Francia

Enciclopedia Dantesca (1970)

Francia

Simonetta Saffiotti Bernardi
Remo Ceserani

(Franza). – La presenza della F. nell'opera e nel mondo di D. è molto frequente, sia direttamente, con citazioni specifiche, sia attraverso i riferimenti a eventi storici, connessi con la storia francese dei secoli precedenti (v. Carlomagno; Carolingi); Soprattutto con la politica francese del tempo. Sotto quest'ultimo riguardo vari riferimenti concreti sono relativi ai Capetingi, in Pg XX 51 di me son nati i Filippi e i Luigi / per cui novellamente è Francia retta, o a Filippo il Bello, in If XIX 87 chi Francia regge, e Pg VII 109 mal di Francia, a Carlo di Valois (Pg XX 70-71 Tempo vegg'io, non molto dopo ancoi, / che tragge un altro Carlo fuor di Francia) e ai rapporti commerciali fra Firenze e questa regione (e ancor nulla / era per Francia nel letto diserta, Pd XV 119-120). In Fiore XLI 7 Degna sarei d'esser reina in Franza, la F. è indicata come esempio di paese in cui regnano bellezza e amore. I confini della F. inoltre sono indicati in VE I VIII 4 e 9.

Il punto di partenza per ogni indagine sui rapporti tra D. e la vita politica francese sta nella fitta rete d'interessi che legavano la F. alla Firenze di D., nel momento del più avanzato stadio della propria evoluzione comunale, con il potere in massima parte in mano alle Arti, cioè alle forze commerciali e produttive che erano particolarmente interessate a questa regione oltramontana; esse con la F. avevano instaurato scambi e rapporti finanziari; gran parte dei panni trattati da Calimala e dall'Arte della Lana avevano provenienza e destinazione francese; le maggiori banche fiorentine avevano succursali nelle principali città della F.; le varie fiere, come ad es. quella di Champagne, erano frequentatissime dai mercanti fiorentini. Tutto ciò, per quanto conseguisse un'importanza fondamentale per la vita e il progresso della città, appariva fonte di disordine e degenerazione morale a un uomo legato alle tradizioni del passato quale fu D., il quale infatti depreca come per Francia molti Fiorentini abbandonassero le proprie case, e che quindi la fitta rete dei rapporti economici, imponendo un lungo periodo di soggiorno in F. dei mercanti di Firenze, contribuisse alla dissoluzione della vita familiare. Le accese lotte di parte che interessarono l'Impero e gran parte dell'Italia, e che trovarono terreno particolarmente favorevole in Firenze, proprio per il continuo sopraffarsi delle varie fazioni, e le conseguenze che così ampie e aspre lotte ebbero sulla vita dell'exul inmeritus, influenzarono fortemente l'atteggiamento personale di D. nel duro giudizio che egli pronunciò contro la casa di F., che era protagonista di queste lotte, e lo era nella fazione avversa a quella in cui militava il poeta. E da qui deriva il giudizio negativo di D. a partire dai Capetingi (v.), le cui azioni sono esposte dal capostipite della dinastia, Ugo Capeto (v.), radice de la mala pianta / che la terra cristiana tutta aduggia (Pg XX 43-44), come frutto dei peggiori peccati: forza, menzogna, rapina (vv. 64-65). Da ciò è condizionato il giudizio negativo di D. su tutti gli Angiò (v.), di cui uno solo è escluso dalla condanna che accomuna i membri della famiglia: Carlo Martello (v.), che D. vede vittima degl'intrighi dei suoi stessi parenti (Pd VIII 49 ss., IX 1). Anche Carlo di Valois (v.), che ebbe veramente gran parte nelle vicende di Firenze e nelle sventure di D., pur non essendo stato oggetto di una particolare condanna, quale si penserebbe dovuta a un protagonista di tanto rilievo, è tuttavia accomunato nell'odio che colpisce tutta la sua stirpe e considerato espressione di tutto un mondo d'iniquità.

Ma l'obbiettivo della maggiore ostilità di D. è Filippo il Bello (v.), il mal di Francia (Pg VII 109), e in questo caso non si tratta di semplice riprovazione verso il singolo, bensì verso tutto un sistema, verso un modo di governo e tutto ciò che può derivarne. Con particolare disprezzo è trattato anche Filippo III (v.), quel nasetto, di cui D. ricorda la fine ingloriosa e la sconfitta subita per opera di Ruggero di Lauria nella guerra contro Pietro III d'Aragona: morì fuggendo e disfiorando il giglio (Pg VII 103-105). In effetti ogni singola menzione che interessi la F. e in generale i vari personaggi è intrisa di ostilità e di disprezzo; la vanità francesca è inferiore solo a quella sanese (If XXIX 123); Buoso da Duera piange il suo tradimento dovuto a l'argento de' Franceschi (XXXII 115); i Franceschi di Giovanni d'Appia fecero sanguinoso mucchio per la gloriosa sortita dei Forlivesi assediati dalle truppe guelfe e francesi inviate contro di loro da papa Martino IV (XXVII 44); infine, con un forse voluto anacronismo, D. parla di Franceschi in Cv IV V 18, nel ricordare la presa del Campidoglio da parte dei Galli, considerando quindi tale episodio come il primo di tutta la serie dei ‛ furti ' con cui la F. aveva consolidato la sua potenza.

Fortuna di Dante in Francia. – È ormai tradizionale, negli studi sulla fortuna di D. in F., l'insistere sulla sostanziale estraneità dello ‛ spirito ' francese alla poesia di Dante. Sulla scia di una famosa riflessione di Amiel (Fragments d'un journal intime, Ginevra 1885, alla data 23 aprile 1862), gli studiosi hanno spesso ripetuto che le caratteristiche essenziali dello ‛ spirito ' francese - il culto per la forma chiara e razionale; il gusto per l'indagine concreta; l'amore per l'eleganza e la politesse; l'interesse per i problemi dell'anima e i suoi moti più segreti - lo rendevano fra i meno adatti a comprendere la poesia della Commedia. Arturo Farinelli ha scritto due interi volumi - quasi una requisitoria - per dimostrare che la storia del dantismo francese è la storia di una lunga serie di occasioni mancate, d'incontri parziali e insufficienti. L'opera del Farinelli, inoltre, si arrestava proprio alle soglie dell'Ottocento, del periodo cioè di maggiore fortuna di D. in F.; ma anche quegli studiosi che hanno portato avanti la ricerca del Farinelli hanno quasi tutti sostenuto che, a parte l'eccezionale momento della ‛ voga ' romantica di D. (basata anch'essa, del resto, su una conoscenza parziale e distorta dell'opera dantesca), la maggior parte degli scrittori e letterati della F. moderna sono rimasti sostanzialmente sordi alla poesia della Commedia, o incapaci di decifrarla. Anche ai nostri giorni - com'è stato ribadito da George Mounin -, nonostante la produzione di studi specialistici di grande levatura, le molte traduzioni e le pubbliche celebrazioni, l'adesione dei Francesi alla poesia di D. permane assai tiepida.

Eppure se, anziché porre il problema in termini d'incontro fra la poesia di D. e lo ‛ spirito ' francese, lo si pone (come già ha tentato di fare per i primi secoli Franco Simone) in termini di concreti fenomeni e momenti di storia della cultura, il quadro complessivo delle edizioni dell'opera dantesca, delle traduzioni, delle citazioni e commenti, delle imitazioni poetiche o interpretazioni figurative risulta sorprendentemente ricco. Lo stesso libro del Farinelli, solo che se ne rovesci la tesi di fondo, presenta una notevolissima rassegna di dati concreti sulla presenza di D. nella cultura francese. E lo stesso equilibrato bilancio - il migliore che si possieda, anche se purtroppo si ferma al 1850 - tracciato da Werner P. Friederich può essere ulteriormente integrato con nuovi dati e complessivamente corretto in senso più favorevole alla presenza dell'opera di D., nella cultura francese nei vari momenti della sua storia.

Il primo centro d'oltralpe nel quale dovettero essere abbastanza diffusi il nome e l'opera di D. fu la corte papale di Avignone. La decisione presa a Bologna nel 1329 dal cardinale francese Bertrando del Poggetto, di condannare al pubblico rogo la Monarchia (e addirittura di ordinare la dispersione delle spoglie del poeta a Ravenna), dovette avere echi ad Avignone, e il contenuto di quel trattato, e forse anche il testo, oltre che quello, forse, di alcune epistole, dovettero esser noti negli ambienti della curia pontificia. Tra gl'Italiani, inoltre, esuli o accorsi presso la corte dei papi, dovettero essere non pochi quelli che conoscevano di D. non solo il nome e il contenuto delle opere teologiche e politiche, ma anche le poesie e la Commedia, a cominciare dal poeta Sennuccio del Bene e dal notaio amico di D. Petracco Parenzi, sino al grande figlio di costui, Francesco Petrarca, promotore in Avignone dei nuovi studi. Proprio ad Avignone, com'è noto, il Petrarca ricevette forse nel 1359 (ma forse - secondo quanto sostiene il Billanovich - anche prima, nel 1351) una copia della Commedia dedicatagli dal Boccaccio (ora cod. Vaticano lat. 3199); e ormai si sa che egli ebbe con l'opera di D. un rapporto più stretto di quanto non ammettesse egli stesso nella lettera famosa al Boccaccio su questo argomento (Fam. XXI XV). Fu in ogni modo il Boccaccio, piuttosto che il Petrarca, il grande banditore della fama e dell'opera di D. anche fuori d'Italia, e almeno nei primi secoli l'opera del grande predecessore giunse in F. sulla scia della sua o indirettamente conosciuta attraverso la sua.

Segni di una conoscenza diretta della Commedia nel Tre e Quattrocento, anche se non sono numerosi, non mancano. Pur non trovandosi traccia, almeno nei cataloghi a noi giunti, della presenza della Commedia nelle grandi biblioteche reali, è comunque notevole trovarla nelle biblioteche di alcune corti, soprattutto di Provenza e di Savoia: un esemplare della Commedia con traduzione latina e commento del Boccaccio si trovava, alla fine del Trecento, nella biblioteca del papa Benedetto XIII ad Avignone (esso risulta fra i libri portati da Avignone a Peñiscola in Spagna); un altro esemplare (ora scomparso) era fra i libri del re poeta Renato d'Angiò, per tante vicende legato alla storia italiana; un altro esemplare, insieme con il Decameron del Boccaccio, si trovava verso il 1435, al tempo cioè di Martin Le Franc, nella biblioteca di Amedeo VIII, al castello di Ripaille, mentre ben tre esemplari si trovavano nel 1498 nell'altro castello dei duchi di Savoia a Chambéry; possedevano inoltre la Commedia, nel Quattrocento, Giovanni II di Borbone (che ne fece omaggio a un gentiluomo di Forez, Louis de la Vernade), e Carlo di Francia fratello del re Luigi XI (in un manoscritto di mano italiana, illustrato con tre miniature di artista francese, una per ogni cantica, poco attinenti per la verità all'opera e contenenti piuttosto una personale e autonoma descrizione dei tre regni dell'oltretomba).

Tra i poeti francesi, se scartiamo il buon religioso Guillaume de Deguileville, nel cui poema allegorico Le pèlerinage de l'âme (1355-58) qualcuno ha avvertito echi danteschi, senza peraltro poter dimostrare l'esistenza di un influsso preciso, la prima che ebbe una conoscenza diretta della Commedia fu Christine de Pisan (v.), la quale ebbe notizia dell'opera di D. dal padre, un medico italiano che, prima di recarsi in F., aveva compiuto gli studi in una delle città più impegnate nella diffusione e commento dell'opera dantesca: Bologna. Quello di Christine è un episodio di fortuna dantesca piuttosto circoscritto (che va contro le tendenze prevalenti nella cultura poetica del tempo, tutta imperniata sull'imitazione del Roman de la Rose, e tuttavia proprio per questo è molto significativo), ma non tanto isolato. Noto a molti altri letterati del tempo, oltre che alla stessa Christine, era per esempio il De Casibus del Boccaccio, che contiene una breve e suggestiva descrizione di D., con un accenno alla " laboriosa fuga " e al lungo esilio. Già l'originale del trattato latino ebbe in F. una diffusione larghissima, ma ancor più vasta fu la diffusione della traduzione francese di Laurent de Premierfait, segretario del duca di Berry. Proprio in riferimento a D. la seconda stesura della traduzione del Premierfait (1409) contiene un'aggiunta del traduttore, nella quale sono fornite alcune notizie biografiche sul poeta (tratte in parte dalla Genealogia del Boccaccio, in parte probabilmente da qualche compilazione enciclopedica o da qualche vita umanistica in latino). Il Premierfait dà molto rilievo alla notizia del supposto soggiorno di D. nella " bella " Parigi (la notizia era già in alcune opere italiane come la Vita del Boccaccio o la Cronaca del Villani, e anche in opere latine, come per es. il De Origine civitatis Florentiae et de eiusdem famosis civibus, dedicato da Filippo Villani fra il 1395 e il 1397 al cardinale francese Filippo d'Alengon, della casa reale). A questa notizia il Premierfait aggiunge, evidentemente ‛ romanzando ', l'altra notizia secondo la quale D. avrebbe deciso di scrivere la Commedia spinto dall'emulazione, dopo aver letto il Roman de la Rose. È evidente che per il Premierfait e per i suoi contemporanei, così come in fondo per la stessa Christine, l'unico modo per assimilare almeno un poco D. era quello di conciliarlo con il grande modello autoctono, il Roman de la Rose, e con i molti altri poemi allegorici da esso derivati. È quasi certo, comunque, che il Premierfait non aveva una conoscenza diretta dell'opera di Dante.

Solo indiretta fu anche la conoscenza che di D. ebbe il maggior poeta del tempo, Alain Chartier, il quale ricordò il poeta italiano parlando, nel Livre de l'Espérance ou Consolation des trois vertus (1434), della donazione di Costantino. È comunque interessante, ed emblematico, che uno dei primi accenni a D. in un'opera poetica francese di prestigio fosse già nel Quattrocento collegato con i problemi sollevati dalle controversie religiose. Più diretta fu invece, probabilmente, la conoscenza che di D. ebbe Martin Le Franc, il quale accennò al poeta fiorentino nel Champion des dames (1442): il dotto segretario di Amedeo VIII di Savoia era stato in Italia, conosceva l'italiano e nel suo poema allegorico ed enciclopedico sembra in più punti riecheggiare alcune idee o immagini dantesche. Ben poco, invece, sapevano di D. i ‛ rhétoriqueurs ' e in particolare i capifila borgognoni Georges Chastellain e Jean Molinet, mentre uno dei loro seguaci, il poeta Octavien de Saint-Gelais, protetto della contessa di Angoulême e del re Carlo VIII, nell'opera sua Le séjour d'honneur (composta fra il 1490 e il 1494 a Cognac), dimostra di risentire già chiaramente i primi effetti della penetrazione della cultura italiana in F. e di conoscere, oltre a Boccaccio e Petrarca, anche D., del quale parla in termini di viva ammirazione.

Nel complesso la diffusione dell'opera e della fama di D. nel Quattrocento francese fu più spesso indiretta che diretta: se ne conosceva abbastanza diffusamente il nome, si conoscevano alcuni particolari, spesso deformati o romanzati, della sua vita (derivati, oltre che dalle vite di D. scritte dagli umanisti italiani, anche e maggiormente dalla tradizione aneddotica e novellistica, dalle Facezie del Poggio per esempio, che ebbero grande fortuna in F., o dal Narrenschif di Sebastian Brant, tradotto in latino nel 1497 e poco dopo in francese); si sapeva qualcosa della sua polemica contro il potere dei papi, si sapeva che aveva scritto un poema sui dannati dell'Inferno. Qualcuna delle sue idee era inoltre penetrata in F. attraverso le opere di Boccaccio, di Petrarca e degli umanisti italiani: esempi tipici la difesa della poesia contenuta nei libri XIV e XV della Genealogia del Boccaccio, presto tradotta in F. e ripresa da autori francesi come Jean Montreuil, Nicolas de Gonesse e Jean Miélot; il metro il contenuto dei Trionfi del Petrarca, la più dantesca fra le opere sue, che fu presa a modello fra gli altri da Jean Lemaire e godette comunque di grande fama europea; le discussioni sul valore della nobiltà contenute nel trattato latino di Buonaccorso da Montemagno, tradotto nel 1449 in francese da Jean Miélot con il titolo di Controverse de Noblesse.

Gli anni 1494-95 segnarono, com'è noto, un profondo cambiamento nella situazione della cultura di F.: i giovani francesi discesi in Italia al seguito di Carlo VIII ritornarono con l'immagine di una diversa civiltà da ammirare e imitare. Nell'opera di rinnovamento ebbero, si sa, grande parte i modelli del Petrarca e del Boccaccio e le teorizzazioni e le prove dei letterati dell'Italia cinquecentesca, ma il posto di D. fu meno secondario, almeno nei primi tempi, di quanto non si sia ritenuto. Due i centri in cui si fece principalmente sentire la presenza dantesca: la corte di Francesco I e la città italianizzata e tipograficamente fervida di Lione.

