GALILEI, Galileo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 51 (1998)

GALILEI, Galileo

Ugo Baldini

Nacque a Pisa il 15 febbr. 1564 da Vincenzio e Giulia Ammannati.

I Galilei (detti così dal nome o soprannome d'un antenato, il cui cognome era Bonaiuti) appartenevano alla nobiltà fiorentina e la loro genealogia è nota dal secolo XIV. Esecutore e compositore di musica, teorico tra i maggiori del Cinquecento, Vincenzio trasmise doti e passione ai figli Galileo, virtuoso di più strumenti, e Michelangelo, musicista professionista. Dalla sua attività non trasse però redditi adeguati, sebbene l'integrasse col commercio di tessuti: le fonti parlano di ristrettezze o anche di povertà. Nel 1562, trasferitosi a Pisa, vi aveva sposato l'Ammannati. A Galileo seguirono Virginia (1573), Michelangelo (1575) e Livia (1578). Altri figli, Benedetto e Anna, morirono presto; vi fu forse un'altra sorella, Lena (Elena).

Fino al 1574 la famiglia rimase a Pisa, affidata durante le assenze di Vincenzio al cognato Muzio Tedaldi, e il G. v'iniziò gli studi. Entro la fine del 1574 i Galilei si trasferirono a Firenze, dove egli studiò lingue e letterature classiche forse con un J. Borghini, alle cui carenze avrebbe supplito con l'impegno personale (restano versioni da autori greci). V. Viviani, il cui Racconto istorico della vita di G. è fonte principale sulla sua infanzia e gioventù, parla del gusto di riprodurre macchine e congegni, annuncio della manualità tecnica del G. maturo, e ne esalta le doti per il disegno (forse dipinse anche per diletto). Nel 1578 il Tedaldi parlò dell'intento del padre di far frequentare al giovane l'Università di Pisa e si disse lieto che "haviate riavuto Galileo". La frase è stata collegata a studi con i padri vallombrosani: secondo Viviani il G. studiò logica con un membro dell'Ordine; una fonte lo dice ex novizio in S. Trinita, casa vallombrosana di Firenze; una afferma che aveva studiato a Vallombrosa, da dove il padre l'avrebbe tolto col pretesto di cure agli occhi. Questi studi sarebbero quindi avvenuti tra 1577 e 1578, ma l'ammissione al noviziato non poteva precedere il compimento del quindicesimo anno, e il periodo a Vallombrosa non trova conferme. Forse, per ragioni economiche, Vincenzio collocò il figlio come studente in S. Trinita lasciando credere che sarebbe entrato nell'Ordine, e frequentando la scuola conventuale da interno, in abito monastico, il G. poté essere ritenuto un novizio. Nel settembre 1581 s'immatricolò nel corso di arti della Sapienza pisana per conseguire la laurea in medicina, ritenuta dal padre mezzo d'innalzamento economico. Le modalità dei suoi studi sono mal note. Secondo Viviani non seguì i corsi di matematica, ma quelli filosofici di G. Borri, F. Buonamico, F. Verino, G. Libri (criticherà poi i primi due, e Libri contesterà le sue osservazioni telescopiche), e inizialmente quelli medici (con scarso impegno, nonostante la presenza di un A. Cesalpino). La tradizione lo dice già critico verso l'aristotelismo accademico, attribuendo la sua maturazione a vie non istituzionali: studio personale di testi aristotelici e platonici; loro confronto spregiudicato con dati osservativo-sperimentali; attitudine a porre in termini meccanici fenomeni dell'esperienza comune. Ancora secondo Viviani le oscillazioni d'un lampadario del duomo di Pisa gli suggerirono l'isocronismo dei pendoli; non v'è ragione di negarlo, anche se le prove sperimentali vennero dopo e se Viviani eccedette affermando che costruì allora un congegno (pulsilogio) per misurare tempi col conto delle oscillazioni. Per alcuni storici il periodo universitario spiega solo la conoscenza di dottrine che poi criticò, mentre altri lo considerano fonte di parte del suo bagaglio concettuale. Alla matematica il G. si avvicinò nel 1583 per influsso di O. Ricci, lettore della disciplina nell'accademia del disegno di Firenze e nella paggeria medicea. Secondo certe fonti Vincenzio, cultore di matematica, non l'aveva insegnata al figlio per non distoglierlo dalla medicina, e il G. dapprima gli nascose la svolta nei propri studi; il padre l'avrebbe poi lasciato libero nelle scelte, purché si rendesse presto indipendente. Il disinteresse per la medicina è un dato notevole; il G. lesse Galeno e poco altro, e le sue idee in biomeccanica non dipesero dalla tradizione medico-naturalistica. Nonostante l'assenza di prospettive e lo stato precario della famiglia, nel 1585 tornò a Firenze senza laurearsi.

Le modalità degli studi matematici influirono sulla sua attività scientifica. Tra 1583 e 1585 studiò gli Elementi euclidei (forse nell'edizione di N. Tartaglia) e Archimede (resta un esemplare annotato della princeps basileense del 1544). Poi lavorò a un commento all'Almagesto, approfondì Archimede e matematici recenti: la statica di F. Commandino e Guidobaldo Dal Monte, i commenti a Euclide e alla Sfera di J. de Sacrobosco del gesuita C. Clavio (C. Schlüsse; forse sua prima fonte su Copernico), la Sfera di A. Piccolomini. Studiò Apollonio e Pappo meno di Archimede, e forse non approfondì Diofanto e l'algebra da F. Viète in poi; l'approccio geometrico sarà in lui prevalente. Trascurò gnomonica e teoria del calendario ma non l'astrologia - pur antitetica alla sua idea di scienza - in parte per convenzione, in parte per richieste o per guadagno (restano le natività delle figlie e oroscopi per amici e autorità; nel 1604 una denuncia all'Inquisizione di Padova, che non ebbe corso, l'indicò come astrologo). In lui l'ottica, pur essenziale per il lavoro sul telescopio e per certe sue concezioni fisiche, fu soprattutto pratica (dirà oscura la Dioptrice di G. Keplero), e hanno scarso ruolo la trigonometria recente, certi metodi di calcolo (fu astronomo più "fisico" che "matematico"), i logaritmi. Resta da chiarire quanto ciò dipese da casualità, scelte o aspetti della cultura matematica a Firenze. Il G. dirà di aver dedicato più anni alla fisica che mesi alla matematica, ma insegnò la seconda e a essa dedicò i primi lavori (rimasti gli unici, a parte l'abbozzo di una riformulazione della teoria delle proporzioni). Si trattava di lemmi e teoremi sui centri di gravità di solidi (conoide parabolico, cono, piramide); di uno si conserva una copia del dicembre 1587, sottoscritta da amici e approvata da G. Moleto, matematico dell'Università di Padova. Nel 1586 costruì una "bilancia idrostatica", impiegata con modifiche fino a metà '600, corredata da uno scritto esplicativo (La bilancetta), pubblicato solo nel 1644, e da una Tavola delle proporzioni delle gravità in specie de i metalli e delle gioie pesate in aria ed in acqua. Il suo sperimentalismo matematico fu forse ispirato anche dal padre, che studiò la divisibilità dei semitoni con corde vibranti aventi pesi alle estremità. Se partecipò a queste ricerche la tesi della natura quantitativa delle qualità percettive, perno della sua epistemologia, poté derivare da suggestioni altrettanto tecniche che teoriche. Il lavoro non matematico più importante di quegli anni è un gruppo di testi denominato De motu antiquiora, raramente datati e talora stesi in più versioni; li si colloca attorno al 1590, durante l'insegnamento a Pisa, ma per alcuni si è pensato al 1586 o 1587. La loro data è rilevante per la genesi delle concezioni galileiane e per fissare il loro rapporto con altri scritti pure a lungo inediti, gli Iuvenilia dei mss. galileiani 27 e 46 della Biblioteca nazionale di Firenze.

Si tratta di parti trascritte dal G. di un corso di logica e di uno su De caelo e Physica di Aristotele, tenuti nel Collegio Romano dei gesuiti. La parte logica proviene dal corso di P. Valla nel 1587-88 o da un testo derivato; quella fisica ha forti corrispondenze in corsi degli anni 1580-1590. Gli Iuvenilia sono quindi datati prevalentemente nel 1589-90; secondo alcuni interpreti il G. vi inserì idee proprie, che sono però ancora aristoteliche; ne verrebbe che l'aristotelismo non fu solo oggetto delle sue critiche, ma origine delle sue concezioni, e che il De motu, più originale, non precederebbe il 1591. Tuttavia certamente galileiano è solo il De motu, che confuta tesi aristoteliche e analizza i moti "naturali" con concetti archimedei, non giungendo ancora a risultati validi e restando in parte tradizionale, ma prefigurando sviluppi successivi; non v'è prova che il G. conoscesse il tentativo analogo di G.B. Benedetti.

Ebbe anche interessi letterari. Tra 1587 e 1588 tenne due lezioni sul luogo dell'inferno dantesco nell'Accademia Fiorentina; ne fu membro prima del 1599, e nel 1605 fu ascritto alla Crusca. Scrisse versi berneschi Contro il portar la toga (da parte dei docenti), una traccia di commedia, uno scherzo in dialetto veneziano, sei sonetti. Le "Considerazioni al Tasso" e postille all'Orlando furioso mostrano una netta preferenza per Ariosto (lo conobbe quasi a memoria). Amò la letteratura dialettale veneta e Ruzante, e iniziò a tradurre la Batracomiomachia. Un capitolo in terzine Contro gli aristotelici, attribuitogli, è dell'allievo Jacopo Soldani; sue aggiunte alla canzone Per le stelle Medicee temerariamente impugnate di A. Salvadori passarono nella stampa.

