GENERI CINEMATOGRAFICI

Enciclopedia del Cinema (2003)

Generi cinematografici

Roberto Campari

Non si può affrontare la questione dei generi filmici senza partire da quella ormai secolare dei generi letterari. E come afferma N. Frye in Anatomy of criticism: four essays (1957) in fondo la teoria dei generi letterari non ha avuto poi tante evoluzioni da come l'aveva impostata Aristotele. Orazio la riprese, tre secoli dopo, con la stessa rigidità nella separazione tra i generi, per es. nella necessità ribadita di tenere ben distinte forme tragiche e forme comiche. Ma mentre per Aristotele il modello era la natura, di cui l'arte diventava mimesis, per Orazio ci si doveva basare sui modelli letterari così come l'oligarchia dei critici li aveva sanciti. Commedia e tragedia, spesso già mescolate in W. Shakespeare, furono unite alla fine del Settecento nel nuovo genere larmoyant che portò al melodramma ottocentesco e infine all'omonimo genere cinematografico. In Italia B. Croce si oppose alle rigide codificazioni di genere in nome soprattutto dell'autore, il cui sentimento e la cui fantasia devono idealisticamente prevalere. Ma se R. Welleck e A. Warren nella loro importante Theory of literature (1956) riaffermarono la validità dei generi codificati, Frye li interpretò quasi come archetipi junghiani e li vide collegati a uno schema stagionale, così che, per es., la tragedia è da collegare all'inverno mentre la commedia corrisponde alla primavera. Tz. Todorov invece volle ritornare a una sistematicità scientifica priva di giudizi di valore; la sua adesione alle teorie strutturaliste gli impose inoltre una visione assolutamente sincronica delle opere, come se tutti i testi fossero simultanei. Anche a suo parere la letteratura nasce sempre dalla letteratura, non dalla realtà; ma egli chiama in causa il lettore, come già aveva fatto Aristotele, riconoscendo il genere anche dagli effetti che le opere provocano sul lettore stesso, o sullo spettatore nel caso del teatro. Per es., per Todorov il 'fantastico' è tale soltanto se il lettore (o lo spettatore) non possono trovare una spiegazione razionale ai misteri e alle stranezze presenti nel racconto.Per quanto riguarda il cinema va necessariamente tenuto presente che esso fu dapprima soprattutto un fenomeno da fiera, dunque un aspetto della cultura popolare del primo Novecento piuttosto che una forma d'arte. Fu però proprio un grande storico dell'arte, E. Panofsky, il primo a osservare che, pur scoperto e perfezionato a causa di un'invenzione tecnica, e non per esigenze estetiche, il cinema divenne immediatamente prodotto d'arte popolare autentica senza derivare, come di solito accade per gli altri prodotti d'arte popolare, da quelli colti. Sia in quanto fenomeno popolare dunque, sia perché le possibilità di riproduzione e di diffusione lo resero presto parte non secondaria della nascente cultura di massa, il cinema si presentò da subito o quasi organizzato in generi. In una prima fase è indubbio che questi furono debitori a quelli letterari e teatrali; ma notevole importanza ebbe anche il fumetto, la cui data di nascita precede soltanto di un anno quella del cinema.

Per il costituirsi di un genere comunque molti elementi furono necessari: tuttavia, nessun film, per quanto di rilievo, può contenerne tutte le caratteristiche. E molti film, visti in seguito dalla critica come i prototipi di un determinato genere, non furono nemmeno collegati al genere al momento della loro apparizione, come esemplarmente accadde con The great train robbery (1903; L'assalto al treno) di Edwin S. Porter, oggi ritenuto dagli storici prototipo del western, termine per altro non in uso come tale almeno fino al 1911.