Carlo VIII, al ritorno dall'Italia, aveva portato con sé un bel manoscritto offertogli dalla città di Firenze, con i Trionfi del Petrarca, le Canzoni e i Sonetti di D. e la Vita di D. di Leonardo Bruni. Già nel 1496, del resto, un manoscritto assai importante della Commedia si trovava a Cognac nella biblioteca di Charles d'Orléans conte d'Angoulême, padre del futuro Francesco I e di Margherita di Navarra; la descrizione che ne dà il catalogo del tempo non lascia dubbi: " un libvre de Dante, escript en parchemin et à la main, et en italien et en françois ": si tratta di una traduzione, la prima di una lunga serie di traduzioni della Commedia, certamente anteriore al 1496.

Il Dorez, lavorando probabilmente di fantasia, ci ha rappresentato Francesco e Margherita fanciulli, intenti a leggere quel manoscritto. Ma altri, come per esempio Octavien de Saint-Gelais, che viveva a Cognac, l'avrà probabilmente visto e letto. È un peccato che quel manoscritto non sia, a quanto pare, giunto sino a noi. C'è, è vero, un manoscritto, conservato a Torino (Bibl. - Nazionale I III 17; sfuggito all'incendio del 1904, non è ancora stato sufficientemente studiato), che contiene il testo dell'Inferno in italiano e a fronte una traduzione francese in versi alessandrini riuniti in terzine, che appaiono largamente rimaneggiati e corretti. Il Durrieu, il quale ha studiato le illustrazioni di mano francese che ornano il manoscritto (sei in tutto nei primi 30 fogli, di cui cinque pervenute sino a noi e una andata persa, mentre i fogli lasciati bianchi del resto del manoscritto all'inizio di ogni canto non sono stati illustrati e hanno solo un'inquadratura ornamentale), ne ha fissato la data agli ultimi anni del regno di Francesco I o addirittura a dopo il 1547. Il Camus, che ha studiato il testo, ha potuto stabilire che l'edizione italiana riprodotta fu quella di Venezia del 1491, con il commento del Landino, oppure una posteriore esemplata su quella e con alcune correzioni; egli ha avanzato l'ipotesi che l'autore della traduzione fosse un contemporaneo del Lemaire, un originario del Berry, forse un cortigiano di Margherita di Navarra. Il Farinelli e altri han messo in rilievo la buona qualità complessiva della traduzione, certo migliore di altre fatte in tempi successivi. Allo stato attuale degli studi, tuttavia, non si può dire se ci siano state, in quel periodo di tempo, ben due traduzioni dell'Inferno, quella perduta di Cognac e quella che si trova a Torino, o se la seconda non sia che una copia rimaneggiata della prima. Il problema è irrisolto, e per questo non si può dire se il traduttore anonimo anticipò il Lemaire nell'uso della terzina dantesca, o se fu del Lemaire un successore, magari un suo discepolo. Più o meno allo stesso periodo (e non è un piccolo fatto, nella storia della fortuna francese di D.) risale anche una seconda traduzione, questa volta del Paradiso, in terzine di decasillabi, compiuta da François Bergaigne, segretario dal 1521 al 1524 dei delfini di F., della quale sono giunti sino a noi solo alcuni frammenti, mentre di un importante manoscritto che la conteneva, dedicato a Claudia di Francia (forse ispiratrice della traduzione), si è persa ogni traccia.

Alla corte di Francesco I, nel circolo che si riuniva intorno a Margherita, la presenza di D., anche se secondaria rispetto ad altre e più forti presenze culturali e poetiche, anche se limitata ad alcuni aspetti soltanto dell'opera, era comunque tutt'altro che trascurabile. A Blois, a Fontainebleau, a Parigi, nelle altre dimore del re, nella biblioteca sua e in altre biblioteche principesche, erano ormai abbastanza numerose le copie della Commedia, spesso accompagnate da commento, a volte riccamente illustrate; a Fontainebleau c'era forse già allora il Convivio (quanto al Fiore, non si sa quando il manoscritto trecentesco, che fu nel Settecento di Jean Bonhier a Digione e si trova ora a Montpellier, sia entrato in F.: ma è un altro dato suggestivo questo, che proprio in F. si trovi l'unico testimone di quest'opera che fu forse scritta da D., e che ancor oggi si trovi legata insieme con il Roman de la Rose).

Francesco I ricevette in dono nel 1519 da Iacopo Minuti, milanese trasferitosi in F., un ricco codice contenente l'Inferno e il commento abbastanza raro di Guiniforte Barzizza. Al re francese furono dedicati due poemi d'impianto dantesco, l'uno in terzine volgari del ferrarese Lelio Manfredi e l'altro, il Lugdunense Somnium, in esametri latini dell'abate Zaccaria Ferreri, stampato a Lione nel 1513. Alla presenza del re, in corte, tenevano conversazioni di argomento dantesco letterati italiani e in primo luogo Luigi Alamanni. È difficile dire se Francesco I andò mai oltre una molto superficiale conoscenza della Commedia: probabilmente ne ebbe un'impressione complessiva di oscurità ma ne intuì anche, aiutato dall'atmosfera che lo circondava, l'importanza: l'aneddoto secondo cui il re s'incollerì quando l'Alamanni gli lesse il passo del Purgatorio su Ugo Capeto è poco verosimile e ha tutta l'aria di essere stato inventato, deformando le notizie sulle conversazioni tra il re e l'Alamanni, dai letterati del secondo Cinquecento impegnati nella battaglia contro l'italomania. Riguardo a Francesco I, anzi, c'è addirittura la notizia, data nel 1555 da Arnauld de Ferron nei De Rebus gestis Gallorum libri IX, secondo cui il re avrebbe scritto lui stesso rime d'imitazione petrarchesca e dantesca. Il Dorez, che ha letto attentamente le raccolte manoscritte di versi di Francesco I, Margherita, Luisa di Savoia e altri poeti di corte, ha trovato alcune sicure reminiscenze dantesche, oltre alle numerose del Petrarca, contenute però non nei versi del re, ma in quelli di Margherita e degli altri poeti, o in quelli d'incerta attribuzione.

D. comunque, questo è certo, aveva i suoi cultori alla corte, e fra questi c'era, in primo piano, la sorella del re, Margherita di Navarra. Margherita dimostrò, anzi, un interesse tutto speciale, ed eccezionale, per D., anche se, come risulta da una famosa lettera in versi al fratello del 1534, dal poema d'impronta dantesca Les Prisons e da altre sue opere, l'immagine che la principessa ebbe di D. era un'immagine parziale (basata su una conoscenza diretta solo dei primi canti dell'Inferno e forse degli ultimi del Paradiso), filtrata dalla sua sensibilità incline al romanzesco e dal suo severo moralismo di marca calvinista.

Quanto agli altri poeti del tempo, se i maggiori come Clément Marot ignorarono D. o come Mellin de Saint-Gelais di D. conobbero poco più che il nome, non ne ebbero però nel complesso una totale ignoranza. È interessante, per esempio, la testimonianza di due poeti della stessa cerchia del Marot e del Saint-Gelais, e cioè Victor Brodeau controllore delle finanze di Margherita e Claude Chappuis bibliotecario del re, i quali in due brevi poesie che si scambiarono (e che sono state pubblicate dal Dorez) invitarono i poeti francesi a emulare la gloria del Petrarca, del Boccaccio e di D. (in quest'ordine). E ci fu qualcuno (come François Habert, seguace del Marot e autore nel 1541 di un Livre des visions fantastiques) che non lasciò cadere del tutto l'invito. Certamente molto significativa è la notizia che ci viene da una lettera del 1548 di Bernardino Duretti al duca Cosimo de' Medici: si era negli anni estremi del regno di Francesco I, era ormai morto l'Alamanni, ma nelle accademie di corte, al Louvre e a Fontainebleau, si continuava a leggere pubblicamente D.: " M. Gabriello Cesano à quasi fatto un'accademia toscana in Francia ed ogni giorno legge Dante. Et dice che tutti quelli signori et dame ei si sono dati a gara a chi può meglio intender la lingua ".

Importante è anche che attorno a quel tempo, sia pure in data che non si può bene precisare, fu fatta una traduzione dell'intera Commedia, in metro oscillante fra alessandrini e decasillabi a rima baciata. La traduzione, anonima, è conservata in unico esemplare in un codice della seconda metà del Cinquecento alla biblioteca nazionale di Vienna (Palatino 10201). Più che di una traduzione, si tratta di un adattamento o riduzione (il Paradiso è più corto di due terzi), con molte sviste, una generale banalizzazione, e le altre caratteristiche (infedeltà, piattezza di linguaggio, ecc.) tipiche delle traduzioni libere che si fecero in gran numero in F. nel Cinquecento e contro cui protestarono Du Bellay e Dolet. Resta comunque significativo il fatto che in quel tempo qualcuno sentì il bisogno di tradurre in francese l'intero poema.

L'altro centro nel quale si avverte una notevole presenza di D. nella F. del Cinquecento è la città di Lione, abitata e frequentata da numerosi mercanti italiani, tappa obbligata dei viaggiatori da e per l'Italia, centro tipografico di primaria importanza. A Lione il tipografo piemontese Baldassarre da Gabiano, che nel 1497 si era trasferito in F., pubblicò già nel 1502, seguendo un programma di sfruttamento commerciale in quel paese dei successi editoriali veneziani (i classici, gli umanisti, gli scrittori volgari con in testa il Petrarca), un'edizione della Commedia, contraffatta su quella veneziana di Aldo Manuzio del 1502 (l'anno prima aveva contraffatto il Petrarca di Aldo). L'episodio è importante: sia pur contraffatta, e di qualità inferiore a quella dell'originale, è questa la prima stampa della Commedia in terra di F., una stampa che dovette trovare lettori sia tra gl'Italiani di Lione sia tra il più vasto pubblico francese, poiché Baldassarre ne tirò una ristampa nel 1506. Uno dei lettori francesi di questa edizione dovette probabilmente essere Jean Lemaire De Belges, la cui conoscenza dell'opera di D. fu certamente buona e, ai fini della diffusione di D. nella cultura francese, ancor più importante delle imitazioni sparse nelle opere di Margherita di Navarra. I viaggi frequenti portarono il Lemaire più volte a Lione e, nel 1504, a Torino e poi in altre città d'Italia. La conoscenza che aveva di D., inferiore certo a quella che aveva del Petrarca, del Boccaccio o dei contemporanei petrarchisti, fu tuttavia abbastanza estesa, come risulta dalle reminiscenze, non solo dell'Inferno ma anche delle altre cantiche, che si trovano nelle sue opere; egli inoltre per primo (a meno che non sia stato preceduto dall'anonimo traduttore dell'Inferno torinese) usò, nel 1503, il metro della Commedia (e dei Trionfi) in francese - e il suo esempio fu seguito da Margherita di Navarra; egli infine nell'importante poema Concorde des deux langages (1511), nel quale sosteneva la necessità d'incoraggiare un'armonica convivenza tra italiano e francese, e tra cultura classica e cultura cristiana, esaltò in D. l'iniziatore della tradizione fiorentina poi proseguita dal Petrarca e dal Boccaccio. Un altro sicuro lettore dell'edizione di Baldassarre dovette essere il medico e umanista lionese Symphorien Champier, amico del Lemaire, il quale ritornò sul tema del confronto fra cultura italiana e cultura francese nel Duellum epistolare Galliae et Italiae summatim complectens, scritto sotto forma di uno scambio di lettere fra lo Champier e l'italiano Girolamo da Pavia (un amico di Baldassarre). Lo Champier cita in quest'opera D. come uno dei campioni della poesia italiana: la conoscenza delle sue opere, anche se non direttamente testimoniata, gli si può tranquillamente attribuire.

A Lione troviamo anche, nel 1532, come frequentatore dei circoli umanistici, François Rabelais, il quale vi tornò nel 1534 dopo il viaggio a Roma, vi pubblicò il Gargantua e vi tornò poi altre volte. È un caso singolare, quello di Rabelais. Egli in gioventù fu strettamente legato con un interessante circolo di umanisti raccolto nel Poitou attorno al giurista André Tiraqueu e all'abate di Fontenay-le-Comte Antoine Ardillon e frequentato dal ‛ rhétoriqueur ' Jean Bouchet. Costoro ebbero tutti una qualche conoscenza di Dante. Il Tiraqueu, come appare dal suo trattato De nobilitate et iure primogenitorum, conosceva le idee di D. sulla nobiltà e la ricchezza e giunse anche a citare la canzone dantesca Le dolci rime d'amor (non direttamente dalle opere di D., però, gli venivano queste conoscenze, ma dalle opere degli umanisti italiani che avevano ripreso quelle idee diffondendole in tutta Europa). Il Bouchet nel Tempie de bonne renommée (1517) accenna a " les haulx faictz de Dantes le tétrarque " e nelle Généalogies des roys de France dimostra di aver conosciuto la pagina tanto discussa di D. sui Capetingi. L'Ardillon, infine, in una lettera del 1522 al Bouchet, esce in un'esaltazione vibrata di D., definendolo gloria di Firenze e monumento di poesia. Ma Rabelais, che fu molto vicino a questo circolo di umanisti, non sembra che abbia ripreso questi loro temi. Egli venne poi in contatto con i circoli umanistici di Lione, dove D. era in buona fama, e fu più volte in Italia; tuttavia, benché menzionasse molti altri testi di poeti italiani, nessuna citazione diretta fece mai della Commedia. Dobbiamo dedurne che nulla assolutamente conobbe Rabelais della poesia dantesca? Non è necessario essere così drastici; se non altro egli ricevette indirettamente qualcosa della poesia dantesca attraverso i Trionfi, notissimi a lui come a tutti i letterati francesi del Cinquecento, attraverso le opere del Boccaccio, e soprattutto attraverso due opere a lui particolarmente care: il Sogno di Polifilo del Colonna e la Maccaronea del Folengo.

Lione continuò a funzionare come centro di diffusione dell'opera dantesca per parecchi decenni ancora: alla generazione di Symphorien Champier e del Lemaire successe quella dei poeti della cosiddetta ‛ scuola lionese ': Maurice Scève, Pernette du Guillet, Louise Labé, i quali si valsero dell'opera di altri due stampatori campioni d'italianismo: Jean de Tournes e Guillaume Roville (entrambi, fra l'altro, legati con gli ambienti della Riforma). Riscoperta dei classici, neoplatonismo, petrarchismo, affinamento della dizione poetica: questi gl'ideali della scuola lionese, con in più un gusto particolare per le oscurità esoteriche e le allusioni emblematiche. I due tipografi, che si avvalsero dell'opera di collaboratori italiani (fra cui alcuni riformati in esilio), stamparono e ristamparono, con crescente impegno filologico, anche le opere dei tre grandi trecentisti, in italiano e in traduzione. Nel 1547 la Commedia, accompagnata dal commento del Landino, venne pubblicata (un anno dopo un'altra edizione famosa delle Rime del Petrarca) da Jean de Tournes, con una dedica a Maurice Scève nella quale l'editore giustificava il salto " dal soave e misurato dir di M. Francesco Petrarca... a un poco più erto e adombrato sono de 'l Fiorentin poeta M. Dante Alighieri "; Si diceva grato allo Scève, quasi attribuendo a lui il merito se aveva superato le " difficultade alquante " che tenevano lontano da D. molti lettori francesi e spiegava (con espressioni assai significative, che dicono molto sulle ragioni della difficile penetrazione del poeta fiorentino in F.) di essere stato " dubioso gran tempo se publicar lo dovessi, folto di nebbia tra le fosche selve dell'infernal abisso, sottoposto a calunnia dalli invechiati professor d'esso, postomi innanzi con quel animo che lui d'un in altro cerchio dell'Inferno scende, toltomi a guida il principal suo interprete... chiarito avemo difficultade alquante ".