Dal 1585 cercò l'indipendenza economica. Un documento del 1587 afferma che aveva insegnato nello Studio di Siena, e privatamente a Siena e Firenze. Dell'insegnamento pubblico non v'è traccia; del privato lo sono forse rapporti successivi con nobili senesi, e sue deposizioni circa il testamento di G.B. Ricasoli Baroni (1590-92) indicano in quest'ultimo un allievo fiorentino. Il G. visse a tratti in casa del Ricasoli - quasi suo coetaneo -anche come compagno di studi poetici e filosofici. Quando l'amico, preso da disturbi psichici, fuggì da Firenze, su richiesta dei familiari lo seguì (maggio 1589) fino a Lucca e Genova. Nacque per l'insegnamento privato un breve Trattato della sfera, edito postumo. Dal 1587 concorse a letture di matematica in varie sedi. Inviò i propri teoremi a diversi e li presentò al Clavio a Roma per averne l'appoggio per una lettura a Bologna; il gesuita sostenne G.A. Magini, ma la conoscenza ebbe un ruolo in seguito. Infine nel 1589 fu chiamato nell'Università di Pisa, dove iniziò le lezioni nel novembre e proseguì studi e ricerche sui baricentri dei solidi. Attorno al 1590 tracciò - forse per primo - la cicloide, e ne misurò l'area meccanicamente e con approssimazione; lavorò al De motu; dialogò con J. Mazzoni, filosofo non originale ma non dogmaticamente aristotelico e capace di informarlo su altre tradizioni, come la platonica. G. Mercuriale, docente di medicina autore di un trattato innovativo di ginnastica, destò forse il suo interesse per il moto animale, documentato in seguito. Viviani attesta un esperimento per controllare la tesi aristotelica della proporzionalità dei tempi di caduta dei gravi ai loro volumi; esso è parso dubbio, ma il De motu ne sconta implicitamente l'esito.

Il G. non considerò la lettura a Pisa come approdo definitivo, anche per l'esiguità del compenso; nel 1590 Dal Monte lo propose come successore di Moleto a Padova, al momento senza buon esito. L'insoddisfazione crebbe con la morte del padre nel 1591, che gli impose a lungo di sostentare la famiglia (una vertenza per la dote della sorella Virginia andò oltre il 1600). Ebbe screzi accademici, forse non solo dottrinali: nei versi sull'uso della toga mostrò insofferenza per i formalismi e gusto per i piaceri della vita. Ma fu forse decisivo il risentimento di Giovanni de' Medici per il parere negativo del G. su un suo congegno per dragare la darsena di Livorno (il Medici gli sarà poi contrario nella disputa sul galleggiamento). Nel 1592 Dal Monte gli suggerì d'andare a Padova per richiedere una cattedra; vi andò nell'estate e a fine settembre, malgrado la candidatura del Magini, padovano, ebbe la lettura di matematica per quattro anni rinnovabili per altri due, con provvigione annua (180 fiorini) modesta, ma maggiore di quella pisana. Al rinnovo nel 1599 ebbe provvigione doppia, e nel 1606 una di 520 fiorini, inconsueta per i matematici; nel 1609, dopo l'offerta del telescopio al governo veneto, verrà la conferma a vita con lo stipendio di 1000 fiorini. Iniziò i corsi nel dicembre 1592, seguendo una rotazione biennale: sfera e Elementi di Euclide; teoria dei pianeti (astronomia avanzata). Almeno un anno, però, trattò le Questioni meccaniche pseudoaristoteliche. Si è creduto che insegnasse anche fortificazione in base alle Brevi instruzioni all'arte militare (forse del 1593; scrisse pure un Trattato di fortificazione), ma poté trattarsi di un corso privato. Le testimonianze e gli aumenti retributivi provano che il suo insegnamento ebbe successo, ma esso fu quasi irrelato ai suoi studi e ricerche: in astronomia si attenne al geocentrismo (privatamente usò ancora il Trattato della sfera, fedele a Sacrobosco). Il trattatello Le mecaniche, forse scritto pure per corsi privati tra 1593 e 1599 (il testo conservato reca forse modifiche successive), riguarda la parte matematica della meccanica - statica e teoria delle macchine semplici - sulla scorta di Dal Monte.

Pur con tratti originali (dimostra la legge della leva diversamente da Archimede, considera situazioni statiche come limiti di quelle cinetiche, usa il concetto di "momento"), l'operetta non configura ancora una meccanica integrata. Gli scritti di fortificazione, che accennano appena ai temi balistici della meccanica galileiana evoluta, si sarebbero forse sviluppati col concretarsi (mancato) di due iniziative: tra 1603 e 1604 il G. trattò per divenire matematico del duca di Mantova Vincenzo Gonzaga (ruolo che avrebbe incluso l'ingegneria militare), e nel marzo 1610 concorse per la lettura di matematica nell'Accademia Delia di Padova, riservata ad aspiranti alla carriera delle armi (rimane il programma che presentò; gli fu preferito il nobile padovano Ingolfo Conti).

Fino al 1604 si occupò di astronomia in modo didattico e ristretto all'analisi classica dei moti orbitali: non v'è traccia di osservazioni pianificate o lavori avanzati. Un mutamento fu prodotto dalla supernova di quell'anno, cui dedicò tre lezioni, ponendola con misure parallattiche tra le stelle, che l'aristotelismo diceva immutabili. Il metodo, non nuovo, fu respinto dai filosofi universitari, ligi alla cosmologia aristotelica; nel Discorso intorno alla nuova stella (Padova 1605) un discepolo di C. Cremonini, primario di filosofia, collocò la nova nel mondo sublunare e la disse composta da esalazioni terrestri. Per non infrangere la partizione delle competenze accademiche il G. ispirò a un amico, il benedettino G. Spinelli, una replica in dialetto rustico padovano attribuito a un Cecco di Ronchitti (Dialogo in perpuosito de la stella nuova, Padova e Verona 1605). Pubblicò per interposta persona anche in seguito, quando volle dibattere con toni forti, ma è dubbio che siano sue le Considerazioni di un fittizio Alimberto Mauri (Firenze 1606) contro il Discorso nel quale si dimostra, che la nuova stella non è cometa, né stella generata (Firenze 1606) del fiorentino L. Delle Colombe. Costui però dovette crederlo, e ciò preparò urti successivi. I rapporti del G. con Cremonini e altri filosofi dello Studio furono ambivalenti; la cordialità esterna celò forse tensioni, mentre fu buono il rapporto con docenti di medicina, pur ancora parzialmente legati alla fisiologia galenica. Quello con S. Santorio, pioniere dell'analisi quantitativa di fatti metabolici, è difficile da circostanziare. Ebbe per medico G. Fabrici d'Acquapendente, e nel 1606 lo propose per protomedico al granduca di Toscana; i lavori di Fabrici sulla meccanica articolare e i movimenti animali furono base di certe sue idee in biomeccanica (è però possibile che in parte li ispirasse).

Dal 1601, anche per altri oneri imposti dal matrimonio della sorella Livia, sembra che incrementasse l'insegnamento privato. Restano note sui corsi (fortificazione, compasso di proporzione, cosmografia, geometria, aritmetica e ottica elementare, meccanica, topografia) e sui frequentanti, talora a pensione presso di lui, che usavano testi che forniva a pagamento. Anche un'attività tipica, la produzione di strumenti e congegni, fu dovuta sia a interessi tecnici sia alla ricerca di introiti aggiuntivi. Nel dicembre 1593 richiese un privilegio per una pompa ad acqua, che non commercializzò (il progetto è perduto, e le ricostruzioni ipotetiche). A circa il 1597 risale il "compasso geometrico e militare", che univa alle funzioni di squadra per artiglieri usi distanziometrici, altimetrici e di calcolo preludenti a quelli dei successivi regoli. Il debito verso strumenti precedenti non è del tutto chiaro; esibì il compasso nelle lezioni private e ne vendette esemplari con un manuale d'uso poi dedicato al principe Cosimo de' Medici (Le operazioni del compasso geometrico et militare, Padova 1606). Dal luglio 1599 tenne in casa un artigiano per fabbricarli con altri strumenti di misura. Quando un dilettante di matematica, B. Capra, negò che l'inventore fosse il G. e pubblicò un manuale scritto forse con il maestro, il tedesco S. Mayr (Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis, Padova 1607), che plagiava il suo, il G. ne ottenne la confisca dai riformatori dello Studio di Padova, e pubblicò un'aspra Difesa contro alle calunnie e imposture di Baldessar Capra milanese (Venezia 1607).

La costruzione di strumenti ha scarso nesso con le ricerche di allora. Anche l'interesse iniziale per il telescopio fu tecnico; appresane l'esistenza nel giugno-luglio del 1609, senza vederlo e ricorrendo quasi solo all'intuito ne costruì uno di tre ingrandimenti e un secondo di otto, che donò alla Serenissima per usi militari e nautici. La prima osservazione astronomica certa è del novembre, con uno di venti ingrandimenti. Non sembra che gli fossero chieste consulenze militari o civili (spettanti a uffici appositi), ma fu sentito privatamente: in una lettera del 1593 a G. Contarini, provveditore all'Arsenale, indicò nel remo una leva che sposta insieme resistenza e fulcro. In Veneto il G. fu noto soprattutto per l'attività didattica e tecnica. Le sue ricerche, esposte per lo più in opere successive, sono quasi sempre posteriori al 1600; nessuna nota di meccanica o astronomia è datata prima, sebbene leggesse Copernico prima del 1590. In lettere del 1597 a Keplero e Mazzoni si disse copernicano, aggiungendo di aver trattato il tema in uno scritto; il nucleo della teoria delle maree, che poi addusse a prova dell'eliocentrismo, risale forse al 1595. Ma il suo interesse iniziale per il dibattito cosmologico dovette avere forma fisica più che osservativa (nel 1600 non rispose a una lettera di T. Brahe, e la corrispondenza anteriore non tocca problemi propriamente astronomici). Anche ammesse lacune documentali, tra 1592 e 1600 il G. appare volto in prevalenza ad applicazioni e a far valere economicamente le proprie competenze. Per spiegare il mutamento occorrerebbe chiarire se e quando collegò i moti planetari a questioni cinematiche. Dato che la scelta copernicana precedette le ricerche sulle seconde, non si può escludere che queste mirassero anche a dare all'eliocentrismo la base meccanica che in Copernico non aveva e che l'aristotelismo gli negava. Le note cinematiche padovane non toccano l'astronomia, ma il primo cenno del G. al principio di composizione dei moti (fatto al gesuita A. Eudaemon Joannes entro il 1603) riguarda un grave cadente dall'albero di una nave, caso proposto dal Clavio per smentire il moto della terra e da G. Bruno con scopo opposto.

