa e Oriente, e quella della navigazione a vapore. I britannici entrarono rapidamente in possesso di ampie quote di partecipazione alla gestione del canale (1875), che ebbe un’importanza fondamentale anche rispetto alla penetrazione europea nell’Africa centrorientale e in Asia. Rotto o quanto meno indebolito l’accordo coi cattolici, restii ad accettare la politica che Napoleone III andava svolgendo in Italia con Cavour, l’impero acquistò, non senza momentanei sussulti autoritari, una fisionomia liberale e parlamentare. Nel 1870  l’imperatore, pesantemente provocato da Bismarck, dichiarò guerra alla Prussia; ma a Sedan (2 sett. 1870) l’esercito francese fu sconfitto e lo stesso Napoleone III fatto prigioniero. Due giorni dopo, a Parigi, furono proclamate la Terza repubblica e la costituzione di un governo provvisorio di difesa nazionale.

La Terza repubblica

La guerra con la Prussia ebbe fine con gli accordi del 26 febbr.-1° marzo 1871: essi giunsero dopo mesi di resistenza dell’assediata Parigi e di guerra popolare contro l’invasione, guidata da L. Gambetta, ma non prima che Bismarck avesse realizzato il suo intento d’indurre i principi tedeschi a costituire sotto Guglielmo di Hohenzollern l’impero germanico. Le gravi condizioni di pace imposte dai tedeschi spinsero Parigi contro il governo, uscito dalle elezioni dell’8 febbr. 1871, e contro il capo provvisorio dello Stato A. Thiers, che aveva sottoscritto quei patti: ma la reazione nazionale si accompagnava alla rivoluzione sociale e un moto operaio e piccolo-borghese il 18 marzo 1871 s’impadronì di Parigi e tenne, con il nome di Comune, il potere fino al 28 maggio 1871, allorché la rivoluzione fu repressa in maniera sanguinosa e spietata dal governo del Thiers che risiedeva a Versailles. La sconfitta della Comune dava alla Terza repubblica un carattere inequivocabilmente conservatore; lo Stato trovava una definizione dell’assetto costituzionale solo nel 1875, con appena un voto di maggioranza, e si sarebbe dovuto attendere il 1879 per vederlo consolidato, dopo il fallito colpo di Stato di M.-E.-P. MacMahon. Legittimisti, monarchici costituzionali e bonapartisti minarono la Terza repubblica nei suoi primi anni di vita; fu necessario superare le gravi crisi del boulangismo (1887-89), dello scandalo della Compagnia per il taglio dell’istmo di Panamá (1892) e, soprattutto, la crisi provocata dall’ingiusta condanna del capitano Dreyfus, prima che la Terza repubblica potesse superare il pericolo di un’involuzione clericale e dittatoriale, e porre le premesse di uno sviluppo democratico borghese. Solo attraverso una lunga campagna in favore di Dreyfus, che per l’ostinazione dei circoli clericali provocò di rimbalzo un periodo di acceso anticlericalismo, la politica francese incominciò a svolgersi entro il normale binario parlamentare. La vita della Terza repubblica, al di là delle debolezze e dei contrasti politici interni, fu comunque sostenuta da un florido sviluppo economico che consentì alla F. di pagare rapidamente le pesanti indennità della guerra del 1870-71 con la Prussia e di condurre una politica di espansione coloniale in Africa. L’Africa francese fu costituita da tre grandi concentrazioni di territori: quelli della fascia mediterranea musulmana, dove la F. impose gradualmente la sua amministrazione (Algeria, 1830; Tunisia, 1881; Marocco francese, 1904), condizionando in modo sensibile anche i caratteri culturali (religiosi, linguistici) dell’area, l’Africa occidentale francese, che all’inizio del 20° sec. comprendeva il Senegal, la Costa d’Avorio, la Guinea e il Sudan francese (Mali), il Niger, la Mauritania e l’Alto Volta (Burkina Faso), e infine l’Africa equatoriale francese (1910), ovvero il Gabon, parte del Congo, l’Ubangi-Shari e il Ciad. Nel 1890 era nato anche il protettorato del Madagascar. In Asia, la penetrazione francese si concentrò in Indocina, a partire dal 1858, e portò alla nascita dell’Unione indocinese (1887), che arrivò a comprendere Cambogia, Laos, Cocincina, Annam e Tonchino, colonie legate soprattutto alla produzione e al commercio di tè, caffè, carbone e caucciù. Il rafforzamento della presenza francese in Africa creò fasi di alta tensione sia con l’Italia a proposito della Tunisia sia con l’Inghilterra nella gara per la spartizione dell’Africa centrale, sia con la Germania nella crisi marocchina. Il capitalismo francese divenne uno dei soggetti principali della vita economica internazionale effettuando forti investimenti in Russia, di cui finanziò parte cospicua del processo di modernizzazione e di industrializzazione, fornendo una corrispondenza anche sul piano finanziario all’alleanza che il governo francese e il governo russo sottoscrissero in funzione antitedesca, in vista di quella rivincita sull’umiliazione di Sedan che la F. si prese con la Prima guerra mondiale (➔ mondiale, Prima guerra).

