Jacobi, Friedrich Heinrich

Dizionario di filosofia (2009)

Jacobi, Friedrich Heinrich


Filosofo (Düsseldorf 1743 - Monaco 1819).

Vita e opere

Successe al padre nella direzione dell’attività commerciale di famiglia, ma si dedicò ben presto agli studi filosofici e letterari, dando anche vita, nella sua casa nei pressi di Düsseldorf, a un vivo centro intellettuale. Entrò in contatto con i maggiori esponenti della cultura tedesca (Goethe, Herder, Lessing, Hamann, Chr.M. Wieland), con molti dei quali stabilì anche rapporti epistolari: le sue lettere rappresentano, sotto questo profilo, uno dei documenti più interessanti per comprendere quella stagione della cultura tedesca che va dall’Illuminismo all’idealismo, passando per il Romanticismo, il classicismo goethiano, il criticismo di Kant. Fu presidente dell’Accademia delle scienze di Monaco. Le sue prime opere furono due romanzi filosofici, Allwill e Woldemar, pubblicati (1772) sul Deutscher Merkur di Wieland; poi (1785) uscirono i Briefe an M. Mendelssohn über die Lehre des Spinoza (trad. it. La dottrina di Spinoza: lettere al signor Moses Mendelssohn), forse la sua opera più importante, frutto dei colloqui avuti con Lessing, che contribuì in modo decisivo alla rinascita di interesse per il pensiero di Spinoza negli ambienti romantici. Il suo pensiero si determinò tuttavia con maggior esattezza nel dialogo D. Hume über den Glauben, oder Idealismus und Realismus (1787; trad. it. Idealismo e realismo), e nei successivi Sendschreiben an Fichte (1799; trad. it. Fede e nichilismo: lettera a Fichte) e Über das Unternehmen des Kriticismus, die Vernunft zu Verstande zu bringen (1801; trad. it. in Scritti kantiani). Nel 1811 diede alle stampe il saggio Von den göttlichen Dingen (1811; trad. it. Le cose divine e la loro rivelazione), rivolto contro Schelling, e iniziò la pubblicazione dei suoi Werke (6 voll., 1812-25; importante la prefazione al secondo volume, del 1818).

Razionalismo e nichilismo

L’esito di ogni conseguente razionalismo, per J., è lo spinozismo, ossia l’identificazione di Dio con la natura e con il mondo, da cui deriva un sostanziale ateismo. Su questa strada si collocano per J. la filosofia di Fichte (il suo sarebbe uno spinozismo ‘rovesciato’) e quella di Schelling, che giungerebbe alla completa negazione dello spirito e della natura facendoli coincidere in una identità tanto assoluta quanto vuota: è questa la prova, per J., che l’idealismo – dissolvendo ogni realtà esterna all’Io – conduce al nichi- lismo (➔) (termine che J. introduce nel linguaggio filosofico). Contro questa linea di pensiero J. difende la validità della fede come sentimento dell’incondizionato: «noi tutti siamo nati nella fede e nella fede dobbiamo restare, come tutti siamo nati nella società e nella società dobbiamo restare». Tutte le nostre certezze – l’esistenza del mondo fuori di noi, della libertà, dell’immortalità, di Dio – si fondano sulla fede: eliminandola si cade nell’idealismo, dal punto di vista gnoseologico, e nel nichilismo, dal punto di vista ontologico. Ma ogni fede, a cominciare da quella nell’esistenza del mondo esterno, è l’esito di una rivelazione; e ogni rive- lazione presuppone un’esistenza che rivela, un’entità creatrice che è all’origine di ogni esistenza. J. giunge così all’idea che la fede in Dio sia qualcosa di naturale, inscritto nel cuore dell’uomo. Nella negazione di una possibile dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, J. si accorda quindi con Kant, del quale tuttavia contesta l’idea di una religione entro i limiti della ragione, nonché il formalismo del trascendentalismo (che, per divenire coerente, non può che trasformarsi in idealismo).

La critica di Hegel

La posizione di J. venne duramente criticata da Hegel, che la identifica con la terza posizione del pensiero di fronte all’oggettività: se il criticismo di Kant, concependo il pensiero come soggettivo, aveva individuato nell’universalità astratta il suo carattere fondamentale, la filosofia di J. rappresenta il punto di vista opposto, che identifica il pensiero come «attività solo del particolare». Tanto Kant quanto J. rendono quindi il pensiero incapace di comprendere la verità, che è l’universalità in sé concreta. Per J. la ragione è sapere immediato, fede: ma si tratta di categorie usate in modo arbitrario, come dimostra per es. la realtà della fede cristiana, i cui ricchissimi contenuti (istituzionali, conoscitivi, dottrinali e spirituali) sono quanto di più lontano si possa immaginare dall’astrattezza e dalla indeterminazione del sapere immediato. Se il ‘sapere immediato’ diventa il criterio della verità, osserva Hegel, allora «ogni superstizione e culto d’idoli viene dichiarato verità» e «il più illegittimo e immorale contenuto del volere si trova giustificato. Per l’indiano, la vacca, la scimma, o il brahmino, il lama, non sono già Dio in forza del cosiddetto sapere immediato, in forza di raziocini e di sillogismi, ma egli vi crede».

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