Proprio l'appartenenza del cinema alla cultura di massa fa sì che alcune sue caratteristiche siano sempre riconducibili a tale ambito. Prima di tutto una certa ripetitività, che significa omogeneità nel tipo di storie narrate, cioè nei soggetti, ma anche spesso nella tipologia delle scene, negli intrecci, nelle iconografie, nelle ambientazioni, e persino nei personaggi. L'importante fenomeno del divismo infatti giocò notevolmente in questo senso perché molte figure di star furono strettamente legate ai generi (per es., tutti i comici ma anche i cantanti e i ballerini che non avrebbero avuto successo al cinema se non vi fosse stato il musical) e in ogni modo la presenza di una star implica, e ancor più implicava ai tempi dello star system, una certa dose di aspettativa e di prevedibilità da parte del pubblico. Il potere degli spettatori è infatti importante quasi quanto quello dell'industria, cioè della produzione, per quanto concerne la vita dei generi. Se il genere non è riconosciuto e accettato da un pubblico cessa, come tale, di esistere; e anche la grande fortuna critica o commerciale di una nuova ma singola opera non potrà certo essere sufficiente a farlo rinascere.

Corpus sempre molto chiuso in sé stesso, le cui opere risultano in relazione più con le altre opere dello stesso tipo che con la realtà esterna, il genere implica schematizzazioni che permettono di studiarlo in modo simile a come il russo V.Ja. Propp nel 1928 studiò le schematizzazioni delle fiabe. E infatti, come in certo senso accade per le fiabe, il piacere nel caso dell'accostamento al cinema di genere deriva più dalla conferma che dalla novità. U. Eco (Le strutture narrative in Fleming, in L'analisi del racconto, 1969) ha riconosciuto in questa una delle leggi della comunicazione di massa: il pubblico sa come andrà a finire la storia, ne può prevedere anche le evoluzioni, ma è proprio questo che cerca e l'abilità del narratore sarà soprattutto quella di rendere più inventivo e accettabile quanto già egli conosce.

Se la realtà resta dunque qualcosa di esterno per la narrazione dei generi, ciò non significa che non vi sia però uno stretto rapporto con la cultura che li ha prodotti. Gli studi antropologici, specie quelli di C. Levi-Strauss, hanno favorito l'accostamento tra generi e miti. Già negli anni Cinquanta del Novecento il francese A. Bazin (1953) poteva definire il western come l'incontro tra una mitologia e un nuovo mezzo di espressione; mentre più tardi lo statunitense R. Altman (1987) poteva vedere nel musical un mito che rispecchiava i rituali di corteggiamento della società americana. Ed è lo stesso Altman (1999) a notare come i generi per la critica abbiano sempre assunto una funzione rituale o ideologica: nel primo caso i critici ritengono che le favole elaborate nell'ambito dei generi filmici offrano delle soluzioni immaginarie ai problemi reali della società. Non vanno dunque prese per sé stesse ma, come B. Bettelheim dice a proposito appunto delle fiabe, per gli insegnamenti o i principi che indirettamente se ne possono trarre. Nel secondo caso (ed è per es. quello di tutta la critica marxista) i generi sono visti come lo strumento che serve al potere, sia esso politico o economico, per far accettare alle masse delle non-soluzioni ingannevoli, delle menzogne generatrici di consenso.

Le schematizzazioni di genere non sono comunque tali da escludere la presenza di autori e se fu merito soprattutto della critica francese interna alla rivista "Cahiers du cinéma" quello di riconoscere personalità autoriali anche nell'ambito del cinema commerciale, quale era essenzialmente il cinema di genere, questa posizione fu poi accettata universalmente, così che nessuno più oggi rifiuta come autori John Ford perché identificato con il western, Alfred Hitchcock perché identificato con il poliziesco, o Vincente Minnelli e Stanley Donen perché identificati con il musical.

La grande forza dei g. c. di Hollywood fu sia di riuscire a conciliare spettacolarità e qualità, sia di assolvere, a volte, alla funzione rituale e anche a quella ideologica. Naturalmente per farlo produttori, sceneggiatori e registi dovevano porsi, come fossero critici, il problema del successo dei film più apprezzati, da sottoporre a un'analisi precisa e attenta perché i segreti ne fossero carpiti. Se, come si è detto, nessun film può essere di per sé totalizzante rispetto a un genere, vi sono tuttavia molte opere che diventarono dei prototipi o che furono costruite tenendo costantemente presenti gli schemi di genere: per es., Stagecoach (1939; Ombre rosse) di Ford per quanto concerne il western.

