Francia

Il Libro dell'Anno 2002

Ignacio Ramonet

Francia

Allons enfants de la patrie…

La situazione politica francese

di Ignacio Ramonet

5 MAGGIO

Nel secondo turno delle elezioni presidenziali francesi il presidente uscente Jacques Chirac ottiene l'82,22% dei voti battendo il candidato del Front national Jean-Marie Le Pen. Chirac, su cui si sono concentrati anche i voti della sinistra, è il presidente eletto con il più alto consenso nella storia della Quinta Repubblica. Al primo turno elettorale, il 21 aprile, aveva suscitato grande scalpore l'affermazione di Le Pen, che aveva conquistato il 16,95% delle preferenze contro il 16,12% ottenuto dal candidato del partito socialista Lionel Jospin.

Un rovesciamento completo

Le elezioni presidenziali e legislative tenutesi in Francia nei mesi di aprile-maggio e giugno 2002 hanno provocato un vero e proprio terremoto che si è tradotto in un rovesciamento completo della scena politica: disfatta del governo della sinistra; dimissioni e ritiro a vita privata del primo ministro socialista in carica, Lionel Jospin; virtuale scomparsa del Partito comunista; forte ascesa dell'estrema destra; rielezione trionfale di Jacques Chirac; schiacciante vittoria, infine, della coalizione di destra, che il 16 giugno 2002 ha ottenuto la maggioranza assoluta all'Assemblea nazionale.

Questa violenta scossa è iniziata il 21 aprile 2002, con l'irrompere del voto dell'estrema destra. La sorpresa è stata fortissima: perché 5,5 milioni di francesi hanno dato la loro preferenza, in occasione del primo turno dell'elezione del presidente della Repubblica, a partiti di estrema destra xenofobi, antisemiti, razzisti e ultranazionalisti? La necessità di capire le ragioni e i significati di una scelta di tal genere ha spinto l'insieme della classe politica francese a una profonda quanto indispensabile autocritica.

La situazione, dopo cinque anni di governo della gauche plurielle - comprendente socialisti di tutte le tendenze, comunisti, verdi, radicali e repubblicani del Movimento dei cittadini di Jean-Pierre Chevènement - sembrava giunta in qualche modo a un punto morto. La sinistra non suscitava più alcun entusiasmo popolare e le sue riforme più importanti (tra cui la settimana lavorativa di 35 ore) erano ormai dimenticate, o addirittura criticate. Ecco perché, dopo lo choc del 21 aprile e l'eliminazione della sinistra dal secondo turno delle presidenziali, molti commentatori hanno finito con l'affermare che se quel terremoto politico fosse servito a risvegliare la società, ad aprire gli occhi ai dirigenti dei partiti e a rilanciare il dibattito per costruire finalmente una Francia più giusta e più solidale, allora forse non sarebbe avvenuto invano. Quel giorno è crollata una comoda certezza espressa dalla classe politica: quella che mentre nel mondo tutto stava cambiando, nell'ambito della politica francese nulla si sarebbe invece modificato. Due vecchi partiti - il gollista e il socialista - avrebbero continuato tranquillamente a spartirsi il potere come avveniva ormai da trent'anni.

Tutti hanno percepito che queste due forze politiche (così come la nazionale francese di calcio, campione del mondo nel 1998, ma vecchia e uscita di gara alla prima eliminatoria nei Mondiali 2002 senza aver vinto una sola partita e neppure segnato un solo gol!) erano logorate e sembravano aver esaurito da lungo tempo la loro missione storica. Davano l'impressione, ciascuna a modo suo, di essere in panne, con apparati obsoleti, privi di un'organizzazione e di un vero programma, senza bussola né identità.

Precedenti elezioni avevano già dimostrato che né l'uno né l'altro di questi due partiti sapeva rivolgersi ai milioni di francesi spaventati dalle nuove realtà del mondo postindustriale nato dal crollo del muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda: la folla di operai 'usa e getta', i declassati delle periferie, i disoccupati endemici, gli esclusi, i pensionati ancora nel pieno delle forze, i giovani vittime del precariato, le famiglie modeste minacciate dalla povertà. Tanta gente angosciata dalle paure e dalle minacce di un periodo in cui i punti di riferimento consueti sembravano definitivamente perduti.

Le origini del malcontento

Il Partito socialista, in particolare, che non annovera quasi più quadri usciti dalle fasce popolari e di cui invece numerosi dirigenti sono soggetti alla tassa sui grandi patrimoni, ha dato l'impressione di muoversi su un altro pianeta sociale, lontano anni luce dalla gente comune. Si è dimostrato assai scarsamente sensibile alla vasta gamma di problemi - insicurezza, marginalizzazione, disoccupazione, precariato - che attanagliano la Francia 'dal basso' e incapace di sentire il potente e profondo sommovimento che testimonia "la sofferenza di questa 'sotto-Francia'", per dirla con il giornalista Daniel Mermet.

"La gauche plurielle - scrive l'analista politico Jean-Michel Quatrepoint (La France d'en bas, in La lettre A, 26 aprile 2002) - non ha saputo cogliere i sintomi di questo movimento in profondità. Donde la sua disfatta. Chiaramente, Lionel Jospin non era il candidato giusto. Ha fatto una campagna elettorale sbagliata circondato dalle persone sbagliate [...]. Ha gestito la questione còrsa a dispetto del buon senso. Ha manipolato le istituzioni, in particolare invertendo il calendario elettorale. Infine, si è fatto cantore del comunitarismo, o meglio dello spirito minoritario, privilegiando le riforme sociali (il PACS [Pacte civil de solidarité, riconoscimento legale della convivenza di persone sia di due sessi diversi sia dello stesso sesso], la parità...) e cercando sempre di manovrare i verdi, in nome di calcoli di bassa politica. L'errore di Lionel Jospin e della sua sinistra è proprio di aver privilegiato i borghesi contro i proletari. Le 35 ore gli si sono rivoltate contro come un boomerang poiché, in realtà, avvantaggiano solo i salariati benestanti, quelli dei grandi gruppi, nelle grandi città, mentre, alla base, il provvedimento si è spesso trasformato in un blocco della busta paga o in una flessibilità più vincolante. Ci sono poi tutti quelli che non godono delle 35 ore o che le subiscono: i disoccupati (quelli veri), le professioni liberali, il cui depauperamento si sta accelerando, tutti i piccoli imprenditori, i commercianti, gli artigiani, gli agricoltori, per non parlare dei pensionati".