L'edizione del 1547 fu ristampata, con un medaglione di D., nel 1551 e di nuovo nel 1587. Ma nel frattempo già dal 1549 l'editore rivale Guillaume Roville s'era posto ad allestire, con l'aiuto del letterato fiorentino Luca Antonio Ridolfi, un'altra edizione della Commedia, con le note del Vellutello, il ritratto di D. ricavato dalla xilografia del Marcolini, un disegno con D. e Virgilio all'Inferno: questa edizione comparve nel 1551 e fu subito ristampata nel 1552 e poi di nuovo nel 1571 e nel 1575. Il numero delle ristampe parla da sé: l'interesse per D. era in quel periodo alquanto diffuso. E se è vero che segni espliciti del suo influsso si trovano solo di rado nell'opera poetica dello Scève (il quale fu comunque, per i significati profondi e oscuri della sua poesia, paragonato da contemporanei e posteri a D.) o della Labé (che pure possedeva un D. e si ricordò di Francesca nel Débat de folie e d'amour - ma di Francesca era cenno anche nei Trionfi e già dal 1514 il traduttore francese del poemetto petrarchesco George de la Farge aveva in una nota raccontato la triste storia dei due amanti di Rimini), non bisogna per questo arrivare a conclusioni troppo negative. L'opera di D. penetrava negli ambienti culturali lionesi strettamente collegata con quella degli altri trecentisti o degli autori cinquecenteschi: già nel 1502 per esempio erano stati stampati a Lione i Sermoni di Gabriele da Barletta, cosparsi di citazioni dantesche, che furono poi più volte ristampati e furono letti da Estienne e dal Montaigne; nel 1533 il de Tournes pubblicò le Opere toscane dell'Alamanni; a Lione pubblicò i suoi versi e visse a lungo l'erudito fiorentino Gabriello Simeoni, che scrisse di D.; a Lione infine nel 1566 uscì la versione francese dei Capricci del bottaio del Gelli. La figura più importante, a ogni modo, nella cultura dantesca di Lione, fu quella del già menzionato L.A. Ridolfi. A lui il Roville si rivolgeva, nella prefazione all'edizione del Petrarca del 1550, esprimendogli il desiderio di poter disporre di un testo di D. " corretto, emendato e annotato ". Il testo non venne mai, ma il Ridolfi nel 1557 stampò un Ragionamento havuto in Lione da Claudio de Herberé, gentil'huomo francese et da Alessandro degli Uberti, gentil'huomo fiorentino, sopra la dichiarazione d'alcuni luoghi di Dante, del Petrarca e del Boccaccio non stati insino a qui dagli spositori bene intesi: interessante perché vi sono a lungo discussi i passi della Commedia che ai Francesi potevano riuscire oscuri, ma anche e soprattutto perché vi è affermata l'unione dei tre autori trecenteschi, tutti e tre considerati come facenti parte di un'unica e organica civiltà linguistica. La stessa unione è riaffermata nell'importante dialogo Aretafila (stampato a Lione nel 1562) dello stesso Ridolfi, che attinge agli Asolani del Bembo, al commento del Ficino al Convivio, a Leone Ebreo, ai Trionfi e a tante altre opere della tradizione volgare e umanistica, ma riprende anche molti concetti e riporta passi del " veramente divinissimo poeta Dante ".

Tre traduzioni (sia pure rimaste manoscritte), parecchie stampe del testo italiano, una generale rispettosa (o dubitante) considerazione per il grande e misterioso nome: il bilancio della presenza dantesca in F. a metà Cinquecento non è poi così deficitario. Nel secolo e mezzo che segue essa va progressivamente facendosi sempre più fioca.

Con la pubblicazione, nel 1549, della Défense et illustration de la langue française del Du Bellay e con il formarsi della scuola poetica della ‛ Pléiade ', avviene un deciso cambiamento: la figura di D. si allontana sullo sfondo, lasciando in primo piano, come superiori e quasi unici modelli della nuova poesia e del nuovo gusto, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Bembo, Castiglione e non pochi petrarchisti minori. E tuttavia, in via diretta o indiretta, per averne letto negli autori italiani o per averne sentito parlare (oppure, come sembra essere stato il caso di Montaigne, per averne trovato qualche verso citato da altri autori), il nome di D. e qualche raro frammento della sua poesia restano ancora presenti alla coscienza dei letterati francesi. Neppure i legislatori della nuova poesia ignorarono del tutto D.: da Jacques Peletier, che nell'avviso anteposto alla libera traduzione dell'Art poëtique di Orazio (1544) accenna a D., ponendolo sullo stesso gradino del Sannazaro, mentre su un gradino più alto pone Petrarca e Boccaccio; a Thomas Sebillet, che accenna a D. di passaggio nella sua Art poëtique (1548). Quanto ai poeti, gli stessi Joachim Du Bellay e Pierre Ronsard non ne ignorarono del tutto il nome e la poesia; mentre un poeta non di primo piano ma neppure oscuro come Guillaume Des Autelz, legato in gioventù alla scuola lionese e ammiratore della poesia di Lemaire de Belges, dimostrò di possedere una certa conoscenza del poeta fiorentino. Egli con il poemetto Eloge de la guerre (1559), dedicato a Etienne Jodelle e pubblicato in appendice alla Remostrance au peuple François, compose un ‛ pastiche ' in chiave leggermente burlesca e a scopo di allusione politica, utilizzando la descrizione dantesca della traversata di Acheronte, di quella dello Stige e dell'entrata nella città di Dite. Nell'altro suo poema, imitato dal Gargantua di Rabelais, Fanfreluche et Gaudichon, mythistoire barragouyne, pose, alla guida di un gruppo di scrittori italiani da lui collocati sul Parnaso: " Dante, Petrarque, Bocace, Arioste, Bembe, Aretin, Franco et une infinité de semblables ".

L'opera di D., del resto, continuava a essere presente in numerose biblioteche e in altre approdava proprio in questo periodo: Caterina de' Medici possedeva due copie della Commedia, una veneziana e una lionese del Rouville; Margherita, sorella di Enrico II e poi sposa di Emanuele Filiberto di Savoia, possedeva un'edizione veneziana con note del Landino e del Vellutello; al volgere del secolo nella grande collezione dello storico Jacques-Auguste de Thou si trovavano due copie della Commedia, una delle Rime, una della Monarchia (Basilea 1559) e una della Vita Nuova con la Vita del Boccaccio (Firenze 1576).

Ma l'avvenimento di gran lunga più significativo, nella storia della fortuna cinquecentesca di D., è l'edizione del De vulgari Eloquentia, prima edizione a stampa del trattato, procurata a Parigi nel 1577 da Iacopo Corbinelli.

Questo letterato italiano operò non poco, al pari di Bartolomeo del Bene, nel diffondere la cultura italiana presso la corte di Enrico III, al quale leggeva Petrarca, Machiavelli e altri autori. Buon conoscitore delle opere maggiori e minori di D., egli pubblicò l'inedito trattato dantesco dedicandolo al re di F. e accompagnandolo con una lettera a monsignor Pierre Forget, un capitolo in lode di D. del Saviozzo, le note sue e inoltre un carme latino di Jean Dorat e uno francese di Antoine de Baïf (cioè di due dei massimi esponenti della ‛ Pléiade '). Come risulta sia dal nome degli autori chiamati a onorare l'edizione sia dai concetti contenuti nella dedica del Corbinelli, scopo dell'edizione era quello d'inserire quest'opera di D. nelle discussioni allora vivissime sulla preferenza da assegnare alla lingua volgare rispetto a quella latina, secondo quanto era stato proclamato sin dal 1549 nel manifesto della ‛ Pléiade '. Il Corbinelli cercava, di fronte alle nuove polemiche, di riaffermare quello che era stato, sin dai tempi del Lemaire, il principio fondamentale della cultura italianizzante di F., quello cioè, per usare le parole di una sua lettera, della " sororità o fratellanza delle due lingue cioè franzese e italiana ". Ma i tempi erano cambiati e già si era venuta manifestando una reazione decisa contro l'italianismo culturale dominante nella corte medicea e dei figli di Caterina. Forse proprio come conseguenza della pubblicazione del trattato dantesco, il nome di D. divenne per qualche tempo, fra i letterati francesi, un " signum contradictionis " nelle discussioni sulla lingua. Henri Estienne, fondatore della filologia francese, calvinista, primo grande sostenitore non più dell'eguaglianza ma della superiorità del francese sull'italiano (Deux dialogues du nouveau langage françois italianizé, 1578; Project du livre intitulé de la Precellence du langage françois, 1579) diede un primo forte avvio a queste polemiche, senza tuttavia recare in campo, se non di passaggio, il nome di D., poiché probabilmente non conobbe direttamente il De vulgari Eloquentia nell'edizione del Corbinelli. Etienne Pasquier, amico dell'Estienne, che sostenne a sua volta il primato della F. (Recherches de la France, 1560-1621), anch'egli probabilmente conobbe il De vulgari Eloquentia solo indirettamente, e tuttavia portò contro D. un attacco assai duro, certo determinante nell'influenzare la fortuna francese del poeta fiorentino. Egli sostenne, sulla base di tesi che circolavano ormai in molti libri del tempo, che D. e Petrarca avevano rubato la loro arte ai provenzali; riprese quindi quel che già aveva detto il Bouchet e additò alla pubblica esecrazione francese il passo di D. sui re capetingi, aggiungendo l'aneddoto (che fu dopo di allora continuamente ripetuto) sulla collera di Francesco I quando l'Alamanni gli lesse la pagina incriminata di D.; definì D. " poete italien fort ignorant ", respingendone così l'opera nei secoli bui, il più lontano possibile dalla nuova e raffinata arte del Rinascimento. Più attentamente lesse invece il De vulgari Eloquentia un terzo umanista francese del tempo, Claude Fauchet, il quale nel Recueil de: Antiquités Gauloises et Françaises (1581), dedicato a Enrico III, si sforzò (riprendendo il discorso già iniziato da Jean de Nostradame nelle Vite de' più celebri e antichi poeti provenzali, stampate a Lione nel 1574) di rivalutare l'antica poesia provenzale; mentre però il Nostradame non conosceva il trattato dantesco, il Fauchet si valse anche di esso per dimostrare la precedenza cronologica della poesia provenzale su quella italiana.

Signum contradictionis D. fu anche negli anni delle guerre di religione. La sua opera, considerata non come un libro di poesia, ma come fonte storica di denuncia delle malefatte dei papi, venne utilizzata dagli ugonotti e dai gallicani nelle polemiche contro i cattolici e il Papato. Nel 1586 comparve, con la falsa indicazione di Monaco ma stampato in Olanda, un pamphlet anonimo, scritto in realtà da François Perrot (un letterato ugonotto che aveva studiato in Italia, conosciuto l'Aretino, tradotto in ottave italiane la Psiche di Apuleio e i Salmi di David e, già nel 1550, scrivendo al cugino Nicolas de Thou, aveva mostrato di conoscere l'opera di D.), intitolato: Aviso piacevole dato alla Bella Italia da un nobile giovane Francese sopra la mentita data del serenissimo Re di Navarra a Papa Sisto V. Scopo del trattato era di denunciare la scomunica lanciata dal papa contro Enrico di Borbone; ma interessante, per la fortuna di D., è l'appendice, intitolata Il naturale et vivo Ritratto del papa et di tutta la corte ecclesiastica papesca, cavato dall'antichità, come si ritrova ne gli scritti di D., del Petrarca e del Boccaccio che sono i tre principali lumi della lingua volgare italiana. Qui il Perrot, ponendosi sulla scia di altri polemisti protestanti tedeschi e inglesi, utilizza gli attacchi contro i papi della Commedia e della Monarchia. Nello stesso anno, con metodo analogo, dall'ambiente gallicano usciva il trattato De Episcopis urbis di Papire Masson, anche lui buon conoscitore delle cose italiane e di D. (parlò del poeta fiorentino negli Annali del 1577 e in altre opere e inserì, nelle Vitae trium Hetruriae procerum, Danti, Petrarchae, Boccacci [1587], una vita di D. assai accurata e precisa, riassuntiva delle conoscenze del tempo). Da due campi diversi veniva un attacco simile, e non mancavano i collegamenti: Perrot era parente di Masson, entrambi frequentavano la cerchia del de Thou, nella quale gli eruditi gallicani e calvinisti convivevano in uno spirito di tolleranza (in questa cerchia trovò amici Paolo Sarpi). Nel De Episcopis non venivano citati passi della Monarchia (della cui esistenza Papire aveva solo notizie indirette), ma ne comparivano molti della Commedia.

I cattolici, preoccupati di vedere D. trascinato in queste controversie, risposero prontamente. Il De Episcopis fu duramente condannato da Roma (a Parigi, alla Biblioteca Nazionale, c'è un manoscritto con la Censura Caesaris Baronii in libros de episcopis Urbis). Il cardinale gesuita Roberto Bellarmino aggiunse al suo trattato De Controversiis christianae fidei, composto nel 1592 e pubblicato nel 1623, un'appendice intitolata: Appendix ad libros de Summo Pontefice quae continet responsionem ad librum quendam anonymum cujus titulus est Aviso piacevole dato alla bella Italia. Egli, dopo aver espresso il suo stupore nel vedere gli eretici ricorrere per i loro argomenti alle opere dei poeti anziché dei teologi, rintuzzava poi punto per punto le accuse contro i papi che il Perrot aveva riferito, attribuendole a D., e precisava circostanze storiche e interpretazioni filologiche dei singoli passi danteschi. Altri polemisti religiosi ripresero successivamente il tema. Philippe Duplessis-Mornay, amico del Perrot e grande rivale del Bellarmino e del Baronio, tornò a citare D. nell'opera sua contro i papi, Le Mystère d'iniquité, c'est à dire l'histoire de la papauté (1611), dedicata a Giacomo I d'Inghilterra, e ricordò la condanna pronunciata da D. della donazione di Costantino. Al Duplessis-Mornay rispose nel 1614 Nicolas Coeffeteau, con la Response au livre intitulé le mystère d'iniquité, il quale precisò, come già aveva fatto il Bellarmino, che D. non aveva condannato tutti i papi, ma solo alcuni fra essi; che D., inoltre, era un poeta e non un uomo politico o un teologo, e che in quanto ghibellino non ci si poteva aspettare da lui un giudizio equo sui papi di Roma. André Rivet, infine, nelle Remarques et considérations sur la response de F. Nicolas Coeffeteau... au livre de Messire Philippe de Mornay (1617) accusò il Coeffeteau di aver preso a prestito i suoi argomenti dal Bellarmino e definì D., con esattezza, come uno " qui voioit l'anti-Christ en un siège respecté par lui, mais duquel il déplorait la profanation, enfin l'homme de péché qu'il détestoit, au temple de Dieu qu'il révéroit ".

Quanto ai poeti del tempo, è inutile cercare tracce dantesche nei grandi poeti protestanti Du Bartas e D'Aubigné, che pure sono stati da taluno, per la severità e altezza del loro linguaggio, definiti danteschi. Tracce invece non mancano tra i poeti cattolici. Il gusto che si venne affermando per la poesia di argomento religioso o moraleggiante, incoraggiò un certo ritorno d'interesse a Dante. Un episodio non privo d'importanza e a suo modo esemplare è rappresentato per esempio dalla traduzione compiuta da Guy Le Févre de la Boderie del canto XXXIII del Paradiso, pubblicata tra gli Hymnes ecclesiastiques (1578). Il Févre era un erudito, studioso della Bibbia e delle letterature occidentali, nemico del Duplessis-Mornay e, come poeta, seguace della ‛ Pléiade ' e legato a Baïf Già nella Galliade (1572) egli aveva parlato di D.; negli Hymnes ecclesiastiques (forse esemplati nel titolo sugli Hymni novi ecclesiastici di Zaccaria Ferreri, l'autore del Lugdunense somnium) inserì, fra altre versioni francesi di canti antichi, i versi di D. alla Vergine, rendendoli in non spregevoli terzine (metro che, dopo il Lemaire, altri della ‛ Pléiade ' avevano usato).

Al nuovo gusto per la poesia religiosa va riportata anche la pubblicazione, che altrimenti non si riuscirebbe a spiegare, della prima traduzione completa della Commedia in francese, avvenuta nel 1596. L'autore di questa, che restò a lungo l'unica traduzione completa disponibile in F. (si dice che Luigi XVIII poco prima della sua esecuzione mandasse a chiedere il Paradiso in questa edizione - ma la notizia, data da Artaud de Montor, non è confermata), fu Balthasar Grangier, canonico di Nôtre-Dame ed elemosiniere del re. Di questa traduzione si ha una stampa del 1596 e una del 1597, che porta sul frontespizio il ritratto di D. e quello di Enrico IV. Nell'epistola dedicatoria il Grangier mette le mani avanti e cerca di giustificare D. di fronte alle accuse di essere stato nemico della casa di F., spiegando i suoi attacchi con il fiero carattere e i costumi del tempo: il Grangier osserva che in realtà D. " ne couche aux enfers aucun des Roys de France voz predecesseurs, que pour vray dire il n'espargne parfois non plus que tous les autres "; quanto al beccaio, sostiene che si deve intendere l'espressione in senso metaforico. Infine contrappone l'opera del " gran Poete " e " philosophe profond " e il suo stile denso e conciso alla " Poesie delicate, mignarde, coualante et bien aysée, comme est celle quasi de tous noz Poetes François ". Quello del Grangier, in realtà, era un travestimento della Commedia in stanze francesi di sei alessandrini (secondo lo schema ababcc), un adattamento (" mise en rymes françoises " dice il frontespizio).

