MURNAU, Friedrich Wilhelm

Enciclopedia del Cinema (2004)

Murnau, Friedrich Wilhelm

Giovanni Spagnoletti

Nome d'arte di Friedrich Wilhelm Plumpe, regista cinematografico tedesco, nato a Bielefeld il 28 dicembre 1888 e morto a Santa Barbara (California) l'11 marzo 1931. Attore come tanti uscito dal gruppo di Max Reinhardt, dopo alcune prove di ottimo artigianato si affermò, a partire da Nosferatu ‒ Eine Symphonie des Grauens (1922), come uno dei massimi registi della storia del cinema. Poeta sperimentale della macchina da presa e mirabile esploratore dell'animo umano, fu autore fortemente attratto dal dramma del Singolo che spesso situa in una polemica romantica contro la disumanizzazione indotta dal sistema capitalistico. In una non estesa filmografia, pur toccando tutti i generi, conseguì i massimi risultati nel Kammerspielfilm con Der letzte Mann (1924; L'ultima risata), nelle trascrizioni di opere letterarie, o nel melodramma, per es. in Sunrise. A song of two humans (1927; Aurora), realizzato oltreoceano e per il quale ottenne tre premi Oscar.

Nato in una ricca famiglia di industriali tessili dove la madre sosteneva gli interessi artistici del figlio, nel 1907 conseguì la maturità a Kassel, iniziando poi, senza concluderli, studi di filosofia a Berlino. Probabilmente già dal 1909 assunse il nome d'arte di Murnau, dall'omonima cittadina della Bassa Baviera in cui si era recato in viaggio con l'amico H. Ehrenbaum-Degele. Così, nel 1928, lo stesso autore riassume le tappe della propria biografia: "Sono il figlio della terra rossa e nacqui nella Westfalia. Ho studiato storia dell'arte a Heidelberg e a Berlino e, successivamente, mi dedicai al teatro. Infine mi ritrovai da Max Reinhardt. Qui ho avuto come colleghi alcuni attori di ruoli secondari, si chiamano Conrad Veidt e Ernst Lubitsch. Seguirono molte tournée teatrali e ben presto cominciai anch'io presso Reinhardt la mia attività di regista teatrale. La guerra mi vide al fronte come ufficiale dell'aviazione. […] Qui [in Svizzera dove era internato] arrivai al cinema in modo singolare. Quando misi in scena alcune pièces a Zurigo e a Berna, l'ambasciata tedesca mi contattò e mi affidò il compito di realizzare film di propaganda. Questa attività mi interessò molto, tanto che decisi subito di dedicarmi interamente al cinema" (F.W. Murnau über sich selbst, 1928). Tornato a Berlino, nel primo dopoguerra consumò in fretta l'apprendistato nel cinema: girato un primo film, Der Knabe in Blau, noto anche come Der Todesmaragd (1919, perduto), ispirato al quadro di Th. Gainsborough Blue boy e a The picture of Dorian Gray di O. Wilde, nel successivo Satanas (1920; Lucifero, anch'esso perduto), film in tre episodi con supervisione artistica e sceneggiatura di Robert Wiene, ebbe modo di lavorare con l'attore Conrad Veidt e il direttore della fotografia Karl Freund, con i quali a lungo avrebbe collaborato. Altro decisivo incontro fu quello, in Der Bucklige und die Tänzerin (1920, perduto), con Carl Mayer cui si deve la sceneggiatura della sua prima opera importante conservata: Der Gang in die Nacht (1921). Preceduto da Schloss Vogelöd (1921), altro film sceneggiato da Mayer che conferma la già piena maturità artistica del regista, Nosferatu, sceneggiato da Henrik Galeen, si impose come un capolavoro di fantasy, rafforzata dall'alone di leggenda dal quale fu circondata la sua realizzazione, in cui sono ravvisabili elementi riconducibili all'Espressionismo. Per Nosferatu M. venne perseguito e condannato per plagio del racconto di B. Stoker e i negativi del film furono distrutti. Queste due opere iniziarono, insieme ad alcuni grandi Heimatfilme ante litteram scritti da Thea von Harbou ‒ Der brennende Acker (1922; Il campo del diavolo), Phantom (1922; Il fantasma, dal romanzo di G. Hauptmann) o il perduto Die Austreibung (1923, dal romanzo di C. Hauptmann) ‒, un'acuta riflessione sulla dissoluzione del mondo borghese e contadino operata tramite agenti endogeni, di natura psicoanalitica, o sovrannaturali (il vampiro, il fantasma). Dopo la parentesi giocosa costituita dalla commedia Die Finanzen des Grossherzogs (1924; Le finanze del granduca), M. esplorò anche il Kammerspielfilm, in quello che molti considerano il suo capolavoro, ossia Der letzte Mann, sceneggiato da C. Mayer. Prima di separarsi da Erich Pommer e dall'UFA e trasferirsi a Hol-lywood, all'apice della carriera, realizzò ancora due opere di squisita fattura letteraria: Tartüff (1925; Tartufo) da Molière e Faust ‒ Eine deutsche Volkssage (1926; Faust) da W. Goethe. Sotto contratto per quattro anni alla Fox Film Corporation, girò Sunrise, da Die Reise nach Tilsit di H. Sudermann, sceneggiato da C. Mayer (poi rifatto nel 1939 da Veit Harlan in Die Reise nach Tilsit, Verso l'amore), che prosegue la pessimistica Weltanschauung dell'autore narrando in un sublime e astratto melodramma le vicende simboliche di un uomo scisso tra due donne, tra città e campagna, tra Zivilisation e Kultur. I lavori successivi, invece, risultano appannati dalle pesanti ingerenze della produzione che segnarono, irreversibilmente, la distanza tra il filmmaker e il modo di produzione hollywoodiano: a Four devils (1929; I quattro diavoli, perduto) venne aggiunto un happy end posticcio, mentre gli fu impedito di completare la versione sonorizzata di Our daily bread, inizialmente concepito muto e uscito con il titolo di City girl (1930; Il nostro pane quotidiano). A disagio nella macchina industriale hollywoodiana e seguendo una sua massima ("cerco, attraverso ciascuno dei miei film, di scoprire un nuovo territorio artistico e di trovare nuove forme di espressione poetiche"), M. progettò allora una produzione indipendente con il grande documentarista Robert J. Flaherty, Tabu (1931; Tabù): a Tahiti però, il film venne realizzato, per divergenze stilistiche, dal solo regista tedesco, e fu il suo ultimo capolavoro. Una settimana prima dell'uscita newyorkese del film M. si spense in una clinica di Santa Barbara, in seguito a un incidente d'auto.