Quanto alla destra, se è vero che alcuni degli esponenti politici considerano l'estrema destra infrequentabile, rimane altrettanto vero che altri non hanno esitato a stringere accordi con il Front national di Jean-Marie Le Pen. L'ex dirigente liberale Michel Poniatowski (Libération, 20 marzo 1998) non affermava forse che è "più immorale accettare i voti dei comunisti, colpevoli dell'assassinio di milioni di persone in Europa, che quelli del Fronte nazionale"? Un ragionamento perverso che ha portato alcuni dirigenti democratico-cristiani dell'UDF (Union pour la démocratie française) ad accettare, il 20 marzo 1998, i voti degli eletti del Front national per assicurarsi la presidenza di numerose regioni francesi.

Mentre il neofascismo contaminava così, insensibilmente, gli ingranaggi delle istituzioni politiche francesi, non era illusorio credere che il paese si sarebbe mantenuto al riparo da un'onda che stava sconvolgendo la vita politica dei paesi più vicini, prima l'Austria, la Norvegia, il Belgio, la Svizzera e più di recente l'Italia, la Danimarca, i Paesi Bassi e il Portogallo? Era pensabile un'eccezione della Francia allorché, alla stregua di questi altri paesi europei, la società francese era sottoposta, in nome della 'modernità', a scosse e traumi di formidabile violenza, come, per esempio, la mondializzazione liberale, la deindustrializzazione, l'unificazione europea, la riduzione della sovranità nazionale, la scomparsa del franco, la cancellazione delle frontiere, l'egemonia degli Stati Uniti, il multiculturalismo, la perdita d'identità, la crisi dello Stato assistenziale? Tutto ciò, poi, in un contesto da fine dell'era industriale, caratterizzato da grandissimi mutamenti tecnologici, fonte di una insicurezza economica generale e causa di insopportabili danni sociali: un contesto in cui - con la logica della competitività assurta a imperativo naturale - le violenze e le delinquenze di ogni sorta non potevano che moltiplicarsi.

Di fronte al carattere brutale e improvviso di tanti cambiamenti, le incertezze si sono accumulate, l'orizzonte si è offuscato, il mondo è apparso opaco e la storia è sembrata sfuggire a ogni presa, a ogni logica. In tali circostanze, molti francesi si sono sentiti abbandonati da governanti di destra come di sinistra, che i media peraltro non hanno mai smesso di descrivere come 'affaristi', 'imbroglioni', 'bugiardi' e 'corrotti'.

Smarriti nel cuore di questa crisi, molti cittadini sono presi dal panico e nutrono il sentimento, come direbbe Alexis de Tocqueville, che "poiché il passato non illumina più l'avvenire, lo spirito avanza nelle tenebre". Con il favore di questo nuovo oscurantismo e su un terreno sociale di tal genere - fatto di paure, di sgomento e di risentimento - ricompaiono i vecchi maghi: coloro che, fondandosi su argomenti demagogici, autoritari e razzisti, consentono il ritorno del mondo di ieri ("lavoro, famiglia, patria"), gettando sullo straniero, sull'immigrato maghrebino o sull'ebreo, la colpa di tutti gli scompigli, di tutti i disordini, di tutti i mali e di tutte le insicurezze. Tanto più che gli immigrati costituiscono il bersaglio più facile e costante perché simboleggiano i nuovi sovvertimenti sociali e rappresentano, agli occhi dei francesi più modesti, una concorrenza indesiderata.

Assurdo, carico d'odio e criminoso, questo discorso del Front national seduce da molto tempo, secondo certe inchieste (Le Monde, 13 aprile 1996), "più di un francese su quattro". Il 21 aprile 2002 ha riscosso l'approvazione di milioni di elettori (il 30% dei senza lavoro, il 24% degli operai, il 20% dei giovani).

Le varie facce della destra

La crisi della politica si era accentuata nel corso degli ultimi anni, tra l'altro per gli atteggiamenti scandalosi adottati da alcune formazioni politiche. Sin dal voltafaccia di Chirac nell'ottobre 1995, quando, a cinque mesi dalla sua elezione alla presidenza della Repubblica, rinnegò il programma sulla base del quale era stato eletto (fondato sulla constatazione della 'frattura sociale') e adottò una politica ultraliberale, si sapeva che la destra francese era in avaria, senza bussola, senza dottrina e senza identità. La grande rivolta dei ferrovieri nel novembre e dicembre 1995, sostenuta dalla maggioranza dei francesi e appoggiata dagli intellettuali, da Pierre Bourdieu in particolare, aveva già dimostrato che la società era consapevole dei pericoli che la globalizzazione faceva correre al modello sociale francese. Lo scacco subito dalla destra alle elezioni legislative del maggio 1997, in seguito allo scioglimento dell'Assemblea deciso da Chirac, aggiunse a ciò la perdita di fiducia nei dirigenti e lo sgretolamento degli apparati. Senza capi, né organizzazione, né programma, la destra si lanciò in una difficilissima impresa di 'rifondazione'. Uno smarrimento di tali proporzioni era davvero imprevedibile? No, perché se molto si è insistito sullo choc provocato a sinistra dai tre avvenimenti epocali della fine degli anni Ottanta del 20° secolo (caduta del muro di Berlino, guerra del Golfo e implosione dell'Unione Sovietica) che hanno segnato la fine della guerra fredda (1948-89) e la fine del dopoguerra (1945-91), non si è sottolineato abbastanza quanto questa fine di un ciclo storico abbia lasciato la destra tradizionale, dappertutto, paradossalmente smarrita e disorientata. È un caso che in Italia la Democrazia cristiana sia finita in frantumi? O, ancora, che i conservatori britannici abbiano subito la più cocente disfatta della loro storia nel 1997?

Se a questi traumi si aggiungono gli effetti accumulati delle tre grandi mutazioni contemporanee - quella tecnologica (informatica e numerica), quella economica (mondializzazione e finanziarizzazione) e quella sociologica (esclusioni di massa, crisi d'identità, trasformazione del potere) - gli sconvolgimenti sono tali che la destra tradizionale, pur vantando i pregi della mondializzazione, si ritrova (alla stessa stregua della sinistra) frastornata, incapace di trovare una misura propositiva. Queste mutazioni, assieme alla crisi economica e alle politiche per costruire l'Europa liberale, hanno implicato un'esplosione di ineguaglianze e scatenato flagelli sociali quali la disoccupazione e la povertà di massa. In questo contesto economico e su questo humus sociale, fatto di paura e di sgomento, non stupisce che i partiti nati dalla corrente di estrema destra conoscano una fase di grande rilancio. "Dei 380 milioni di abitanti che conta approssimativamente l'Unione europea - quando si aggiungano, per un insieme di buone ragioni, ai suoi 15 Stati membri anche la Norvegia e la Svizzera - l'8,5% ha votato per una delle varianti dell'estrema destra. Orbene, anche se questa cifra non è molto elevata, essa nasconde grosse disparità sul piano nazionale [...]. Così, la Svizzera, l'Italia e l'Austria hanno registrato la stessa percentuale di voti a favore dell'estrema destra: il 25% circa. Seguono poi la Norvegia, la Francia e le Fiandre con il 15% dei voti circa" (Kris Dechouwer, Unité et diversité de l'extrême droite européenne, in Politique, 21, novembre 2001, numero speciale sull'estrema destra in Europa). In Francia, il Front national di Jean-Marie Le Pen come pure l'MNR (Mouvement national républicain) di Bruno Mégret propongono il culto del sangue e del suolo patrio, la restaurazione della nazione (nel senso etnico del termine), l'instaurazione di un regime autoritario con il pretesto di lottare contro l'insicurezza, la riduzione drastica delle tasse sul reddito, il ritorno al protezionismo economico, il ritorno delle donne al focolare e l'espulsione di tre milioni di stranieri in modo da liberare posti di lavoro destinati ai francesi.