Le note (quasi mai datate, spesso sommarie o criptiche), si pongono in gran parte tra 1602 e 1608. Dato che la cinematica del G. è un momento fondante della scienza moderna, la cronologia ha rilievo per la storia della meccanica come per questioni di fondo (dinamica delle "rivoluzioni" scientifiche; logica e psicologia dell'ideazione; interrelazione tra elementi pregiudiziali e fattuali; differenze tra mondo fisico premoderno e moderno). Come quella dei De motu antiquiora, essa è perciò sondata attraverso le fasi della grafia, analisi di inchiostri e filigrane, ripetizione degli esperimenti; e per suo tramite si tenta di dare risposte non astratte o pregiudiziali a quesiti quale la misura in cui la scienza galileiana fu matematico-astrattiva o sperimentale ("platonica" o "positivistica"). Tra 1602 e 1604, concentrata la ricerca sul moto uniformemente accelerato, sostituita alla caduta verticale quella su piani inclinati (espediente anche concettualmente illuminante), abbandonate o ridefinite posizioni precedenti, il G. pervenne a formulazioni solo in parte soddisfacenti, esprimendo in modi diversi le relazioni rinvenute. Tra 1604 e 1608-09 ottenne i risultati sulla caduta e sul moto dei proiettili confluiti poi nei Discorsi.

Da circa il 1602 precisò anche le intuizioni giovanili sui pendoli; non pare che realizzasse un apparato quale il "pulsilogio" di Viviani (costruito dal Santorio verso il 1603), che seguiva ovviamente dalle proprietà dei pendoli, forse comunicate al collega. Ancora dal 1602, spinto da G.F. Sagredo e dal De magnete di W. Gilbert, sperimentò calamite e metodi per armarle (ne propose a Ferdinando de' Medici una che attraeva una massa di ferro più che doppia). La dilatazione termica gli suggerì un termoscopio (circa 1606-07), utilizzato in medicina da Santorio; osservazioni sulla resistenza di materiali alla frattura originarono le giornate I e II dei Discorsi, e riflessioni sull'idrostatica archimedea, idee poi sviluppate a Firenze, e un affinamento della bilancia idrostatica.

Ricordò poi gli anni veneti come i suoi più belli. Frequentò persone di cultura aperta, con interessi scientifici, filosofici e, in senso lato, politici. Paolo Sarpi è solo il nome più rilevante; la corrispondenza con lui e le testimonianze - pur significative - documentano insufficientemente la valenza scientifica, e meno quella "ideologica", del loro rapporto. Il G. evitò pronunciamenti sulle tesi del servita, e ogni tentativo di attribuirgli convincimenti molto definiti è rischioso; i suoi amici furono per lo più filosarpiani e antigesuiti, ma alcuni, come P. Gualdo, furono vicini alla Compagnia. Soggiornò spesso a Venezia e vi frequentò salotti colti come il cosiddetto ridotto Morosini, ma anche occasioni mondane. Con giovani nobili, e particolarmente con G.F. Sagredo, allievo e poi compagno di discussioni e ricerche, il rapporto fu molto stretto. A Padova fu ammesso nel 1599 nell'Accademia dei Ricovrati, e ne fu censore alle stampe. Forse dallo stesso anno stabilì una relazione con la veneziana Marina Gamba dalla quale, nell'agosto del 1600, ebbe una figlia, Virginia. Tuttavia non la sposò e non convisse con lei, nonostante la sua abitazione, quasi una azienda (pensionato, sede di corsi privati, laboratorio per la costruzione di strumenti e la copiatura di testi) richiedesse diverse persone di servizio e potesse giovarsi di una guida femminile. Gli atti di battesimo di Virginia e dei figli successivi (Livia e Vincenzio, nati nel 1601 e 1606) indicano solo il nome della madre, dicendoli nati "di fornicatione" o da "padre incerto"; legittimò il figlio solo nel 1619, e mai le figlie, e quando lasciò il Veneto ruppe il rapporto con la Gamba. Nell'aprile 1604 un Silvestro Pagnoni, vissuto presso di lui (probabilmente come copista), lo denunciò all'Inquisizione padovana per pratiche astrologiche e scarso zelo religioso (il G. non avrebbe frequentato le chiese, né praticato i sacramenti), ma anche per la relazione. L'assenza di un legame formale non ne spiega la lunghezza, né spiega perché non ne avviò una più solida. Forse incise il peso della famiglia d'origine, che gl'impose un cumulo d'attività per sottrarsi al quale, fallito il tentativo col duca di Mantova, ne avviò uno con i Medici. Dal 1605, in soggiorni estivi in Toscana, insegnò matematica al principe Cosimo; gli dedicò la descrizione del compasso e nel 1608 gli regalò la calamita già offerta al padre, paragonandone la virtù attrattiva a quella del principe. Ma, forse per l'ostilità di Giovanni de' Medici, il tentativo si fece più convinto dal 1609-10, quando Cosimo divenne granduca (secondo di questo nome) e lo zio lasciò Firenze; dato che la candidatura per l'Accademia Delia mostra che nel marzo 1610 le prospettive del G. non erano ancora definite, la svolta fu simultanea alle ricerche col telescopio, con le quali in parte interagì. Le osservazioni tra dicembre 1609 e febbraio 1610 (irregolarità dell'illuminazione lunare a seguito di quella della superficie, satelliti di Giove, aumento del numero di stelle visibili, risoluzione in stelle della Via Lattea e di corpi nebulari) resero centrale il suo interesse per l'astronomia di osservazione. La pubblicazione nel marzo (Sidereus Nuncius magna, longeque admirabilia spectacula pandens, Venezia 1610) mutò, con la sua fisionomia di ricercatore, la sua immagine pubblica e la sua vita professionale e privata: la dedica a Cosimo II, il nome di stelle o pianeti Medicei dato ai satelliti di Giove e un viaggio a Firenze nell'aprile, per presentare l'opera al granduca e fargli omaggio di un telescopio, prepararono il rimpatrio e l'abbandono dell'insegnamento.

Il Nuncius ebbe ampia risonanza, anche per un'immediata ristampa a Francoforte. Esponeva fenomeni di evidenza diversa: dati percettivi come le nuove stelle, la composizione della Via Lattea, i corpi attorno a Giove o le irregolarità dell'illuminazione lunare furono accettati entro il 1611 da molti specialisti; altri erano invece solo inferiti dai primi. Questo spiega alcune delle resistenze, anche di competenti. Cremonini si sarebbe rifiutato di usare il telescopio, mentre in una lettera al G. (Dissertatio cum Nuncio sidereo nuper ad mortales misso a Galilaeo Galilaeo mathematico Patavino, Praga 1610) stampata sei volte in due anni G. Keplero, pur non disponendo di un telescopio, accettò buona parte delle osservazioni, e poco dopo confermò l'esistenza dei Medicei (Narratio de observatis a se quatuor Iovis satellitibus, Francoforte 1610). A una Brevissima peregrinatio contra Nuncium sidereum (Modena 1610) di Martin Horky, collaboratore di Magini, replicarono un allievo del G., John Wodderborn (Quatuor problematum contra Nuntium sidereum confutatio, Padova 1610) e G.A. Roffeni (Epistola apologetica contra caecam peregrinationem cuiusdam furiosi Martini, cognomine Horkii, Bologna 1611). Con il G. si schierò anche T. Campanella.

Il 10 luglio 1610 il G. fu nominato, a vita, matematico primario dello Studio di Pisa (senza obbligo d'insegnamento) e matematico e filosofo granducale, con provvigione annua di 1000 scudi. Nello stesso mese a Padova osservò Saturno "tricorporeo" (con rigonfiamenti sul piano equatoriale), descritto in un anagramma latino che nessuno sciolse. Il 7 settembre lasciò Padova, dove non tornò più; assunto il nuovo incarico proseguì le osservazioni, anche con amici e curiosi. A fine anno osservò in Venere fasi che ne provavano l'orbita eliocentrica, lasciando sussistere i soli sistemi di Copernico e Brahe. Egli però le considerò una prova del primo, che iniziò a sostenere pubblicamente; la Dianoia astronomica, optica, physica (Venezia 1611) di F. Sizzi lo presentò come copernicano, e un saggio manoscritto del Delle Colombe contro il moto della Terra (fine 1610 - inizio 1611) riprese antiche obiezioni fisiche e gli asserti geocentrici della Scrittura. Alla fine del marzo 1611 il G. visitò a Roma Clavio, e presentò le proprie scoperte (incluse le macchie solari) a studiosi e personalità, inclusi i cardinali Maffeo Barberini (futuro Urbano VIII) e Roberto Bellarmino, al quale i matematici del Collegio romano confermarono le osservazioni, se non sempre le interpretazioni. Insieme, tuttavia, il S. Uffizio chiese all'inquisitore di Padova se il G. era stato coinvolto nel processo contro Cremonini (già indagato per tesi averroiste); la risposta dovette essere negativa, ma l'episodio mostra il senso che critiche alla cosmologia tradizionale potevano assumere. F. Cesi, fondatore dell'Accademia dei Lincei, divenne suo sostenitore e lo ammise nell'Accademia (25 aprile); i Lincei lo sostennero sempre, tanto da sospendere un matematico del livello di L. Valerio perché si era dissociato dalla scelta eliocentrica. In maggio una conferenza nel Collegio romano (il Nuncius sidereus Collegii Romani) sancì l'affidabilità del telescopio, e in giugno il G. lasciò Roma certo d'aver radicato la nuova astronomia: era stato ascoltato e nell'ultima edizione del commento a Sacrobosco Clavio aveva ammesso che i nuovi fenomeni smentivano il sistema planetario tradizionale. Ma il G. sottovalutò la profondità delle resistenze; la natura "terrestre" della Luna e quella planetaria della Terra non solo contrastavano con la vulgata aristotelica e scritturale, ma richiamavano l'idea bruniana della molteplicità dei mondi e delle umanità. Nel De phoenomenis in orbe Lunae (Venezia 1612) G.C. Lagalla, professore di filosofia presente a dimostrazioni romane del G., evidenziò il nesso pur escludendo che il G. lo proponesse.