Cercare di situare la poliedrica, labirintica personalità del regista di Bielefeld non è semplice, e in più la sua filmografia, dal punto di vista della completezza filologica, si presenta ampiamente lacunosa (9 film perduti su 21 complessivamente realizzati). Personalità multiforme e sperimentatrice quale altre mai ebbe il cinema tedesco, M. è il geniale eclettico, il regista che, toccando o spaziando in generi diversi (dallo Heimatfilm alla commedia, dall'horror e dal Kammerspiel alle riduzioni da opere letterarie), è stato in grado di reinventare ogni volta il cinema sulla base di un filo rosso autoriale, di un paio di ossessioni ricorrenti come il rapporto città-campagna (Der brennende Acker, Sunrise, City girl) o il tema del desiderio trasgressivo (Schloss Vogelöd, Nosferatu o Phantom). È stupefacente constatare tra l'altro l'affinamento linguistico che corre dallo stile scabro e 'primitivo' di Der Gang in die Nacht, fatto di piani fissi e di dissolvenze a iride, allo 'scatenamento' della cinepresa di K. Freund in Der letzte Mann, oppure al trionfo degli effetti speciali, alla totale dinamizzazione dell'immagine e della profondità di campo nel Faust, il tutto in un lasso di tempo di soli cinque anni. Per fare ciò M. ha sondato ambiti narrativi diversi, usando di volta in volta i migliori sceneggiatori dell'epoca: da H. Galeen (Nosferatu) e Hans Janowitz (Der Januskopf, 1920 e Marizza, genannt die Schmuggler-Madonna, 1922) per i film fantasy, dalla von Harbou per il mélo letterario-contadino (ma anche per la commedia, Die Finanzen des Grosserzogs) a Mayer, il più 'fedele' dei suoi scenaristi, l'autore di cinque suoi film girati in Germania e due a Hollywood.Sulla base degli studi di L. Eisner (1964) e di L. Berriatúa (1990-1992) ormai è consuetudine ricordare la figuratività dell'autore in relazione all'aspetto iconografico e alle citazioni pittoriche (in particolare C.D. Friedrich, ma più in generale tutta la pittura romantica). Ciò che colpisce in M. ‒ ponendolo nel solco uguale e contrario di quel produttivo gruppo di cineasti-pittori degli anni Venti come Hans Richter, Walther Ruttmann o Viking Eggeling ‒ è la pulizia e la cura pittorica dell'immagine, ma altrettanto rilevanti sono le scenografie e lo spazio architettonico dei suoi film. E non soltanto perché in un libro di fondamentale importanza un altro cineasta, Eric Rohmer (1977), ha posto attenzione al problema segnalando il sistematico uso del décadrage, ossia di figure decentrate all'interno dell'inquadratura; ma anche perché molti lavori del cineasta di Bielefeld vanno analizzati sotto il profilo della complessa topografia degli interni (per es. il labirinto in Schloss Vogelöd, lo scalone in Tartüff) e degli esterni ricostruiti in studio: dalla Breslavia di Phantom agli avveniristici modelli di Faust. Tuttavia anche la dialettica tra l'ispirazione pittorica e le ardite costruzioni architettoniche esaurisce solo in parte la ricchezza concettuale dell'opera di M., che ha scelto la contaminazione e la varietà dei generi come sua cifra