Il primo dopoguerra

Uscita vincitrice, la F. recuperò i confini del 1870 e impose alla Germania condizioni di pace durissime nell’intento di annientare preventivamente qualunque velleità di rivincita e di esercitare un’effettiva egemonia sul continente europeo. L’accordo franco-britannico di Sykes-Picot (1916) pose inoltre le basi del nuovo assetto del Medioriente, ove nacquero aree di influenza francese (Siria e Libano), da un lato, e inglese dall’altro (Iraq, Palestina e Giordania). L’emergere dell’isolazionismo negli Stati Uniti e il rifiuto inglese di garantire le frontiere per impedire qualsiasi ritorno offensivo della Germania, spinsero la F. a realizzare tutto un sistema di alleanze e di amicizie coi giovani Stati (Polonia, Romania, Cecoslovacchia, Iugoslavia) in funzione antitedesca. Un atteggiamento diverso e più conciliante fu assunto da A. Briand, che insieme a G. Stresemann (1925-29) si fece interprete dei principi animatori della Società delle nazioni. A partire dal 1930 si assisté all’insorgere di movimenti di ispirazione fascista, la cui aggressiva avanzata fu bloccata dallo sciopero generale del 12 febbraio 1934, in cui i cortei socialista e comunista si fusero, preparando il terreno per il patto d’unità d’azione concluso nell’estate, e poi alla proposta di Fronte popolare lanciata a socialisti e radicali dal leader comunista M. Thorez. La vittoria nel maggio 1936 del Fronte popolare suscitò grandi aspettative, anche a livello internazionale, ma non riuscì a evitare la radicalizzazione dello scontro politico interno (il gabinetto del socialista L. Blum si dimise nel giugno 1937), rendendo incerta e debole la politica estera della F. alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Dopo il mancato sostegno del governo di Fronte popolare alla Spagna repubblicana impegnata nella guerra civile, la sostanziale subalternità alla Gran Bretagna in politica estera condusse il governo del conservatore Daladier ad appoggiare la politica dell’appeasement nei confronti della Germania nazista, e a essere tra i promotori di quel Patto di Monaco (1938) che di fatto sancì l’incapacità delle democrazie europee di trovare subito la forza di opporsi frontalmente all’aggressività hitleriana.