Eredi di Pétain e dei collaborazionisti, nutriti del risentimento dei nostalgici dell'Algeria francese, questi due partiti (che non sono usciti dalla Resistenza), nonostante qualche precauzione di facciata, non hanno cessato di proclamare il loro razzismo, la loro xenofobia e il loro antisemitismo. Incarnano la negazione stessa dei valori della Repubblica.

Ma, contrariamente alla maggior parte delle altre formazioni politiche, sono partiti interclassisti nei cui ranghi convivono borghesi e proletari, piccoli imprenditori e disoccupati, persone di sensibilità diversa: cattolici, tradizionalisti, vichyisti, ex membri dell'OAS (Organisation de l'armée secrète), partigiani dell'Algeria francese, monarchici, sostenitori delle teorie razziali e pagane ecc. Sono presenti in molti quartieri difficili, ove offrono calore e solidarietà alle persone in difficoltà; i loro militanti danno spesso prova della devozione e dell'abnegazione che caratterizzava un tempo i militanti comunisti. Per questo motivo nelle varie elezioni i loro candidati ottengono una percentuale importante dei voti popolari e in alcune regioni (Provenza-Alpi-Costa Azzurra, Alsazia, Nord) la loro influenza continua a crescere.

Nel dicembre del 2001, nonostante che Le Pen avesse condotto una 'pre-campagna' elettorale all'insegna della discrezione, i sondaggi gli attribuivano già l'11% delle intenzioni di voto nelle elezioni del presidente della Repubblica del successivo mese di maggio, e facevano del leader del Front national, assieme a Jean-Pierre Chevènement, il terzo miglior candidato alla carica presidenziale. Quanto a Mégret, i sondaggi d'opinione gli attribuivano tra l'1 e il 3% delle intenzioni di voto. In totale, nei sondaggi, i candidati nazional-populisti ottenevano un risultato molto ragguardevole, vicino al 15% (un elettore su sei!), equivalente a quello che l'estrema destra aveva raggiunto, alcuni mesi prima, in occasione delle elezioni cantonali (Le Monde, 30 dicembre 2001). Andando oltre le previsioni, il 21 aprile 2002, al primo turno delle elezioni presidenziali il numero di voti a favore dei partiti d'estrema destra ha superato il 18%.

Persino elettori abituali della sinistra votano per questi partiti nazional-populisti, e militanti provenienti dalla destra tradizionale non esitano ad aggregarsi a loro. Alcuni studi hanno dimostrato che solo l'1% dei quadri del Front national appartiene all'estrema destra, mentre il 40% proviene dai movimenti gollisti. Ci sono personalità politiche che ricercano ormai apertamente il sostegno dei nazional-populisti, in base all'argomento (nefasto effetto delle tesi di François Furet e del Livre noir du communisme di Stéphane Courtois) che anche il Partito socialista ha accettato di allearsi al Partito comunista. In Germania, all'inizio degli anni Trenta, questo tipo di ragionamento portò i partiti della destra tradizionale ad accogliere come alleato il Partito nazional-socialista che si presentava sotto le spoglie più seducenti. Sappiamo che fine fecero i partiti di destra. E la democrazia.

La crisi della sinistra

Peraltro, quale che sia la consultazione elettorale, aumenta il numero degli astenuti, nonché delle schede bianche e dei non iscritti alle liste elettorali. In Francia un giovane su tre di meno di 25 anni non risultava iscritto alla vigilia dell'elezione presidenziale del maggio 2002; il numero dei militanti politici non supera il 2% degli elettori, e solo l'8% dei salariati attivi aderisce a un sindacato (queste due ultime cifre sono le più basse di tutto il mondo occidentale).

A sinistra, il Partito comunista ha perduto la sua identità politica e, largamente, anche la sua identità sociologica. Le elezioni di maggio e giugno 2002 ne hanno praticamente sancito la scomparsa dal panorama politico francese (meno del 5% dei voti). Quanto al Partito socialista, è stato abbandonato dai 'piccoli', dalla base, insomma dagli strati popolari. Il socialismo, uno dei grandi miti unificatori dell'umanità, è stato anch'esso tradito dai dirigenti socialdemocratici europei. Già il 12 marzo 1999 le dimissioni di Oskar Lafontaine, ministro tedesco delle Finanze, avevano rivelato in modo spettacolare le difficoltà della socialdemocrazia e l'incapacità di questa corrente politica di proporre una soluzione di ricambio all'egemonia neoliberale. Ai suoi occhi perfino il keynesismo, che permise negli anni Trenta al presidente americano Franklin Roosevelt di risollevare un'America colpita dalla crisi, sarebbe ormai troppo a sinistra. Gli stessi compagni socialisti hanno rimproverato a Lafontaine di aver commesso cinque sacrilegi: auspicare una politica di rilancio dell'Europa, propugnare un sistema fiscale più giusto, criticare la Banca centrale europea, reclamare una riforma del sistema monetario internazionale e chiedere, in passato, alla Bundesbank di abbassare i tassi d'interesse per rendere meno caro il credito, al fine di stimolare il consumo e combattere la disoccupazione.

Un altro esempio della rinuncia intellettuale della socialdemocrazia è stato fornito dalla guerra del Kosovo, iniziata il 23 marzo 1999. Si ricorderà che ad annunciare la decisione di porre fine ai negoziati con il regime di Belgrado e di cominciare i bombardamenti della Serbia fu Javier Solana, allora segretario generale della NATO. Solana è egli stesso un dirigente storico del PSOE (Partido socialista obrero español), e ha potuto contare, per la guerra in Kosovo, sul sostegno principale di Gerhard Schröder, Lionel Jospin, Massimo D'Alema e Tony Blair, rispettivamente capi di governo, all'epoca, della Germania, della Francia, dell'Italia e del Regno Unito, nonché membri eminenti, tutti e quattro, della socialdemocrazia europea. Tutti accettarono la via militare proposta da Washington come 'unica soluzione' per uscire dall'impasse dei negoziati di pace a Rambouillet, benché ciascuno sapesse che il ricorso alla NATO e i bombardamenti sulla Serbia avrebbero provocato la morte di numerosi civili innocenti e la distruzione di un intero paese senza per questo evitare l'estensione dei conflitti nei Balcani, come ha poi dimostrato la guerra in Macedonia nel 2001. Come hanno potuto i dirigenti socialdemocratici, eredi di Jean Jaurès e di una lunga tradizione di legalismo internazionale, cedere fino a questo punto alle pressioni di Washington e imbarcarsi nell'avventura bellica del Kosovo nel 1999 senza la benché minima legittimazione internazionale? Nessuna risoluzione delle Nazioni Unite concernente questa regione aveva autorizzato esplicitamente il ricorso alla forza. E il Consiglio di sicurezza, che dovrebbe rappresentare l'organo supremo del pianeta in materia di conflitti, non era stato investito della questione prima che fossero sganciate quelle bombe, e non aveva dato alcun avallo all'uso delle armi contro la Serbia.

