EMO, Gabriele

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 42 (1993)

EMO, Gabriele

Roberto Zago

Nacque a Venezia il 9 dic. 1521 da Agostino di Gabriele e da Franceschina Zen di Vincenzo.

Primo di cinque fratelli (mancano notizie su eventuali sorelle) apparteneva al ramo della famiglia originario di S. Simeone Apostolo. Il nonno Gabriele era fratello minore di Giorgio, responsabile con Andrea Gritti delle operazioni militari al tempo della guerra di Cambrai, e di Leonardo, esponente di primo piano della vita politica veneziana dei primi quarant'anni del secolo. Il padre Agostino, pur ricoprendo incarichi in importanti organi giudiziari e amministrativi dello Stato, non emerse dalla dignitosa ma comune routine del patrizio chiamato ad assolvere ai doveri del suo ceto. Quanto ai fratelli nessuno si mise in luce, percorrendo ciascuno una modesta carriera in incarichi di secondo piano.

L'E. - da non confondere con i cugini Gabriele di Gerolamo e Gabriele di Pietro - entrò in Maggior Consiglio nel 1539, a diciotto anni, grazie alla estrazione della balla d'oro nel giorno di S. Barbara. Debuttò in politica qualche anno più tardi, nel 1544, entrando a far parte dell'Ufficio delle Entrate, il cui compito era la riscossione dei dazi sulle merci che giungevano a Venezia. Un incarico non rilevante ma in grado di fornire ai giovani patrizi desiderosi di formarsi l'opportunità di impratichirsi con i meccanismi amministrativi dello Stato, in attesa di affrontare compiti più importanti. Le circostanze e le inclinazioni personali avrebbero portato l'E. a svolgere la sua carriera prevalentemente sul mare; ma per il momento insegui le diverse opportunità che gli si offrivano, come dimostra la frequente presenza del suo nome negli elenchi delle cariche in ballottaggio in questi anni. Nel 1550 fu eletto nel Consiglio dei trenta, magistratura giudiziaria d'appello, e alternò l'incarico con quello di sopracomito. Negli anni seguenti fu sovente in lizza per comandi in mare e nel 1552 assunse quello di patron delle galere dirette a Beirut; occasione utile specie per chi aspirasse a far carriera marittima o ricercasse la fortuna dei commerci. Per l'E. fu però un'esperienza unica; e non si sa quanto vantaggiosa sotto il profilo economico. Sicuramente rafforzò la sua esperienza di marinaio che mise a profitto quando ebbe un nuovo incarico come sopracomito. Nello stesso periodo fu anche castellano a Mestre.

Si era nel frattempo unito in matrimonio, il 29 luglio 1551, con Marina Morosini, figlia di Giovambattista. Della coppia si conoscono due figlie e un figlio, Agostino, nato nel 1559.

L'E. continuava la sua carriera, ora impegnato in magistrature cittadine ora in reggimenti minori. Nel 1555 entrò nella Quarantia civil vecchia, e quasi subito dopo fu nominato podestà ad Asolo ove si fermò fino al 1557. Si susseguirono, alternandosi, nel corso degli anni della decade gli incarichi di giudice dei tribunali delle Quarantie e i servizi sulle galere. Nel marzo del 1562 il suo cursus honorum ebbe un salto di qualità, essendo stato destinato a Cerigo in qualità di provveditore e castellano. Vi rimase fino al 1565, dando buona prova di sé, tanto da ricevere nel 1568 la nomina di conte a Zara. Terminò il mandato alla vigilia dello scoppio delle ostilità con l'impero ottomano; e mentre la Repubblica rafforzava il suo dispositivo navale per contrastare l'attacco a Cipro, l'E. fu nominato governatore di galea, ma non fece in tempo ad assumere la carica perché il Senato lo scelse come nuovo conte e capitano a Sebenico.

Di importanza fondamentale nel sistema difensivo veneziano, il sito era anche il perno di una più vasta azione di contenimento della pressione dei pirati e di quanti altri potevano minacciare il dominio veneto in Adriatico. La minaccia turca, diminuita dopo Lepanto, aveva lasciato il posto alla pirateria, specie a quella degli Uscocchi che non dava tregua alla vigilanza della Repubblica. La città, inoltre, e le sue attività economiche erano minacciate dalla vicina Scardona.

Nei dispacci inviati a Venezia l'E. non manco di far rilevare la necessità di intervenire. "Son più che certo che sarò tenuto per tedioso ma più presto voglio tale esser reputato che negligente in rapresentar il male che da Scardona si può havere", scrisse ai capi del Consiglio dei dieci, nel 1571, e accompagnava queste considerazioni con il richiamo all'importanza della città che governava e alla priorità della difesa degli interessi dei suoi abitanti. Scardona "è loco di poca importantia a spianarlo che quando fusse suo volere [dello Stato veneto, s'intende] si teniria tal mezo et ordine che saria il cavar, come suol dirsi, un spin dagli occhi a questa città".