Tornato a Firenze lavorò sui periodi dei Medicei, per trarne efemeridi da cui derivare misure di longitudine approssimate a 1/2 minuto di grado. Presentò il metodo ai Medici, che lo trasmisero a Madrid; seguirono trattative durate fino al 1632, e cessate per l'imprecisione delle misure su vascelli in movimento. Nell'estate del 1612 dibatté con un professore a Pisa, V. di Grazia, sui pesi relativi di acqua e ghiaccio e sul galleggiamento, che Grazia spiegava aristotelicamente con la forma del corpo galleggiante, ed egli in modo archimedeo. Grazia fu poi sostenuto dal Delle Colombe; su richiesta di Cosimo II entro la primavera del 1612 il G. terminò un Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua, o che in quella si muovono (Firenze 1612).

L'opera ebbe repliche: un Discorso apologetico del Delle Colombe e l'Operetta intorno al galleggiare dei corpi solidi di G. Coresio (apparsi a Firenze nel 1612); le Considerazioni sopra il discorso del sig. G. G. (Pisa 1612) di un "accademico incognito" (A. d'Elci); uno scritto dello stesso titolo del Grazia (Firenze 1613). Una Risposta alle opposizioni di L. Delle Colombe e V. di Grazia contro al trattato delle cose che stanno su l'acqua o che in quella si muovono (ibid. 1615) apparve anonima con dedica del benedettino B. Castelli (allievo del G. a Padova, lettore di matematica a Pisa e suo collaboratore fino al 1623, quando passò a Roma). Castelli aveva scritto la parte iniziale, il G. il resto. Discorso e Risposta estendono l'idrostatica archimedea, incompatibile con la fisica aristotelica. Il primo considera soprattutto il galleggiamento; la seconda difende ipotesi di struttura dei liquidi sottese alla trattazione. Insieme iniziano l'idrostatica moderna; anche se l'analisi corpuscolare dello stato liquido talora semplifica (negando tensione superficiale e coesione; il calore è ritenuto materia), gli specialisti accettarono presto i risultati.

La corrispondenza con G.B. Baliani (in rapporto con il G. dal 1613) e altri documenta ricerche sperimentali (peso dell'aria e altro). Ma proseguì le osservazioni astronomiche (nel novembre 1612 osservò quasi certamente Nettuno, senza riconoscerlo come pianeta), pubblicate solo nel caso delle macchie solari, osservate dal 1610 da Th. Harriot, J. Fabricius, il gesuita C. Scheiner e dallo stesso G. (forse nell'estate). Quando Scheiner, in un opuscolo (Tres epistolae de maculis solaribus, Augusta 1612) pubblicato con lo pseudonimo "Apelles post tabulam latens", presentò il fenomeno come nuovo, il G. rivendicò una priorità (ma le osservazioni di Harriot e Fabricius erano indipendenti e forse anteriori alle sue), e dissentì sull'interpretazione. Il gesuita (del quale poi irriderà la Rosa Ursina, sintesi ventennale di dati accurati sul fenomeno), limitava il significato rivoluzionario delle macchie considerandole ammassi di materiali ruotanti attorno al Sole, non prove di un dinamismo interno e della rotazione dell'astro. In lettere pubblicate dai Lincei (Istoria e dimostrazioni intorno alle Macchie Solari e loro accidenti, comprese in tre lettere scritte all'illustrissimo signor Marco Velseri, Roma 1613) il G. si espresse in termini che crearono in Scheiner un risentimento durevole, approfondì la critica alla fisica celeste aristotelica ed espresse un copernicanesimo deciso. Poco dopo polemizzò con S. Mayr (maestro del Capra), che sostenne di aver osservato i satelliti di Giove dal dicembre 1609 (Mundus Iovialis anno MDCIX detectus ope perspicilli belgici, Norimberga 1614). Nessuna osservazione di Mayr è anteriore con certezza al 1610, ma le prime furono forse indipendenti, e sono in parte originali.

Nel contempo il G. riorganizzò la propria vita privata. Tenne con sé Vincenzio e monacò le figlie, aggirando la prescrizione di quindici anni di età per l'ammissione al noviziato: nel 1614 le collocò a titolo provvisorio nel monastero di S. Matteo in Arcetri (sui colli fiorentini, dove poi fitterà "il Gioiello", sua residenza dal 1633); Virginia divenne novizia nel 1616, col nome di Maria Celeste, e Livia nel 1617, con quello di Arcangela. L'affetto reciproco che emerge dalle lettere di Maria Celeste al padre non rende meno problematico questo comportamento, che gli usi del tempo non spiegano del tutto e che probabilmente influì su Livia, indole aspra forse per reazione al proprio destino, e meno vicina a lui. Anche Vincenzio, avviato agli studi (si laureò in utroque a Pisa), pur non privo di doti fu personalità irrisolta, e il suo rapporto col padre fu alterno.

Il tentativo di penetrare la psicologia intima del G. urta contro il suo riserbo e la genericità delle testimonianze. Non si astenne dal matrimonio per misoginia, ma non sembra aver posto la vita sentimentale e domestica sul piano della professione e della ricerca. La denuncia del Pagnoni parla di tensioni con la madre, che avrebbe spesso ingiuriato, e nella Difesa contro il Capra si legge che la perdita di un figlio, pur dolorosa, toglie qualcosa che ognuno può "produrre e rigenerare", mentre la sottrazione di un merito intellettuale è più acerba perché tocca ciò che non viene dalla sorte. Ma non si può parlare di cinismo: ebbe un senso robusto del vivere e il suo zelo religioso fu probabilmente tenue (le accuse del Pagnoni appaiono credibili), ma non fu epicureo conseguente o libertino dissimulato, e le sue critiche all'aristotelismo scolastico non toccarono la fede religiosa di base. Le aperture alla mondanità e alla corte esigono distinzioni: uomo del suo tempo, usò i rapporti personali e il proprio ruolo; rispettò (talora incensò) le gerarchie; curò le valenze economiche della propria attività e fu diverso dal quasi isolato eroe del pensiero cui talora è stato assimilato. Ma sviluppò forse un giudizio disincantato sulla situazione storica e sui rapporti umani: già prima del 1633 amò risiedere ad Arcetri, in rapporto solo con amici selezionati.

A Firenze le obiezioni scritturali del Delle Colombe al copernicanesimo (già proposte nel sec. XVI) mobilitarono i tradizionalisti. Alcuni, forse ispirati dall'arcivescovo, pensarono di far condannare l'eliocentrismo in prediche pubbliche; i domenicani N. Lorini e T. Caccini lo dissero inconciliabile con la Bibbia. A Castelli fu chiesto di non trattare nelle lezioni delle idee di Copernico; nel dicembre 1613, interrogato sulla questione dalla granduchessa madre Cristina di Lorena, ne scrisse al maestro, che rispose con una lettera subito divenuta testo di riferimento.

Il G. vi affrontò due nodi: il rapporto scienza-Rivelazione; i passi biblici usati contro Copernico. Natura e Scrittura, procedenti da Dio, devono concordare; ma in punti religiosamente marginali la Scrittura ha usato metafore o si è adattata "all'intendimento dell'universale", e l'univocità della tradizione interpretativa su un passo non è decisiva. Queste tesi, cui l'esegesi cattolica si accosterà molto dopo, contrastavano con quella tradizionale, che dava senso letterale a ogni passo di senso non palesemente figurato. La distinzione galileiana tra asserti biblici di contenuto religioso, necessariamente veri, e altri non tali contrastava con la tesi (sorretta dall'autorità di Bellarmino) che la loro verità non è funzione del contenuto ma della fonte, cioè Dio. Nel 1615 il G. ampliò la lettera a Castelli in una a Cristina di Lorena; nessuna delle due fu pubblicata allora (quella a Cristina lo sarà solo nel 1636), ma entrambe circolarono ampiamente. Sebbene egli avesse voluto evitare che la Scrittura fosse arma dei tradizionalisti e sottrarre il dibattito a ipoteche di principio, il suo intervento in questioni esegetiche fu per molti un'ingerenza e una minaccia alla tradizione. Maturò così la possibilità che la tesi copernicana, pur divulgata da settanta anni, divenisse oggetto di un pronunciamento della Chiesa.

Nel dicembre 1614, predicando a Firenze, il Caccini accusò galileiani e "matematici" di magia e irreligiosità. I suoi superiori si scusarono con il G., ma nel febbraio 1615 il Lorini inviò all'Inquisizione romana copia della lettera a Castelli e denunciò la diffusione delle idee galileiane a Firenze. Per cautela anche il G. mandò a Roma una copia della lettera, leggermente diversa. Si è creduto che questa, sfumata in certe espressioni, corrispondesse all'originale (che egli, richiestone, non presentò), e la prima fosse un artefatto del Lorini o sommasse le modifiche prodotte da trascrizioni; di recente è stato invece sostenuto il contrario. Se la seconda evenienza fosse reale, il testo esibito dal G. fu un costrutto difensivo.