Se parlando di g. c. si trattano soprattutto quelli del cinema americano, ciò accade per una ragione storicamente inconfutabile, ossia l'egemonia industriale e culturale assunta, almeno per quanto concerne il mondo occidentale, da tale cinematografia a partire dalla fine della Prima guerra mondiale. Con alcune variabili di tipo nazionale (per es. in Italia si sviluppò di più la commedia mentre in Francia e in Inghilterra il poliziesco), si può dire che comunque in tutta Europa lo spettacolo cinematografico cercò sempre di conformarsi, per quanto riguarda i generi, al cinema americano, fenomeno per altro verificabile anche in altri media, come i fumetti o la stampa settimanale.

Ed è tuttavia possibile individuare un discorso unitario che lega tra loro i generi del cinema americano, come se si trattasse di un'unica grande narrazione che però si estende anche al resto del mondo. Non solo dunque alla 'madre' Europa, all'interno della quale secondo E. Husserl gli Stati Uniti continuano a ritrovarsi spiritualmente (cfr. Crisi e rinascita della cultura europea, a cura di R. Cristin, 1999), ma anche al Giappone, che applica gli schemi del western all'epopea dei samurai, o all'India, che unisce forme e temi di due generi come il melodramma e il musical, difficilmente fusi, si vedrà più avanti, nelle pur frequenti commistioni che legano tra loro i generi anche nel cinema occidentale.

Nel periodo del cinema classico, che secondo la periodizzazione di D. Bordwell (in Bordwell, Staiger, Thompson 1985), ormai universalmente accettata, si può far coincidere con l'inizio e il trionfo del cinema di genere, Hollywood inventò dunque una specie di grande fiaba che in qualche modo si richiama e si riafferma da un genere all'altro e che parla sempre di una ricerca o di una perdita della felicità. Si tratta quasi sempre dell'aspirazione a ritrovare un Eden perduto, oppure della caduta e della rovina conseguenti a un errore nello scegliere le vie verso la salvezza. La ricerca della felicità infatti nel sistema dei generi deve rispettare un duplice equilibrio tra individuo e società, tra appagamento a livello sentimentale e assolvimento di un dovere nei confronti della comunità. Ci sono, come si vedrà, generi più esplicitamente dedicati al primo aspetto (e sono in gran parte quelli ideati per un pubblico prevalentemente femminile) e generi più rivolti al secondo aspetto, con variazioni notevoli a seconda che si facciano prevalere movimento e azione (e allora ci si rivolge soprattutto a un pubblico prevalentemente maschile) oppure idee e impegno morale, ma allora si entra nel campo del dramma e del cinema d'autore e si esce dunque dal cinema di genere come è normalmente inteso.Tra i generi che approfondiscono gli aspetti individuali, quelli con maggiore stratificazione storica sono il melodramma e la commedia. Il primo termine, usato anche per denominare l'opera musicale, fu applicato verso la fine del 18° sec. a composizioni teatrali di tipo drammatico e nel cinema passò a designare un genere che ha rapporti con il romanzo ottocentesco e che, sfuggente a un'univoca definizione e in continua evoluzione, venne anche chiamato woman's film (M. Haskell, From reverence to rape: the treatment of women in the movies, 1974), non solo perché al centro della storia c'è generalmente una donna ma soprattutto perché si rivolge a un pubblico femminile. Ideale per la narrazione di complesse saghe familiari, il genere, divenuto poi prevalente in molte fiction televisive, rappresenta spesso, quale Eden perduto, un mondo patriarcale dove i legami tra i componenti di una famiglia si mantengono forti, dove c'è dunque tutta una serie di ritualità sociali e di momenti di incontro e dove, soprattutto, la ricerca della felicità individuale, perseguita attraverso i rapporti amorosi, avviene in base a una concezione utopistica del sentimento. Tale concezione è in fondo quella individuata a suo tempo da D. de Rougemont (L'amour et l'Occident, 1939), per cui l'amore è qualcosa di sublime e di irraggiungibile, destinato a non realizzarsi pienamente e in modo soddisfacente. Per certi aspetti questa visione si può assimilare a quella dell'amour fou dei surrealisti (e infatti non a caso si ritrovano melodram-mi nell'opera di un autore come Luis Buñuel) e risente naturalmente molto delle teorie psicoanalitiche freudiane. È anzi P. Brooks (The melodramatic imagination: Balzac, Henry James, melodrama and the mode of excess, 1976) a definire la psicoanalisi come "realizzazione sistematica dell'estetica del melodramma, applicata alle strutture dinamiche della mente" (trad. it., 1985, p. 263). L'appagamento, cioè la conquista della felicità, è spesso nel melodramma reso impossibile, oltre che dalla freudiana concezione dell'amore come "fissazione nevrotica" (per es. in Letter from an unknown woman, 1948, Lettera da una sconosciuta, di Max Ophuls), anche da impedimenti di tipo contingente inseriti nell'intreccio narrativo, che vanno dalle disparità sociali (Wuthering heights, 1939, La voce nella tempesta, di William Wyler), alla presenza della guerra (Waterloo bridge, 1940, Il ponte di Waterloo, di Mervyn LeRoy), alle diversità razziali (Duel in the sun, 1946, Duello al sole, di King Vidor).