Ma D., nonostante la traduzione del Grangier, nell'età nuova del grande classicismo e della riforma letteraria di Malherbe, si ritirava anche sempre più dalla scena, tutta occupata dai poeti del gran secolo, e andava a rintanarsi nelle biblioteche o fra le pagine degli eruditi. " Dante - scrive il Sainte-Beuve - était demeuré une pure érudition, et n'occupalt plus que Bayle ". Prima del Bayle, tuttavia, anche altri storici, biografi ed eruditi si occuparono di D., chi più saltuariamente, chi più a lungo, chi leggendo la traduzione del Grangier, chi incontrando il suo nome in altre opere di erudizione, come la Vita di Papire Masson o la Difesa di D. del Mazzoni. Basterà fare i nomi del dotto provenzale Claude Fabri de Peiresc, dei poligrafi Gabriel Nandi e Guy Patin, del critico Jean Chapelain, del biografo Guillaurne Colletet, degli storici Louis Moréri (Le grand dictionnaire historique oue le mélange curioeux de l'histoire sacrée et prophane, 1674), Isaac Bullart (Académie des sciences et des arts, 1682) e Adrien Baillet (Jugements des savants, 1686). Particolare importanza, anche perché la sua opera fu molto diffusa in Europa, ebbe il giudizio del padre gesuita René Rapin, gran difensore della ragione e delle regole, oltre che dell'ortodossia cattolica: egli, alle sue Réflexions sur la Poétique d'Aristote (1674), consegna questo giudizio, che vuol essere canonico (e che fu fatto proprio dalle molto influenti scuole gesuite di F. e d'Europa): " Arioste a trop de feu, Dante n'en a pas assez... Les pensées de Dante sont si profondes, qu'il y a de l'art à les pénétrer. La Poésie demande un air plus uni et moins incompréhensible... Le Poème de Dante, que les Italiens de ce tems là appellèrent une Comédie, passe pour un Poème épique au sentiment de Castelveltro; mais il est d'une ordonnance triste et morne, et généralement parlant, Dante a l'air trop vaste, Bocace trop trivial et familier, pour mériter le nome de Poètes héroiques, qouy qu'ils aient écrit purement dans leur langue, sur tout Pétrarque et Boccace ".

Eppure il deserto non era poi così completo; bisogna tener conto dei casi isolati, degli eccentrici scarti dall'atmosfera uniforme del secolo dominato dal classicismo e dall'erudizione dei gesuiti. Buon conoscitore di D. era, ad esempio, in un ambiente periferico come la Provenza, César de Nostradamus, lo storico della sua terra, che in molti passi della Histoire et Chronique de Provence (1614) cita e traduce passi dell'" admirable Dante ", definito " le haut, le profond et impénétrable Dante " e spesso esaltato. Conosceva D., nelle sue opere maggiori e minori, anche Gilles Ménage, precettore della marchesa di Sévigné, frequentatore dei salotti della Scudéry, che era in relazione con molti dotti d'Italia, fra cui il Magliabechi e il Cittadini. E sarà forse da collegare con le conversazioni, tra amabili e pedantesche, tenute in qualcuno dei salotti del tempo, l'episodio, comunque curioso, della nuova traduzione, fatta in prosa questa volta, e in una prosa pomposa e ornamentata, quasi si trattasse di uno dei romanzi del tempo, dell'Inferno. La traduzione, rimasta manoscritta e conservata in unica copia a Tolosa, mai uscita a quanto pare dalle biblioteche della piccola nobiltà di Linguadoca, preceduta da una Vie de D. (ch'era tradotta da quella anteposta a un'edizione veneziana del 1529), era opera di un dilettante, Philippe Le Hardi, marchese de la Trousse, parente della marchesa di Sévigné, morto nel 1691 dopo una bella carriera militare. Prendeva così inizio una tradizione, che fu tutta francese: quella degli amatori dilettanteschi ed eccentrici (spesso, per una curiosa coincidenza, legati agli ambienti militari - e sarà da pensare a un amore per la letteratura italiana nato durante le molte campagne al di qua delle Alpi) dell'opera di Dante. Più ancora che eccentrico, toccato da una vena di follia, era un altro personaggio che si occupò di D. all'inizio del Settecento: il padre gesuita Jean Hardouin. Costui, che aveva sostenuto la tesi che l'Eneide era stata scritta da monaci benedettini del Duecento, e che la Chiesa non aveva avuto concili prima di quello di Trento, con altrettanto gusto del paradosso e attaccamento all'‛ esprit de système ', sostenne, in un articolo intitolato Doutes proposés sur l'âge de D. (uscito nelle " Mémoires pour l'histoire des sciences et des beauxarts ", Trévoux, agosto 1727, ristampato nel 1792 nelle " Mémoires d'une société célèbre " di Grobier e di nuovo a Parigi nel 1847, a c. e con note del geologo inglese Charles Lyell, amante di cose paradossali e bizzarre, buon amico anche del Rossetti), che in realtà la Commedia era stata scritta nel 1412 da un eretico partigiano di Wycliff.

All'inizio del nuovo secolo Pierre Bayle, nell'articolo Dante, raccoglie e discute i fatti noti e leggendari della biografia di D., le principali sue idee in materia di politica e di religione, l'essenza delle controversie a favore o contro il poeta intercorse fra i riformatori e i gesuiti.

Ma l'opera poetica di D. continua a essere ignota ai più, o nota solo in alcune zone appartate della cultura. Un caso singolare è quello di Jacques Ignace de Latouche-Loisy, un ‛ attardato ' dal punto di vista della storia del gusto e della cultura, un poeta ‛ cristiano ' d'ispirazione fondamentalmente secentesca, che compone nel 1744 una parafrasi in prosa di tre canzoni del Convivio (pubblicate in calce alle Consolations chrétiennes), dimostrando che persino le opere minori di D. potevano trovare qualche isolato lettore. Gradualmente però la situazione cambia: nel secolo dei viaggiatori e dei traduttori, dello scambio e confronto fra le culture dei vari paesi di Europa, anche l'opera di D. entra lentamente nelle discussioni fra i letterati, viene letta, di nuovo tradotta e commentata. Charles de Brosses, che ha viaggiato in Italia fra il 1737 e il 1740 e ha scritto più tardi le Lettres familières écrites d'Italie (1745-55, anche se pubblicate solo nel 1836), rappresenta assai bene l'atteggiamento medio di un francese colto del Settecento nei riguardi di Dante.

Lo stesso giudizio del Voltaire, grande arbitro del gusto settecentesco, è spesso a due facce, di rifiuto e d'interesse assieme; esso inoltre si modifica nel tempo, intrecciandosi con le polemiche attorno a D. agitate in Italia, in Francia e in Inghilterra. Eppure, pur fra le molte riserve e i sarcasmi mescolati alle condiscendenti aperture, i giudizi del Voltaire, per il fatto stesso di essere stati più volte ripetuti e di aver suscitato tutta una serie di reazioni polemiche, hanno avuto una loro funzione nel riportare i circoli letterari francesi a interessarsi al poeta fiorentino.

Al tempo in cui Voltaire scriveva l'Essai sur les moeurs già circolavano ín F., del resto, almeno tre copie manoscritte di una traduzione in prosa di tutta la Commedia, compiuta nel 1751 dal duca e maresciallo di campo Paul Edouard Colbert d'Estouteville, nipote del grande Colbert, autore anche, con Fréron, di un adattamento in prosa dell'Adone del Marino (1748). Si trattava, nel caso del d'Estouteville, ancora di una personalità eccentrica, isolata rispetto ai circoli letterari dominanti, che si poneva pazientemente alle prese con il grande e difficile poema, faceva del proprio lavoro quasi un esercizio di lingua francese, riusciva, per mezzo di smussature, tagli, e anche fraintendimenti, a trasportare l'opera di D., debitamente francesizzata e ‛ cristianizzata ', dentro il grande filone della prosa religiosa d'oltralpe. Non conobbe tuttavia questa traduzione Voltaire, mentre invece la conobbe il Montesquieu, il quale fu costretto (come ricorda in una lettera del 1749 all'abate Guasco) ad ascoltare, con sua noia, una lettura di brani fatta dal d'Estouteville. Resta il fatto che il d'Estouteville ottenne, con raro scrupolo, attraverso il Montesquieu, che l'abate Guasco rivedesse la traduzione. La fatica del d'Estouteville, in ogni caso, non ebbe grande fortuna e diffusione; rimasta infatti a lungo manoscritta, venne riesumata nel 1796 da Marie-François Sallior (altro nome legato, in quanto ispettore a Saint-Cyr, agli ambienti militari), il quale ne curò un'edizione, con ampi rimaneggiamenti, e con aggiunta la Vita di D. del Bullart e un'analisi del poema del Prévost d'Exmes, uscita a Parigi. Tale edizione ebbe ben poca fortuna: incappata negli avvenimenti della Rivoluzione, superata ormai da altre traduzioni più adatte al nuovo gusto neoclassico, essa fu mandata quasi totalmente al macero.

Il Voltaire, come non conosceva la traduzione del d'Estouteville, neppure conosceva, probabilmente, i giudizi su D. sparsi qua e là nelle opere degli eruditi settecenteschi minori, come quello, abbastanza favorevole, dell'abate Claude-Pierre Goujet nella Bibliothèque françoise (1744). Conosceva invece sicuramente i giudizi espressi nella conversazione e quelli espressi nelle opere a stampa (Reflexions sur la poésie, 1747; Discours sur le Poème épique, 1755) da Louis Racine, un critico per certi aspetti a lui vicino, per altri lontano. Accanto a critiche molto severe mosse a D. in nome dell'ortodossia religiosa, ci sono nelle opere di Racine giudizi tutt'altro che benevoli per D. mossi in nome del buon gusto: D., diversamente da Milton, non aveva senso della proprietà e della misura, l'opera sua non era né epica né eroica ma " en sujiet très sérieux, font comique "; gl'Italiani che lo esaltavano e lo chiamavano divino si lasciavano traviare dal troppo rispetto per le glorie locali.

L'occasione per tornare a occuparsi di D. fu rappresentata probabilmente dagli attacchi mossi a Voltaire da alcuni letterati italiani che si trovavano a Londra e che da Londra tentarono di opporsi ai suoi dettami di gusto. Nel 1753 a Londra uscì A Dissertation upon the Italian Poetry, in which are interspersed some Remarks on Mr. Voltaire's Essay on the Epic Poetry, di Giuseppe Baretti, che rimproverava a Voltaire anche i suoi giudizi sul poeta. L'anno prima sulle " Nouvelles littéraires de France et d'Angleterre ", pubblicate a Parigi dal ginevrino Pierre Clément, era uscito un articolo anonimo nel quale si affrontava il ‛ problema ' Dante. L'autore alludeva agl'insegnamenti londinesi di un altro italiano, maestro di lingua e commentatore dei nostri classici a Londra, Vincenzio Martinelli, il quale " paraît avoir fait une étude particulière de ce Poète; il ne parle avec moins de préjugé que bien d'autres, et avec une sorte de goût, mais toujours en compatriote, et en faible critique ".

Nel 1756 il Voltaire scrisse l'articolo Sur le Dante, uscito dapprima nei Mélanges de littérature et de philosophie e più tardi rifuso nel Dictionnaire philosophique (1764): la condanna di D. in nome del buon gusto era ormai molto recisa: la Commedia, diceva Voltaire, è oscura, è mostruosa, è un " salmigondis "; la gente ne parla ma non la legge. Il Voltaire si provò a fornire una traduzione, " cette petite traduction très-libre ", in ottave, dell'episodio di Guido da Montefeltro. Il rifacimento in stile ormai apertamente volteriano (sul tipo della Pucelle) suscitò in molti reazioni scandalizzate e fu giudicato dallo Schlegel e da altri una vera e propria parodia; altri invece non vi sentirono l'irriverenza e ci fu chi, come Chabanon, asserì (nel 1773) che il poema " ainsi traduit, auroit plus des lecteurs qu'il n'eri trouve aujourd'hui ". In ogni caso l'articolo di Voltaire fu l'occasione di nuove polemiche. Da Londra Vincenzio Martinelli gli rispose con due lettere su D. indirizzate al conte di Oxford, incluse nelle Lettere familiari e critiche (1758), nelle quali dimostrava quanto poco in realtà Voltaire conoscesse D. e bollava la " stupida traduzione in uno stile pulcinellesco ". Alle lettere di Martinelli risposero subito, in F., due lunghi articoli delle " Mémoires de Trévoux " (luglio e dicembre 1758), nei quali era difeso il giudizio di Voltaire e si osservava che anche in Italia parecchi critici " bien loin de reconnaître le Dante pour poète épique, se sont expliqués sur lui, à peu près comme l'Auteur Français ". L'allusione era alla Lettere Virgiliane del Bettinelli, pubblicate nel 1757 e presto note e tradotte anche in Francia. Con la pubblicazione delle Virgiliane, infatti, la disputa pro e contro D. era divenuta una battaglia critica combattuta in Italia, in Inghilterra e in F., e nella quale anche Voltaire veniva direttamente o indirettamente chiamato in causa. Egli, però, non si lasciò coinvolgere troppo a fondo: ricevette il Bettinelli alle Délices e s'intrattenne con lui, poi il 18 dicembre 1759 gli scrisse una lettera amabile per dirgli il suo compiacimento per l'attacco a D., ma anche per ripetergli il suo giudizio, ancora una volta sarcastico e indulgente a un tempo.

Diversa la reazione di Voltaire, quando la sfida venne portata direttamente a Parigi: nel 1768 il libraio Marcel Prault, per il quale del resto Voltaire nutriva grande stima, pubblicò un'edizione della Commedia in italiano: era un avvenimento, dopo tanto silenzio. L'opera usciva in una collezione di classici italiani, accompagnata da un vocabolario portatile per agevolare la lettura degli autori italiani e in ispecie di D.; c'era una Vita di D. dell'abate Marini e c'erano le due lettere su D. del Martinelli (più tardi, un'altra edizione settecentesca si avrà nel 1787 a Parigi presso l'editore Jacob, preceduta dalla Vita di D. del Dolce). Questa volta Voltaire rispose con uno scatto iroso: " Pour le polisson nommé Marini, qui vient de faire imprimer le Dante à Paris... Ce pauvre homme a beau dire, le Dante pourra entrer dans les bibliothèques des curieux, mais il ne sera jamais lu. On me vole toujours un tome de l'Arioste, on ne m'a jamais volé un Dante. Je vous prie de donner au diable il signor Marini et tout son enfer " (parole aggiunte nel 1776 ristampando la lettera del 1759 al Bettinelli). Ma il vero bersaglio dello scatto di Voltaire era più che D. il povero Martinelli (qui confuso con il Marini). Lo dimostrano le Lettres chinoises (1776), nelle quali veniva attaccato di nuovo e duramente il Martinelli e veniva ripetuto, con i noti sarcasmi ma anche e di nuovo con le note eccezioni e indulgenze, il giudizio volteriano su Dante.

Ormai, negli ultimi suoi scritti, quando Voltaire parlava di D. non si rivolgeva più a un pubblico che di quell'autore non conosceva nulla, neppure il nome. Il risveglio d'interesse era avviato. Se due editori giunsero a pubblicare la Commedia in italiano, sapevano evidentemente che c'era un pubblico per quest'opera. Copie del poema si trovavano nelle biblioteche di molti letterati o personaggi del Settecento, fra cui, per esempio, Madame de Pompadour. Alcuni passi erano divenuti proverbiali: Voltaire stesso aveva parlato di una ventina " de traits qu'on sait par coeur ". Il verso forse più noto era il lasciate ogne speranza, voi ch'intrate, che si trova citato molte volte, per esempio nel Mariage de Figaro del Beaumarchais. Diderot, in Jacques le Fataliste, mette in bocca a un personaggio la citazione del v. 124 del c. X del Purgatorio e gli fa dire di averlo letto " dans un poète italien appelé Dante ", autore di un poema in cui si trovano " de belles choses, sourtout dans son enfer ". L'episodio più noto e celebrato era quello di Ugolino, che ebbe una sua speciale e autonoma ‛ fortuna ' in tutto il Settecento. La storia di Ugolino venne tradotta in latino da Charles Lebeau, professore di eloquenza all'università di Parigi, amico del cardinale di Polignac, in un testo che venne pubblicato nel 1782, ma che era già noto prima e fu lodato da Louis Racine; ma già una traduzione in prosa francese era uscita nel " Journal étranger " (1755); seguì una traduzione in elegante prosa settecentesca di Claude-Henri Watelet, l'artista letterato amico degli Enciclopedisti (ed essa ottenne gli elogi del Marmontel nella Poétique française, 1767). Jean-Frangois Ducis, il noto traduttore di Shakespeare, quando allestì nel 1772 un adattamento di Roméo et Juliette, ebbe l'idea d'interpolare alla storia shakesperiana quella dantesca (dando così l'avvio a un'altra tradizione, quella dell'accoppiamento D.-Shakespeare, che divenne quasi un luogo comune in tutto l'Ottocento) e attribuì la storia di Ugolino al personaggio del vecchio Montaigu; il dramma ebbe una certa fortuna e il pezzo recitato da Brizard strappò le lacrime a molti spettatori, fra cui Mademoiselle de Lespinasse: D. rientrava così, indirettamente, nella storia della poesia creativa. Sulla scia del Ducis, nel 1778 Julien de Vinezac, un poeta minore, inserì nella sua raccolta Pièces fugitives un' ‛ héroîde ' intitolata Montaigu à l'archevèque Roger son Tyran, nella quale era ripetuto, in stile ‛ larmoyante ', il racconto di Ugolino. Un'altra traduzione in poesia dell'episodio fu fatta nel 1774, e fu molto lodata, da Jean-Jacques-Basilien Gassendi, ufficiale di artiglieria; e altre se ne fecero, sino a quelle del Lesbroussart (1801) e del Talairat de Brionde (1811).