Di li a poco i Veneziani condussero una spedizione punitiva alla quale dette un sostanziale contributo lo stesso E., ricevendo per questo attestazioni di gratitudine e stima da parte dei cittadini di Sebenico. Tornato in patria, ebbe una parentesi domestica a seguito della elezione a giudice di petizion, alla fine del 1574. La carriera dell'E. continuava ora più speditamente e le numerose presenze del suo nome in particolare nei ballottaggi per cariche marittime di una certa importanza, sebbene non coronate dal successo, erano il segno di un'accresciuta stima nei suoi confronti. Ne fu conferma la sua entrata nella zonta del Senato alla metà del decennio, una ventura che si ripeterà altre volte, negli anni successivi. Nel 1577, dopo un'altra parentesi domestica come sopragastaldo gli giunse la nomina a provveditore a Zante, ove si recò nel giugno dell'anno seguente, rimanendovi due anni.

Nella relazione presentata al Senato, a conclusione del suo mandato (1580), l'E. dedicò largo spazio all'aspetto economico, soffermandosi sulle capacità produttive dell'isola e sul respiro internazionale delle sue risorse, a voler sottolineare il valore non solo militare di Zante. Non mancò poi di rilevare - anticipando note ben più preoccupate di futuri, analoghi rapporti - una importante presenza straniera nell'economia isolana: "Vengono condotte - si legge nella relazione - a quell'isola ogni anno da quattro anni in qua, quattro over cinque navi inglesi di bona portata, cariche di ogni sorte di panina et altre merci che abbondano tutta l'isola… la qual cosa per mio giudicio cade a grandissimo suo danno di questa città e di suoi datii".

Ritornato a Venezia, la carriera dell'E. fece un ulteriore salto di qualità: nello stesso anno, il 1581, fu nominato governatore nel Collegio della milizia da mar, entrò in Senato e venne eletto alla magistratura dei Tre sopra le galere dei condannati. Prima che l'anno si compisse gli giunse la nomina a governatore delle galee dei condannati (o delle sforzade, come si diceva) a compenso della mancata elezione a capitano del Golfo, carica per la quale gli era stato preferito Giovanni Bembo.

Questa carica prestigiosa (la si potrebbe equiparare a quella odierna di ammiraglio) coronava una lunga attività svolta sul mare e gli perveniva proprio mentre si andava intensificando l'attività degli Uscocchi, tanto più aggressiva e intraprendente quanto più si facevano tesi i rapporti tra Venezia, gli Asburgo e la Sede apostolica.

Dopo Lepanto, nonostante la pace tra Venezia e l'impero ottomano, non erano mancati scontri armati occasionali che avevano coinvolto navi veneziane e turche o barbaresche, il tutto dovuto al clima di tensione, allo stillicidio della pirateria e alla stressante vigilanza che la marina della Serenissima doveva sostenere. Tali episodi, però, non sfociarono mai in una guerra aperta. L'E. da più di due anni era uno dei responsabili di questo equilibrio tra la difesa degli interessi della patria e la salvaguardia, altrettanto importante, della pace e si era portato con perizia ed equilibrio. Nulla faceva presagire quanto sarebbe accaduto.

Il 17 ott. del 1584 (secondo il Tenenti, p. 41; il 21 settembre secondo la testimonianza di Gerolamo Tiepolo imbarcato con l'E.) l'E. attaccò con altre due navi al suo comando una galera barbaresca nei pressi di Cefalonia. Dopo un lungo inseguimento e un combattimento la catturò e saccheggiò. A bordo, oltre all'equipaggio, vi erano numerose donne che accompagnavano a Costantinopoli la moglie e il figlio di Ramadan pascià, viceré di Tripoli, con un'ingente fortuna. L'E. redasse un rapporto sull'episodio che inviò ai suoi superiori, esponendo i fatti come se si fosse trattato di un normale episodio bellico. Sembrava ignaro - o tale voleva apparire - della particolare gravità e dimensione dell'accaduto e se ne stava a Corfù "otioso pocco pensando al error fatto - scrisse in un suo libretto di appunti Nicolò Donà, fratello del futuro doge Leonardo - e al pericolo in che haveva messo la Republica, poiché se Turchi non fossero stati occupati nella guerra di Persia, questo accidente era potissima causa de farne haver la guerra". La notizia suscitò scalpore e allarme nel governo della Serenissima. I Turchi, che erano stati tempestivamente informati dell'accaduto, protestarono vibratamente e presentarono al bailo una versione dei fatti diametralmente opposta a quella fornita dall'Emo. L'ambasciatore Giovan Francesco Morosini condusse con molta abilità e sangue freddo l'intera questione, sfruttando ampiamente la mancanza di volontà di entrambe le parti di venire ad uno scontro armato di più vaste proporzioni e utilizzando sapientemente il denaro messogli a disposizione con gli esponenti turchi che contavano. Il Senato ordinò subito un'inchiesta sull'operato dell'E. e intanto ne ordinò l'arresto e la traduzione a Venezia.