Anche la commedia come genere cinematografico ha fonti culturali antiche, persino più antiche di quelle del melodramma se posta in rapporto con l'omonimo genere teatrale. Già per Aristotele infatti la commedia si iscriveva nella sua concezione mimetica dell'arte in quanto rappresentazione degli aspetti 'bassi', inferiori della realtà, ma attraverso una terminologia serena e innocua. Se a questo concetto di inferiorità si può collegare tutta la tradizione del realismo comico, quello di serenità viene a sua volta ripreso nell'estetica di G.W.F. Hegel, che vede nella commedia l'impassibilità degli dei trasferita agli uomini. E a questo carattere di serenità è strettamente legato il tema primario della commedia, nata come genere cinematografico circa verso il secondo decennio del 20° secolo. In esso la ricerca della felicità individuale viene identificata nel rapporto con un'altra persona e nella costituzione del nucleo familiare attraverso il matrimonio. Non più dunque concezione utopistica dell'amore come quella del melodramma, ma una visione in certo senso più realistica, almeno per quanto concerne i significati, perché le forme restano molto spesso quelle del sogno, quelle mitizzanti in cui si struttura, per es., la sophisticated comedy, sempre ambientata in mondi ricchi e lussuosi in modo da lasciare spazio al gioco psicologico che domina nel genere. Ma la commedia, vista nello schema stagionale delle teorie di Frye come 'mito della primavera', è sempre un invito all'accettazione della realtà appunto perché ne celebra il mito dell'eterna rinascita. Anche qui vi sono spesso dei contrasti: prima di tutto quello fra uomo e donna, che vede spesso il primo, troppo dedito al lavoro o perso nelle sue astrazioni, piegarsi felicemente alla fine al maggiore senso della vita della sua partner (come accade in molte commedie di Howard Hawks, per es. in Bringing up baby, 1938, Susanna). Oppure, viceversa si verifica un positivo effetto moderatore da parte dell'uomo rispetto alle bizzarrie capricciose della donna, secondo uno schema tipico di alcune commedie di Shakespeare e che al cinema compare per es. in It happened one night (1934; Accadde una notte) di Frank Capra.I problemi sociali ed economici non sono comunque del tutto assenti: anzi una delle tipologie più comuni e ripetute del genere è proprio quella che si rifà alla fiaba di Cenerentola presentando una ragazza di umili condizioni che grazie alle sue virtù riesce ad andare sposa a un uomo di condizione sociale molto superiore (tra i numerosi esempi che si potrebbero citare, su tutti Sabrina, 1954, di Billy Wilder). Le differenze di classe restano importanti nelle dorate commedie di Ernst Lubitsch, che spesso si svolgono in un'Europa di lusso e di sogno, così come i principi democratici della politica di F.D. Roosevelt sono presenti in molte commedie di Capra. La commedia cinematografica è un genere molto ampio e complesso che abbraccia infinite varianti: può identificarsi con il comico e la farsa, presentare invece sfumature drammatiche (rintracciabili in alcune commedie italiane di Mario Monicelli, Luigi Comencini e Dino Risi), o una commistione con il musical (molto frequente, tanto che alcuni film hanno avuto una versione in entrambi i generi) e con il fantastico. Ma ciò che consente di considerare queste diverse tipologie nell'ambito di uno stesso genere è appunto, al di là del tono leggero e divertente presente anche quando vengono affrontati problemi di una certa gravità, un atteggiamento positivo nei confronti dell'esistenza, che se appare ovvio quando viene seguita la formazione di un nuovo nucleo familiare con l'unione di due persone (la commedia va sempre verso un "amplesso fuori scena" dice Frye), non è meno presente quando sono rappresentati momenti tragici della storia umana, come per es. in To be or not to be (giustamente tradotto nella versione italiana Vogliamo vivere) di Lubitsch (1942) o anche nel fortunato La vita è bella (1997) di Roberto Benigni.Che la commedia sia in fondo legata a una tradizione di tipo realistico è dimostrato anche dal fatto che è presente in tutte le cinematografie del mondo, sia pure con evidenti differenze dovute alle varie culture, e che in una cinematografia come quella italiana, impostasi internazionalmente proprio per i suoi caratteri di realismo (o Neorealismo che dir si voglia), appare il genere dominante nei diversi periodi (con punte di eccellenza a partire dagli anni Trenta, con le opere di Mario Camerini, sino ad arrivare agli anni Sessanta).

