Frattura

Universo del Corpo (1999)

Frattura

Gianfranco Fineschi

Il termine frattura (dal latino fractura, derivato da frangere, "rompere") può essere considerato sinonimo di rottura in tutti i significati: scientifico, letterario, allegorico ecc. Nella terminologia medica, il vocabolo indica la lesione sia di un viscere (primo fra tutti la milza) sia, più frequentemente, di un segmento di osso. La lesione ossea, comune a tutte le specie animali, rientra in un ben preciso capitolo di patologia medica umana e veterinaria. La frattura, in quanto soluzione di continuità dell'osso, si differenzia dalla lussazione, termine che invece indica una soluzione di contiguità.

Classificazione

Con riferimento alla lesione ossea, si deve innanzitutto precisare che la frattura può prodursi in due maniere: una acuta, improvvisa, istantanea al movente, e una lenta e subdola. Nel primo caso si ha una frattura traumatica, che interessa un osso strutturalmente integro e implica l'intervento di una forza vulnerante esterna tale da superare la resistenza strutturale, pure elevata, del tessuto osseo indenne da tare. Nel secondo caso si tratta di frattura spontanea, o patologica, o torpida, perché nessuna causa vulnerante esterna vi ha interferito, e quindi essa è dovuta a cedimento strutturale per cause interne e in un territorio osseo reso fragile da una malattia che in esso si era localizzata e poi espansa. La frattura traumatica ha incidenza di gran lunga maggiore e i meccanismi lesivi capaci di promuoverla possono essere numerosi e di vario genere: compressione, schiacciamento, flessione, estensione, trazione, torsione e altri ancora più complicati e tra loro frequentemente combinati; nei traumatismi della strada, oggi particolarmente frequenti, alcuni di essi sono diventati addirittura inclassificabili, data la loro polimorfa complessità. Alcuni di questi meccanismi vengono definiti diretti, in quanto provocano una frattura nel punto esatto dello scheletro in cui la violenza lesiva si è applicata; altri si definiscono indiretti perché la frattura si produce non in quel punto ma su un altro osso o segmento di osso talvolta anche distante, per una speciale e sempre variabile modalità di trasmissione o contraccolpo della violenza lesiva. Nella maggior parte dei casi la forza esterna applicata provoca la frattura in ragione della propria intensità; in una netta minoranza la forza applicata non è elevata, ma diventa causa di lesione in ragione della sua lunga durata: si parla allora di frattura da durata, o da fatica. Nella definizione diagnostica la frattura viene contraddistinta da un aggettivo che indica la sede colpita: vertebrale, femorale, omerale, calcaneare ecc. In rapporto all'entità del coinvolgimento osseo, è possibile distinguere tra frattura completa e incompleta, a seconda che la continuità ossea sia interrotta a tutto spessore oppure in una parte limitata di esso; in quest'ultimo caso si usa anche il termine infrazione. In relazione alla morfologia si adottano più specifiche definizioni: frattura composta o scomposta, a seconda che i frammenti ossei rimangano nella naturale sede anatomica o vi si allontanino; frattura semplice, quando i frammenti sono solamente due, pluriframmentaria quando sono più di due, comminuta quando sono molto numerosi (in questo caso, talvolta, si usa anche dire frattura da scoppio). Altre possibili specificazioni riguardano la direzione della linea di soluzione: frattura trasversale, obliqua, spiroide. Si definisce poi frattura per schiacciamento quella che non possiede ben precisabili linee di soluzione di continuità e che si lascia rilevare solamente per un appiattimento o abbassamento dello spessore osseo, accompagnato da un allargamento della superficie; è caratteristica delle ossa molto spugnose, come per es. le vertebre e il calcagno. Esistono infine la frattura isolata e quella multipla, intendendosi per quest'ultima una soluzione di continuità in più livelli di un medesimo osso lungo, in modo indipendente (frattura bifocale, trifocale), o in più ossa anatomicamente vicine (per es., tibia e perone, radio e ulna ecc.). Grande importanza pratica assume la distinzione tra frattura chiusa e frattura esposta, cioè aperta all'esterno a causa di una coesistente lesione della cute; quest'ultima è già in partenza contaminata, quindi infetta. L'aggettivo complicata si riferisce invece all'associazione con lesioni di strutture anatomiche satelliti dell'osso fratturato, come arterie e vene, nervi periferici, midollo spinale, muscoli, tendini. Si parla inoltre di frattura-lussazione quando coesistono le due lesioni, la prima extrarticolare e la seconda intrarticolare. Caratteri morfologici molto atipici hanno le fratture da arma da fuoco. In rapporto all'età del paziente si usano ulteriori classificazioni. A questo proposito si definisce frattura ostetrica quella che si osserva nei neonati, prodottasi per un traumatismo verificatosi durante l'espletamento di parti difficili (fratture intra partum); frattura a legno verde quella che può prodursi solamente in età infantile, in ragione del fatto che in tale periodo della vita l'elasticità e la duttilità del periostio (la membrana che avvolge l'osso) possono consentire che l'osso si ripieghi su sé stesso anziché interrompersi; distacco epifisario, piuttosto che frattura, quando la linea di interruzione attraversa lo strato della cartilagine di accrescimento laddove l'ossificazione non si è ancora compiuta, evenienza, questa, caratteristica dell'infanzia e dell'adolescenza; e infine, frattura per infossamento, quella che si osserva in età senile, ma in tal caso per una ragione aggiunta, e cioè per una rarefazione della trama ossea (osteopenia, osteoporosi) che predispone a un 'crollo' anche per traumatismi non violenti. In rapporto alla topografia si possono distinguere infine, limitatamente alle sole ossa lunghe, fratture epifisarie, che si verificano dentro o molto rasente l'articolazione, metafisarie, che sono localizzate a breve distanza dall'articolazione, e diafisarie, localizzate in tutta la rimanente compagine dell'osso lungo. Nella terminologia moderna si usa anche parlare di frattura stabile o instabile. Anche se in realtà nessuna frattura può essere sicuramente stabile, tale differenziazione risulta utile per distinguere, dal punto di vista terapeutico, una frattura non predisposta ad andare incontro a spostamenti dopo essere stata ridotta e immobilizzata rispetto a un'altra soggetta invece, per interferenze meccaniche locali, a subire spostamenti secondari dei suoi monconi.

