genere
Nel dibattito antropologico e sociologico contemporaneo, il termine g. ha sostituito il termine sesso per indicare la tipizzazione sociale, culturale e psicologica delle differenze tra maschi e femmine.
Il concetto di g. stato introdotto negli anni 1960 dai medici statunitensi R. Stoller e J. Money del
Con relazioni di g. si intende il modo in cui si rappresentano simbolicamente e normativamente i rapporti fra il maschile e il femminile. Spesso tali rapporti sono collegati ad altri sistemi di classificazione ed è dunque possibile, per es., studiare le relazioni di g. analizzando il nesso tra questi sistemi simbolici e i rapporti di potere: l’accesso di uomini e donne ai mezzi di produzione, alla gestione del prodotto sociale e all’uso dello spazio pubblico. Si aprono così questioni di una certa rilevanza, come, per es., quella di accertare se la nozione di uguaglianza, centrale nella concettualizzazione delle relazioni di g. in Occidente, sia presente altrove e il problema di come avvengano la costruzione dell’identità di g. e l’autoidentificazione del soggetto.
Le scienze sociali studiano il modo in cui le istituzioni contribuiscono alla formazione dell’identità di g., mentre l’antropologia ha mostrato come, anche in società diverse da quella europea, i riti di passaggio e di iniziazione mirino a ‘costruire’ i corpi maschili e femminili in relazione ai ruoli sociali che sono destinati a svolgere. Sul piano storico-culturale gli studi ispirati dal movimento femminista hanno sottolineato il legame fra lo stereotipo femminile presente nella cultura occidentale e la tradizionale contrapposizione fra natura e cultura, corpo e mente, emozione e ragione, infanzia e maturità, criticando la corrispondente identificazione del femminile con la sfera della natura, del corpo, dell’emotività, dell’infanzia.
In campo epistemologico, le ricerche di filosofe francesi e italiane come L. Irigaray, G. Fraisse, A. Cavarero, L. Muraro hanno attribuito alla differenza di g. un ruolo rilevante nella stessa formazione della conoscenza scientifica: questa non sarebbe neutra, ma risulterebbe condizionata, per quanto riguarda sia le categorie concettuali sia le procedure metodologiche, dall’identità di g. del ricercatore.
Le riflessioni bioetiche sollecitate dai gender studies sono molteplici e complesse.Al centro di questo campo di studi vi è il tema dell’appartenenza sessuale nel suo processo di costruzione sociale e nelle conseguenze che essa ha sull’agire, relazionarsi e interagire degli individui all’interno della società. In tale studio si sono delineate due prospettive di analisi principali: quella essenzialista, che muove a partire da una concezione biologicamente radicata di tali differenze, considerate come naturali e immutabili; e quella costruttivista, che si fonda invece su una concezione perlopiù sociale e culturale delle differenze, portando in particolare l’attenzione sui processi attraverso i quali gli individui vengono socializzati alla propria identità di genere. Tali studi hanno ricadute significative sul pensiero antropologico contemporaneo e, in particolare, sul concetto di identità sessuata. La contrapposizione tra sesso e genere, infatti, segna il passaggio da una visione unitaria dell’identità sessuale dell’individuo – che, a partire dalla consapevolezza di una corporeità maschile o femminile, sviluppa gradualmente un’identità psichica definita (mascolinità o femminilità) – a una visione dualistica della sessualità, non solo distinguendo, bensì separando gli elementi biologici dell’identità sessuale (sesso) dal complesso di ruoli, funzioni e identità appresi e culturalmente strutturati (femminilità e mascolinità). Emerge così una concezione autonoma dell’appartenenza di g., pensata come il risultato di una scelta culturale dell’individuo, distinta dalla propria corporeità.