Se la ricerca della felicità è il tema di tutto il cinema di genere, ma trova la sua espressione più diretta ed esplicita nella commedia, in particolare nella sophisticated comedy americana (di cui S. Cavell, 1981, individua una particolare tipologia definita comedy of remarriage), la rappresentazione della felicità raggiunta, sia nei suoi aspetti individuali sia in quelli di realizzazione dal punto di vista dell'attività professionale è affidata, nello schema dei generi, al musical.

Attraverso i mezzi stilistici del canto e della danza, si trova qui l'espressione del sogno allo stato puro. Come afferma G. Deleuze (L'image-temps, 1985; trad. it. 1989, pp. 74-78) la danza traccia un mondo onirico nel suo divenire, è il momento della verità in cui i protagonisti ancora camminano ma già sono quasi sonnambuli che stanno per essere posseduti dal movimento che sembra attirarli. Il musical nel suo insieme è, secondo il filosofo, un gigantesco sogno (dentro la ancora più gigantesca fiaba dei generi, si può aggiungere), in cui anche il colore, specie nei film di Minnelli, assume un valore assorbente, quasi divorante. Ma è soprattutto R. Altman, nella sua monografia dedicata al genere del 1987, a definire con precisione le coordinate di questo sogno: esiste dunque una prima tipologia, il musical-fiaba, che è quella che più si avvicina alla commedia in quanto racconta la ricerca e il raggiungimento della felicità individuale. Vi si possono comprendere molti film della coppia Fred Astaire-Ginger Rogers come Top hat (1935; Cappello a cilindro) di Mark Sandrich e molti film in cui Minnelli esprime la sua concezione dell'amore come equivalente del sogno e dell'arte: da The pirate (1948; Il pirata), a An American in Paris (1951; Un americano a Parigi), a Brigadoon (1954). Nel primo una ragazza scopre che l'eroe sognato è preferibile nell'interpretazione datane da un attore, che la inganna, piuttosto che nella realtà; nel secondo un pittore identifica il sentimento per una ragazza francese con l'arte dei pittori che ama e le cui immagini prendono forma nella sua fantasticheria finale, che è un grande balletto; nel terzo un giovane americano sceglie di vivere per sempre, in quanto solo lì ha trovato l'amore, in un antico villaggio scozzese che per un incantesimo vive un solo giorno per ogni secolo. Naturalmente al musical-fiaba appartengono tutte le commedie trasformate in musical, come High society (1956; Alta società) di Charles Walters, remake di The Philadelphia story (Scandalo a Filadelfia), sophisticated comedy portata felicemente sullo schermo nel 1940 da George Cukor, o My fair lady (1964) sempre di Cukor, ispirato a Pygmalion di G.B. Shaw.