Il S. Uffizio ravvisò nella lettera solo locuzioni improprie, e le accuse di Caccini e altri su temi filosofici e teologici nonché sui rapporti del G. con Sarpi caddero. In marzo il carmelitano P.A. Foscarini pubblicò a Napoli una Lettera sopra l'opinione de' pittagorici e del Copernico della mobilità della Terra e stabilità del Sole, che diceva conciliabili Scrittura e eliocentrismo. Dato anche che P. Dini, un amico prelato di Curia, non vedeva pericoli e recepiva alcune sue proposte esegetiche, il G. mutò strategia: impostò una risposta a una lettera del Bellarmino a Foscarini; stese la lettera a Cristina di Lorena e una a Dini su aspetti della cosmogonia della Genesi. Andò poi a Roma, dove tra dicembre 1615 e febbraio 1616 incontrò esponenti curiali e diffuse note (restano le cosiddette Considerazioni circa l'opinione copernicana, un discorso Del flusso e reflusso del mare al card. A. Orsini, indicante nelle maree il prodotto di rotazione e rivoluzione terrestri, e una lettera del 20 febbraio che nega che la natura "terrestre" della Luna implichi che essa e i pianeti siano abitati). Dibatté col Caccini e F. Ingoli, autore di un De situ et quiete terrae circolato manoscritto (che ebbe una risposta da Keplero, e poi dal Galilei). Gli amici ritennero vincente la sua dialettica; ma, radicalizzando il dibattito, egli forse contribuì a provocare un pronunciamento. Dal novembre il S. Uffizio esaminava l'eliocentrismo, sintetizzato in due proposizioni: "che il sole sii centro del mondo, et per consequenza immobile di moto locale"; "che la terra non è centro del mondo, né immobile, ma si move secondo sé tutta, etiam di moto diurno". Nel febbraio 1616 la prima fu giudicata "stulta et absurda in philosophia, et formaliter haeretica", e la seconda pure "stulta et absurda", e "in Fide erronea". Furono quindi proibite, e Paolo V (25 febbraio) ordinò a Bellarmino di informarne il G. al quale, se avesse rifiutato di conformarsi, il commissario del S. Uffizio doveva intimare un precetto, la cui trasgressione l'avrebbe incriminato. L'incontro con Bellarmino (26 febbraio) è un evento dibattuto. In una dichiarazione volta a smentire voci su una condanna e abiura del G. il cardinale asserì d'averlo solo informato della decisione del S. Uffizio, e nel 1633 il matematico ripeté questa versione. Ma, secondo un documento allegato agli atti e una nota a un verbale del S. Uffizio, il commissario, forzando il proprio mandato (il G. non aveva obiettato), davanti a notaio e testimoni gli intimò di non "tenere, docere aut defendere, verbo aut scriptis" l'eliocentrismo. La registrazione di questo precetto, base giuridica del processo del 1633, è anonima, e ha originato contestazioni e sospetti di falsificazione. Seguì una svolta, decisa forse da Paolo V per riguardo a Cosimo II: il S. Uffizio trasferì il caso alla congregazione dell'Indice, che il 1° marzo definì l'eliocentrismo "pernicies catholicae veritatis" (non eresia). Il decreto, promulgato il 5 marzo, non menziona il G. e - come nella natura della congregazione - riguarda scritti e non persone: il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico, il commento al Libro di Giobbe di D. de Zuñiga (che dava una lettura eliocentrica di luoghi biblici) e la Lettera del Foscarini. Quest'ultima fu proibita in via definitiva. Per Copernico fu adottato un canone epistemologico di origine classica e ripreso dalla scolastica, modificando in senso "ipotetico" i passi che presentavano il moto della Terra come realtà naturale e consentendo l'uso del libro a scopi predittivi o di calcolo. La correzione fu affidata all'Ingoli, la cui bozza (1618) fu approvata dai matematici del Collegio romano e pubblicata nel 1620. Forse questa soluzione mediò tra un orientamento rigorista e uno più duttile (Urbano VIII, che da cardinale era stato coinvolto, disse poi a Campanella di essersi opposto). Favorevoli a una condanna decisa furono Paolo V, alcuni cardinali e i domenicani del S. Uffizio; la tesi mediana fu forse del gesuita Bellarmino che, morto Clavio, consultò il successore C. Grienberger. Forse il procedimento fu anche un episodio delle relazioni difficili tra i due Ordini dottrinali, e più che esserne gli artefici i matematici gesuiti potrebbero esservi stati coinvolti, mediando tra lo scolasticismo e la spinta dello sviluppo scientifico. La vicenda, eretta a simbolo delle tensioni tra fede (o dogma) e scienza (o "libero pensiero"), è stata ricostruita soprattutto in tre aspetti: ragioni d'una decisione che poi danneggiò la Chiesa; modalità della sentenza; motivi che mutarono sede e destinatari del procedimento. Per circostanze complesse diversi documenti (come per il processo del 1632-33) sono perduti, e ogni spiegazione deve riferirsi alle categorie intellettuali dei protagonisti, senza attribuire alla teoria respinta l'evidenza poi raggiunta. Il ricorso ai matematici del Collegio romano esclude che la condanna nascesse da mera incompetenza. Un geocentrismo puro era ormai insostenibile, ma il sistema di Brahe era di un ordine di esattezza analogo a quello di Copernico; le prime due leggi di Keplero non erano ancora considerate, neanche dal Galilei. Questi o altri fatti, però, spiegano la mancata adozione del sistema copernicano, non la sua condanna; questa fu dovuta all'incapacità di discostarsi dal senso comune prescientifico e dal senso letterale dei luoghi biblici, e alle aporie connesse al moto della terra nella meccanica non inerziale ancora accettata. La supposta impossibilità fisica di un sistema che, astronomicamente, non sembrava dimostrato vero ma non era dimostrato falso, spiega perché la condanna non sembrò compromettente per il futuro.

Il G. fu a Roma fino a giugno; Paolo V lo tranquillizzò, ebbe solidarietà dai Lincei e da Bellarmino la dichiarazione anzidetta. Campanella fece circolare una Apologia pro Galilaeo (pubblicata poi a Francoforte). Le reazioni a Firenze non sono note; gli avversari, forse paghi d'una condanna impersonale, sospesero gli attacchi. Ebbe vicini Castelli, allievi e amici (non il più stretto, F. Salviati, morto nel 1614, ma N. e A. Arrighetti, F. Pandolfini, M. Guiducci). Dopo il 1610 non ebbe veri allievi, perché a Pisa fu solo docente onorario e non sembra tenesse corsi privati; ma contribuì a formare molti (N. Aggiunti, B. Cavalieri, F. Rinuccini, F. Michelini, D. Peri, C. Noferi, C. Settimi, O. Ricasoli Rucellai, A. Nardi, V. Renieri, V. Viviani). Tacendo sulla teoria riprese le osservazioni, le ricerche fisiche e il progetto sulla longitudine; sviluppò il microscopio, costruito nel 1614. Ma nel 1618 l'apparizione successiva di più comete portò un'altra polemica. Dopo l'analisi di Brahe su quella del 1577 la teoria di questi oggetti era cruciale; quando O. Grassi, docente nel Collegio romano, sostenne con considerazioni parallattiche che le comete non erano corpi "sublunari", secondo la tesi aristotelica, ma astrali (De tribus cometis anni MDCXVIII, Roma 1619) il G. ispirò una critica di M. Guiducci (Discorso delle comete, Firenze 1619). Le ragioni non sono chiare: Grassi non aveva parlato di lui; l'uso della parallasse - valido basilarmente anche per le comete - demarcava la nuova astronomia dalla cosmologia aristotelica, e mostrava che i matematici gesuiti, malgrado il decreto su Copernico e le resistenze interne, intendevano sostenerla. Guiducci-Galileo, facendo leva su alcuni errori, contestò l'applicazione del metodo alle comete (spingendo Keplero a replicare), e ne ripropose in nuova versione l'origine terrestre. Dato che su altri punti le posizioni del G. furono più avanzate di quelle di Grassi, gli studi hanno sminuito la statura del gesuita, non indagando i motivi dell'attacco. Forse il G. imputò ai matematici del Collegio romano il mancato sostegno nel 1616, mentre essi ritenevano di avere svolto un ruolo di moderazione. Inoltre il metodo della parallasse era legato a Brahe, verso il quale era tendenzialmente critico. Alcuni hanno ipotizzato che la tesi neoaristotelica sulle comete fu solo un espediente per evidenziare errori dell'avversario; ma l'ipotesi - dubbia - rafforza l'estraneità del G. al processo formativo della teoria corretta. Secondo altri egli mutò poi posizione, ma gli indizi in tal senso sono tenui.

Grassi imitò il G. facendo rispondere un allievo fittizio, Lotario Sarsi Sigensano, anagramma di Oratio Grassi savonese (Libra astronomica ac philosophica qua Galilaei Galilaei opiniones de Cometis a Mario Guiduccio expositae examinantur, Perugia 1619); il G., edotto dell'identità tra allievo e maestro, poté colpire il secondo dileggiando il primo. Dopo scritti del Guiducci (Lettera al m. r. p. Tarquinio Galluzzi nella quale si giustifica dalle imputazioni dategli da Lotario Sarsi, Firenze 1620) e G.B. Stelluti (Scandaglio sopra la Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi, Terni 1622), il G. fu forse incoraggiato a rispondere da un poemetto elogiativo (Laudatio perniciosa) indirizzatogli da M. Barberini, ormai cardinale di primo piano. Inviò la replica ai Lincei nell'ottobre 1622; l'elezione a papa del Barberini, divenuto Urbano VIII, fu un viatico per la stampa, con un titolo ispirato a quello di Grassi (Il Saggiatore, nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi, Roma 1623). Il Discorso di Guiducci criticava le misure parallattiche sulle comete con ragioni ottiche, e la Libra era scesa su questo terreno. Il Saggiatore vi rimase, con considerazioni gnoseologiche (distinzione tra qualità reali e apparenti dei corpi, le une puramente meccaniche, le altre effetto delle prime sull'apparato percettivo), epistemologiche (matematica come lingua della natura), di teoria della materia (natura corpuscolare di luce e calore). Queste idee risalivano in parte all'atomismo classico, e alcune erano già nella Risposta al Delle Colombe e al Grazia. Ma la brillantezza di stile e la fusione tra specialismo e tesi generali dettero al Saggiatore un grande potenziale critico, e l'abilità dialettica, l'ironia e alcuni errori dell'avversario permisero al G. di eroderne la credibilità, pur se gli argomenti di Grassi non erano banali quanto apparvero (una sua Ratio ponderum librae et simbellae, pubblicata a Parigi nel 1626, non mutò la situazione; il G. la postillò per una replica, alla quale poi rinunciò). Il Saggiatore è un testo chiave per la "filosofia" galileiana. Alcuni aspetti di questa evolvettero (come, tra 1612 e 1638, la teoria della materia); e la frammentarietà delle formulazioni, la loro lontananza temporale, talora la vaghezza o apparente contraddittorietà hanno portato a interpretazioni anche incompatibili. Ha prevalso a lungo un G. "antifilosofo", distruttore di lessico e dottrine verbalistici col rigore dell'analisi e la franca aderenza ai dati naturali, il cui humus sarebbero state le matematiche applicate ellenistiche (soprattutto la statica archimedea). Il nesso di alcune sue idee con filosofie naturali, come quella atomistica, non parve una prova in contrario perché in esse potevano esservi incidentalmente concezioni valide. In seguito l'approfondimento dei contesti e della storia precedente di temi e discipline, e altre concezioni storiografiche e epistemologiche, hanno portato a tesi "continuiste" che individuano l'humus in correnti e dottrine della tradizione, indicate però variamente (occamismo franco-inglese; "platonismo matematico"; epistemologia dell'averroismo padovano; filoni dell'epistemologia tomista). Non esiste dunque un'interpretazione comune, anche se molti nessi sono stabiliti.