Le conseguenze più marcate di questo approccio sono emerse nell’ambito delle Conferenze mondiali sulla donna, a partire dal 1995, con l’affermazione politica del pensiero multi-gender, di tipo costruttivista, sollecitato dal libertarismo e dal soggettivismo, che si fa portatore della libertà di scelta dell’orientamento sessuale in base a preferenze, pulsioni e desideri soggettivi. Ne deriva che con l’identificazione esclusiva della persona come g., piuttosto che come essere sessuato a partire da una corporeità, si giunge alla neutralizzazione dell’identità sessuata. Il gender, infatti, si presta a essere inteso come concetto neutro, né femminile né maschile: può, infatti, essere uomo, donna, ma anche gay, lesbica o transessuale, a seconda delle preferenze soggettive. La persona, così, non viene più valorizzata nella sua individualità sessuata, nel suo essere uomo o donna, bensì appiattita nell’ambito di un’indifferenza di g., nella quale uomini e donne vengono percepiti come semplicemente ‘uguali’ e tutte le differenze biologiche, di ruolo, di caratteri vengono annullate, dimenticando il significato essenziale della bipolarità sessuale e la sua struttura oggettiva.
In questo contesto, alcuni studi di antropologia evidenziano l’urgenza di recuperare una visione unitaria della persona, che permetta di cogliere tutte le dimensioni dell’individuo: la sua uguaglianza ontologica rispetto a tutti gli uomini e la sua specificità biologicaepsichica, ossia la sua unicità nell’essere pienamente uomo o donna. La realizzazione dell’identità sessuata dell’individuo, infatti, che si manifesta nel suo essere uomo o donna, e che si esplicitanelle finalità stesse della sessualità (la riproduzione e la continuità intergenerazionale), presuppone necessariamente una dimensione corporea definita, sulla base della quale il soggetto possa sviluppare un’identità psichica, in grado di percepire il valore della diversità sessuale e di confrontarsi con essa.
I g. artistici possono essere considerati categorie di opere connotate da uniformità tematica: dalla pittura di storia, stimato il g. più nobile dell’arte, a g. minori quali il ritratto, il paesaggio, la
Una delle categorie impiegate dalla classificazione dei viventi.
Il termine g. (gr. γένος) fu usato da Platone, come il termine εἵδος, per designare l’‘idea’: il primo, infatti, riflette l’aspetto per cui essa è la ‘stirpe’, la ‘famiglia’ (per es., il gatto rispetto ai singoli gatti), il secondo riflette l’aspetto per cui essa è la ‘figura’, la ‘forma’, il ‘tipo’. Più tardi, il termine εἵδος venne sempre più presentandosi come implicante un’estensione minore a paragone del γένος. E di qui, allora, la superiorità estensiva del g. a paragone della specie (cioè dei due termini latini, genus e species, che letteralmente traducevano i due corrispondenti greci), poi consacrata dalle classificazioni naturalistiche.
Il problema della definizione e delle mutue relazioni dei g. letterari è uno dei più discussi, dall’antichità classica in poi. La nozione, che in epoche di forte codificazione letteraria (per es., nei vari classicismi) ha svolto una funzione prescrittiva e normativa, si costituì grazie al riconoscimento di determinati modelli, ritenuti eccellenti, da cui furono estratte regole il più possibile precise (di stile, di forme, di temi), che furono utilizzate per la classificazione delle opere conservate dalla tradizione. Prima di Aristotele, in
La classificazione platonica passò ai grammatici e ai trattatisti dei secoli successivi grazie alla mediazione della Poetica di Aristotele, dove ha un ruolo centrale il concetto di mimesi, che fissa alcuni aspetti essenziali del procedimento poetico. Le sue riflessioni, rivolte soprattutto alla tragedia (della Poetica non è pervenuta la seconda parte, sulla commedia), tendono a fissarne le caratteristiche fondamentali (la forma metrica, le qualità dei personaggi, gli elementi formali ecc.), a coglierne analiticamente le regole di svolgimento (la durata degli avvenimenti, l’unità o la pluralità dell’azione ecc.) e a farne in qualche modo il modello della poesia, così che non poche osservazioni sulla tragedia risultano applicabili anche all’epica.