Diagnosi e prognosi

La diagnosi di frattura è generalmente molto facile, anche per i non medici. I suoi sintomi sono, nella grande maggioranza dei casi, di tutta evidenza: dolore; tumefazione; lesa funzione. In rari casi uno dei sintomi di questa triade può mancare e il paziente può allora ritenere che si tratti di una contusione. Possono invece aggiungersi altri sintomi, principalmente la deformazione del profilo anatomico e un rumore di scroscio o crepitio, che è imputabile allo strofinamento delle superfici ossee tra di loro nei casi in cui i rispettivi monconi non si sono molto allontanati. La tumefazione, che è del tutto distinta dalla deformazione, anche se questa può indirettamente contribuirvi, è sostanzialmente dovuta a uno spandimento di sangue negli interstizi dei tessuti molli adiacenti al focolaio di frattura; l'osso rotto, infatti, sanguina molto, essendo la spongiosa ossea uno dei distretti anatomici che producono sangue. Quando esistono lesioni concomitanti (arteriose, neurologiche, muscolotendinee, cutanee) i sintomi diventano evidentemente più numerosi, connessi alla coesistente lesione di apparato. L'esame radiografico è ovviamente sempre necessario, in quanto fornisce molti dettagli indispensabili a definire i tipi morfologici di frattura e a precisarne la localizzazione. In alcuni casi, come nelle fratture della colonna vertebrale e in quelle del bacino, nelle quali è più temibile l'esistenza di lussazioni associate, può rendersi indispensabile una TAC. La prognosi delle fratture traumatiche è molto variabile, principalmente in relazione a tre evenienze: presenza o meno di esposizione (e quindi di infezione); eventuale attraversamento di un'articolazione (con sua scomposizione); possibile coesistenza di lesioni vascolari o nervose. Quando la frattura è accompagnata da una di queste complicazioni, la prognosi è piuttosto severa e implica inevitabili ritardi di consolidamento e un numero imprecisabile di interventi chirurgici aggiuntivi. In tutte le altre più numerose evenienze la prognosi è favorevole con restitutio ad integrum, o quasi, se la terapia messa in opera è corretta. Unica eccezione è data dalla frattura del collo del femore, per la quale si preferisce oggi rinunciare alla terapia e provvedere subito all'impianto di un'artroprotesi, dato l'elevato rischio di un mancato consolidamento per sfavorevoli condizioni anatomiche locali di natura vascolare. Nelle fratture patologiche, che vanno tuttavia curate, la prognosi varia molto a seconda del substrato morboso: è fausta quando la frattura si è prodotta sul terreno di un'affezione similtumorale o tumorale benigna ed è, al contrario, infausta, quando si è prodotta sul terreno di un tumore aggressivo e maligno. Nelle fratture ostetriche e nei distacchi epifisari la prognosi è del tutto favorevole.