L'estensione del tema scientifico ad altri di filosofia generale, motivo di fortuna del Saggiatore, ravvivò i sospetti sull'autore. Una segnalazione anonima al S. Uffizio rilevò che teoria corpuscolare e interpretazione meccanica delle qualità distruggevano la metafisica della sostanza, base dell'interpretazione usuale della transustanziazione eucaristica (quest'accusa alle concezioni corpuscolari, dopo quelle consuete di epicureismo e ateismo, investì poi anche quelle dichiaratamente cristiane di Descartes e Gassendi). La segnalazione fu lasciata cadere (Urbano VIII aveva molto apprezzato il Saggiatore), ma l'episodio conferma un clima.

Nell'aprile del 1624 il G. andò a Roma, per omaggiare l'amico asceso al vertice della Cattolicità ma anche per tornare sul decreto del 1616. Urbano VIII lo ricevette più volte e gli prodigò favori (spontanei o richiesti): concesse al figlio una pensione ecclesiastica (avendo Vincenzio - cui si attribuiscono idee anticlericali - rifiutato la tonsura necessaria per ottenerla, il padre la fece poi assegnare a un nipote), e due al G. (per le quali ricevette la tonsura nel 1631). Sull'eliocentrismo, però, ribadì che era ammesso solo come schema ipotetico, osservando (ma l'episodio potrebbe risalire al 1616) che Dio poteva produrre il moto apparente degli astri con un numero indefinito di loro disposizioni, cosicché il fatto che una teoria gli si accorda non prova che descriva la realtà fisica. Ma il G. lavorò a che la situazione mutasse; dopo aver presentato ai Lincei un microscopio composto (ne inviò altri in Italia e all'estero), usato da F. Stelluti per osservazioni pubblicate nel 1630, nel giugno a Firenze stese una risposta al saggio di Ingoli del 1616, e riprese lo scritto al cardinale Orsini sulle maree per farne un'analisi generale del moto terrestre. L'idea risaliva a prima del 1597, e nel 1610 aveva accennato a un De systemate universi. Vi lavorò a lungo, con pause in cui riprese ricerche precedenti (longitudine, armatura delle calamite, idee sulla struttura del continuo emerse a Padova ed esposte poi nei Discorsi), studiò il regime del fiume Bisenzio, partecipò a magistrature cittadine (nel 1628 entrò nel Consiglio dei duecento), affrontò problemi di salute e privati (seguì la carriera del figlio, e nel 1629 difese lo stipendio percepito come docente onorario a Pisa che gli era stato contestato). Curò inoltre la successione di N. Aggiunti al Castelli, chiamato a insegnare a Roma, e s'interessò alle Dimostrazioni geometriche della misura dell'acque correnti (Roma 1628) del benedettino, testo fondante dell'idraulica fluviale. Nel 1630, terminato il proprio lavoro, pensò di chiedere l'imprimatur a Roma, forse fidando su Cesi. Dopo contatti di Castelli col maestro del Sacro Palazzo, il domenicano N. Riccardi, e col cardinale Francesco Barberini, andò a Roma (maggio-giugno 1630), contando sull'appoggio del granduca Ferdinando II. Ma il permesso di stampa tardò; il manoscritto fu letto da un confratello di Riccardi, R. Visconti, che chiese ritocchi che furono accolti. In agosto, morto Cesi, il G. pensò di stampare a Genova (ne trattò col Baliani), poi a Firenze. Quando chiese l'imprimatur definitivo Riccardi prima disse di voler rivedere il testo, poi che inizio e fine dovevano essere rivisti a Roma, mentre il resto poteva esserlo a Firenze, dove un domenicano scelto dal G., G. Stefani, l'approvò. Ma Riccardi controllò ancora il tutto e poi, sentito il papa, pose condizioni: che il titolo non alludesse alle maree; che l'opera si astenesse da questioni scritturali; che presentasse le idee copernicane nel modo "ipotetico" prescritto nel 1616. Inoltre il proemio doveva dichiarare l'intento di mostrare che il decreto del 1616 non era imputabile a ignoranza scientifica, e la chiusa doveva presentare l'argomento di Urbano VIII sulla ipoteticità di ogni schema astronomico. La stampa dal Dialogo di Galileo Galilei… Dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano; proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l'una, quanto per l'altra parte (in Fiorenza, per G.B. Landini) iniziò nel giugno 1631, col solo permesso dell'Inquisizione di Firenze, e terminò nel febbraio 1632.

Il Dialogo è estraneo ai generi allora usuali della letteratura scientifica. Non rientra in una disciplina, impiegando considerazioni astronomiche, meccaniche, matematiche, cosmologiche, epistemologiche, logico-semantiche. Non è un trattato; non ha ordine deduttivo, perché ha digressioni e circonvoluzioni del discorso comune; avvia la fisica matematica moderna, ma il formalismo - pur nei modi del tempo - vi ha poca parte. I temi hanno spesso matrici remote; l'originalità - a parte singole tesi o risultati - è soprattutto di scopo e modi. Forma dialogica e uso del volgare erano già nella letteratura matematica del Cinquecento; l'identificazione dei parlanti con posizioni dottrinali era consueta (anche negli scritti di Vincenzio Galilei, che anticipano moduli usati dal figlio). Ma nessuno aveva unito in pari grado stile, forza dialettica e livello di analisi, o era riuscito a far apparire persone reali delle figure con ruoli prefissati. Salviati e Sagredo (morto anch'egli, nel 1620) sono più che il portavoce dell'autore e un arbitro: la mordacità brillante del primo e la finezza spassionata del secondo sono tratti autentici. Il nome del terzo interlocutore, Simplicio, evoca un commentatore di Aristotele e lo stereotipo dell'accademico libresco; non si può escludere che il G. pensasse a una persona, ma l'identificazione con Cremonini o altri non trova supporto. La conversazione, nel palazzo veneziano dei Sagredo, tocca quattro aspetti in altrettante "giornate": critica della cosmologia aristotelica; fenomeni del moto terrestre; questioni astronomiche e correlati meccanici e ottici; la spiegazione delle maree già proposta all'Orsini. Alla caratterizzazione della fisica tradizionale (intreccio di causalità e finalità, circolarità esplicativa, reificazione di qualità percettive, distinzioni linguistiche e dati psicologici), segue l'enunciazione di ciò che sarà detto relatività galileiana e di risultati cinematici degli anni padovani, dimostrati poi nei Discorsi. Il tutto apre la strada alla teoria delle maree, per il G. decisiva perché implicante la realtà dei moti della Terra. Originata dal rifiuto dell'attrazione lunare, che come per le "virtù" e le "qualità" aristoteliche egli riteneva una reificazione, essa fu un brillante errore indotto da purismo epistemologico. Il G. non si valse dei lavori di Keplero, che possedeva e che mostravano la netta superiorità dell'eliocentrismo. In questo influirono le loro forti differenze di "stile" scientifico; ma va aggiunto che non fu raro in lui il silenzio su proposte nuove di altri, inclusa la Geometria di B. Cavalieri, allievo di Castelli e in parte suo, che invano gli chiese un parere sul proprio metodo. Così i conservatori poterono ritenere che il decreto del 1616 fosse ancora in linea con lo stato delle conoscenze, e concentrarono l'esame sulla congruenza dell'opera con esso. Nel proemio v'era la dichiarazione chiesta dal Riccardi, ma il seguito accreditava palesemente l'eliocentrismo: Salviati prevaleva sempre su Simplicio, difensore del geocentrismo puro, non del più sofisticato sistema di Brahe. Presentare le maree come prova dei moti della Terra contraddiceva l'argomento di Urbano VIII, per giunta fatto esporre da Simplicio (il che parve derisorio) e commentato da Salviati in termini tanto compunti da suonare ironici.

Nell'estate del 1632 Urbano VIII affidò il Dialogo a una commissione, come reagendo a una scorrettezza (al modo in cui era stato formulato il suo argomento, o al fatto che il G. aveva chiesto l'imprimatur senza accennare al precetto). La commissione concluse che l'opera infrangeva il decreto del 1616, e il papa attivò il S. Uffizio e convocò a Roma l'autore; il G. chiese di essere interrogato a Firenze per motivi di salute ma dovette obbedire. A Roma, dal febbraio 1633, poté abitare nell'ambasciata medicea purché evitasse rapporti esterni; interrogato il 12 aprile disse di non ricordare se il 26 febbr. 1616 gli era stato intimato un precetto, ma non l'escluse. Detenuto nel palazzo del S. Uffizio, il 30 aprile ammise di aver rappresentato l'eliocentrismo come superiore (per "vana ambizione e compiacimento di apparire arguto"), ma ripeté di non aver memoria del precetto; il 21 giugno, sotto minaccia di tortura, lo ribadì. Il giorno seguente, in S. Maria sopra Minerva, abiurò e ascoltò la sentenza di carcerazione "ad arbitrio nostro" e proibizione assoluta del Dialogo. Abiura e sentenza furono inviate in diverse città italiane per esservi pubblicate e lette a filosofi e matematici; a Firenze questo avvenne il 12 luglio, presenti amici e allievi del Galilei. L'inquisitore locale fu ammonito per aver approvato l'opera.