La prospettiva aristotelica è prevalentemente storica e critica, e vuole fissare alcuni principi filosofici generali, applicabili alle forme e allo sviluppo storico della tragedia, ma non mira a una rigida definizione dei g., né tanto meno vuole avere valore normativo. I grammatici e i filologi alessandrini guardarono invece a una precisa sistemazione dei g., con intenti classificatori e finalità prescrittive; la teoria dei g. si trasformò così in un canone, con pretese di completezza, e ciascun g. e sottogenere fu classificato rigidamente, in relazione con i diversi stili (umile, medio e sublime), cui si fanno corrispondere appunto i diversi g. (rispettivamente, il dramma satiresco, la commedia e la tragedia). Le dottrine del periodo alessandrino entrarono nei manuali e nell’insegnamento delle scuole, passando poi dal mondo ellenistico a quello romano (Istituzioni di Quintiliano), fino a trasmettersi nei trattati dell’età imperiale e bizantina, talora con un’ancor più precisa accentuazione dell’elemento prescrittivo, come nel caso dell’Arte poetica di Orazio.
2. Dal Medioevo al Romanticismo
Ma la riflessione sui g. è caratterizzata anche da periodi in cui il rapporto tra l’attività letteraria e il rispetto del canone e dei principi si fa più o meno intenzionalmente conflittuale, o ribelle in modo esplicito. Il Medioevo, malgrado i residui di retorica tardolatina passati nelle artes dictandi (utilizzate soltanto, del resto, per l’epistolografia e l’eloquenza), travolse i g. classici e ne creò di nuovi: il romanzo, la novella, la chanson de geste, il poema cavalleresco, un nuovo teatro, sacro e profano, autonomo da quello latino.
Se il Rinascimento tornò alle regole classiche, senz’altro meno esplicito rispetto al Medioevo, ma comunque attivo e operante fu il contrasto che cominciò a profilarsi già alla fine del 16° sec. nei confronti della precettistica letteraria, per es. con T. Tasso, il quale avvertiva l’angustia degli schemi retorici, che tuttavia non osava rinnegare (di qui, accanto al religioso, il travaglio letterario che lo portò a rivedere la
Il 17° sec. polemizzò contro le regole astrattamente imposte al libero sviluppo della creatività letteraria; ma il dominio delle regole, e quindi dei g., riprese con l’Arcadia. Il classicismo francese aveva consolidato intanto, soprattutto con l’Art poétique di N. Boileau (1674) e nella pratica della poesia, le regole del g. teatrale, con la fissazione delle famose ‘unità drammatiche’, contro cui si ebbe la prima battaglia della critica romantica e, in
La prima sistematica negazione della teoria dei g. si profila nell’estetica del Novecento, in particolare in quella di B. Croce. Nell’Estetica (1902) i g. sono ritenuti estranei all’intuizione lirica, cioè alla sintesi estetica, appartenendo a un diverso momento di riflessione, intellettualistico e non estetico, la loro funzione consistendo soltanto in un’indicazione esterna e di comodo, svincolata dallo stesso processo della critica. Nella Logica (1909) si precisa il carattere di pseudo-concetto della nozione di g.: il suo valore è pratico-empirico e non teorico; la teoria dei g. letterari ha un’utilità didascalica e in qualche modo, come Croce riconoscerà in seguito, anche storica, poiché molte opere del passato non potrebbero essere adeguatamente comprese senza fare attenzione alla poetica dei g. alla quale ubbidivano i loro autori.
Le critiche di Croce e la sua giusta polemica nei confronti dell’utilizzazione della nozione di g. come criterio di giudizio non hanno mancato di suscitare attenzione anche in chi non ha condiviso affatto la netta separazione crociana tra un momento intuitivo, libero dal condizionamento degli usi linguistici e degli istituti espressivi e formali, e un successivo momento intellettualistico, proprio del critico e non dello scrittore, o dello scrittore solo in quanto critico; è anche vero, però, che la situazione attuale è caratterizzata da un netto cambiamento di prospettiva. Sulla base di esigenze fatte valere soprattutto dai formalisti russi (V.B. Šklovskij e J.N. Tynjanov in particolare), il g. è considerato come prodotto storico, parte essenziale di quella complessiva strumentazione linguistica e formale che presiede alla produzione dei testi, pur essendo disponibile a trasformazioni incessanti e violazioni radicali. I g. di cui è considerata significativa non la semplice presenza di temi o motivi, come tali comuni a più g., ma il particolare tipo di rapporto tra gli elementi tematici e il piano della loro resa formale, sono oggi analizzati in relazione a diverse questioni, come quelle delle loro variazioni funzionali all’interno del sistema letterario, della loro diversa presenza nelle varie epoche, della loro intersezione e contaminazione, del loro rapporto con indirizzi culturali di rilievo, cioè con quei periodi (il Barocco, il Romanticismo ecc.) in cui i g. assumono un’aria di famiglia comune. Si tratta di una prospettiva nata dall’assimilazione del formalismo russo e dello strutturalismo, e che nella cultura italiana, con M. Corti e C. Segre, appare particolarmente attenta alla problematica della dinamica storica e funzionale dei g. e della loro collocazione nel più vasto ambito della comunicazione letteraria.