La Seconda guerra mondiale e la Quarta repubblica

L’inizio del conflitto colse la F. in un momento di difficile tensione interna per la politica deflazionista del governo e per il contrasto tra quanti sostenevano una ferma reazione all’espansione hitleriana e quanti non intendevano «morire per Danzica». Si completava intanto la costruzione di quella «linea Maginot» che avrebbe dovuto difendere la F. dalle armate tedesche. Dichiarata la guerra dal gabinetto Daladier alla Germania il 3 sett. 1939, le operazioni militari si trascinarono senza sviluppo fino al maggio 1940 (periodo della cd. drôle de guerre). Caduto il governo Daladier, il 20 marzo 1940 si costituiva un gabinetto P. Reynaud con un solo voto di maggioranza. Iniziatasi la grande offensiva tedesca, perduta la battaglia per il Belgio e profilandosi già quella per la F., Reynaud corse ai ripari, rafforzando la propria compagine governativa con l’inclusione di uomini di grande prestigio come P. Pétain. Il 5 giugno ebbe inizio la battaglia vera e propria, che in maniera drammatica sgretolò ogni possibile resistenza dell’esercito francese. Reynaud diede le dimissioni e fu sostituito subito da Pétain che, con la mediazione dell’ambasciatore spagnolo, intavolò le trattative di armistizio con la Germania (dal 22 anche con l’Italia). La F. fu così divisa in una zona amministrata e governata direttamente dagli occupanti (l’Alsazia e la Lorena unilateralmente inglobate nel Reich, i dipartimenti del Nord e del Nord-Est riattacca ti amministrativamente alla Kommandantur di Bruxelles) e una zona cosiddetta libera sotto Pétain, che aveva posto a Vichy la sede del governo collaborazionista. La Resistenza francese si manifestò fin dal 18 giugno 1940, all’estero, con il radiomessaggio lanciato da Londra dal generale C. De Gaulle, mentre nel territorio metropolitano fu sulle prime solo rifiuto a collaborare con i tedeschi; con la primavera del 1941 essa assunse consistenza organizzativa e significato politico. Lo sbarco alleato del nov. 1942 nell’Africa settentrionale ebbe come effetto di eliminare la F. di Vichy: le truppe tedesche passavano l’11 nov. 1942 la linea di demarcazione e occupavano effettivamente tutta la Francia. Di converso, la resistenza esterna e quella interna divennero un unico movimento, con il collegamento tra il Comitato francese di liberazione nazionale – guidato da De Gaulle ad Algeri – e il Consiglio nazionale della Resistenza presieduto da J. Moulin e poi da G. Bidault. Il 2 giugno 1944 i due organismi della Resistenza crearono ad Algeri il governo provvisorio della Repubblica. Iniziata con lo sbarco alleato in Normandia (6 giugno 1944), la liberazione fu coadiuvata dai maquis (il movimento di partigiani, prevalentemente urbano) e dall’insurrezione di Parigi (19-25 ag. 1944). Il ritorno di Parigi alla libertà (25 agosto, arrivo di De Gaulle) e la costituzione di un primo governo provvisorio diretto dal generale (5 sett.) significarono la messa a fuoco dei problemi della ricostruzione: ripristinata subito la legalità repubblicana, il problema costituzionale fu affrontato da una prima Assemblea costituente (21 ott. 1945-5 maggio 1946) e, respinta da un referendum popolare la Costituzione da questa elaborata, da una seconda Assemblea costituente (2 giugno-13 ott. 1946), la quale diede vita alla Quarta repubblica. Nella nuova Costituzione, i territori coloniali che erano rimasti sotto il controllo francese assunsero la denominazione di Territori d’oltremare (TOM) e in seguito quella di Dipartimenti d’oltremare (DOM), che è ancora in vigore per definire la fisionomia politica di alcune isole caraibiche, come Guadalupa, Martinica e Guiana francese (l’antica colonia penale dell’isola del Diavolo), o dell’Oceano Indiano (Réunion). De Gaulle intanto, dimessosi da capo del governo provvisorio nel gennaio 1946, in polemica contro il sistema dei partiti, dava vita al movimento di destra Rassemblement du peuple français; le alleanze di governo basate sulla collaborazione dei partiti della Resistenza (socialisti, comunisti e Mouvement républicain populaire) entrarono in crisi con la decadenza dei ministri comunisti (1947). I governi successivi si orientarono verso un liberalismo conservatore. Il governo Bidault profilò l’inserimento della F. nel blocco occidentale ma non riuscì a realizzare un accordo con il Vietnam. Se l’adesione alla NATO costituì l’approdo di un lungo dibattito interno, a tormentare la politica francese vennero i problemi dell’Indocina, sui quali si infransero i brevi governi del 1949-54. Dopo l’elezione di R. Coty alla presidenza della Repubblica (dic. 1954), a dirimere la questione dell’Indocina intervenne il governo Mendès-France (giugno 1954-genn. 1955) che ritirò le truppe francesi. I problemi si spostavano ora nell’Africa settentrionale francese, dove alle richieste di autonomia e alla lotta dell’Esercito di liberazione del Maghreb, sostenuta dal Cairo, il governo Faure (genn. 1955-genn. 1956) oppose una decisa resistenza. Né lo spostamento a sinistra determinato dalle elezioni del genn. 1956 mutò radicalmente gli indirizzi del governo; nel marzo 1956 il governo Mollet (genn. 1956-maggio 1957) riconobbe l’indipendenza di Marocco e Tunisia, ma in linea contraria si pose l’intervento armato franco-britannico in Egitto a seguito della nazionalizzazione del canale di Suez, peraltro risoltosi in  un fallimento militare e politico. In Algeria intanto la lotta per l’indipendenza avviata nel 1954 dal Fronte di liberazione nazionale nel 1956-57 sfociava nel susseguirsi di una serie di azioni di guerriglia dell’FLN e dell’Armata di liberazione nazionale e di risposte repressive dell’esercito francese, finché, nel 1958, in Algeri un comitato di salute pubblica guidato dal gen. dei paracadutisti J. Massu si mise alla testa della popolazione francese reclamando un più incisivo intervento. In una situazione interna di gravissima tensione, il presidente Coty (1° giugno 1958) affidò il potere a de Gaulle; la camera votò pieni poteri per sei mesi con un mandato per la revisione della costituzione e per la soluzione del problema algerino. Il 28 sett. 1958 un referendum diede vita a una libera comunità della F. con i Territori d’oltremare.