Mentre l'istruttoria affidata ad un avogador di Comun procedeva alacremente e in senso via via più sfavorevole all'imputato, sul piano politico si accendeva in Senato un vivace dibattito tra chi intendeva difendere ad ogni costo la pace e chi, irritato e offeso da una neutralità rinunciataria, non condivideva una arrendevolezza troppo precipitosa nei confronti delle richieste ottomane. E non mancava poi chi non troppo sommessamente suggeriva di approfittare delle circostanze per cavarne qualche vantaggio per Venezia. Il contrasto si riscaldò quando si trattò di votare a favore o contro l'invio di un ordine al provveditore dell'Armata di facilitare la fuga da Corfú, ove si trovavano, degli schiavi cristiani trovati sulla galera catturata, onde evitare una loro restituzione ai Turchi, se ne avessero fatta formale richiesta.

Guidavano gli schieramenti contrapposti due senatori di primo piano, Marcantonio Barbaro e Giacomo Foscarini. Il Barbaro era del parere che la restituzione degli schiavi potesse giovare a smorzare la tensione e a far capire alla Porta che il governo veneziano era estraneo all'episodio, frutto del colpo di testa di un ufficiale disubbidiente. Foscarini, invece, replicava che un gesto simile avrebbe appannato l'immagine di Venezia come Stato cristiano; inoltre faceva rilevare il danno che ne sarebbe derivato per le future operazioni navali. "Se noi habbiamo in molte occasioni conosciuto che la speranza che hanno havuto i schiavi di esser liberati, è stata causa che non hanno voluto vogar onde i navili sono stati sopragionti et presi dalle nostre galee, quando se li levarà la speranza della libertà, crede alcuno che possano cascar in questo pensiero et che non stimaranno più nemica la S. V. di quello che faccino i lor patroni?" E un simile comportamento - concludeva - avrebbe suscitato anche il disprezzo degli stessi Turchi, apparendo incomprensibile e innaturale non aiutare i propri correligionari.

Alla fine si verrà ad un compromesso barattando gli schiavi con una forte somma di denaro. L'E. che era giunto a Venezia il 20 dicembre in stato d'arresto assieme al nipote Giovanni, figlio del fratello Costantino, accusato di complicità, fu sottoposto ad un processo rapido e sommario, nel corso del quale si rivelarono schiaccianti le prove e le testimonianze a carico dell'imputato. Un imputato che non sembrò difendersi con particolare vigore, dei quale non si conoscono dichiarazioni, lettere o altro che spieghino meglio l'attacco alla galera e l'infamante saccheggio. Il fascicolo processuale stesso, che abbonda di testimonianze e di inventari delle cose preziose a bordo della nave barbaresca, non contiene la sua difesa. Solo lo scamo e anodino rapporto redatto, come si è detto, all'indomani dello scontro. L'E. fu riconosciuto colpevole e condannato a morte con una maggioranza schiacciante, per aver agito - dice la motivazione del Senato - "contra la espressa commissione … di rispettare et amicabilmente trattar tutti li vasselli del Serenissimo Signor Turco come li propri nostri".

Il nipote "fu bandito", riporta il Barbaro. "Fo prigione 12 anni, poi, palesando le gioie e le robbe della gallera barbaresca presa da suo zio per il valore di più di 6000 zecchini e per supplica presentata dalla madre, il Senato lo liberò". Fini i suoi giorni nel 1615 a Postumia.

Il 30 genn. 1585 (1584 more veneto) tra le due colonne della piazzetta S.Marco, l'E. "fu fatto morire - si legge negli Annali mss. di Alvise Michiel - il quale non parlò mai e fu levata la testa con un colpo solo alla presenza di più di quarantamila persone, che quasi tutte biasimavano per compassione". Le spoglie ebbero sepoltura nella chiesa veneziana dei servi ove riposavano i suoi antenati. Il Senato, respingendo la proposta di Leonardo Donà di non far eseguire la sentenza in pubblico per rispetto alla nobiltà veneziana, aveva voluto dare un esempio.