Il dibattito teorico sui g., e in particolare sul romanzo, si muove attualmente nella prospettiva volta a rilevare come i g. storicamente occupano uno spazio le cui componenti sono in costante evoluzione lungo i secoli; guardando dunque ai g. come a modelli sottoposti a continua metamorfosi che vanno, in ciascun caso particolare, situati nel sistema o polisistema letterario e culturale che lo forma e lo descrive, al fine anche di individuare gli scarti che l’opera letteraria realizza nei confronti di norme codificate. Gli studi più recenti di comparatistica letteraria hanno inoltre posto in luce aspetti relativi al complesso dei fenomeni di diffusione di un determinato g. in contesti storici e culturali diversi, all’interno dei quali esso svolge funzioni sociali ed estetiche differenti diffondendo cioè valori, linguaggi e tematiche radicati o appartenenti a una specifica tradizione culturale, nazionale o etnica.
Il g. grammaticale può distinguere soltanto il maschile e il femminile, come nelle lingue semitiche, o il maschile, il femminile e il neutro, come nelle lingue indoeuropee antiche (per es., il latino e il greco). Nelle lingue indoeuropee moderne la categoria del g. appare semplificata: solo in alcune, come per es. il tedesco, sono conservati i tre g.; nella maggior parte, come nell’italiano e nel francese, sussistono solo due g., il maschile e il femminile; in alcune, come in armeno e in persiano, la distinzione del g. è scomparsa o va scomparendo (nell’inglese è attualmente limitata ai pronomi). Il g. grammaticale in nessuna lingua storica appare strettamente coerente con il g. naturale.
Difficile è una spiegazione storica dell’origine della categoria del g. grammaticale. L’ipotesi più probabile è che originariamente esistesse una più ampia distinzione di classi, simile a quella che presentano molte lingue indigene dell’America, dell’Asia e dell’Africa (e soprattutto il gruppo bantu o, sebbene in misura/">misura più limitata, le lingue caucasiche), nelle quali, per es., l’inanimato è distinto dall’animato, e questo si articola in ragionevole e irragionevole, all’interno dei quali si distingue infine il maschile dal femminile. La semplificazione di questo originario sistema di classi deve portare a una distinzione tra una categoria animata, distinta spesso in maschile e femminile, secondo un principio fondamentale di coerenza con il g. naturale, e una categoria inanimata, rappresentata per lo più dal neutro. Il successivo sviluppo del g. grammaticale secondo criteri formali comportò poi una indipendenza sempre più larga tra g. grammaticale e g. naturale.
Si chiama g. di una curva algebrica un numero intero non negativo p collegato a talune proprietà analitiche e topologiche della curva; se la curva è piana, di ordine n, e ha come punti multipli soltanto d punti, il suo g. è dato da [(n−1)(n−2)/2]−d. Le curve di g. zero sono le curve razionali; quelle di g. uno si dicono curve ellittiche. Per es., sono razionalile rette, le coniche, le cubiche piane con punto doppio ecc.; sono ellittiche le cubiche piane senza punto doppio ecc. Il concetto di g. è stato esteso, in vari sensi, alle superfici e alle varietà algebriche, o topologiche.
In un poliedro chiuso non intrecciato, il g. del poliedro è il numero intero p fornito dalla relazione: 2−2p=F−S+V, dove F, S, V rappresentano rispettivamente il numero delle facce, degli spigoli e dei vertici del poliedro; intuitivamente, p è il numero delle ‘gallerie’ che attraversano il poliedro.