Il secondo tipo, chiamato da Altman musical-spettacolo, è quello in cui viene rappresentata anche una realizzazione di carattere professionale, quasi sempre nell'ambito del mondo dello spettacolo, ma a volte anche in altri campi, per es. quello della moda, come accade in Funny face (1957; Cenerentola a Parigi) di Donen. Un capolavoro del musical-spettacolo è Singin' in the rain (1952; Cantando sotto la pioggia), che tra l'altro offre una precisa rappresentazione del passaggio dal cinema muto a quello sonoro e dove il famoso assolo di Gene Kelly (anche regista del film insieme a Donen), nel numero di canto e danza sotto la pioggia, ben esprime la felicità raggiunta sia sul piano individuale (l'amore per la ragazza), sia su quello professionale (l'idea sul modo per trasformare un insuccesso in un film di sicuro successo).

Un terzo tipo, definito da Altman musical-folclore, è quello più legato al contesto americano, sia di epoca contemporanea sia del passato, come accade per es. in Meet me in St. Louis (1944, Incontriamoci a Saint Louis) di Minnelli o in Seven brides for seven brothers (1954; Sette spose per sette fratelli) di Donen. Qui la felicità è ottenuta, oltre che sul piano individuale, grazie a un'armonia raggiunta nell'ambito di una comunità.

Pur essendo un genere tipicamente anglosassone, il musical è presente in varie forme anche in altre cinematografie. Nel cinema italiano vi sono state molte produzioni basate sul patrimonio lirico musicale, dai veri e propri film-opera (v. operistico, film), che ebbero un vasto successo popolare soprattutto nel secondo dopoguerra, ma anche sulle vicende di compositori e stelle del melodramma teatrale. Inoltre, film riconducibili a questo genere sono presenti, sia pure filtrati dalle diverse culture, nella cinematografia indiana, in quella egiziana, come anche in quella cinese.

Del tutto riferibile invece alla conformazione geografica e alle vicende storiche degli Stati Uniti d'America si presenta il western, che Bazin (1953) infatti poté definire "cinema americano per eccellenza" e che, se strutturalmente nasce dalla tradizione del racconto avventuroso europeo, diventa sullo schermo l'epopea della conquista di un nuovo mondo. Anche qui vi è un Eden perduto; ed è quello della purezza della natura incontaminata, della bellezza delle terre vergini non ancora minacciate dal progredire della civiltà industriale. E affiora inoltre il grande problema del peccato originale americano, quello della distruzione della cultura autoctona delle popolazioni indiane, variamente affrontato nei decenni della storia di questo particolare genere filmico. Ora demonizzati come gli spiriti del male che nella loro arretratezza si oppongono alla trasformazione del 'deserto' in 'giardino', in lotta cioè contro il trionfo della civiltà, ora al contrario visti (specie dopo le suggestioni culturali della fine degli anni Sessanta del Novecento) come il 'buon selvaggio' di rousseauiana memoria, gli indiani d'America rappresentano comunque un punto nodale nella storia del genere western e in tutta la cultura statunitense. E se anche in questo caso si potrebbe configurare una situazione edenica, essa appare una semplice utopia, già smentita dalla dura realtà delle vicende storiche. La felicità contemplata, e narrata dal cinema, sarebbe costituita dalla convivenza armoniosa con le popolazioni indiane, presente in parte nei romanzi di F. Cooper e teorizzata come mito primario della cultura americana da L.A. Fiedler in alcuni suoi libri. Nel cinema di Ford si ritrovano tutti questi aspetti del western, quasi declinati in un grande poema che identifica in Monument Valley il suo mitico spazio immaginario e nel passato dell'America il tempo ideale in cui proiettare i propri ideali di carità e di democrazia, non esenti peraltro da ossessioni e inquietudini, come esemplarmente dimostra The searchers (1956; Sentieri selvaggi), il capolavoro della tarda maturità. Cowboy o cacciatore di pellicce, sceriffo o ufficiale di cavalleria, l'eroe del western è sempre un uomo giovane e forte (vecchiaia e relativi problemi potranno divenire tema narrativo, come sottolineato dal francese Ch. Metz, solo con la decadenza del genere) che condivide con l'eroe del cinema d'avventura la possibilità di far trionfare i valori della società di cui è espressione. E questo accade attraverso l'azione che nel film avventuroso, sia il protagonista un principe o un pirata, si chiami Robin Hood o D'Artagnan, ha molta più importanza delle cause che la determinano. Imbattibile con la spada come lo è il cowboy con la pistola, il protagonista dell'avventuroso filmico, da Douglas Fairbanks a Errol Flynn, è soprattutto un atleta, o un acrobata, le cui esibizioni, collegate sempre a mondi lontani nel tempo o nello spazio, sono prevalenti rispetto alle storie sentimentali (pure necessarie per il trionfo completo dell'eroe) e alle idee alle quali egli si mostra fedele fino alla fine. Anche in questo caso naturalmente la prospettiva è manichea: chi si oppone non può essere che malvagio e destinato alla sconfitta finale. Come lo spettatore della commedia è consapevole sin dall'inizio che i due protagonisti finiranno per mettersi insieme, quello del film d'avventura sa che comunque l'antagonista verrà sconfitto, quasi sempre dopo un grande duello finale che prelude ai toni trionfali dell'epilogo.