L'impegno maggiore, nel tradurre e far conoscere l'opera di D., finirono per mettercelo, sorprendentemente, proprio alcuni personaggi appartenenti quasi tutti alla cerchia del Voltaire. Nel 1773 Michel-Paul de Chabanon, amico del Voltaire e del Marmontel, convinto, volterianamente, dei " grands défauts " della Commedia, ma convinto anche che quei difetti fossero compensati da alcuni " beaux morceaux de poésie ", scrisse una Vie de D., avec une notice détaillé de ses ouvrages, nella quale diede una buona analisi dell'Inferno, illustrando il suo discorso con la traduzione di tre dei " beaux morceaux ", quelli ormai canonici dell'entrata all'Inferno e degli episodi di Francesca e Ugolino.

All'infuori dell'influenza del gusto volteriano era invece Moutonnet de Clairfons, professore di greco, discepolo e amico di Rousseau, il quale tradusse nel 1776 l'Inferno in prosa. Anche il suo gusto, naturalmente, era classicistico e la sua traduzione si presenta anch'essa come una trasposizione in buona lingua settecentesca, nobile e classicamente atteggiata. Ma il suo atteggiamento verso D., espresso anche nella Vie de D. Alighieri premessa alla traduzione, dimostra un'attenzione per il suo soggetto, un'adesione alle qualità poetiche del poema, del tutto rare nel Settecento. Alcuni dei suoi giudizi, non solo sull'Inferno, ma anche sul Purgatorio e sul Paradiso, rivelano una chiara intelligenza dell'opera dantesca e anticipano quelli dell'Ottocento. Ma se la fatica di Moutonnet ebbe buona accoglienza presso alcuni giornali, essa si attirò anche un attacco molto duro (e tale forse da scoraggiare l'autore dal proseguire la sua fatica) da parte del volteriano Jean-François de La Harpe, il quale nel ‛ pamphlet ' Sur une traduction de la D.C. du Dante par M. Moutonnet (1776), e più tardi anche nel Cours de littérature, ripeté, quasi alla lettera, i giudizi più crudi di Voltaire e (segno questo che il fenomeno di penetrazione nel gusto era ormai avviato) attaccò duramente gli ammiratori francesi di D., definendoli ciechi e incapaci di accorgersi della mostruosità di quell'opera, che doveva considerarsi ormai sorpassata " dans les siècles du génie et du goût ".

Nel frattempo, però, un altro volteriano, François Rivarol, spintovi da una sfida lanciatagli dallo stesso Voltaire, si accinse a una nuova traduzione in prosa dell'Inferno, che ebbe grande importanza nello stabilire definitivamente l'immagine di D. in F. negli anni compresi fra la Rivoluzione e l'Impero e anche oltre (sia Chateaubriand che Hugo, per esempio, lessero l'Inferno nella traduzione del Rivarol). Conosciuta già parzialmente nel 1780, stampata nel 1783 e ristampata nel 1785 e nel 1788 (questa volta, curiosamente, nella " Bibliothèque des romans ") e ancora altre volte, la traduzione del Rivarol era un tentativo riuscito di rifacimento dell'Inferno in linguaggio elegante e " poli ", in stile sostenuto e neoclassico, depurato da rozzezze e debitamente filtrato. Quella che il Rivarol consegnava alla F. dell'Ottocento era un'immagine di D. resa ormai canonica: poeta esclusivamente dell'Inferno e soprattutto di Francesca e di Ugolino; poeta del malinconico e del terribile; poeta cristiano; poeta dal forte linguaggio. I legami con la sensibilità del tempo si erano nel frattempo fatti profondi: i lettori che tanto amavano il romanzo nero erano portati dal loro stesso gusto ad ammirare l'Inferno; i lettori educati alla letteratura ‛ larmoyante ' erano profondamente turbati (sino alle lagrime, come confessava Moutonnet) dai tristi casi di Ugolino. Restavano vive, sul piano del gusto, le riserve di Voltaire (enunciate ancora, per esempio, nella Vie de D. scritta nel 1787 dal Prévost d'Exmes), e restarono vive a lungo, per tutta l'epoca neoclassica, influendo sulle reazioni di uno Chateaubriand, per esempio, e anche, in un primo momento almeno, su quelle di Madame de Staël.

Durante la Rivoluzione e l'Impero alcune forze importanti si misero in moto in favore di Dante. Tre erano i centri principali d'irradiazione della fortuna dantesca. Un primo centro si trovava a Parigi, nell'ambiente dei letterati neoclassici e degli ‛ ideologues ', promotori dell'insegnamento superiore libero, impegnati a proclamare i diritti intellettuali delle nazioni e a cercare nella letteratura di ogni popolo i suoi titoli di gloria. Era un loro esponente Pierre Louis Ginguené il quale, tornato da Torino dov'era stato inviato nel 1797 dal direttorio, cominciò nel 1801 a Parigi le sue lezioni all'Athénée e all'Institut, per poi ricavarne più tardi i volumi dell'Histoire littéraire d'Italie. Egli, pur continuando ad avanzare le tipiche riserve neoclassiche per la ‛ bizzarria ' di D., ne esaminò diligentemente la vita e le opere, ne esaltò il carattere e gli elevò un solido monumento. Dalle lezioni del Ginguené prese avvio la tradizione degli studi accademici su D., continuata poi in F. per tutto l'Otto e Novecento.

Alla stessa atmosfera di celebrazione ‛ monumentale ', di ammirazione per alcune parti soltanto dell'opera di D. (i toni " sombre " e " terrible " dell'Inferno, gli episodi di Francesca e di Ugolino) si possono ricondurre altri scrittori e letterati dell'epoca del primo Impero: Jacques Delille, per esempio, poeta ufficiale del tempo, traduttore dell'Eneide, che nell'Imagination (1806) celebrò D. come poeta dallo stile " d'une affreuse beauté ", creatore del fosco Ugolino; o Joseph Alphonse Esménard, che ripeté gli stessi concetti nel poema La Navigation (1805) e nel commento all'Imagination dell'amico Delille, riportando la storia di Ugolino al clima delle lotte tra guelfi e ghibellini in un'Italia tutta di maniera; o Charles-Juliene de Chênedollé, un amico di Chateaubriand e Madame De Staël, che celebrò D. nell'ode-monumento Le Dante (1813); o Népomucène Lemercier, neoclassico attardato, che proseguì la tradizione del Ginguené, tenendo un corso all'Athénée nel 1815-16 (Cours analytique de littérature générale, Parigi 1817), in cui con grande pedanteria cercò di stabilire in quale misura la Commedia si conformasse alle regole dell'epica classica, e ne tentò anche, nel lungo poema Panhypocrisiade (1819), un'imitazione sarcastica e allegorica.

Il secondo centro d'irradiazione della fama di D. era la Svizzera. Già nel 1786 uno svizzero di Basilea, insegnante presso il collegio francese di Berlino, Johann Bernhard Merian, aveva pubblicato un saggio intitolato Comment les sciences influent dans la poésie, nel quale parlava a lungo di D., polemizzava con i giudizi del Voltaire, esaltava il genio e l'originalità del poeta italiano. Il saggio del Merian ebbe larga diffusione europea, fu lodato dal Tiraboschi, tradotto dal Polidori e premesso all'edizione della Commedia stampata a Londra nel 1808-09. Un altro svizzero, Louis Bridel, del cantone di Vaud, teologo e amatore di letteratura, pubblicò nel 1805 a Basilea una lunga Lettre à Carion de Nizas sur la manière de traduire Dante. Il Bridel si apparenta più che con gli studiosi e i poeti imitatori di D., con gli amatori dilettanti, e la sua Lettre non ebbe grande diffusione. Il contenuto però è interessante. Carion de Nizas aveva pubblicato nel " Moniteur universel " del 1805 una traduzione libera e in stile galante e rococò, complessivamente mediocre, dell'episodio di Francesca. Il Bridel fece alcune osservazioni: " Il me semble, qu'un poète aussi célèbre que Dante, devoit être plus connu en France. Il ne le sera que lorsqu'on l'aura traduit au moins passablement et en vers ". Per tradurre D., aggiungeva, " il faut une touche fière et terrible, un pinceau sombre, hardi, vigoureaux "; forse avrebbero dovuto provarcisi, aggiungeva, Delille in versi o Chateaubriand in prosa; lui ci si era provato e aveva già terminato l'Inferno, di cui dava come esempio l'episodio di Francesca: aveva adottato l'alessandrino, perché il decasillabo è adatto al genere " badin et léger "; riconosceva (e questo era un lontano ricordo dei tentativi di Voltaire) che " il y a certains endroits de Dante... qui paroissent ne pouvoir être traduits que dans le styl de la Pucelle "; ma per il resto " le vers Alexandrin est le seul qui par sa plénitude et par sa gravité puisse rendre celle de l'original ".

L'ambiente di maggior diffusione della fama di D. in Svizzera era quello raccolto attorno a Ginevra e a Coppet, la villa della Staël. Madame De Staël, è vero, nelle prime sue opere dimostra di conoscere assai poco della letteratura italiana e di D.; ma poi la sua conoscenza si arricchì. Tra i frequentatori della villa di Coppet c'erano due buoni conoscitori di D.: Wilhelm Schlegel e Sismonde de Sismondi. Dopo il viaggio in Italia insieme con il Sismondi nel 1804-05 e la visita al Monti, la Staël si mise a leggere D. e consegnò ad alcune pagine del popolarissimo Corinne (1807) un'immagine del grande poeta destinata a imprimersi fortemente nelle menti di tutti i lettori dell'epoca romantica: " Le Dante, l'Homère des temps modernes, poète sacré de nos mystères religieux, héros de la pensée, plongea son génie dans le Styx, pour aborder à l'enfer; et son âme fut profonde comme les abîmes qu'il a décrits ". Era un D. nuovo quello che usciva dalle pagine della Staël (anche se gli episodi citati erano ancora una volta quelli di Francesca e di Ugolino): un D. guerriero, ricollocato sullo sfondo di un'Italia rivissuta nella storia fiera e appassionata delle antiche repubbliche; un D. mistico e pieno di luce, le cui magiche parole " sont le prisme de l'universe "; un D. che con la vita dell'esilio aveva precorso il destino di tanti esiliati dell'Ottocento. Madame De Staël stessa si sentiva in questo vicina a D. ed ebbe inizio con lei la lunga serie degli esiliati politici che in D. s'identificavano come in un archetipico progenitore.

Accanto alla Staël, il Sismondi, il quale nell'Histoire des Republiques italiennes du moyen âge (Zurigo 1807 ss.; Parigi 1809 ss.), nelle lezioni tenute a Ginevra nel 1811 e anche nella Littérature du midi de l'Europe (1813) fece largo spazio all'esposizione dell'opera di D., definendola immensa e sublime e rimarcandone l'ispirazione religiosa. Nel libro del 1813 egli diede anche una traduzione in terzine dell'episodio di Ugolino. Era un avvenimento: la terzina, usata dal Lemaire e da Margherita di Navarra e poi saltuariamente dai poeti della ‛ Pléiade ', era scomparsa del tutto dalla poesia francese: ricomparve qui per la prima volta, per suggestione dell'esempio dantesco, così come poi all'esempio dantesco dovette la sua nuova, anche se non estesa, fortuna nell'Ottocento, in poeti come Gautier e i parnassiani.

Un terzo centro d'irradiazione della fama di D. era l'Italia: a Milano, dove il Monti lesse alla Staël gli episodi di Francesca e Ugolino e dove più tardi il Manzoni intrattenne a lungo il Fauriel su D.; ma soprattutto a Roma e Firenze, dove i viaggiatori francesi trovarono lo stimolo (nel paesaggio, nei ricordi storici, nelle opere d'arte) a risalire alla poesia di D. e dove ebbero modo, presso letterati italiani o stranieri residenti in Italia, di soddisfare almeno in parte la loro curiosità sull'opera del fiorentino. Nei primi decenni del secolo la figura più caratteristica fu quella del francese residente in Italia Artaud de Montor. Uomo di sentimenti cattolici e conservatori, di gusti fondamentalmente neoclassici e ‛ primo Impero ', Artaud venne a contatto, durante i suoi soggiorni come diplomatico a Roma (1801-03, 1814-30) e a Firenze (1804-07) con ambienti di artisti e storici dell'arte che, come Seroux d'Agincourt, senza rinnegare l'arte neoclassica, stavano riscoprendo i pittori toscani del Medioevo e sulla scia di essi anche la storia dell'Italia medievale e i suoi poeti. Artaud nel 1803 passeggiò fra le rovine antiche e nella campagna romana insieme con Chateaubriand; a Firenze poi, nel 1803, cominciò, con l'aiuto di letterati locali, la traduzione completa in francese della Commedia, che pubblicò, cominciando significativamente dal Paradiso, a Parigi fra il 1811 e il 1813. La sua traduzione, che si sforzava di essere fedele ed era corredata da molte note esplicative, fu ristampata nel 1829-30 e numerose altre volte, e fu un notevole strumento di diffusione dell'opera di D. in Francia. Per un certo tempo Artaud fu il ‛ dantologo ' più noto; i letterati francesi in Italia, come Chateaubriand, Delécluze, Ampère e Lamartine, attinsero spesso a lui notizie su D.; pittori come Ingres gli fecero dono (nel 1816) di un disegno di Paolo e Francesca o, come altri, gli prepararono le illustrazioni per la sua traduzione. Egli, anche dopo il rientro in Francia (1830) continuò a occuparsi di D. e scrisse un libro, Histoire de D.A. (1841), nel quale fra l'altro confutava le tesi del Rossetti. Certo, Artaud era anche lui un dilettante, un amatore, e per di più non era dotato di capacità creative. Ne era dotato invece lo Chateaubriand, il quale, benché conoscesse purtroppo D. assai meno di Artaud, e anzi continuasse a nutrire verso la Commedia i tipici pregiudizi neoclassici, influenzò grandemente con le sue opere la sensibilità e il gusto del tempo, orientandoli indirettamente verso un migliore apprezzamento della Commedia. La sua rivalutazione del meraviglioso cristiano, la sua predilezione per i valori plastici, per i toni drammatici e per i paesaggi sentimentali erano tutti elementi che potevano facilitare la penetrazione dell'opera di D. nella nuova letteratura. Egli, che ancora nel Génie du Christianisme (1802) ripeté i soliti giudizi sull'Inferno, citando i passi canonici di Francesca e di Ugolino nella traduzione del Rivarol, sentì poi il bisogno, nell'Essai sur la littérature anglaise (1836) e in Mémoires d'Outre tombe (postume), di mettersi in sintonia, nel parlare di D., con l'ormai prevalente sensibilità romantica.

La prima generazione romantica sentì spontaneamente e profondamente il fascino della figura di D. e della sua poesia. Senza quasi mai conoscere a fondo ed estesamente l'opera dantesca, limitandosi a leggere faticosamente nell'originale o più diffusamente in traduzione ancora quasi soltanto l'Inferno e i suoi più noti episodi, i lettori francesi di D. di questo periodo (che furono molti) cercarono nella Commedia il pittoresco storico medievale, l'orribile e il meraviglioso, lo spirito cristiano; ammirarono in D. la capacità di pensare per immagini, di dar rilievo vigoroso, michelangiolesco, alle figure, di unire insieme, senza timore, il sublime il grottesco e il quotidiano; sentirono una forte rispondenza per il suo senso così spiccato dell'individualità e della drammaticità, per il suo appassionato ed esasperato amor di patria. Ammirarono la sua figura così ‛ sombre ', di uomo che porta dentro l'anima i rancori terreni e le aspirazioni infinite, e l'immensità del mistero, di poeta circondato dall'aura del mago e del profeta. Sentirono quasi una segreta identificazione con lui e con il suo destino. Nel 1833, al famoso ballo in costume presso Alexandre Dumas, il pittore Delacroix si presentò vestito da D., con un mantello rosso fiorentino (come l'aveva egli stesso raffigurato nella Barque de D., esposta al Salon del 1822). Il profilo etrusco di D. veniva ritrovato nel profilo dei suoi ammiratori, in quello di Artaud, per esempio, o di Emile Deschamps, di Chopin, di Liszt. Nel 1836 Liszt suonava all'improvviso sull'organo del duomo di Friburgo per George Sand ed ella annotava: " L'inspiration du musicien faisait planer tout l'enfer et tout le purgatoire de Dante sous les voûtes étroites... jamais le profil florentin de Franz ne s'était dessiné plus pur dans une nuée plus sombre de terreurs mystiques et de religieuse tristesse ".