Tra il processo del 1633 e la vicenda del 1615-16 vi sono differenze importanti. Fu personale e non dottrinale, e non riguardò tesi ma questioni di fatto: se l'opera infrangeva un decreto; se l'autore aveva contravvenuto a una diffida legalmente impegnativa. Pur negando l'intenzione il G. rispose affermativamente alla prima (nel probabile convincimento che un diniego avrebbe aggravato la situazione); quanto alla seconda, la sua scelta di non negare l'imposizione del precetto - quando nessun testimone sopravviveva - significa almeno quanto le irregolarità di registrazione. Una volta escluso che la concessione dell'imprimatur rendesse illegittimo un successivo accertamento di congruità tra intenti e precetto, lo spazio di difesa era ristretto, e l'esito quasi inevitabile. La sentenza fu firmata da sette dei dieci cardinali del S. Uffizio, ma non v'è prova che questo non fosse casuale. Concernendo la mera conformità al pronunciamento di un'autorità essa ebbe destino diverso da quello del decreto del 1616, divenuto quasi inoperante nel 1757, quando Benedetto XIV lo escluse dalle edizioni venture dell'Indice; il Dialogo vi figurò fino a Ottocento inoltrato.

L'applicazione della condanna fu mite, forse anche per riguardo ai Medici (si è parlato di inesperienza e pavidità del giovane Ferdinando II, ma è dubbio che un atteggiamento più energico sarebbe stato efficace). Il 23 giugno la sede di detenzione fu spostata nell'ambasciata toscana, e il 30 nel palazzo senese di un amico del G., l'arcivescovo Ascanio Piccolomini. L'ambiente favorevole di Siena lo restituì al lavoro. Da idee precedenti sviluppò risultati sulla resistenza dei materiali che espose in seguito nei Discorsi, prima della parte cinematica, sulla quale pure lavorò. Nel contempo postillò un libro dell'aristotelico A. Rocco (Esercitationi filosofiche… le quali versano in considerare le posizioni et obietioni che si contengono nel dialogo del sig. G. G. linceo, contro la dottrina d'Aristotile, Venezia 1633). F. Micanzio, il biografo di Sarpi rimasto referente veneto del G., comunicò le postille al Rocco, avviando un dialogo indiretto e incoraggiando l'amico a farne uno scritto organico, che non stese mai; esse costituiscono comunque un'integrazione al Dialogo. Il G. postillò anche un libro di J.B. Morin (Famosi et antiqui problematis de Telluris motu, vel quiete, hactenus optata solutio, Parigi 1631), e giudicò oralmente con l'usuale mordacia uno di S. Chiaramonti (Difesa… al suo Antiticone, e libro delle tre nuove stelle, dall'oppositioni dell'autore de' due massimi sistemi tolemaico e copernicano, Firenze 1633). Nel dicembre 1633 ottenne di risiedere ad Arcetri, dove poté ricevere visite autorizzate, incluse quelle di Morin, Hobbes (nel tardo 1635) e Milton (forse nel settembre del 1638). Nell'ottobre 1635 incontrò un antico allievo di Padova, F. de Noailles, che come ambasciatore francese a Roma aveva cercato di far attenuare la sua condanna; a lui dedicherà i Discorsi. Castelli poté visitarlo solo nel 1638. Una sua richiesta di andare saltuariamente a Firenze per cure, respinta nel 1634, fu accolta solo nel 1638, dopo che aveva perduto la vista. Prima e dopo il 1633 la sua vita privata a Arcetri fu semplice; curava personalmente i propri vigneti, e le attività quotidiane hanno un'eco nelle lettere della figlia.

Già nei mesi di Siena la notizia che lavorava all'opera sul moto destò aspettative; tra 1634 e 1636 furono pubblicate la traduzione francese di M. Mersenne delle Mecaniche (circolate fuori d'Italia da circa il 1615) e traduzioni latine di M. Bernegger del Dialogo e della lettera a Cristina di Lorena. Il primo fu molto letto (nel 1634 da P. de Carcavy, I. Beeckman, Descartes). Tornando alla meccanica, principale campo d'indagine fino al 1609, il G. non volle solo evitare la perdita di risultati fondamentali e evidenziare, nella sconfitta, meriti e priorità. La nuova cinematica poteva rimuovere le pregiudiziali sul moto terrestre, ma la giornata II del Dialogo non la presentava così analiticamente da istituire un nesso con l'astronomia. Quindi egli perseguì una strategia indiretta, astenendosi dalla meccanica celeste. La stesura progredì nonostante crescenti disturbi fisici e una grave crisi per la morte di Maria Celeste (aprile 1634). Dal 1630 aveva ripreso le note sul moto uniformemente accelerato, delineando la futura giornata terza dell'opera, sviluppata a Siena. Nel 1634 decise di premetterne una sulla struttura della materia e del continuo e una sulla resistenza dei solidi alla frattura (anch'essa sviluppo di riflessioni precedenti). Vi lavorò nella prima metà del 1635; entro febbraio inviò al Micanzio una bozza della futura giornata I dei Discorsi, ma l'amico lo avvisò che per lui c'era un divieto "de omnibus editis ed edendis". Perciò, completata in maggio la giornata II, inviò entrambe a G. Pieroni, un ingegnere offertosi di far stampare l'opera in Germania. Nella seconda metà del 1635 perfezionò la giornata III, e nel 1636 la IV sulla traiettoria dei proiettili. Poiché Pieroni incontrava difficoltà il G. si abboccò a Arcetri con L. Elzevier, esponente dei noti editori-stampatori; gli affidò la stampa, convenendo che l'opera avrebbe incluso anche una quinta giornata sulla teoria delle proporzioni. Pensò poi a una sesta sulla forza della percossa (altro tema avviato a Padova) e a un'appendice con i teoremi giovanili sui centri di gravità. Ma, anche per il peggiorare della salute e della vista, entro il maggio 1637 poté fornire solo il testo delle giornate I-IV e dell'appendice, e l'opera fu stampata con queste parti. Non avendo avuto un titolo, gli Elzevier ne scelsero uno che al G. parve dimesso: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla mecanica et i movementi locali… Con una appendice del centro di gravità d'alcuni solidi (in Leida, appresso gli Elsevirii, 1638). Il libro entrò in commercio nell'estate e l'autore, per la cecità sopravvenuta, non poté più esaminarlo.

I Discorsi conservano struttura, interlocutori e andamento digressivo del Dialogo. La maggiore tecnicità li rende meno brillanti e agevoli, anche perché le giornate III e IV consistono quasi solo di estratti di uno scritto latino degli anni di Padova, in tre parti: De motu aequabili, De motu naturaliter accelerato, De motu proiectorum. Se influirono meno sulle idee moderne circa natura e scopi del sapere, sono però scientificamente il lavoro maggiore del Galilei. La dizione "nuove scienze" li qualifica non come aggiunta a qualcosa già esistente, ma come fondazione di due discipline. Entro certi limiti questo è corretto, ma per ragioni diverse nelle due parti dell'opera. Le prime due giornate, oltre a digressioni sul continuo matematico, struttura della materia, pendoli e acustica, danno la prima trattazione generale della resistenza dei corpi alla frattura, con un salto teorico che (come il Della misura delle acque correnti di Castelli in idraulica) mutò anche figure professionali. Ma la novità in cinematica (giornate III e IV) investì la partizione stessa dell'oggetto di studio. Fino ad allora la sola parte matematizzata della meccanica era la statica; il moto era studiato dai filosofi naturali in forme e con lessico non quantitativi. L'estensione dei metodi della prima area alla seconda, solo avviata nei De motu antiquiora, configurò i fatti statici come limiti di quelli cinetici. Una nuova meccanica, fisica e matematica, concretò la visione della realtà naturale della quale il Dialogo aveva fornito le coordinate. Sviluppi di tale portata non sono opera di singoli, ma il ruolo del G. fu decisivo, e se certi suoi fondamenti non vanno modernizzati (pensò a una inerzia circolare) essi non compromisero i suoi risultati in cinematica. Questi non sono solo un piccolo numero di "scoperte" (nel moto uniformemente accelerato gli spazi percorsi in porzioni uguali e successive di tempo stanno tra loro come la successione 1, 3, 5, 7, 9, …; gli spazi percorsi in 1, 2, 3, 4, … porzioni corrispondono alla prima potenza del loro numero; un proiettile descrive sempre una parabola, determinata dalla velocità e dall'angolo di lancio) e in risultati derivati. Vi ebbero infatti un ruolo essenziale anche principî e postulati intermedi, che permisero poi a Torricelli di generalizzare l'impianto della disciplina.

In un'ultima esplosione di energie il G. avviò o riprese progetti e osservazioni (nel 1637 descrisse la titubazione lunare) finché disturbi alla vista iniziati nel 1632 lo portarono alla cecità totale (1638). Nel 1636 propose il metodo per la longitudine agli Stati generali d'Olanda. Lavorò alla giornata VI sulla percossa e alle Operazioni astronomiche, su strumenti e metodi per migliorare le osservazioni; cercò di provare il principio di uguaglianza dei momenti di sfere discendenti lungo piani inclinati di uguale altezza. Scrisse note sui movimenti degli animali (densità media degli organismi in rapporto al mezzo ambiente; resistenza delle strutture ossee; nessi tra forme delle specie, loro dimensioni, tipo di locomozione che impiegano e densità del mezzo). Nell'isolamento della cecità la corrispondenza lo distrasse e stimolò. Nel giugno 1637 replicò a P. de Fermat sulla caduta dei gravi; dal tardo 1638 discusse il De motu naturali gravium solidorum (Genova 1638) del Baliani, che per vie diverse giungeva a parte dei suoi risultati; nel 1640, in un saggio al principe Leopoldo de' Medici sul Litheosphorus (Udine 1640) di F. Liceti, relativo alla "pietra di Bologna" (una barite luminescente cui s'era interessato almeno dal 1611), precisò idee sulla natura della luce manifestate fin dal 1615 al Dini e altre sulla luce cinerea della luna (fu incluso nel De Lunae subobscura luce di Liceti, ibid. 1642). Nel tardo 1641 dettò a Evangelista Torricelli parte della giornata V dei Discorsi, sulla teoria delle proporzioni.