Se a distanza di tempo qualcuno ravvisò nella tragica fine dell'E. il segno di una "sorte avversa" (G. Priuli, Pretiosi frutti …) i contemporanei, specie i più rigorosi, furono alieni da ogni indulgenza. Tra questi Nicolò Donà (nel già citato libro di appunti) per il quale l'E. fu "huomo tenuto di pocco saldo giudicio con pocca cognition di cose di stado e de niun antiveder civile". E cosi conclude il suo duro giudizio, a commento dell'episodio che portò l'E. sul patibolo: "Bisogna obedir le sue comissioni e con turchi procieder in tempo di pace molto caute e destramente poiché la republica non vuol mai falar ma fa tuor de mezo a suoi ministri".

L'E. aveva abitato negli ultimi anni una casa in affitto a S. Marcuola, in corte di ca' Loredan, con la sua famiglia. A questa famiglia, composta dalla vedova e tre figli, lasciava ben poco. Stando alla dichiarazione dei beni presentata nel 1582 - in mancanza di un testamento - si trattava di un modesto immobile a Venezia e qualche terreno, in comproprietà, nel Trevisano.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avagaria di Comun, I, c. 127v; Matrimoni con notizie dei figli, Schedario, sub voce Emo Agostino; Misc. cod. I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, III, c. 399; Segretario alle Voci. Elezioni in Maggior Consiglio, reg. 2, c. 68; reg. 3, cc. 98, 166, 189; reg. 5, cc. 50, 190; Elezioni in Pregadi, reg. 1, cc. 16, 31; reg. 4, cc. 98, 156, 159, 174; reg. 5, cc. 39, 76, 78. Sulle proprietà, Arch. di Stato di Venezia, Dieci savi alle Decime, Redecime 1582, b. 164, condizione n. 1133. Sulla attività, Ibid., Capi del Consiglio dei dieci, Lettere rettori, bb. 280, 283, 296; Collegio (Secreta). Relazioni, b. 62, c. 110. Sul cursus honorum, inoltre, Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. Ital., cl. VII, 822 ( = 8901): Raccolta Consegi, cc. 241 s.; cod. 823 ( = 8902), cc. 257, 266, 289, 295, 300, 305, 308, 314, 334, 340; cod. 824 ( = 8903), cc. 3, 9, 14, 20 s., 39, 72, 76, 78, 103, 111, 210, 214, 230, 345, 353, 360 s., 382; cod. 826 ( = 8905), cc. 7, 62, 64, 68, 72; cod. 827 ( = 8906), cc. 130, 223, 247, 257, 285; cod. 828 ( = 8907), cc. 6, 171, 216, 250; cod. 829 ( = 8908), cc. 21, 29, 114, 124, 137, 256, 302, 308; cod. 830 ( = 8909), cc. 1, 6, 13, 52. Siveda ancora cod. 553 ( = 8812): F. Molin, Memorie, c. 125; cod. 142 ( = 7147): Aggiunta alla Cronaca del Caroldo, p. 331. Sulloscontro con la galera barbaresca, processo e morte: Arch. di Stato di Venezia, Senato. Secreta. Deliberazioni, filza 55; Quarantia criminal, b. 88 (fascicolo del processo); Senato. Secreta. Dispacci Costantinopoli, filza 20; Archivio proprio Contarini, b. 24 (Frammento di diario di mano di G. Contarini, nov. 1584-genn. 1584 m.v.: riporta i discorsi di Marcantonio Barbaro e Giacomo Foscarini nel dibattito in Senato); Provveditori alla Sanità, Necrologi, 816. Infine, si veda, Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Cicogna, 3782: G. Priuli, Pretiosifrutti del Maggior Consiglio II, c. 2; Mss. Donà dalle Rose, 448/13 (appunti di Nicolò Donà); Mss. Cicogna 2555: A. Michiel, Annali, passim; A. Morosini, Istorie veneziane…, in Degl'istorici delle cose veneziane…, Venezia 1718-1720, II, p. 540; III, pp. 34 ss.; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane…, Venezia 1824-1853, I, p. 36; II, p. 436; G. De Hammer, Storia dell'impero osmano, Venezia 1830, XIII, pp. 282 ss.; S. Rumor, Storia breve degli Emo, Vicenza 1910, ad nomen (apologetico e con numerose inesattezze); M. Nani Mocenigo, Storia della marina veneziana da Lepanto alla caduta della Repubblica, Roma 1935, p. 92; A. Tenenti, Venezia e i corsari…, Bari 1961, ad Ind.; Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia 1570-1670 (catal.), Venezia s. d. [1986], ad Ind.

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