caratteristica. Esiste, infatti, un M. autore incline alla commedia ‒ a dire il vero forse non eccelso ‒ che corre parallelo all'autore 'spirituale' e melanconico. Non solo perché ha girato una commedia e mezzo (Die Finanzen des Grossherzogs e Tartüff), ma per il fatto che spesso mescola gli ingredienti: toni lieti determinano per es. l'atmosfera narrativa della prima parte di Nosferatu, o ancora, in Faust, la perdizione di Gretchen viene preparata da un giocoso e istrionesco Mefisto-Emil Jannings. Tuttavia, in una poetica che assume la molteplicità come principio ispiratore, una 'stella polare' rimane fissa, l'assoluto naturale osserva e accompagna i tristi destini dei protagonisti. Mai quale puro, semplice sfondo scenografico, la natura con le sue forze (vento, tempesta, pioggia) ha una funzione drammaturgica polisemica e catartica, sia che sia ricostruita in studio, come in Sunrise, sia che comporti una forte e aspra fisicità ottenuta dalle riprese en plein air. Il tutto poi si inquadra sullo sfondo di una forte matrice tedesca, a partire da quel caratteristico romanticismo che attraversa intimamente i personaggi di M., sia i molti perdenti (anche se salvati in extremis da un consolatorio e necessario happy end) sia i pochi vincenti. Ci si ritrova allora nell'alveo degli Schwärmer, degli eterni sognatori entusiasti, così come sono rappresentati da Goethe e dallo Sturm und Drang. Ma non solo: tedesca è l'ossessione della divisa (cioè il problema dell'identità) che muove e sconvolge Jannings in Der letzte Mann; tedesca ancora è la latente matrice conservatrice dei suoi melodrammi, dall'ascetico e ruvido Der brennende Acker a Sunrise, già pensato per un pubblico sovranazionale. Si è dunque alla fonte dello Heimatfilm, ma anche al tentativo di una sfida sovrannaturale destinata al fallimento, al tentativo di un 'demoniaco' superamento dell'ordine naturale. Di forte matrice tedesca è infine il tema del compimento tragico dell'amore sul rogo della morte, così come accade nel finale del Faust, che prelude, inconsapevolmente, ai futuri melodrammi funerari di V. Harlan. In ogni caso, qualunque sia stata la radice antropologica della sua arte ‒ entusiasmo romantico o ossessione psicologica o altro ancora ‒ in M. viveva una molla inarrestabile che lo spingeva sempre avanti, con irrequietezza, verso acquisizioni sempre nuove. Finché una morte prematura, a un bivio fondamentale della sua carriera, non sottrasse alla storia del cinema uno dei suoi artisti meno monocordi.

Bibliografia

F.W. Murnau über sich selbst, in Filmkünstler. Wir über uns selbst, hrsg. H. Treuner, Berlin 1928.

L. H. Eisner, F.W. Murnau, Paris 1964.

P.G. Tone, Friedrich Wilhelm Murnau, Firenze 1976.

E. Rohmer, L'organisation de l'espace dans le "Faust" de Murnau, Paris 1977 (trad. it. Venezia 1985).

Friedrich Wilhelm Murnau, hrsg. P.W. Jansen, W. Schütte, München 1990.

L. Berriatúa, Los proverbios chinos de F.W. Murnau, 2 voll., Madrid 1990-1992.

H.H. Prinzler, Murnau. Ein Melancholiker des Films, Berlin 2003.

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