Li affascinava la concezione dantesca dell'amore: Beatrice, bella e perfetta, purificatrice delle più torbide passioni, divenne l'ideale stesso della donna romantica. Nel 1823 Etienne-Jean Delécluze già guardava alla Beatrice di D. con lo sguardo nuovo di chi aveva scoperto l'arte preraffaellita: " Dans les peintures de Cimabue et de Giotto, la Vierge a encore un caractère de gravité et de grandeur terrible, une apparence de force qui se rattache aux idées que les anciens avaient sur la beauté; plus tard, on donna à ce personnage divin une expression de douceur, une majesté charitable, une grâce et une candeur dont la Beatrice du Dante me paraît être le type ". Li attirava l'immagine della foresta oscura e della città infernale, e il tema romanzesco del viaggio e dell'esilio. Molti ripeterono il concetto, che già era stato anticipato da Bodmer e Moutonnet de Clairfons e che Wilhelm Schlegel aveva elaborato e popolarizzato: che la Commedia fosse, nelle sue tre sublimi navate, come una cattedrale gotica. Quelli che viaggiarono in Italia ritrovarono le tracce della figura di D. e delle parti del suo Inferno nel cratere del Vesuvio, nel cimitero di Pisa, nell'arsenale di Venezia, nella pineta di Ravenna. J.-J. Ampère e Madame Récamier, nelle varie tappe del loro viaggio in Italia nel 1823-27, leggevano la Commedia. Antoine Claude Pasquin, noto sotto lo pseudonimo di Valéry, bibliotecario del palazzo reale a Versailles, compilò una guida per i viaggiatori francesi in Italia, nella quale era scritto: " Le voyage d'Italie est nécessaire à la parfaite connaissance du Dante; il faut, pour le comprendre, avoir contemplé, soit les beautés de la nature qu'il a décrites, soit les ouvrages de l'art qu'il a inspirés; les vieilles peintures de Giotto, d'Orgagna, de Luca Signorelli, le grandiose de Michel-Ange, en sont l'explication la plus éloquente et la plus vraie " (Voyages historiques, littéraires et artistiques en Italie, Parigi 1838 - ma la prima edizione era del 1831-33 - II, 393). Il Voyage dantesque (1839) di Ampère altro non fu che l'attuazione di quanto aveva proposto il Valéry, del cui libro, del resto, si valsero molti degli autori di diari o memorie di viaggio in Italia, primo fra tutti lo Chateaubriand.

Dall'ambiente dei pittori vennero, forse, i più forti stimoli alla riscoperta dei temi danteschi. Gli artisti che soggiornavano a Roma, gli storici dell'arte che studiavano in Italia l'arte di Michelangelo e, più indietro, quella dei pittori medievali, dimostrarono tutti un precoce interesse per l'opera dantesca. Da Antoine Gros, che nel 1804 dipinse un Ugolino e un Otello, oggi perduti, ma già molto indicativi di un gusto, a Ingres che dipinse a Roma nel 1819 la Francesca (ma già nel 1816 aveva fatto un disegno preparatorio, che aveva donato ad Artaud), ai molti altri, Scheffer, Flandrin, Corot, sino a Rodin, che dipinsero o scolpirono soggetti danteschi, ai tanti che prepararono illustrazioni della Commedia, principale fra tutti, in F., il Doré: l'attenzione fu continua, significativa. Importante fu anche, attraverso i libri di storia dell'arte, l'apporto di Rio, studioso dell'arte cristiana (autore anche di un libro su La poésie chrétienne dans son principe, dans sa matière et dans ses formes) e, più indietro nel tempo, quello di Seroux d'Agincourt, la cui Histoire de l'art par les monuments, depuis sa décadence au IVe siècle, jusqu'à son renouvellement au XVIe (1823), parlava anche di D. e conteneva miniature e disegni tratti da due antichissimi manoscritti della Commedia. Ma, fra gli artisti, quegli che nella F. romantica più si sentì vicino a D. fu Eugène Delacroix, il quale lesse e si fece leggere la Commedia, ne parlò spesso nel suo Journal e dipinse quadri e affreschi di soggetto dantesco, fra cui importante, per l'interesse enorme suscitato in occasione della sua presentazione al Salon del 1822 e per le discussioni che ne nacquero (le quali concentrarono l'attenzione di tutto il mondo culturale parigino sull'opera dantesca), la Barque de Dante.

Ma non bisogna trascurare, fra gli ambienti che favorirono il diffondersi della conoscenza di D., quello dei molti Italiani, in gran parte esuli politici, presenti a Parigi in quel periodo di tempo. Molti di essi attesero a commenti ed edizioni della Commedia, ne fecero pubbliche letture e ne diedero private lezioni, ne parlarono sulle riviste patriottiche. Dal Biagioli, che la studiò assiduamente fra il 1808 e il 1818 e pubblicò nel 1818-19 la nota edizione dedicata a Luigi XVIII, che ebbe numerose ristampe in F. e in Italia (e fu recensita da un altro esule italiano, il Salfi, nella " Revue Encyclopédique " del 1819 e da François Raynouard, con un importante articolo, nel " Journal des savants " del 1828); al Bottura, che pubblicò la Commedia a Parigi nel 1820 (molte volte ristampata, anche in agili volumetti, adatti per i viaggiatori); a Giovanni-M.L. Casella, del quale Artaud de Montor fece grandi elogi nell'Histoire de D.A., chiedendo che gli fosse data a Parigi una cattedra di filologia dantesca, e che forse è l'autore di una traduzione in prosa italiana, siglata G.C. e uscita a Parigi nel 1830 e di nuovo nel 1838; ad Angelo Frignani, autore di una Vie de D. (1832), uscita sull'" Esule "; a M.L. Maggiolo, cui si deve la pubblicazione di Trois chants choisis de la Divine Comédie, con introduzione e note e una traduzione interlineare del III canto dell'Inferno (Lunéville 1833); a Luigi Cicconi, improvvisatore, che pubblicò la prima delle sue promesse lezioni sulla Commedia, intitolata Le panthéisme poètique de D. (Parigi 1836); all'avvocato G. Zacheroni, che corredò d'introduzione e note la pubblicazione dell'Inferno con il commento di Guiniforte Barzizza (Marsiglia 1838-39); a Pier Angelo Fiorentino, infine, autore di una fortunatissima traduzione francese di tutta la Commedia (1840). Efficaci luoghi di diffusione della conoscenza e dell'entusiasmo per D., trasmessi dagli esuli italiani a Parigi, furono i salotti, come quello famoso della principessa Belgioioso, frequentato da Musset, Hugo, Dumas e altri; o gli ambienti dei carbonari; o i giornali e le riviste fra cui l'" Esule " (1832-34), fondato da G. Cannonieri, A. Frignani e F. Pescantini, che pubblicò vari articoli su D. ed ebbe fra gli abbonati Sismondi, Chateaubriand, Artaud de Montor, Delécluze, Lamartine; il " Journal de la Langue et de la Littérature Italienne " (1827) di M. Giacobbi-Marini e G. Leccia e " Le Mercure Italien " (1827-28) del solo Marini, che pubblicò articoli appassionati su D. dello stesso Marini; le riviste della Belgioioso " La Gazzetta italiana " e l'" Ausonia ", e altre ancora.

Ma il canale più importante, per la diffusione dell'opera di D. in questo periodo, fu quello delle traduzioni, che furono numerose e ormai quasi tutte in versi (con una forte preferenza, di gusto romantico, per la prima cantica). Una traduzione dell'Inferno in alessandrini, certamente troppo musicali e dolci se confrontati con i forti e plastici endecasillabi dell'originale, fu fatta nel 1817 dal poeta provenzale Henri Terrasson, e pubblicata con un corredo di note esplicative e notizie storiche e biografiche su Dante. Alfred de Vigny venne per la prima volta a contatto con l'Inferno proprio nella traduzione del Terrasson (echi danteschi si trovano nelle sue opere, a partire dal Jugement dernier del 1819). Nel 1820 Joseph-Victor Le Clerc pubblicò, nel " Lycée français ", una nuova traduzione in versi dei soliti canti di Francesca e Ugolino. Nel 1823 Brait Delamathe pubblicò una Traduction nouvelle en vers de l'Enfer de D., d'après le nouveau commentaire de Biagioli, avec le texte en regard; la traduzione era in alessandrini, corredata di note e accompagnata da un discorso su D. basato in gran parte sulle pagine del Sismondi e del Ginguené. Nel 1824, a Londra, un insegnante inglese di francese, J.C. Tarver, pubblicò una traduzione in prosa dell'Inferno con testo italiano a fronte e ricco corredo di note.

Nel 1827, dal cenacolo romantico raccolto attorno ai fratelli Emile e Antoine Deschamps (a cui facevano capo, in vario modo, Nodier, Soumet, Vigny, Hugo, Musset, Sainte-Beuve, Dumas, Brizeaux, Barbier e altri ancora) uscì l'importante traduzione di venti canti della Commedia compiuta da Antoine Deschamps. In questo cenacolo (che fu in stretto contatto con i circoli degli esuli italiani a Parigi) si aveva dell'Italia una visione diversa da quella che avevano Chateaubriand e Lamartine, entrambi in fondo tepidi ammiratori dell'opera dantesca (benché Lamartine tornasse più volte, nel corso della sua carriera, a parlare di D.), e attratti piuttosto dagli effetti estetici della decadenza che vedevano incarnati nel paesaggio italiano. L'Italia che veniva invece amata e idealizzata nel circolo dei Deschamps era piuttosto simile a quella ammirata e descritta da Stendhal, l'Italia della musica di Cimarosa e Rossini, della poesia di D., Tasso e Pellico, un'Italia piena di vita ardente e avventurosa, dai forti contrasti, culla di una religiosità primitiva e medievale e di un patriottismo fortemente vissuto. Il fratello di Antoine Deschamps, Emile, grande propagatore delle letterature straniere, ammiratore fervido anch'egli della poesia italiana, teorizzò in Etudes françaises et étrangères (1836) l'importanza delle traduzioni: " En vérité, jusqu'à ce qu'il se présente un génie inventeur, les traducteurs doivent avoir la préférence. Les continuateurs français nous donnent tout juste, en moindre qualité, ce que nous avions, depuis longtemps, en immortels chefs-d'-oeuvre. Au moins les traducteurs nous donneront-ils ce que nous n'avions pas encore ". La traduzione dantesca di A. Deschamps, pubblicata nel 1829, fu accolta con entusiasmo dai romantici francesi; Vigny si adoperò per trovarle un editore, dicendola " destinée au plus brillant et au plus juste succès à mon avis ". La scelta dei canti, estesa a tutto il poema sia pur con preponderanza dell'Inferno, è già essa indicativa di un gusto; oltre ai canti che spiegano la struttura dell'aldilà dantesco, ci sono i pezzi più significativi: la porta dell'Inferno, Francesca, Ugolino, i canti sulle punizioni più orribili, i canti politici, i canti sublimi del Paradiso. La traduzione, in alessandrini dolci e solenni a un tempo, è molto libera; ma i versi sono belli e, pur trasformando profondamente la poesia di D., sono forniti di una notevole forza di suggestione.

La traduzione di A. Deschamps era tempestiva: tutti gli scrittori dell'età romantica si trovavano in quegli anni continuamente di fronte il nome di D. e la sua immagine. Stendhal, che pur non ebbe una conoscenza profonda della Commedia (benché affermasse di conoscerla a memoria), ebbe più volte occasione di parlare di D., e ricordò gli episodi più noti del poema (Francesca, Ugolino, Pia dei Tolomei), formulò anche il proposito di tradurre un canto (quello di Ugolino), ma nel complesso ripeté giudizi noti, avanzò paragoni ormai diffusi (D. e Michelangelo) o avventati (D. e Grossi). Victor Hugo, che anche non ebbe una conoscenza profonda della Commedia, fu spesso sfiorato dalla poesia di D., ne sentì istintivamente alcuni aspetti e nella prefazione famosa del Cromwell (1827) fece il nome di D. accanto a quelli di Milton e di Shakespeare, come massimi ispiratori del nuovo dramma romantico. Auguste Barbier prese a prestito le fiere invettive poetiche di D. per le sue squillanti odi sulla rivoluzione di luglio, imitò D. in vari sonetti e tradusse il quinto canto dell'Inferno. Alfred de Musset, il poeta che espresse forse più di ogni altro le emozioni così mutevoli e nitide dell'anima francese, ebbe per D. un'ammirazione non profonda ma viva e raccontò con parole commoventi, tutte intrise di romantica passione, le impressioni provate leggendo il canto di Francesca. Alexandre Dumas pubblicò tra l'altro, nella " Revue des Deux Mondes " del 1836, un articolo intitolato Guelfs et Gibelins, corredandolo con una sua traduzione del primo canto dell'Inferno (ma aveva avuto l'intenzione di tradurre tutta la Commedia). E non mancarono, neppure in questo periodo, gli adattamenti teatrali dell'episodio di Francesca (o i riecheggiamenti del dramma ormai famoso del Pellico): una Françoise de Rimini in cinque atti scrisse nel 1827 Constant Berrier, funzionario al ministero dell'Istruzione, e un'altra, pure in cinque atti e in versi, la scrisse nel 1830 Gustave Drouineau, uno degli scrittori romantici minori.

Ma l'episodio centrale di questo periodo, l'avvenimento che diede al dantismo francese la possibilità di consolidarsi attorno a una conoscenza più precisa e storicamente fondata dell'opera di D., furono le lezioni su D. tenute alla Sorbona da Abel-François Villemain e il corso sullo stesso argomento tenuto da Claude Fauriel. Il Villemain, dedicando a D. nel 1830 tre eloquenti lezioni del suo frequentatissimo Cours, seppe riunire insieme molte informazioni (tratte soprattutto da Tiraboschi, Sismondi e Ginguené), infuse nel suo ritratto di D. una vitalità molto intensa, fu tra i primi a collocare la figura del poeta fiorentino al centro della storia di tutte le letterature medievali d'Europa. Il Fauriel, spirito più minuzioso e non dotato per le grandi sintesi, portò nelle lezioni del 1833-34 (più tardi solo parzialmente e inesattamente raccolte da J. Mohl nei volumi postumi D. et les origines de la langue et de la lettérature italiennes) i risultati dei lunghi studi da lui fatti sull'opera tutta di D., in vista di un libro messo in cantiere nel 1810 e mai scritto. Con il Fauriel le concezioni dei grandi critici romantici (gli Schlegel, la Staël) sulla poesia in generale e su quella medievale in particolare, le idee su D. del Vico (trasmessegli dal Manzoni), le molte informazioni raccolte presso il Biagioli a Parigi o presso il Manzoni e il Monti o gli altri studiosi italiani in Italia, trovarono una prima sistemazione. Gli uditori del suo corso (c'erano, tra gli altri, Ozanam, Ampère, Sainte-Beuve, Renan) ricevettero per la prima volta un'immagine di D. collocata sullo sfondo dell'ambiente storico: l'opera spiegata con l'uomo, l'uomo con le circostanze.

8. Un nuovo elemento venne a inserirsi nella storia del dantismo francese a partire dagli anni '30: il crescente interesse per il messaggio e la struttura filosofico-teologica della Commedia da parte degli ambienti cattolici e l'intrecciarsi delle discussioni attorno all'ortodossia di D., in seguito alla pubblicazione dei libri di G. Rossetti, le cui tesi ebbero ripercussioni anche in Francia.