Il ritorno a una forte idealità, pur nell'ambito del racconto d'azione, e nello stesso tempo un'accentuata demonizzazione degli avversari (identificati con un intero popolo) sono le caratteristiche del genere bellico (v. guerra, film di), strutturalmente ancora molto simile all'avventuroso, ma dove il gruppo dei protagonisti (ancora uomini, mentre diminuisce l'importanza dei personaggi femminili, spesso addirittura assenti) si trova fortemente unito dall'amore per la patria minacciata dai nemici. Film bellici sono presenti in quasi tutte le cinematografie, con una produzione che aumenta nei periodi di guerra quando il cinema diventa strumento non secondario di propaganda. E se i registi che eccellono nella realizzazione dei film di guerra sono gli stessi che si distinguono anche nel genere avventuroso o western (tra gli esempi, Hawks e Ford), occorre sottolineare come spesso, se realizzato in periodi di pace, il film bellico diventa un violento atto d'accusa contro l'assurdità e gli orrori della guerra e si avvicina più al cinema drammatico, che al cinema di genere. Questa pro-spettiva affiora più volte, per es., nelle opere di Stanley Kubrick, da Paths of glory (1957; Orizzonti di gloria) a Full metal jacket (1987). Uscendo dagli schemi di genere, diventa allora possibile porsi correttamente il problema del nemico e rappresentarlo senza ricorrere a demonizzazioni. In un film come The thin red line (1998; La sottile linea rossa) la presenza della guerra, che pure viene spettacolarmente narrata, diventa un pretesto di cui l'autore Terrence Malick si serve per effettuare un vero e proprio discorso filosofico sugli impulsi autodistruttivi dell'umanità. Ma il cinema conta anche registi, come Lewis Milestone, pronti a firmare opere pacifiste di denuncia quali All quiet on western front (1930; All'Ovest niente di nuovo) e, dopo più di dieci anni, in epoca bellica e postbellica, film di genere assolutamente propagandistici. Resta infine da sottolineare come nel genere bellico il concetto di felicità è sostituito da quello di dovere, che arriva a volte fino al sacrificio della vita, così che una morte gloriosa può trovarsi quale epilogo al posto dei trionfi del film d'avventura. Se i generi filmici nel loro insieme possono essere visti quasi come una grande fiaba coerentemente sviluppata nelle sue varie parti, ci dovrà essere spazio anche per la rappresentazione del male, non limitata agli avversari o ai nemici del racconto d'avventura. L'individualismo della civiltà industriale e capitalistica trova una specie di esorcizzazione nel genere poliziesco, che ha pure un'origine letteraria, in quanto affonda le sue radici nell'ottocentesco racconto di misteri, e che nel cinema si presenta in molte cinematografie (specie ovviamente in quelle dei Paesi più industrializzati) con un'articolazione abbastanza complessa, che va dai più storicizzati e circoscritti film sui gangster (v. gangster film) o sulla mafia, alle tipologie studiate da Todorov per la narrativa e che si ritrovano tutte trasposte sullo schermo, magari anche all'interno dell'opera di colui che è spesso giustamente identificato con il genere e cioè Alfred Hitchcock.