Come non ravvisare in questi esempi segni ulteriori del crollo ideologico della socialdemocrazia e della sua conversione al social-liberalismo? Navigando a vista, ossessionata dall'urgenza e dalla prossimità, la socialdemocrazia è rimasta senza bussola e totalmente sprovvista di un fondamento teorico (a meno di chiamare teoria quei cataloghi di rinunce e rinnegamenti che sono La terza via di Anthony Giddens, già consigliere di Blair, e La buona scelta di Bodo Hombach, che fu a lungo ispiratore del cancelliere Schröder). Per la socialdemocrazia, che all'inizio degli anni Novanta del 20° secolo ha dominato incontrastata in parecchi paesi europei, la politica è l'economia, l'economia è la finanza, e la finanza sono i mercati. Perciò essa si è sforzata di favorire le privatizzazioni, la riduzione del bilancio dello Stato, lo smantellamento del settore pubblico, sempre incoraggiando, al contempo, le concentrazioni e le fusioni di compagnie giganti. Anche se qui e là ha introdotto leggi sociali importanti (in Francia il governo Jospin ha fatto passare alcune grandi leggi che costituiscono incontestabilmente dei progressi sociali di portata storica: la legge per l'impiego dei giovani; le 35 ore; la CMU, Couverture maladie universelle, e l'APA, Allocation personnalisée d'autonomie, destinata alle persone non più autonome della terza età) nella sostanza la socialdemocrazia ha accettato di convertirsi al social-liberalismo. Non si tratta più di fissarsi quali obiettivi prioritari il pieno impiego oppure il debellamento della miseria per rispondere alla disperazione dei 18 milioni di senza lavoro e dei 50 milioni di poveri che conta l'Unione Europea.

Un'altra utopia

Per molti cittadini l'idea ultraliberale secondo cui l'Occidente sarebbe maturo per vivere in condizioni di libertà assoluta è non meno utopica - e non meno dogmatica - dell'ambizione rivoluzionaria dell'egualitarismo assoluto. Si chiedono come immaginare il futuro ed esprimono il bisogno di un'altra utopia, di una nuova razionalizzazione del mondo. Attendono una specie di profezia politica, un progetto ragionato per l'avvenire, la promessa di una società riconciliata, in armonia con sé stessa.

Ma c'è oggi spazio, tra le rovine del sogno socialista e le macerie delle nostre società destrutturate dalla barbarie neoliberale, per una nuova utopia? A priori, ciò pare poco verosimile, poiché il sospetto nei confronti dei grandi progetti politici si è generalizzato e si vive, al contempo, una grave crisi della rappresentanza politica, un enorme discredito delle élites tecnocratiche e intellettuali, e una rottura profonda tra i grandi media e il loro pubblico.

Molti cittadini vorrebbero introdurre un grano di umanità nella macchina neoliberale. Cercano un impegno consapevole, provano un desiderio di azione collettiva. Vorrebbero affrontare responsabili ben identificati, in carne e ossa, sui quali riversare il loro biasimo, le loro inquietudini, le loro angosce e il loro sgomento, mentre il potere è diventato ampiamente astratto, invisibile, lontano e impersonale. Vorrebbero ancora credere che la politica ha una risposta per tutto, allorché la politica stenta sempre più a fornire risposte semplici e chiare ai problemi complessi della società. Ognuno sente, comunque, la necessità di erigere un baluardo contro il dilagare della realtà neoliberale, il bisogno di un contro-progetto globale, di una contro-ideologia, di un edificio concettuale che possa essere contrapposto all'attuale modello dominante. Dar vita a un tale progetto non è affatto facile: la situazione di partenza è quasi di tabula rasa, poiché le utopie precedenti, fondate sull'idea di progresso, troppo spesso sono naufragate nell'autoritarismo, nell'oppressione, nella soppressione delle libertà e nella manipolazione delle menti. Si avverte il bisogno, ripetiamolo, di sognatori che pensano e di pensatori che sognano, per ritrovare non un progetto di società bell'e pronto, ma una maniera di vedere e di analizzare la società che permetta in definitiva di spezzare, per mezzo di una nuova architettura di concetti, l'ideologia liberale.

Favorendo la frammentazione, la parcellizzazione, si produce una società egoista. Diviene pertanto indispensabile reintrodurre un elemento collettivo foriero di avvenire. L'azione collettiva passa ormai tanto attraverso le associazioni quanto attraverso i partiti e i sindacati. Del resto in Francia, nel corso degli ultimi anni, si è assistito a un moltiplicarsi delle associazioni, da Attac a DAL (Droit au logement), da AC (Agir ensemble contre le chômage) ad Act Up, passando per i rami locali delle grandi organizzazioni non governative internazionali, quali per esempio Greenpeace, Amnesty International, Médecins du monde oppure Transparency.

I partiti possiedono, tra l'altro, due caratteri che li rendono meno credibili: sono 'generici' (pretendono di risolvere tutti i problemi della società) e locali (la loro area d'intervento è limitata entro i confini di un paese). Le associazioni hanno attributi simmetrici e inversi rispetto ai partiti: sono tematiche, in quanto prendono di mira un solo problema della società (il potere finanziario, la disoccupazione, la mancanza di alloggi, l'ambiente ecc.), e transnazionali, in quanto il loro campo di intervento si estende a tutto il pianeta (solamente i movimenti per l'istruzione popolare, come la Ligue de l'enseignement, Foyers Léo-Lagrange, Foyers ruraux ecc., godono, come i partiti, di una visione globale: quella dell'educazione all'essere cittadini).