La Quinta repubblica

Approvata il 28 sett. 1958 dall’80% degli elettori, la nuova Costituzione diede alla nazione un regime semipresidenzialista, con un presidente eletto da rappresentanti locali, il quale nominava il suo primo ministro e, di fatto, i ministri; poteva indire referendum, di fronte a un Parlamento indebolito e facile da sciogliere, ma che conservava il potere decisivo della fiducia al governo. Nel gennaio 1961 venne indetto un referendum sulla questione algerina, in cui il 75,2% dei cittadini francesi si pronunciò a favore dell’autodeterminazione dell’Algeria. Tra i coloni francesi e nell’esercito si accese la rivolta: l’Organisation de l’armée secrète (OAS) seminò il terrore in Algeria, mentre in F. la tensione cresceva. Il 5 ottobre il prefetto di Parigi Papon instaurò il coprifuoco per i «francesi mussulmani d’Algeria». Il 17 una manifestazione di protesta degli immigrati fu duramente repressa dalla polizia; molti manifestanti furono picchiati e arrestati, alcuni di loro vennero uccisi a colpi d’arma da fuoco o annegati nella Senna. Papon ammise tre morti, 64 feriti e 11.538 arresti, ma storici come P. Vidal-Naquet parlarono di circa due o trecento morti (48 sarà la cifra riconosciuta dopo quarant’anni dal rapporto dell’avvocato della corte di Cassazione, Geronimi). All’Algeria intanto, venne accordata l’indipendenza, ciò che determinò l’esodo nella madrepatria di un milione di «rimpatriati» (1962). De Gaulle, contestato ormai da una parte della sua stessa maggioranza (destra tradizionale e MRP), propose con un referendum l’elezione del presidente a suffragio universale e sciolse l’assemblea che aveva rovesciato il governo Pompidou. Ottenne il 62% di sì e, grazie alla legge elettorale maggioritaria, una maggioranza parlamentare di gollisti fedeli e di moderati raccolti intorno a V. Giscard d’Estaing. La diplomazia intanto era segnata dalla grandeur: la bomba atomica nazionale, la force de frappe (1960) per compensare la perdita delle colonie; l’ancoraggio alla politica atlantica temperato dal riconoscimento della Repubblica popolare di Cina (1964), dalla condanna della guerra americana in Vietnam (1966) e dal distacco francese dal comando integrato della NATO (1966). In ambito europeo, costante dell’azione politica di De Gaulle fu la creazione di un asse franco-tedesco. Nel 1965, De Gaulle venne rieletto, ma soltanto dopo un ballottaggio con F.-M. Mitterrand, candidato delle sinistre. Nel maggio 1968 si intrecciarono la crisi giovanile, la protesta operaia e sindacale, difficoltà economiche ed esitazioni politiche. Dieci milioni di scioperanti, che peraltro ottennero importanti risultati, seguirono la rivolta studentesca: il governo ne fu travolto e De Gaulle abbandonò Parigi per incontrarsi a Baden Baden col generale Massu, comandante delle truppe francesi di stanza in Germania. Ma poco dopo egli offrì al Paese, ora stanco del disordine, le elezioni anticipate, in cui i gollisti, aiutati dal clima di tensione, ebbero il 38% dei voti e, per effetto del sistema elettorale, la maggioranza dei seggi. Nonostante ciò, De Gaulle puntò alle riforme; tentò di fare approvare, tramite referendum (apr. 1969), una modifica costituzionale che prevedeva fra l’altro un decentramento dell’amministrazione a livello regionale e una riduzione dei poteri del Senato, ma, sconfitto anche in seguito alla defezione dei suoi alleati moderati, diede le dimissioni. Pompidou, capo naturale della maggioranza parlamentare, vinse le presidenziali (1969), in cui la SFIO fu ridotta ai minimi termini (5% dei voti). La morte di Pompidou (1974) diede il via a un duello elettorale a destra tra Chaban-Delmas e Giscard d’Estaing, rappresentante del liberalismo modernizzatore. L’appoggio dei gollisti pompidoliens (J. Chirac) favorì Giscard, che raggiunse il 51% al secondo turno delle presidenziali, contro il 49% per Mitterrand, leader del Partito socialista. Dato che il recente sorpasso del PS sul PCF aveva condotto alla rottura a sinistra, la F. appariva ora divisa in quattro gruppi, pressappoco uguali, dei quali due governavano senza riuscire ad accordarsi. Motivi di tensione sociale, aggiunti alle rivalità a destra e al crollo del PCF al 15%, che rassicurò alcuni settori elettorali, facilitarono l’elezione di Mitterrand alla presidenza, con il 51% dei voti (1981). Il governo P. Mauroy (1981-84), cui partecipò il PCF, realizzò numerose riforme (abolizione della pena di morte, nazionalizzazioni, imposta sul capitale, settimana di 39 ore, pensionamento a 60 anni, abbozzi di cogestione nelle imprese ecc.), ma la crisi economica obbligò a scegliere il rigore e il blocco dei salari (1983). Con il governo di L. Fabius (1984-86), senza i comunisti, l’inflazione cadde al 5%, diminuì il carico fiscale, ma non la disoccupazione, e parve abbandonata ogni idea di riforma. Nel 1988, rieletto Mitterrand (54%) contro Chirac, lo scioglimento dell’assemblea non dette che una maggioranza relativa al PS. Le elezioni politiche del marzo 1993 vedevano la forte affermazione dell’alleanza di centrodestra (giscardiani e gollisti) e il tracollo socialista; Mitterrand nominava primo ministro E. Balladur.