Meccanismo di guarigione

Tutte le fratture traumatiche guariscono mediante una risaldatura dei monconi, purché non interferiscano condizioni proibitive dipendenti da situazioni morbose generali. Il meccanismo naturale di guarigione è il seguente: dall'ematoma circostante e infiltrante i monconi di frattura si sviluppa una reazione infiammatoria, alla quale fa precocemente seguito un reclutamento e una moltiplicazione di cellule connettivali pluripotenti che si stratificano a manicotto sulle superfici esterne e interne dei monconi ossei, dando luogo a un callo fibroso, o fibrocartilagineo; dopo circa una settimana le cellule di questo callo si differenziano in osteoblasti, con trasformazione, all'incirca nella terza settimana, in callo osteoide; qualche settimana più tardi, grazie alla deposizione di sali calcarei apportati dal torrente circolatorio, si sviluppa gradatamente un callo osseo, che provvede appunto al consolidamento e quindi alla guarigione. Il callo osseo si suddivide, a sua volta, in due frazioni: callo osseo periostale (che circonda le superfici esterne dei monconi ossei) e callo osseo endostale (incastrato tra le superfici interne di esse). Il primo, di norma, è inizialmente esuberante, cioè più voluminoso del necessario. Gli osteoblasti tendono però a disporsi gradatamente in traiettorie morfofunzionali idonee a ricomporre l'architettura interna dell'osso rigenerato in modo uguale alla situazione precedente la frattura; si verifica allora un rimodellamento del callo osseo, tramite il quale la parte esuberante va incontro (anche se non sempre) ad atrofia e gli osteoblasti cessano la loro attività osteopoietica (cioè di produzione di nuovo tessuto osseo), trasformandosi in osteociti, ovvero in cellule adulte destinate a controllare gli equilibri metabolici della impalcatura ossea rigeneratasi.