Nel corso dell'ultimo decennio questi due impegni (impegno globale e impegno d'emergenza per una causa specifica) si sono talvolta dati le spalle. Ma pare che si abbozzi ora un movimento di convergenza. Il congiungimento di questi sforzi è indispensabile

e rappresenta una delle equazioni da risolvere per restaurare la politica. Poiché se le associazioni nascono dalla base, testimoniando della ricchezza della società civile, e sopperiscono alle mancanze del sindacalismo e dei partiti, talvolta non sono altro che semplici gruppi di pressione, mancanti della legittimità democratica dell'elezione per portare a buon fine le loro rivendicazioni. Prima o poi subentra la politica: è quindi di capitale importanza che si crei questo legame tra associazioni e partiti.

Le associazioni continuano a credere che sia possibile, fondandosi su una concezione radicale della democrazia, trasformare il mondo. Senza dubbio rappresentano il luogo da cui si può avviare la rinascita dell'azione politica in Francia. Con ogni probabilità i loro militanti, confermando le parole di Victor Hugo ("L'utopia è la verità di domani") e di Lamartine ("Le utopie altro non sono che verità premature"), riappariranno domani sotto altri cieli, altre bandiere e in altre battaglie civili.

Li ritroveremo a battersi per riportare al centro del dispositivo del diritto internazionale, su scala planetaria, l'Organizzazione delle Nazioni Unite, un'ONU in grado di decidere, di agire e di imporre un progetto di pace perpetua; per sostenere i tribunali internazionali che giudicheranno i crimini contro l'umanità, contro la democrazia e contro il bene comune; per condannare le manipolazioni delle masse, perpetrate dai media; per porre fine alla discriminazione delle donne; per fissare nuovi diritti di carattere ecologico; per instaurare il principio dello sviluppo sostenibile; per proibire i paradisi fiscali; per incoraggiare un'economia solidale ecc. "Arrischia il passo sui sentieri che nessuno ha mai calpestato, e la mente nei pensieri che nessuno ha mai pensato", si leggeva sui muri del Teatro dell'Odéon a Parigi nel maggio 1968. Se vogliamo fondare un'etica del futuro, la situazione attuale invita ad audacie di tal genere per evitare un nuovo terremoto simile a quello del 21 aprile e un ritorno dell'estrema destra.

"Il fascismo - scrive ancora Jean-Michel Quatrepoint - non cade dal cielo. Esso si nutre sempre dell'impoverimento e dell'esasperazione delle classi medie, nonché degli errori, della sufficienza e della cecità delle pseudo-élites del momento". Dopo il grande soprassalto repubblicano di cui hanno dato testimonianza le strade di Francia (quasi un milione e mezzo di persone scese in piazza a manifestare nei giorni successivi al primo turno delle elezioni presidenziali), il nazional-populismo non è passato il 5 maggio, in occasione del secondo turno, e non è passato neppure il 16 giugno, in occasione del secondo turno delle elezioni legislative.

Ma se, dopo aver superato lo spavento, gli stessi partiti di sempre continueranno la loro consueta politica liberale di privatizzazioni, di smantellamento dei servizi pubblici, di creazione di fondi pensionistici, di accettazione dei licenziamenti dettati dalla Borsa, insomma se continueranno a urtarsi contro le aspirazioni popolari a una società più giusta, più fraterna e più solidale, nulla assicura che il nazional-populismo, alleato alle forze collaboratrici di sempre, la prossima volta non finisca con il prevalere in Francia.

repertorio

La storia della Quinta Repubblica

La crisi della Quarta Repubblica

Uscita dalla Seconda guerra mondiale alla testa di un grande impero coloniale, la Francia si trovò a dover affrontare contemporaneamente le difficoltà proprie di un travagliato assestamento interno e la pressione del moto di affrancamento dei popoli coloniali d'Asia e d'Africa. La Quarta Repubblica, che definisce nella storia politica francese il decennio 1949-59, fu caratterizzata fin dall'inizio da due avvenimenti che ne avrebbero fortemente condizionato le vicende: l'esclusione dal governo, e quindi l'isolamento, del Partito comunista e la rapida decadenza del movimento fondato da Ch. de Gaulle dopo la liberazione. La lotta politica, sganciata dalla forzosa solidarietà postresistenziale, riprese forme e metodi che ne avevano caratterizzato la fase prebellica, come si vide subito dalla limitata durata dei governi. Dalla fine del 1947 al giugno 1954 si susseguirono ben 13 ministeri, di cui uno solo resistette più di un anno. Il gioco parlamentare riprese un predominio quasi irresistibile e il formarsi e il disfarsi degli esecutivi, nei quali quasi sempre gli stessi uomini si scambiavano i posti, fu spesso motivato da distinzioni assai sottili. La precarietà dei governi divenne precarietà di regime. Il paradosso della Quarta Repubblica, nata grazie all'apporto congiunto dei gollisti e dei comunisti, consistette nell'aver affidato la propria sopravvivenza quasi esclusivamente a uomini della Terza. Mentre in Tunisia iniziava l'attività terroristica e il futuro capo dello Stato H. Burghiba avanzava rivendicazioni nazionalistiche, in Indocina la caduta di Dien Bien-Phu (maggio 1954) nelle mani delle forze comuniste vietnamite, guidate da Ho Chi-Min, assestava la prima delle 'gravi scosse' che avrebbero finito con l'uccidere la Quarta Repubblica. Salito al governo nel giugno 1954, P. Mendès-France riuscì a raggiungere un accordo che poneva fine alla Guerra d'Indocina e a riaprire subito dopo colloqui con la Tunisia per l'avvio dell'indipendenza negoziata; ma proprio la politica da lui seguita in Africa settentrionale, tendente a trovare un punto di incontro con le aspirazioni di algerini, marocchini e tunisini, ne determinò la caduta nel febbraio 1955. Nello stesso tempo la fine della Guerra in Indocina liberava forze che si sarebbero rivelate mortali per il sistema. I reduci e soprattutto gli ufficiali di carriera riportavano nel territorio metropolitano principi e metodi della guerra combattuta con i comunisti vietnamiti; l'associazione degli ex combattenti d'Indocina, che prima aveva avuto un compito puramente assistenziale, diveniva da quel momento uno dei principali centri di cospirazione clandestina per il rovesciamento della Quarta Repubblica. A condizionare non solo la politica francese ma anche l'avvenire del paese intervenne infine la questione algerina. A capo di un nuovo governo di coalizione, il socialista G. Mollet si trovò a dover fronteggiare manifestazioni sempre più ostili da parte dei coloni francesi, che nel febbraio 1956 costituirono ad Algeri il primo Comité de salut publique, con lo scopo di conservare l'Algeria alla Francia anche a costo di rovesciare il regime. Alla fine di quell'anno il fallimento dell'intervento franco-inglese contro l'Egitto, in occasione della crisi di Suez, ridava slancio alla rivolta algerina; nel frattempo veniva riconosciuta l'indipendenza del Marocco e della Tunisia e venivano ceduti gli stabilimenti francesi dell'India. Gli effimeri governi che seguirono non assunsero posizioni nette e la questione algerina divenne il punto focale della politica interna francese. Anche l'esercito prese un interesse sempre maggiore alla politica. Il malessere, i rancori, le recriminazioni che in esso erano state lasciate dalla Guerra d'Indocina, dalla perdita della Tunisia e del Marocco, e dall'infelice spedizione di Suez si coalizzarono in una vasta cospirazione che ebbe il suo culmine nel maggio 1958, quando ad Algeri un Comité de salut publique, guidato dal generale dei paracadutisti J. Massu, si mise alla testa della popolazione francese reclamando un più incisivo intervento.