Dalla fine del 20° all’inizio del 21° secolo

Alle elezioni presidenziali del 1995 il Partito socialista candidò L. Jospin. A destra, Chirac ebbe la meglio su Balladur, ma il dato più rilevante fu il 15% dei voti ottenuto dal Front national di J.-M. Le Pen, che combinava insieme motivi diversi della tradizione dell’estrema destra francese (nazionalismo, antisemismo, razzismo, xenofobia e antieuropeismo).  Nel ballottaggio Chirac ebbe il sopravvento, divenendo il nuovo presidente della Repubblica, con A. Juppé alla guida del governo. Una politica decisamente neoliberista, sollecitata anche dall’esigenza di accordarsi ai dettami del Trattato di Maastricht, si tradusse in tagli alle spese sociali e ai salari del settore pubblico. In contrapposizione alla linea di Mitterrand, caratterizzata da convinto europeismo, avvicinamento agli Stati Uniti e rapporto preferenziale con la Germania, Chirac sembrò voler resuscitare la grandeur gollista, rivendicando per la F. un ruolo primario nel consesso mondiale. Nel 2000, un referendum ridusse il mandato presidenziale da 7 a 5 anni. Nel 2002, alle elezioni presidenziali, Chirac conseguì una vittoria quasi plebiscitaria, votato nel turno di ballottaggio da un elettorato (anche di sinistra) timoroso di un eventuale successo di Le Pen, la cui clamorosa affermazione al primo turno aveva sollevato sconcerto nel Paese. In campo internazionale, sulla questione dell’Iraq (marzo 2003) prendendo le distanze dagli USA Chirac ribadì il veto francese a ogni intervento militare, mentre all’interno l’esecutivo guidato da J.-P. Raffarin dovette affrontare la riforma del welfare. La bocciatura in sede referendaria della Costituzione europea del 2005 determinò la crisi del governo e di tutta la politica comunitaria. Raffarin rassegnò le dimissioni e gli succedette D. de Villepin, il cui governo, per primo in Europa, sospese il Trattato di Schengen dopo gli attentati di matrice islamica (luglio) a Londra. Sulla riforma del diritto del lavoro esplose la collera delle periferie parigine per le condizioni di esclusione dei giovani maghrebini e africani, che mise anche in luce l’aspra lotta per la successione a Chirac che opponeva il premier al ministro degli Interni N. Sarkozy, dal 2004 presidente dell’Union pour un mouvement populaire, il partito di centrodestra nato due anni prima dall’unione di forze politiche di ispirazione gollista, centrista e liberale. Poco dopo manifestazioni di piazza obbligavano il governo al ritiro di fatto della legge sul contratto di primo impiego. Nel 2007, al termine dei due mandati di Chirac, la campagna elettorale per le presidenziali fu caratterizzata da un’offerta programmatica nuova, attenta alle sfide economiche e sociali, alla politica europea e alla modernizzazione delle istituzioni, in evidente discontinuità con la politica passata caratterizzata da sostanziale immobilismo. Al ballottaggio Sarkozy, candidato della destra, alfiere del rilancio dei valori conservatori e dell’identità nazionale, prevalse sulla socialista S. Royal. Il governo di F. Fillon, riconfermato all’indomani delle elezioni legislative, vedeva peraltro l’ingresso di alcune personalità chiave dell’opposizione.

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