Principi di terapia

Da quanto detto sul processo di riparazione delle fratture si evince che la terapia non consiste nel promuovere, far sviluppare e crescere il callo osseo, dal momento che ciò avviene spontaneamente, per via naturale. Ciò è dimostrato, infatti, dalla constatazione che negli animali selvatici (e specialmente in quelli vittime di conflitti venatori) le fratture sono capaci di guarire senza alcuna terapia, sia pure a prezzo di risultati funzionalmente compromessi a causa di deformazioni, accorciamenti, disallineamenti. Si parla, in tal caso, di 'consolidamento viziato', che negli anni passati si verificava anche nell'uomo per trascuratezza (omissione o ritardo) nel sottoporsi al controllo medico, oppure anche per fiducia in terapie alternative non di natura medica. La terapia si prefigge dunque unicamente di far risaldare l'interruzione ossea nell'esatta situazione anatomica, premessa indispensabile per il ripristino della meccanica originaria del segmento scheletrico fratturato e condizione essenziale al fine di conseguire una guarigione perfetta. Per arrivare a ciò, la terapia deve mirare inoltre a evitare effetti collaterali contrastanti, dovuti all'immobilizzazione protratta, responsabile di rigidità articolari, di ipotrofie muscolari e anche di ipotrofie ossee distrettuali. In caso di postumi di questo genere, infatti, al consolidamento osseo potrebbe non corrispondere una guarigione clinica ottimale. A problemi di questo tipo si trovava di fronte la terapia adottata fino alla metà del 20° secolo, fondata sulla riduzione della frattura (atto tecnico, praticato di frequente con l'ausilio dell'anestesia generale, capace di ricondurre nella giusta posizione anatomica i frammenti ossei attraverso manovre esterne, avvalendosi frequentemente di una preliminare trazione transcheletrica idonea a favorire il loro riallineamento e il riassorbimento dell'ematoma) e sull'immediata contenzione (mantenimento della riduzione, e cioè del riallineamento nei diversi piani) in apparecchio gessato. Tale metodo aveva il vantaggio di essere sovente attuabile in modo incruento, cioè senza bisogno di incisioni chirurgiche. Il progresso tecnologico verificatosi nella seconda metà del 20° secolo ha messo in disuso l'apparecchio gessato, che viene ora impiegato in circostanze limitate, e cioè in fratture semplici destinate a consolidare in breve tempo, in fratture che hanno sedi prognosticamente molto favorevoli, in fratture senza spostamento, non richiedenti a priori manovre di riduzione, e nei distacchi epifisari dell'adolescenza. Le fratture ostetriche possono essere addirittura curate con un semplice bendaggio molle. Nella grandissima maggioranza delle altre fratture, la riduzione e la contenzione vengono raggiunte mediante una fissazione interna, detta osteosintesi (dal greco ὀστέον, "osso", e σύνθεσις, "ricongiunzione") metallica, la quale permette, in virtù della sua forte tenuta, di evitare l'immobilità della muscolatura e delle articolazioni. Questo metodo ha permesso una forte diminuzione del tempo di ospedalizzazione e di convalescenza, pur con l'inconveniente di essere necessariamente cruento. In relazione all'obiettivo di minimizzare il gesto cruento è divenuto di uso corrente un importante dispositivo tecnologico, chiamato amplificatore di brillanza. Si tratta di un apparecchio radioscopico utilizzabile in ambito operatorio e basato sul principio di riprodurre un'intensificazione dell'immagine radioscopica su un video, utilizzando come sorgente microdosi innocue di raggi X. Si possono in questo modo eseguire interventi chirurgici mirati e guidati, valutando sullo schermo televisivo come ridurre i frammenti di frattura e come fissarli fra loro. Tale dispositivo ha anche permesso, nelle fratture diafisarie, di eseguire una 'osteosintesi a cielo chiuso', vale a dire praticata introducendo i mezzi metallici di fissazione della frattura attraverso un'incisione chirurgica molto piccola. I mezzi di osteosintesi metallica sono in generale costituiti da leghe metalliche purissime, foggiate in molteplici maniere conformemente alla morfologia anatomica dei distretti ossei sedi di fratture. Quelli impiegati sono numerosissimi e vengono progressivamente sostituiti da altri dotati di sempre maggiore biocompatibilità. Si distinguono mezzi di osteosintesi centrale e periferica: i primi sono più spesso chiamati endomidollari, in quanto vengono introdotti e fissati dentro il canale midollare dell'osso diafisario e hanno forma di chiodi; i secondi vengono meglio denominati corticali, perché destinati a essere applicati sulla superficie corticale o compatta dell'osso e hanno foggia di placche o lama-placche fornite di una serie di fori per il passaggio e l'avvitamento di viti che attraversano lo spessore osseo. Non sembra necessario aggiungere quanto variabilmente raffinato debba essere lo strumentario per la messa in opera di questo sofisticato materiale di osteosintesi, poiché ognuno di essi pretende il proprio specifico. Il metodo dell'osteosintesi metallica è applicabile, quando necessario, in tutte le fratture, tranne in quelle esposte, a causa della loro reale o potenziale infezione. Per la terapia di queste ultime viene utilizzato, di regola, il metodo dell'osteotassi (dal greco ὀστέον, "osso", e τάξις, "allineamento") che, al fine di riallineare i segmenti ossei spostati, si avvale di un dispositivo di riduzione e contenzione denominato fissatore esterno. Questo viene applicato su di una serie di fili o chiodini metallici inseriti per via percutanea nei segmenti ossei fratturati, ma a notevole distanza dalla sede della loro esposizione. Un riquadro metallico di cui il dispositivo si compone viene poi montato e stabilizzato su ognuno dei fili o chiodini in modo che possa in successione di tempo imprimervi graduali forze di compressione, di distrazione o di rotazione in qualunque piano si renda necessario per allineare le superfici di frattura. Tutto ciò avviene per mezzo di microviti che il paziente impara a manovrare da sé giorno per giorno, fino a che il controllo radiologico dimostrerà il raggiungimento dello scopo. La ferita cutanea viene, nel contempo, medicata e protetta, in modo da stimolarne la migliore cicatrizzazione possibile; può talvolta rendersi necessario un innesto autologo di pelle. Ognuno dei mezzi di osteosintesi metallica e dei fissatori esterni ha varia nomenclatura e varie sigle, in parte riguardanti il nome dell'ideatore, in parte la ditta che ne ha il brevetto di fabbricazione. L'introduzione di tutta questa tecnologia ha consentito, dunque, di conseguire soluzioni terapeutiche di grande importanza scientifica e sociale, impensabili fino a pochi decenni fa, e sicuramente riguardanti un elevatissimo numero di fratture, con un totale sconvolgimento, per non dire capovolgimento, della loro prognosi. Basti pensare al fatto che grazie alle nuove tecnologie i pazienti sono in grado di riacquistare l'autonomia motoria in breve tempo, in quanto garantiti dalla sicura tenuta dei mezzi di osteosintesi o dei fissatori esterni, molto prima che il callo osseo abbia raggiunto la sua tenuta biologica. Sono ormai diventati rarissimi i casi di mancato consolidamento di una frattura, ai quali si dà nome di pseudoartrosi, cioè falsa articolazione: in questo caso, infatti, i monconi di frattura non saldati fra loro finiscono per muoversi permanentemente l'uno sull'altro, come se si fosse creata tra loro un'articolazione che è però abnorme per definizione.

Bibliografia

l. böhler, Die Technik der Knochenbruchbehand- lung, Wien, Maudrich, 1929 (trad. it. Tecnica del trattamento delle fratture, Milano, Vallardi, 1940-51).

 l. gui, Fratture e lussazioni, Bologna, Gaggi, 1981.

a. mancini, c. morlacchi, Clinica ortopedica. Manuale-Atlante, Padova, Piccin-Nuova libraria, 19872.

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