Mentre a Parigi l'Assemblea nazionale votava lo 'stato d'urgenza', il pericolo di una guerra fratricida si faceva sempre più imminente. Nella metropoli, le formazioni di estrema destra, disciolte per legge, si organizzavano nella clandestinità, mentre quelle democratiche e di sinistra davano vita al Comité pour la défense de la République. Nello stesso tempo in Algeria si preparavano audaci piani d'invasione della Francia e alcuni commandos giunsero a occupare la Corsica come testa di ponte verso la metropoli. In queste condizioni il generale de Gaulle apparve ai più il solo uomo in grado di evitare la guerra civile, di restaurare l'autorità dello Stato e di conservare il regime repubblicano. Dimessosi il governo il 28 maggio, il presidente R. Coty, con procedura eccezionale, affidava i poteri a de Gaulle. Il nuovo 'ministero nazionale', immediatamente formato, otteneva l'investitura dell'Assemblea, senza dibattito, il 1° giugno e il giorno successivo il Parlamento votava tre progetti di legge voluti da de Gaulle: proroga dei poteri speciali in Algeria, pieni poteri per la durata di sei mesi, revisione della Costituzione per referendum.

Le riforme costituzionali e l'avvio della Quinta Repubblica

Il 28 settembre 1958 l'80% degli elettori approvava mediante referendum la nuova Costituzione secondo la quale la nazione veniva a essere guidata da un presidente eletto da rappresentanti locali. Il presidente nominava il suo primo ministro e, di fatto, i ministri, e poteva disporre dello strumento referendario, di fronte a un Parlamento che, seppure indebolito e facile da sciogliere, conservava la facoltà di rovesciare il governo. Assai più travagliata si sarebbe rivelata la soluzione del problema algerino. Forte del successo ottenuto nella votazione del 28 settembre, de Gaulle inaugurava una politica di dialogo con i capi della ribellione organizzati nel FLN (Front de libération nationale), proclamando il principio dell'autodeterminazione in virtù del quale veniva riconosciuto agli algerini il diritto di scegliere mediante referendum il proprio destino. Questa politica impressionò favorevolmente gli osservatori internazionali, ma provocò all'interno e soprattutto negli ambienti dei coloni d'Algeria una vivissima opposizione. Di fronte alla probabilità di perdere le posizioni preminenti godute nella colonia e di venire sommersa nel referendum dai voti algerini, questa opposizione non esitò a schierarsi contro lo stesso de Gaulle. La consultazione dell'8 gennaio 1961, che vide prevalere i fautori dell'autodeterminazione, spinse i sostenitori dell'Algeria francese a giocare il tutto per tutto. Nel tentativo di bloccare il processo in atto, l'OAS (Organisation de l'armée secrète) moltiplicò gli attentati e gli atti di terrorismo. Un putsch militare scoppiato nell'aprile ad Algeri decretava lo stato d'assedio e portava all'arresto dei rappresentanti del governo centrale, mentre a Pari-gi de Gaulle assumeva i poteri straordinari, che erano previsti dalla Costituzione. Il rifiuto da parte di vari comandanti di seguire i generali ribelli portò in poche settimane al fallimento del putsch. Iniziarono allora lunghe trattative, che vennero più volte interrotte e furono accompagnate da una recrudescenza impressionante di attività terroristiche e di attentati da parte dell'OAS, uno dei quali, fallito, fu diretto il 9 settembre 1961 contro lo stesso de Gaulle. Nel marzo 1962 si giunse finalmente agli accordi di Evian, che furono poi ratificati mediante referendum. In virtù di essi la Francia nel luglio 1962 riconosceva solennemente l'indipendenza dell'Algeria.

Liberato finalmente il paese dal pesante fardello che l'aveva condizionato e indebolito sin a quel momento, de Gaulle pose sul tappeto la questione dell'elezione del presidente della Repubblica. Anziché da parte del collegio di notabili previsto dall'art. 6 della Costituzione del 1958, egli proponeva che lo si designasse a suffragio universale, demandando la questione a un successivo referendum. L'obiettivo di de Gaulle, ostile da sempre ai partiti e alle degenerazioni della vita parlamentare, era trasparente. Un presidente della Repubblica eletto a suffragio universale sarebbe stato investito di un grado di autorità tale da porlo nettamente al di sopra dei partiti, divenendo il rappresentante diretto della nazione. Gli avversari reagirono facendo approvare dall'Assemblea nazionale una mozione di censura in cui si dichiarava incostituzionale la procedura scelta per arrivare al referendum. De Gaulle a sua volta replicò sciogliendo il Parlamento e indicendo elezioni legislative, da tenersi dopo la consultazione referendaria. Il referendum ebbe luogo il 28 ottobre 1962 e segnò la vittoria, sia pure non schiacciante, del sì. Ben più rilevante fu il successo ottenuto alle successive elezioni politiche che assicurarono una stabile maggioranza parlamentare ai gollisti e ai moderati di V. Giscard d'Estaing. Grazie a questa affermazione de Gaulle poté confermare G. Pompidou, da tempo suo consigliere, al quale aveva già affidato nell'aprile 1962 l'incarico di formare il secondo governo della Quinta Repubblica. Tra gli altri dati da non sottovalutare è il largo rinnovamento che si verificò allora nel personale politico: oltre un terzo dell'Assemblea nazionale era di nuova nomina e fra i battuti figuravano personalità di primo piano della Quarta Repubblica.

Al regime dei partiti de Gaulle aveva imputato l'oblio di quella che egli riteneva una verità incontrovertibile, che la Francia non poteva esistere senza grandeur, cioè senza proporsi obiettivi d'affermazione internazionale adeguati al passato della nazione e alle sue possibilità. L'impegno per restituire alla Francia una politica estera degna era posto quindi fin dall'inizio come prioritario. Rientrava nell'ottica gollista il ridimensionamento del ruolo internazionale delle due superpotenze (USA e URSS) e la realizzazione dell'Europa: non però l'Europa dei federalisti, dotata di poteri sovranazionali, bensì l'Europa 'delle patrie', confederazione di Stati sovrani. Una simile Europa, per riuscire vitale, doveva a tutti i costi liberarsi della tutela americana. Coerentemente, nell'Europa di de Gaulle non c'era posto per la Gran Bretagna, vista come longa manus di Washington, mentre diventava centrale il riavvicinamento con la Germania nel quadro di un'Europa pacificata "dall'Atlantico agli Urali".