Motivi di natura religiose (oltre che ideologica e politica) erano già, naturalmente, presenti nell'interesse per D. di uno Chateaubriand e di un Artaud de Montor, e a una definizione della Commedia come poema eminentemente cristiano erano giunti anche i non-cattolici come Ginguené, Sismondi e Fauriel. Qualche traccia della poesia di D. (il verso 25 di If XIII, le lodi alla Vergine) era nel trattato Du Pape (1819) del savoiardo Joseph De Maistre, che aveva però scarsi interessi per la poesia e conduceva la sua polemica teocratica sul terreno giuridico-politico. Ma il vero interesse venne da un ben diverso ambiente, quello riunito attorno a F.R. de Lamennais, Ch. de Montalambert e Henri Lacordaire i quali, negli ultimi anni della Restaurazione, riunirono un'élite di giovani (c'era anche Veuillot e in visita venivano Liszt, Sainte-Beuve e Rio) e con la rivista " L'Avenir ", fondata nel 1830 e sospesa nel 1831 per intervento dei vescovi francesi, diedero avvio a un movimento di rinnovamento del cattolicesimo francese e di conciliazione fra cattolicesimo e democrazia liberale. Fra questi giovani, che s'incontravano alla Chesnaie, si nutrì per D. una devozione tutta particolare. Il maggiore conoscitore era il Montalambert, che aveva seguito i corsi del Villemain in Sorbona e aveva imparato a risolvere i problemi d'interpretazione storica che poneva il poema; egli, nella lettura comune, aiutava gli amici. Nel 1832, dopo la condanna dell'" Avenir ", i membri del circolo si recarono a Roma per chiedere l'intercessione del papa. A Roma, partito il Lacordaire, restarono Montalambert, Lamennais, Rio e l'amico di Rio, Albert de la Ferronays. D. era l'autore preferito, del quale facevano quotidiana lettura. Rio ha lasciato il ricordo di un viaggio compiuto a piedi fra Roma e Napoli da lui e Montalambert: durante il cammino ciascuno portava una copia della Commedia e alternatamente recitavano le terzine del poema " comme font les moines quand ils récitent leur bréviaire "; la sera, quando scese il crepuscolo, mentre suonava l'angelus, parve appropriato recitare il canto VIII del Purgatorio. Nel 1833, dopo la sentenza negativa di Roma, mentre il Lamennais scivolava pian piano verso la rivolta, il Montalambert riprendeva il lavoro a Parigi, cercando consolazione nello studio dell'arte e della storia dei secoli della cristianità medievale. Nel salotto del Montalambert, mentre in Sorbona il Fauriel teneva il suo corso (al quale era presente anche il giovane Ozanam), si facevano letture di D. (alle quali interveniva, appunto, anche l'Ozanam). Di D., del resto, il Montalambert continuò a mantenersi un fedele lettore anche negli anni che seguirono.

Dall'ambiente riunito intorno al Montalambert venne così il contributo più importante dato dalla cultura francese agli studi danteschi nella prima metà dell'Ottocento: il libro D. et la philosophie catholique au treizième siècle (1839) di Frédéric Ozanam, da lui preparato come tesi di laurea. L'anno successivo l'Ozanam fu chiamato a succedere in Sorbona al Fauriel, che gli era stato maestro. Fornito di un'erudizione solida e scrupolosa, di un entusiasmo religioso genuino e di un'eloquenza appassionata, l'Ozanam portò avanti nei libri (oltre a quello citato, l'Essai sur la philosophie de D., che l'aveva preceduto nel 1838, e Les poètes franciscains en Italie au treizième siècle, che lo seguì nel 1852), nei corsi su D., nella traduzione pubblicata postuma del Purgatorio (Le Purgatoire, traduction et commentaire avec texte en regard, 1862), un programma di riabilitazione non più solo letteraria ma anche filosofica, politica e sociale del Medioevo e di esaltazione della Commedia come espressione trionfante e splendente della filosofia medievale. Il D. che viene fuori dalla prosa limpida di Ozanam non è più il poeta ingenuo e primitivo, il genio isolato, ma è immerso nella storia della cultura del suo tempo; è un filosofo, un teologo, un uomo di scienza e l'autore di un'originale dottrina politica. Quel che premeva a Ozanam era di dimostrare, davanti alla cultura contemporanea, la vitalità del pensiero di D.: " Dante peut donc étre compté parmi les plus remarquables précurseurs du rationalisme moderne, pour avoir le premier donné aux sciences philosophiques une direction morale, politique, universelle ". I cattolici, sosteneva Ozanam (ed era la prima volta che questo veniva detto così chiaramente in F.) dovevano essere orgogliosi del loro più grande poeta.

Erano chiaramente presenti, negli studi danteschi dell'Ozanam, oltre che le ripercussioni delle lotte politiche del tempo, anche gli echi delle discussioni intorno alle tesi su D. di Gabriele Rossetti. Il Fauriel era stato forse il primo a conoscere in F. l'interpretazione rivoluzionaria (e, come si sa, scarsamente fondata) che il Rossetti, sviluppando alcune intuizioni del Foscolo, aveva dato della Commedia (nel commento al poema, che incominciò a uscire nel 1826, nel libro Sullo spirito antipapale che produsse la Riforma, pubblicato nel 1832, ecc.). D. veniva presentato come l'esponente di una misteriosa setta votata alla distruzione della Chiesa di Roma, e la Commedia come un poema allegorico pieno di messaggi segreti. Il Fauriel nelle lezioni del 1833 non aveva pronunciato (almeno a quanto risulta dal corso stampato postumo) il nome del Rossetti, ma aveva alluso sicuramente a lui parlando di chi " s'évertue à faire de la Comédie un logogriphe monstreux, l'oeuvre d'un hérétique en délire ". Aveva parlato invece apertamente del libro del Rossetti nel 1834 E.-J. Delécluze, con unarticolo sulla " Revue des Deux Mondes ": D. était-il hérétique? Le tesi del Rossetti venivano dal Delécluze apertamente respinte. (Egli tornò più tardi sul tema, nella prefazione e nel commento alla traduzione della Vita Nuova, nel 1841, e, nel 1848, con maggiore simpatia per le tesi del Rossetti, nel libro D. et la poésie amoureuse). Aveva respinto le tesi del Rossetti, con un articolo pubblicato nel 1836 sulla stessa " Revue des Deux Mondes ", anche Wilhelm Schlegel. E prese posizione decisa contro il Rossetti, nel 1841, anche Artaud de Montor, nella sua Histoire de D. Alighieri. Ma ormai la cultura francese aveva operato, sulle tesi del Rossetti, una decisa riduzione: parlandone spesso (almeno così sembra) di seconda mano, aveva spostato il significato della discussione da una definizione del carattere allegorico (ed esoterico) del linguaggio della Commedia a una definizione dell'esatto grado dell'ortodossia di Dante. La confutazione più decisa, comunque, alle tesi del Rossetti, anche perché ampiamente documentata, venne nel 1839 dal libro citato dell'Ozanam, il quale cortesemente ma fermamente respinse " le nouveau système proposé par Ugo Foscolo et soutenu par Rossetti non sans un vaste déploiement de science et d'imagination ".

Durante gli anni '40 e '50 nel dibattito sull'ortodossia di D. s'inserirono in modo crescente gli echi del momento politico e sociale. Già le, tesi del Rossetti, così come le preoccupazioni dell'Ozanam, erano fortemente condizionate dalle idee politiche e dalle posizioni personali dei loro autori; ora i riferimenti politici si fecero ancora più stringenti e appassionanti. La figura che meglio impersona la nuova temperie è quella di Edgar Quinet. Di lui (che aveva studiato la letteratura e la storia italiana, e di D. aveva discusso già nelle cronache di viaggio Allemagne et Italie, del 1839) si era parlato nel 1840 per la successione al Fauriel, poi assunta dall'Ozanam; nel 1841 invece fu chiamato a tenere la cattedra di lingue e letterature meridionali al Collège de France. Si profilò così una contrapposizione: da una parte la Sorbona, dove l'Ozanam sosteneva l'apologetica cristiana; dall'altra il Collège dove il Michelet per la storia francese e il Quinet per la storia e letteratura italiana (e, fra gli altri, anche l'Ampère) sostenevano la polemica anticlericale e, fra attacchi, interruzioni e contrasti, portavano avanti un eloquente apostolato progressista e laico. Il corso tenuto dal Quinet nel 1842-43 fu riunito più tardi, nel fatidico '48, in un libro che godette di grande fortuna, Les Révolutions d'Italie. D. aveva, nel grande affresco, un posto centrale, come austera figura del poeta-martire e del poeta-esule, come simbolo del tragico destino dell'Italia. Qualche eco delle tesi del Rossetti (che venivano però nella sostanza respinte) era anche nel libro del Quinet, che era comunque importante, perché respingeva la troppo accomodante concezione di un D. da un lato perfettamente ortodosso e dall'altro avverso soltanto agli abusi della Chiesa di Roma.

La polemica attorno alle tesi del Rossetti, comunque, anche se in forme non clamorose, continuava. Gli esuli italiani a Parigi ‛ rossetteggiavano ' non poco. Nel 1847 Philarète Chasles (che dal 1841 teneva corsi al Collège de France), pubblicando in un suo volume di Études sur les premiers temps du christianisme et sur le moyen âge un saggio su D.A. et les platoniciens d'Italie, utilizzò le tesi del Rossetti, frammezzo però a molte confusioni e inesattezze. Sull'altro versante dello schieramento, l'Ozanam, mentre continuava una serrata polemica contro le tesi del Rossetti e una decisa difesa della perfetta ortodossia di D., rese assai più esplicite le sue motivazioni ideologiche e politiche. Egli, che era incline a vedere nelle teorie di D. un esempio ispiratore incoraggiante per il programma suo e dei suoi amici di conciliazione fra cristianesimo e democrazia (o socialismo), e si proponeva di presentare D. come il padre spirituale della nuova religiosità cattolica, dopo gli avvenimenti del 1848 giunse a dire, in una delle sue lezioni in Sorbona, che la massima di D., in campo politico, avrebbe potuto benissimo essere " liberté, égalité, fraternité ". Il Lamennais, invece, ormai deluso dai fallimenti dei tentativi di rinnovamento cattolico, quando scrisse l'eloquente e appassionatamente romantica Introduzione alla traduzione della Commedia (pubblicata postuma e incompleta nel 1855), non mancò di echeggiare, nella rappresentazione del tragico destino di D. e nell'esposizione delle sue idee teologiche e politiche, così come nella denuncia degli errori della Chiesa di Roma, accanto a pagine dell'Ozanam, anche pagine del Rossetti e del Quinet.

La polemica si fece ancora più violenta, pur frammezzo a stranezze, eccentricità e astrattezze (il testo di D. non sempre era conosciuto; le tesi del Rossetti venivano sovente citate di seconda o terza mano), negli anni seguenti. Nel 1851 Alphonse Esquiros, democratico, socialista, appassionato di scienze occulte (che fu amico e compagno di prigione del Lamennais e più tardi sostenitore della Comune a Marsiglia) inserì nella sua Histoire des martyrs de la liberté un lungo capitolo su Dante. L'Esquiros, che aveva interessi politici più che teologici, non cercò di stabilire se D. fosse o non fosse stato eretico; quel che gl'interessava era che D. fosse da considerare il precursore spirituale ed emblematico della democrazia moderna e della dottrina della separazione fra Stato e Chiesa. D., inoltre, appariva alla mente dell'Esquiros come l'ispiratore della moderna rivoluzione d'Italia: " Il y a de la poésie du Dante dans la dernière révolution d'Italie; il y a de la poésie du Dante dans le style imagé de la Constituante romaine; il y a de la poésie du Dante, de la poésie faite homme, dans Garibaldi ".

Contro il socialista laico Esquiros e, anche se non così apertamente, contro il cattolico socialisteggiante Ozanam si levarono a questo punto le voci dei cattolici reazionari e intransigenti. La figura più pittoresca è quella di E. Aroux, traduttore della Commedia, il quale scrisse nel 1853 un libro, dedicato a Pio IX, e intitolato D. hérétique, révolutionnaire et socialiste, in cui le tesi del Rossetti venivano riprese, portate all'estremo e rovesciate nel loro significato: D. era presentato come uno dei nemici più accaniti della Chiesa di Roma, anticipatore dei movimenti eretici e delle dottrine illuministiche settecentesche. Oggetto della polemica dell'Aroux erano, evidentemente, non solo i rivoluzionari del '48 ma anche i cattolici liberali alla Ozanam. Le stesse preoccupazioni politiche circolano anche in un libro di Edmond Magnier, D. et le Moyen-Age, coronato dall'Accademia di Arras nel 1858 e pubblicato a Parigi nel 1860. D. ricordava al Magnier, appunto, i rivoltosi del '48; il suo sistema politico era da considerare un bel sogno, pieno di rischi: " Dante donne plutôt l'exempie d'un perturbateur que celui d'un ami de l'ordre... Il dépasse les bornes d'une sage liberté et incite à la licence et aux désordres, à la tyrannie démocratique ". All'Aroux (che ripeté le sue tesi in tutta una serie di pubblicazioni e nel commento alla sua traduzione della Commedia) rispose, come si doveva, un discepolo dell'Ozanam, Ferjus Boissard, con il libro D. révolutionnaire et socialiste, mais non hérétique (1854; ristampato con l'introduzione ampliata nel 1858). Il Boissard non negava che ci fossero nella Commedia passi oscuri e misteriosi, sosteneva però che il linguaggio di D., lungi dall'essere il manifesto di una setta segreta, dimostra un gusto tutto particolare per il disvelamento del mistero, per la soluzione dei problemi scientifici. Contro l'Aroux si schierò anche un altro dantista, Saint-René Taillandier (autore, tra l'altro, di un poema: Béatrice, dedicato a E. Quinet nel 1840), il quale nell'articolo D.A. et la littérature dantesque en Europe, pubblicato sulla " Revue des Deux Mondes ", nel 1856 attaccò duramente la ‛ monomania ' dell'Aroux. Sempre contro l'Aroux Henri Coubourg, strasburghese e romanziere, scrisse attorno al 1857-58 un saggio rimasto inedito: La Divine Comédie expliquée selon les rites maçonniques (si trova manoscritto alla biblioteca dell'Arsenal). D., secondo il Coubourg, fu massone, ma non eretico e socialista: " Dante, écrivant son poème, ne se croyait pas séparé de l'orthodoxie catholique, mais seulement en opposition avec la cour avignonaise ". L'intero dibattito si concluse con il libro dell'abate Edouard Daniel, il cui titolo è già esso significativo: Essai sur la Divine Comédie de D., ou la plus belle, la plus instructive, la plus morale, la plus orthodoxe et la plus méconnue des épopées, mise à la portée de toutes les intelligences et dédiée à la jeunesse catholique de nos écoles (1873).

Continuava intanto il lavoro attorno alla Commedia dei traduttori, degli eruditi, degli studiosi, dei dilettanti e degli amatori. Nel 1831 diede una versione frammentaria dell'Inferno, dedicata a Luigi Filippo, con il titolo D., traduit en vers par stances correspondantes aux tercets textuels, Joseph Antoine de Gourbillon, che era stato al servizio della regina Maria Antonietta, e aveva poi vissuto in Italia durante l'emigrazione. Nel 1835, a sua volta, tradusse l'Inferno in alessandrini piuttosto liberi, non senza buone intenzioni (" nous n'avons pas craint d'aller parfois déterrer quelques mots vieillis, quelques naives tournures du passé "), l'agronomo Charles Calemard de Lafayette: La Divine Comédie, traduite en vers français, avec le texte en regard, une préface et des notes du traducteur. Nel 1837 pubblicò una traduzione " abrégée " dell'Inferno " en vers libres ", con risultati di cantabilità da opera comica, A. Le Dreuille. Nel 1838 uscì un'altra traduzione in alessandrini dell'Inferno, quella di J.A. de Mongis, che ebbe una certa fortuna: ripubblicata nel 1842 e nel 1846, riapparve completata con la traduzione delle altre cantiche nel 1857. È significativo che quasi tutte queste traduzioni pubblicate negli anni '30 si limitino ancora quasi esclusivamente all'Inferno. Esse sono, spesso, il risultato di una ‛ moda ', rispondono a un bisogno diffuso, come dimostrano del resto le campagne pubblicitarie che le accompagnano. Sono, quasi tutte, accompagnate da introduzioni prolisse e aneddotiche e da note scarsamente informate: introduzioni e note non tengono di solito conto delle ricerche più recenti (neppure di quelle di Artaud de Montor), e insistono invece sugli episodi ben noti di Francesca e Ugolino, sulle qualità romantiche, da genio primitivo, della poesia dantesca.