Per il suo stato gli occorsero collaboratori. Dopo il sacerdote fiorentino Marco Ambrogetti dal 1639 il G. si valse del diciassettenne Vincenzio Viviani, già promettente matematico, che con Vincenzio Galilei testimonierà su un tentativo del 1641 di applicare il pendolo agli orologi (che, sviluppato a Firenze negli anni successivi, fonderà una rivendicazione di priorità nei confronti di C. Huygens). Nell'ottobre del 1641 chiamò presso di sé Torricelli, del quale Castelli gli aveva inviato risultati. La collaborazione fu però brevissima, perché dal novembre 1641 le sue condizioni si aggravarono.

Il G. morì ad Arcetri l'8 genn. 1642.

La modesta cerimonia funebre avvenne il giorno seguente nella chiesa fiorentina di S. Croce. L'intento dei Medici e di Viviani di erigergli un monumento sepolcrale nella stessa chiesa restò irrealizzabile per quasi un secolo. Nel 1674 lo scolopio G. Pierozzi ornò la sepoltura provvisoria nella cappella dei Ss. Cosma e Damiano, attigua alla chiesa, con una commossa epigrafe latina; solo nel 1734 il S. Uffizio autorizzò la costruzione di una tomba monumentale in S. Croce, dov'erano quelle del padre e di Michelangelo Buonarroti; le spoglie vi furono traslate nel 1737.

Opere: La Collezione Galileiana della Biblioteca nazionale di Firenze, dopo la perdita di materiali anche rilevanti, consta d'un nucleo di 307 codici e d'una Appendice di 40. Il primo include: Anteriori (10 voll., soprattutto relativi al padre del G.); Galileo (89); Contemporanei (11, relativi a amici e conoscenti e all'Accademia dei Lincei); Discepoli (148, di allievi o collaboratori, da Castelli a Cavalieri, Viviani, Torricelli); Posteriori (49, relativi a Leopoldo de' Medici e Accademia del Cimento). Una descrizione (La Collezione Galileiana della Biblioteca nazionale di Firenze, a cura di A. Procissi, Roma 1959 e ss.), giunge (1997) alla sezione Discepoli. Sulle carte e gli editi del G. poggiarono gli studi e le edizioni complessive dei suoi scritti nei secc. XVII-XIX, che diffusero non tanto i risultati scientifici (già recepiti dalla manualistica) quanto tesi epistemologiche e di filosofia generale, alimentando riflessioni su ruolo e natura della scienza, libertà di pensiero, rapporto ragione-fede.

Edizioni: Malgrado incompletezze (in Italia il Dialogo fu ristampato solo nel 1710, e con autorizzazione solo nel 1744), le edizioni hanno scandito fasi di storia intellettuale e fornito alla comunità scientifica un'immagine di sé; le più importanti sono quindi da menzionare. Nel 1655-56 V. Viviani curò le Opere di Galileo Galilei linceo, nobile fiorentino, già lettore delle matematiche nelle università di Pisa, e di Padova, di poi sopraordinario nello Studio di Pisa. Primario filosofo, e matematico del serenissimo gran duca di Toscana (I-II, Bologna). Dopo una parziale traduzione inglese nelle Mathematical collections and translations di Th. Salisbury (London 1661-65) il secolo XVII fu chiuso da Galilaei Galilaei Lyncei dialogi, tam eos quos edidit de systemate mundi, quam eos de motu locali (Haga Comitis 1699-1700). L'edizione di T. Buonaventuri, G. Grandi e B. Bresciani (Opere di Galileo Galilei nobile fiorentino, primario filosofo, e mattematico del serenissimo gran duca di Toscana, I-III, Firenze 1718) avviò il ripensamento storico-scientifico e ideologico della questione galileiana nell'Italia dell'Illuminismo insieme con quella curata da G. Toaldo (Opere di Galileo Galilei divise in quattro tomi, in questa nuova edizione accresciute di molte cose inedite, Padova 1744). L'Ottocento si aprì con le Opere di Galileo Galilei nobile fiorentino (I-XIII, Milano 1808-11), le Memorie e lettere inedite finora o disperse di Galileo Galilei ordinate ed illustrate (da G.B. Venturi, I-II, Modena 1818-21) e le Opere di Galileo Galilei (I-II, Milano 1832). I limiti della successiva edizione in 16 tomi di E. Alberi e C. Bianchi (Le opere di Galileo Galilei, prima edizione completa, condotta sugli autentici manoscritti palatini, Firenze 1842-56), base degli studi nel Risorgimento e nel primo positivismo, produssero l'esigenza dell'Edizione nazionale affidata a A. Favaro e pochi collaboratori (Le opere di Galileo Galilei, I-XX, Firenze 1890-1909), che incluse materiali vastissimi, talora solo indirettamente relativi al Galilei. Una ristampa curata da G. Abetti (Firenze 1929-39) aggiunse pochi materiali, e una nel quarto centenario della nascita (Firenze 1968) ha riprodotto la prima.

Fonti e Bibl.: Se la perdita di gran parte delle lettere del G. ad altri è irrimediabile, ritrovamenti significativi sono ancora possibili (vedi la denuncia del 1604 in A. Poppi, Cremonini, G. e gli inquisitori del Santo a Padova, Padova 1993). Le carte residue dei procedimenti del 1615-16 e 1632-33 sono state riedite con aggiunte (I documenti del processo di G. G., a cura di S.M. Pagano - A.G. Luciani, Città del Vaticano 1984). L'edizione Favaro resta la base degli studi, col contorno di centinaia di contributi di dettaglio dello stesso Favaro sul G. e amici, corrispondenti, critici (G. Favaro, Bibliografia Galileiana di Antonio Favaro, Venezia 1942), che per massa di dati e documenti rientrano a pari titolo nella bibliografia delle fonti e in quella critica. Essendo dispersi in molti periodici anche difficilmente reperibili, sono stati ristampati e raccolti (G. G. e lo Studio di Padova, I-II, Padova 1966; G. G. a Padova. Ricerche e scoperte, insegnamento, scolari, Padova 1968; Amici e corrispondenti di G., a cura di P. Galluzzi, I-III, Firenze 1983; Scampoli galileiani, a cura di L. Rossetti - M.L. Soppelsa, I-II, Trieste 1992; Adversaria Galilaeiana, a cura delle stesse, Trieste 1992). L'attenzione rivolta al G. da scienza, filosofia e letteratura rende incompleta ogni bibliografia. Una estesa fino al 1895 (includente le edizioni e ristampe delle opere sue e di altri in contatto con lui, di documenti e corrispondenza) giunse a più di 2100 titoli (Bibliografia Galileiana [1568-1895] raccolta ed illustrata da A. Carli ed A. Favaro, Roma 1896). G. Boffito (Bibliografia Galileiana 1896-1940, Roma 1943) ne aggiunse circa 1900, e un prolungamento al 1964 altre centinaia (E. McMullin, Bibliografia Galileiana, 1940-1964 e Addenda to the Carli-Favaro [1564-1895] and Boffito [1896-1940] Bibliografia Galileiana, in appendice al volume collettivo G., man of science, New York 1968; vedi anche E. Gentili, Bibliografia Galileiana fra i due centenari [1942-1964], Varese 1966, e Isis Cumulative Bibliography 1913-1965, I, London 1971, pp. 456-466). Per gli anni successivi manca un elenco sistematico, ma i titoli nella bibliografia della rivista Isis - limitata ai soli aspetti storico-scientifici - ascendono fino al 1985 ad altre centinaia (Isis Cumulative Bibliography 1966-1975, I, London 1980, pp. 157-162; 1976-1985, I, ibid. 1990, pp. 179-185), e denotano un incremento crescente.

Si indicano qui pochi lavori recenti di sintesi o proponenti prospettive specifiche, rinviando per altri più generici, tecnici o circoscritti alle bibliografie citate (estensibili fino al presente tramite le bibliografie annue in Isis e altre riviste specialistiche). A. Koyré, Études Galiléennes, I-III, Paris 1939-40 (trad. it. Torino 1976); G. De Santillana, The crime of Galileo, Chicago 1955 (trad. it. Milano 1960); L. Geymonat, G. G., Torino 1957; G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a cura di A. Carugo - L. Geymonat, Torino 1958; M. Clavelin, La philosophie naturelle de Galilée, Paris 1968; W.R. Shea, Galileo's intellectual revolution: middle period, 1610-1632, New York 1972; S. Drake, G. at work: his scientific biography, Chicago 1978 (trad. it. Bologna 1988); P. Redondi, G. eretico, Torino 1983; W.A. Wallace, G. and his sources: the heritage of the Collegio Romano in G.'s science, Princeton 1984; M. D'Addio, Il caso G.: processo, scienza, verità, Roma 1993; M. Biagioli, G. courtier, Chicago 1993. Molti contributi si trovano in volumi collettivi (oltre a quello curato dal McMullin) e atti di convegni: G. G. zum 400. Geburtstag, München 1964; G. reappraised, a cura di L.C. Golino, Berkeley 1966; Symposium internazionale di storia, metodologia, logica e filosofia della scienza. G. nella storia e nella filosofia della scienza, Firenze 1967; Galilée: aspects de sa vie et de son oeuvre, Paris 1968; New perspectives on G., a cura di R.E. Butts - J.C. Pitts, Dordrecht 1978; G. G.: 350 ans d'histoire, 1633-1983, a cura di P. Poupard, Tournai 1983 (trad. it. Roma 1984); Giornate lincee indette in occasione del 350° anniversario della pubblicazione del Dialogo sopra i massimi sistemi di G. G. (Roma, 6-7 maggio 1982), Roma 1983; Novità celesti e crisi del sapere. Atti del Convegno internazionale di studi galileiani, a cura di P. Galluzzi, Firenze 1984; G. e Padova, 1592-1610, Trieste 1995.

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