Il 'maggio francese' e il dopo de Gaulle

Alle elezioni presidenziali del dicembre 1965 fu F. Mitterrand ad avanzare nell'ambito della sinistra la propria candidatura in opposizione a de Gaulle. A capo della Fédération de la gauche démocratique et socialiste da lui stesso costituita (si trattava di una formazione chiusa al centro e appoggiata dai comunisti), Mitterrand costrinse il presidente in carica, al quale sottrasse voti la presenza di una terza candidatura di carattere centrista, all'onta imprevista del ballottaggio, dopo una campagna elettorale nella quale per la prima volta ebbe particolare risalto l'utilizzazione dello strumento televisivo. Il ballottaggio si svolse il 19 dicembre e fu vinto da de Gaulle con il 54,50% dei voti, contro il 45,49% ottenuto da Mitterrand. Riconfermato presidente della Repubblica, l'ex generale sviluppò gli indirizzi di politica estera già noti, decidendo, tra l'altro, nel marzo 1966 l'uscita della Francia dalla NATO. Sul fronte interno, in vista delle elezioni legislative, da parte della maggioranza fu lanciato un Comité d'action pour la Ve République, del quale facevano parte anche i repubblicani indipendenti di Giscard d'Estaing. A sinistra Mitterrand si sforzò da parte sua di consolidare la Fédération de la gauche démocratique et socialiste, approfondendo i temi programmatici, costituendo nel maggio 1966 un governo ombra sul modello britannico e addivenendo a un accordo con i comunisti a vantaggio del rispettivo candidato che si fosse meglio piazzato dopo il primo turno. Le elezioni legislative del marzo 1967 videro un risultato positivo per i gollisti nel primo scrutinio, che tuttavia non si ripeté nel secondo, quando l'accordo elettorale stipulato dalle sinistre ottenne buoni esiti. Nonostante ciò risultò comunque confermata la maggioranza favorevole a de Gaulle. Il 1968 fu un anno per molti versi cruciale. Nel 'maggio francese' si intrecciarono la crisi giovanile, difficoltà economiche ed esitazioni politiche. Dieci milioni di scioperanti, che peraltro ottennero importanti vantaggi, seguirono la rivolta studentesca. Il governo ne fu travolto fino al momento in cui de Gaulle offrì al paese, ormai stanco del disordine, le elezioni anticipate, nelle quali i gollisti, aiutati dal clima di tensione, ebbero il 38% dei voti e, per effetto del sistema elettorale, la maggioranza dei seggi. Nonostante il buon esito elettorale, de Gaulle volle puntare a ulteriori riforme tese a rafforzare il sistema che aveva fortemente contribuito a creare. Nell'aprile 1969 tentò di far approvare, tramite referendum, una modifica costituzionale che prevedeva fra l'altro un decentramento dell'amministrazione a livello regionale e una riduzione dei poteri del Senato. Sconfitto, anche in seguito alla defezione dei suoi alleati moderati, diede le dimissioni. La reazione al maggio 1968 aveva così soffocato dapprima il radicalismo della contestazione poi il riformismo gollista, anche se, a più lungo termine, il movimento doveva penetrare in profondità all'interno della società (rifiuto dell'autoritarismo, femminismo, ambientalismo). Pompidou, capo naturale della maggioranza parlamentare, vinse facilmente le elezioni presidenziali del 1969, anche perché, a differenza di quanto era accaduto nel 1965, le sinistre, profondamente divise, non furono in grado di presentare un candidato unico. Conservatore, ma convinto della necessità di modernizzare e industrializzare la Francia, Pompidou nominò primo ministro un gollista storico, J. Chaban Delmas, che si fece promotore di un vasto progetto di 'nuova società'. Tale visione, che era fondata essenzialmente sul negoziato sociale, finì con il mettere il governo in urto con i conservatori, senza peraltro riuscire a convincere le sinistre. Alla morte di Pompidou (aprile 1974), affacciandosi le nuove elezioni presidenziali, le sinistre potevano disporre della candidatura di Mitterrand, riemerso come primo segretario del rinnovato Partito socialista, dopo la parziale eclissi succeduta alle vicende del maggio 1968, mentre a destra prendeva il via un duello elettorale tra Chaban Delmas e Giscard d'Estaing, rappresentante del liberalismo modernizzatore. L'appoggio del gollisti pompidoliens, guidati da J. Chirac, favorì Giscard che raggiunse il 51% dei voti al secondo turno, contro il 49% ottenuto da Mitterrand, che sostenendo la strategia di unità della sinistre aveva impegnato il Partito comunista in un 'programma comune'. La presidenza giscardiana (1974-81) cominciò con l'ingresso nel governo Chirac (1974-76) di centristi e radicali non collegati alla sinistra, determinando una polarizzazione destra-sinistra che escludeva la presenza di forze intermedie. In un anno vi furono importanti riforme, ma la crisi economica mondiale favorì un ripiegamento conservatore. Aumentarono le tensioni tra i giscardiani (europeisti e liberisti) e i neogollisti (nazionalisti e più favorevoli all'intervento statale in campo economico), che, pur costituendo la maggiore forza parlamentare, erano privi di presidenza e di buona parte dei ministeri. Rivalità e divergenze riguardo ai rimedi della crisi portarono alla sostituzione di Chirac con R. Barre (1976-81): i neogollisti perdevano così anche il posto di primo ministro.

Nasce la 'coabitazione'

Le difficoltà del biennio 1980-81, specialmente in campo economico (il tasso d'inflazione si mantenne nei due anni al 13,3% e il numero dei disoccupati raggiunse nel 1981 il milione e mezzo), finirono con il logorare irrimediabilmente la compattezza della maggioranza. I motivi di tensione sociale, aggiunti alla rivalità a destra e al crollo del Partito comunista al 15%, che rassicurò alcuni settori moderati, facilitarono la vittoria di Mitterrand su Giscard d'Estaing alle presidenziali del maggio 1981. Le elezioni indette successivamente allo scioglimento dell'Assemblea legislativa diedero il 37,7% e la maggioranza dei seggi ai socialisti, cosa che era riuscita soltanto ai gollisti nel 1968.