All'inizio degli anni '40 si registrano, nella storia delle traduzioni francesi di D., tre fatti importanti. Nel dicembre 1840 uscì, presso Gosselin, la buona traduzione in prosa dell'intera Commedia, accompagnata da un'ampia introduzione (soprattutto storica) e da brevi note, di Pier Angelo Fiorentino. Questa traduzione fu la più diffusa di tutto l'Ottocento: passata dall'editore Gosselin ad Hachette ebbe 16 edizioni prima del Novecento; a partire dal 1861 essa fu anche pubblicata in edizione di lusso con le illustrazioni di Gustave Doré. A pochi mesi dalla traduzione del Fiorentino fu pubblicata, da un editore rivale, la traduzione in prosa di Auguste Brizeux, la più armoniosa e leggibile forse fra quelle pubblicate sino a quel momento, anche se spesso poco esatta. (L'anno seguente la traduzione del Brizeux, che era corredata da note e da un'introduzione su D., venne ripubblicata dallo stesso editore accompagnata dalla traduzione della Vita Nuova di E.J. Delécluze, cioè dalla prima traduzione francese dell'operetta; a partire dal 1862 l'editore incluse nel volume - che ebbe buona fortuna e fu ristampato altre volte - un notevole studio sulle visioni medievali dell'oltretomba precedenti a quella di D., già pubblicato sulla " Revue des Deux Mondes " nel 1842: La Divine Comédie avant D.; l'autore, Charles Labitte, aveva tenuto una serie di lezioni su D. all'università di Rennes, prima di divenire professore di poesia latina al Collège de France). A un anno di distanza dalla traduzione Brizeux-Delécluze, un curioso personaggio, Sébastien Rhéal Gayet de Cesena, nativo, nonostante il nome, di Châlons sur Saône, amico di Aloysius Bertrand, iniziò, per primo in F., la pubblicazione della traduzione delle 0euvres complètes de D. (Parigi 1843-1856). I volumi erano così distribuiti: I-III: la Divine Comédie, con le illustrazioni del Flaxman, preceduta dalla Vie Nouvelle; IV: Les poésies amoureuses et sacrées; v: Le Banquet; VI: La Monarchie; VII: La langue vulgaire. A questi volumi il Rhéal aggiunse nel 1857 Une nouvelle Biographie du poète toscan e Le moyen âge dévoilé: Le monde dantesque (una galleria, con brutte illustrazioni, dei papi, della terra, dell'Inferno e del Purgatorio). A parte, nel 1854, il Rhéal ripubblicò la traduzione della Commedia con note di L. Barré e illustrazioni di Antoine Etex, un discepolo del Delacroix. Come divulgatore, sia pure approssimativo, delle opere minori di D., il Rhéal merita un suo posto nella storia del dantismo francese.

Accanto a queste (e alle importanti e già ricordate traduzioni della Commedia del Lamennais e del Purgatorio dell'Ozanam, pubblicate tutt'e due postume: la prima - che fu lodata dal De Sanctis e da lui raffrontata con la traduzione del Brizeux - nel 1855, la seconda nel 1862) bisogna ricordare altre traduzioni di minore importanza, complete o parziali: da quella in versi della Commedia (1842; rifatta interamente nel 1856-57) di E. Aroux; a quella in prosa delle Rimes de D. (1848; nuova ediz. 1854) di François Fertiault, cassiere di banca; a quella, mediocre, in versi, di tutta la Commedia (1852-60) di Louis Ratisbonne, strasburghese, nipote del fondatore della Congrégation de Notre-Dame de Sion, amico e futuro esecutore testamentario di Vigny; a quella, in prosa e a racconto continuo, come si trattasse di un romanzo, di tutta la Commedia (1853), preceduta anche da una lunghissima introduzione, di Victor de Saint-Mauris; a quella in prosa di tutta la Commedia (1854-57) di J.-A. Mesnard, avvocato e uomo politico, vicepresidente del Senato e presidente della Corte di cassazione. Fra le traduzioni parziali: Fragments sur l'Italie, accompagnés de morceaux choisis des meilleurs poètes italiens, traduits ou imités en vers français, del Wibert (1841), contenente la storia di Francesca; la traduzione del canto di Ugolino in dialetto di Ambart compiuta nel 1841 da Madur du Lac; L'épisode du comte Ugolin, di Florimond Leval (1844); la traduzione in terzine dei primi tre canti dell'Inferno contenuta negli Ètudes et souvenirs, mélanges poétiques (1846) di H. Vinson; ecc.

Francesca e Ugolino erano ancora e sempre le due figure più note del poema, i due personaggi-mito la cui storia, direttamente dalle pagine dantesche oppure (per quanto riguarda Francesca) indirettamente dalla tragedia del Pellico, riempivano le immaginazioni, le carte, i quadri esposti ai Salons e le scene (dalla tragedia in versi Françoise de Rimini composta nel 1838 dall'ufficiale di artiglieria polacco Joseph Chrétien Ostrowski; alla traduzione compiuta dal Vannoni nel 1848 della Francesca del Pellico e preceduta, nella stampa, dalla traduzione del canto dantesco; alla traduzione in latino dei canti di Francesca e di Ugolino nel 1854 da J.D. Fuss; alle molte altre ‛ Francesche ' dei decenni successivi: quella, per esempio, dell'opera di Thomas, o quella del dramma di F.M. Crawford recitata sulle scene parigine nel 1902 da Sarah Bernhardt). Lentamente, inoltre, si veniva affermando,sulla scia della riscoperta della Vita Nuova e per influsso del gusto preraffaellita, anche il personaggio-mito di Beatrice: ad esempio nel dramma D. et Bëatrice (1852) di Henry de Bornier.

Eppure, mentre si era ormai fatto solido il contributo dell'erudizione francese agli studi danteschi (oltre ai libri del Fauriel e dell'Ozanam, basterà ricordare la poderosa Bibliografia dantesca [1854] del visconte Colomb de Batines, o la più modesta tesi sulla Monarchia discussa da H. Ouvré in Sorbona nel 1853); mentre si era fatta anche molto efficace l'opera di divulgazione più o meno fedele del poema dantesco (un intero capitolo dedicato a D. nel 1843 nel libro di Ferdinand Denis, Le monde enchanté, cosmographie et histoire naturelle fantastiques du moyen âge; un brillante articolo su D. nel 1854 del Legouvé, contenuto in una delle più diffuse e popolari pubblicazioni del tempo: Les hommes célèbres de l'Italie; un'esposizione attenta degli avvenimenti storici che fanno da sfondo al poema in De l'art en Italie: D. e la " Divine Comédie " [1852; tradotto nel 1853 in italiano] di Drouillet de Sigalas); mentre continuarono a segnalarsi i numerosi personaggi un po' eccentrici (militari, funzionari in pensione, diplomatici, ecc.) amatori e conoscitori dell'opera dantesca (tipico il caso del conte Adolphe de Circourt, viaggiatore, letterato, organizzatore di uno dei salotti più frequentati dai legittimisti prima e dopo il 1848, il quale sapeva la Commedia a memoria e ha lasciato fra i suoi manoscritti alcuni studi su D.), la penetrazione dell'opera dantesca nella fantasia degli scrittori, poeti e romanzieri, del tempo rimase tutto sommato assai scarsa.

Victor Hugo, che, come abbiam visto, sentiva istintivamente alcuni aspetti della poesia dantesca, negli anni dell'esilio ebbe l'impressione di rivivere anche lui la vicenda politica e umana del poeta fiorentino e si riferì spesso al grande predecessore. Théophile Gautier ricordò più volte il nome di D., ebbe il merito di far rivivere nella poesia francese la ‛ terza rima ' (poi ripresa dai parnassiani) e scrisse, nel sonetto Ambition (1844), due versi che sono indicativi della posizione che il gran nome di D. aveva nella mitologia romantica: " Être Napoléon, être plus grand encore ! / Que sais-je? être Shakespeare, étre Dante, étre Dieu ! ". Honoré de Balzac dimostrò un interesse non peregrino per l'opera dantesca, e una curiosità viva per l'uomo D. (da lui fatto rivivere come personaggio nel romanzo Les Proscripts, 1831), per il " gigantesque labyrinthe " della Commedia (al cui titolo, allusivamente, si contrappone quello suo della Comédie humaine), per il carattere visionario ed esoterico della grande costruzione dantesca. Quanto agli altri poeti, dal Baudelaire ai parnassiani, ai simbolisti, se è vero che nessuno di essi ignorò il nome di D., di Beatrice, di Ugolino; se è vero che molti fecero uso di versi danteschi, secondo il gusto del tempo, nelle epigrafi anteposte alle poesie o ripresero anche alcuni dei caratteristici paragoni di D. (quello delle pecorelle, per esempio, riapparso nel 1881 in Sagesse di Verlaine); se è vero che in non pochi di essi si trova traccia della presenza, dentro la fantasia e mitologia personali, di alcune potenti scene soprattutto dell'Inferno dantesco (spesso mediate attraverso i quadri del Delacroix o le illustrazioni del Doré e di altri), in nessuno però si può veramente cogliere una profonda penetrazione, nel linguaggio, nella struttura tematica, nel metro, dell'opera dantesca. Fa eccezione Gérard de Nerval, che fece suoi i temi e il ritmo della prosa della Vita Nuova, imitandoli nella prosa ritmica di Aurélia (uscito postumo nel 1865) e penetrò così a fondo nell'universo dantesco da giungere ad affermare di essere, lui, Nerval, una reincarnazione di Dante.

La gran voga romantica della Commedia stava, del resto, ormai passando; subentrava, nella cultura francese, una crescente indifferenza verso D., sia pure sempre accompagnata da un atteggiamento di rispetto. Esemplare, e rappresentativo dell'atteggiamento di tutta una generazione, il caso del Sainte-Beuve, che pure nei versi scritti in giovinezza A mon ami Antony Deschamps (1829) aveva espresso la sua grande ammirazione per la Commedia (" j'adore à genoux l'étrange Comédie ") e ancor più per la Vita Nuova; e aveva seguito le lezioni del Villemain e del Fauriel; ed era stato amico dell'Ozanam; eppure, quando tornò a parlare di D., dimostrò mano a mano una crescente incertezza di giudizio, e un sentimento di sostanziale estraneità.

A partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, il contributo francese allo studio e all'interpretazione critica dell'opera dantesca s'inserisce in quello generale di tutti gli altri paesi e non ha più una sua fisionomia particolare. Non è necessario perciò soffermarsi qui sull'opera degli studiosi francesi di D., e basterà ricordare alcuni nomi: quelli dei professori che al Collège de France, raccogliendo la tradizione del Quinet e dell'Ampère, hanno dedicato a più riprese la loro attenzione a D., da Paul Meyer, a Morel-Fatio, a Paul Hazard, a Etienne Gilson, ad A. Renaudet sino ad André Pézard; quelli che si sono occupati di D. in Sorbona, raccogliendo la tradizione del Fauriel e dell'Ozanam: E. Gebhart, C. Dejob, Henry Hauvette, A. Jeanroy, Paul Renucci; quelli degli altri studiosi, alcuni raccolti in ‛ centri ' di studi danteschi, come Nizza (P.-Y. Prompt, A. Valensin, M. Mignon), altri operosi a Parigi o in centri di provincia, dov'è viva la tradizione degli studi danteschi (come Strasburgo): L. Auvray, A. Counson, P. de Nolhac, H. Cochin, padre Mandonnet, G. Maugain, sino ai più giovani come Lucienne Portier, J. Madaule, G. Mounin, Y. Batard, J. Goudet, R. Dragonetti, ecc. Se proprio si vuole indicare un filone di studi che sembra essere stato il più caro alla tradizione dantesca francese, si possono ricordare i molti saggi e libri (e le vivaci discussioni) intorno alla formazione culturale e dottrinale del poeta, nei suoi rapporti con il mondo classico e con quello medievale e rinascimentale.

Quanto poi alla presenza di D. presso gli scrittori, i poeti e i saggisti della moderna letteratura francese, essa è stata quasi sempre marginale e quando è stata un poco più profonda, si è sempre trattato di casi eccezionali rispetto alla dominante culturale del tempo. Fra gli scrittori, comunque, che ebbero un interesse non superficiale e passeggero per D., si possono ricordare H. de Gourmont, H. Taine, A. France, R. Rolland, Ch. Maurras, Ch. Péguy, A. Gide. Ma non è un caso che due degli scrittori, nei quali più marcata è stata la suggestione del modello dantesco, siano figure inserite in movimenti letterari di significato europeo come P. Claudel, o addirittura di formazione europea, come P. Beckett. Per scrittori come M. Proust, invece, nonostante le suggestioni e i frequenti paralleli fatti dai critici, non sembra di poter dire che la poesia dantesca sia stata uno stimolo importante nella formazione del suo mondo poetico. L'attenzione verso l'opera dantesca, insomma, a parte i ristretti circoli degli studiosi di letteratura italiana o di filosofia medievale, è stata nel complesso assai scarsa nella cultura francese. E, ciò, nonostante la presenza di lodevoli tentativi di divulgazione, compiuti per esempio da L. Gillet, P. Renucci, L. Portier e G. Mounin. Anche le numerose conferenze e i convegni, i molti libri, i numeri speciali delle riviste organizzati in occasione del centenario dantesco del 1921 sono stati tutto sommato una faccenda fra italianisti e amici dell'Italia (a parte le celebrazioni ufficiali e un discorso su D. del Barrès). Solo per il centenario del 1965 si è registrato qualche importante esempio di allargamento d'interesse: accanto a un ottimo numero speciale della rivista degli ‛ italianisti ', la " Revue des Études Italiennes ", dedicato al tema generale D. et les mythes, c'è stata la produzione di qualche buon libro, sia di tipo specialistico sia divulgativo, ma soprattutto ci sono stati, assai significativi, due numeri speciali dedicati al centenario dantesco da parte di riviste impegnate nella cultura militante, su due fronti ideologici diversi: il numero 23 della rivista formalistica " Tel Quel " (con un articolo molto interessante di P. Sollers) e il numero 437-38 della rivista storicistica " Europe ", a c. di J. Madaule.

Non si può chiudere, tuttavia, questa breve storia della fortuna di D. in F. senza far cenno ai principali esperimenti di traduzione che sono stati compiuti dalla fine dell'Ottocento a oggi. Il tentativo più importante del secondo Ottocento è stato quello, compiuto nel 1879, da E. Littré: egli ha, un po' per consapevole scelta critica un po' per amabile divertimento di studioso, tradotto l'Inferno in antico francese, con gusto da restauratore. Dopo il tentativo del Littré, un po' artificioso ma interessante nei risultati, il ricorso all'antico francese è stato una delle scelte linguistiche possibili ai traduttori di D.: essa è stata in parte seguita, ai giorni nostri, sul piano pratico (ma con molti temperamenti e adattamenti) da A. Pézard, ed è stata anche studiata teoricamente in un saggio di Elisabeth Ballaux-Wouters: Une traduction française de la " Divine Comédie " au moyen âge (in " Lettres Romanes " XVIII [1965] 381-395). Quella della maggiore consapevolezza teorica è, del resto, una caratteristica di tutti i traduttori di D. nel Novecento, i quali hanno a disposizione, per il loro lavoro, le sempre più raffinate teorizzazioni dei linguisti.

Una buona traduzione della Vita Nuova ha dato, nel 1908, H. Cochin. Nel 1922 H. Hauvette ha dato una traduzione parziale della Commedia di gran lunga superiore a quelle esistenti per esattezza di dettato e semplicità di linguaggio. Una nuova traduzione dell'intera Commedia ha dato, nel 1923, André Pératé; nel 1924 ha seguito il suo esempio, usando però il verso, René A. Guttmann. In versi è anche la traduzione compiuta nel 1930 di tutta la Commedia da H. Longnon, che è stata varie volte pubblicata, sia in edizione di lusso sia in edizione economica, presso Garnier. Nel 1932 uscì anche il primo volume della traduzione di Madame L. Espinasse-Mongenet, che è stata completata solo più tardi e pubblicata nel 1965 in edizione di lusso, bilingue, con le revisioni e annotazioni di Louise Cohen e Claude Ambroise. Nel 1938 uscirono altre due traduzioni, quella di André Doderet e quella di Saint-René Martin. Nel 1947, poi, uscì la traduzione in prosa, nel complesso assai buona, di Alexandre Masseron, poi più volte ristampata, e anche la traduzione in prosa del Paradiso di Ph. Guiberteau. Il grande dilemma, anche per questi traduttori, era sempre quello fra la fedeltà letterale e la libera ricreazione. David Carozza, chiudendo nel 1964 uno studio in cui poneva analiticamente a raffronto le due traduzioni del Masseron e del Longnon, scriveva: " La traduzione in prosa del Masseron è più vicina allo spirito di Dante, la ‛ prosa ritmata ' del Longnon trasferisce però nel francese più d'un tratto del rigore artistico di Dante " (The D.C. in French, Dissert., The Catholic Univ. of America, Washington 1964). Egli esprimeva l'auspicio che si tentasse una traduzione capace di rispondere, senza squilibri, a entrambe le esigenze. Questa traduzione, in un certo senso, è stata fatta: ne è autore André Pézard, il quale ha volto in francese non solo la Commedia ma l'opera tutta di D. (egli aveva, già nel 1921, dato una prima traduzione della Vita Nuova). Con finezza straordinaria, usando moderatamente arcaismi e preziosità di linguaggio, il Pézard ha risolto, con un lavoro lungo e paziente, molte delle difficoltà poste alla lingua francese dall'arduo linguaggio dantesco. Corredata da introduzioni e note esplicative competenti e a volte anche originali, l'opera del caposcuola dei dantisti francesi è stata pubblicata nel 1965 nella biblioteca della ‛ Pléiade ': era la consacrazione, nell'anno centenario, dell'opera di D., anche in terra di F., fra i capolavori della letteratura mondiale.

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