Il nuovo governo, presieduto da P. Mauroy, con la partecipazione di quattro ministri comunisti, compì una drastica svolta in campo economico, cominciando l'attuazione del 'programma comune'. L'ambizioso disegno prevedeva l'avvio di una politica tesa a sostenere i ceti più deboli, a lottare contro la disoccupazione e contro l'inflazione. Furono realizzate numerose riforme: abolizione della pena di morte, nazionalizzazioni, imposta sul capitale, decentramento amministrativo, settimana lavorativa di 39 ore, pensionamento a 60 anni, abbozzi di cogestione nelle imprese ecc. Tuttavia la gravità della crisi economica, con il permanere di alti tassi di inflazione e di disoccupazione, obbligò a scegliere il rigore, il blocco dei salari, la conversione all'economia di mercato. Per il ministero un'ulteriore causa di preoccupazione nacque con la protesta, anche violenta, degli agricoltori, preoccupati per la scarsa remuneratività di alcuni prodotti agricoli e assai scontenti della politica comunitaria in campo agricolo. Alle elezioni per il Parlamento europeo del giugno 1984 la destra, unificata intorno a Chirac su una base più liberale che gollista, ebbe il 43% dei voti, mentre all'estrema destra il Front national di J.-M. Le Pen passava dall'1,03% della sua prima apparizione nel 1979 all'11,8%. Alle legislative del 1986 il Partito socialista si fermava al 31%, mentre il Partito comunista toccava il suo minimo storico, cresceva l'estrema destra e la destra risultava maggioritaria. In questo quadro, con la formazione di un ministero Chirac, si produsse per la prima volta una situazione di 'coabitazione' tra presidente e primo ministro provenienti da campi opposti. Il presidente non poté impedire l'applicazione del programma economico della destra, ma le frettolose privatizzazioni cui esso pose mano furono presto bloccate da difficoltà sociali e manifestazioni studentesche e popolari. Nel 1988 Mitterrand con il 54% dei voti veniva rieletto presidente contro Chirac, che in seguito alla sconfitta si dimetteva da primo ministro. A formare il nuovo governo veniva chiamato il socialista M. Rocard, in una situazione parlamentare in cui la destra manteneva ancora la maggioranza. L'inevitabile situazione di ingovernabilità indusse Mitterrand a sciogliere l'Assemblea nazionale e indire nuove elezioni. Il Partito socialista ottenne una maggioranza solo relativa e Rocard, riconfermato primo ministro, costituì un gabinetto in cui i ministeri principali erano nelle mani di esponenti socialisti, ma alcuni incarichi erano distribuiti a personalità indipendenti oppure di orientamento moderato di centro. Le manifestazioni per il bicentenario della Grande Rivoluzione sembrarono attestare, in una Parigi rinnovata anche da un punto di vista urbanistico, un ritrovato equilibrio, seppure in un quadro caratterizzato dallo spegnersi delle passioni politiche, dopo l'ultimo quinquennio vissuto piuttosto all'insegna di vivaci e personalizzati contrasti tra Presidenza della Repubblica e Presidenza del Consiglio.

Gli anni Novanta

Alla metà degli anni Novanta, la situazione sociale e politica della Francia presentava forti elementi di continuità con la sua storia precedente e, al contempo, importanti fattori di novità. A partire dagli anni Settanta, la società francese aveva attraversato trasformazioni profonde che, insieme a una forte urbanizzazione, avevano determinato un ampliamento di nuovi settori produttivi, la dilatazione di un'area di pauperismo assistito, l'aumento massiccio di lavoratori extracomunitari, il progressivo slittamento della conflittualità dai confini sociali a quelli più propriamente etnico-culturali. Il quadro politico mostrava, accanto alla persistenza degli schieramenti tradizionali della Francia del secondo dopoguerra, presenze nuove, come gli ecologisti o gli estremisti di destra del Front national di Le Pen. In questo contesto sociale e politico, nel marzo 1993 si tennero le elezioni politiche, in un clima difficile per la coalizione di governo, dopo che nel corso del 1992 diversi esponenti politici, soprattutto socialisti, erano stati oggetto delle indagini della magistratura per corruzione e altri illeciti finanziari. Le elezioni per rinnovare l'Assemblea legislativa videro il crollo del Partito socialista e il trionfo dei partiti della destra, mentre il Front national di Le Pen e i due gruppi ambientalisti, che si erano presentati uniti, pur realizzando un buon risultato percentuale, non ottennero seggi per effetto del sistema maggioritario. Si veniva così a creare nuovamente una situazione di 'coabitazione'. Il nuovo governo, guidato dal neogollista E. Balladur, pose tra i suoi primi obiettivi la riduzione del deficit e della disoccupazione. Le misure adottate tra il 1993 e il 1994 però non si dimostrarono sufficientemente efficaci, mentre una più severa legislazione sull'immigrazione e sul conferimento della cittadinanza francese e alcuni tentativi di ridurre gli ambiti di intervento dell'assistenza pubblica incontrarono una forte opposizione sociale. Le elezioni presidenziali dell'aprile-maggio 1995 furono caratterizzate dalla competizione interna tra i due principali esponenti della destra, Chirac e Balladur, a tutto vantaggio, al primo turno, del candidato socialista L. Jospin, un leader che si presentava, innanzitutto, come garante di un ritorno all'integrità morale del Partito socialista dopo gli scandali che lo avevano coinvolto nei due decenni precedenti. Nel ballottaggio a ogni modo fu Chirac ad avere il sopravvento, succedendo così a Mitterrand alla presidenza della Repubblica. Il nuovo governo, con alla testa A. Juppé, improntato a una linea sostanzialmente neoliberista, per di più sollecitata dall'esigenza di adeguarsi ai dettami del Trattato di Maastricht, adottò una politica di tagli alle spese per i servizi sociali, alle pensioni e ai salari del settore pubblico. I provvedimenti adottati scontentarono fortemente una consistente parte dell'elettorato e provocarono, nella seconda metà del 1995, una serie di manifestazioni e un susseguirsi di scioperi nel pubblico impiego. A incrinare ancor più l'immagine della destra, nuovi scandali coinvolsero tra gli altri tre ex ministri del precedente governo. Al fine di rafforzare con il consenso elettorale la traballante coalizione di governo, il presidente Chirac decise di sciogliere l'Assemblea nazionale e di indire elezioni politiche anticipate (maggio-giugno 1997). Dal primo turno uscì tuttavia in vantaggio proprio l'unione delle sinistre (gauche plurielle) guidata da Jospin, che vedeva confermata la vittoria socialista al turno successivo. Con Jospin alla guida del governo si inaugurava un nuovo periodo di 'coabitazione', questa volta tra un presidente di centro-destra e un primo ministro di sinistra. A livello internazionale il successo di Jospin si inquadrava comunque in quel processo generale che aveva portato all'affermazione della sinistra in 13 su 15 paesi dell'Unione Europea; una sinistra caratterizzata, anche se con accenti diversi fra le sue componenti, dall'intenzione di coniugare l'apertura all'economia di mercato con la consapevolezza di dover riaffermare il ruolo dello Stato: una consapevolezza particolarmente evidente in Jospin, il quale più degli altri sentiva l'esigenza di una politica sociale da non sacrificare sull'altare del rinnovamento economico e dell'integrazione europea.

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