C'è dunque un 'film-enigma' (v. giallo), quello in cui il delitto preesiste alla narrazione e se ne deve svelare il mistero (The Paradine case, 1947, Il caso Paradine); un film 'nero' (in qualche modo assimilabile al vero e proprio noir, con il quale si identificano soprattutto le produzioni americane degli anni Quaranta e Cinquanta con forti elementi anche di tipo melodrammatico), dove sia il delitto sia il suo svelamento avvengono nel corso della narrazione (Rear window, 1954, La finestra sul cortile); un 'film-suspense' dove un delitto preesiste ma altri vengono commessi nel corso della narrazione (ed è forse la tipologia più frequente; da citare, per restare nell'ambito della produzione di Hitchcock, Psycho, 1960, Psyco, ma anche un classico come The big sleep, 1946, Il grande sonno, di Hawks). In quasi tutti i film polizieschi comunque, e sempre in quelli del periodo classico, i valori sono ripristinati dalle forze di polizia, che risolvono i misteri e assicurano i colpevoli alla giustizia. Questo non accade più in opere del nuovo cinema americano realizzate in seguito alla crisi del cinema classico, come, per es., nella serie di The godfather (1972, 1974, 1990) di Francis Ford Coppola. Quando la rappresentazione del male indulge nel rendere in maniera insistita e anche raccapricciante oppure allusiva ma minacciosa i particolari, si apre lo spazio del genere horror, nell'ambito del quale rientrano anche i film che presentano come protagonisti mostri assassini, spesso di origine letteraria, come Dracula o Frankenstein. Ma con questa particolare categoria di personaggi si entra in un genere più vasto, il fantastico (v. fantastico, cinema), che, secondo la definizione di Todorov, appare popolato di esseri soprannaturali, buoni o malvagi che siano, la cui esistenza non può neppure essere concepibile in un mondo tecnicamente più evoluto e dove i misteri non sono svelati (perciò Todorov esclude dal fantastico vero e proprio la fantascienza, che ha anche una sua precisa declinazione filmica). Esempi di cinema fantastico strettamente legato ai miti e alle fiabe, molto più degli altri generi, sono presenti in tutte le cinematografie del mondo. E inoltre a tale tipologia va ricondotta la gran parte della produzione di cartoons (anche se le favole di Walt Disney presentano rapporti con generi diversi, per es. con il film d'avventura, ma soprattutto con il musical).

Va comunque osservato che, come nessun testo singolo può costituire di per sé un genere esaurendone tutti i possibili aspetti e come un genere non può mai essere appannaggio esclusivo di un singolo studio, nono-stante i contratti esclusivi con attori e registi specializzati, è una regola pressoché costante nella storia dello spettacolo filmico che ci sia la commistione dei generi. Di ciò offre conferma l'analisi della pubblicità (manifesti, locandine, flani destinati alla stampa giornalistica): se da una parte il pubblico viene orientato sul genere mediante certi schemi grafici che corrispondono a precise tipologie, molto spesso per attirarlo si ricorre a una specie di inganno mettendo in evidenza del film motivi del tutto minori. Vi sono generi, come già sottolineato, che più facilmente convivono nella stessa opera e possono essere contaminati, così che lo stesso intreccio può essere trasposto da uno all'altro senza modifiche sostanziali, come accade nel caso della commedia e del musical, dei vari tipi di cinema d'azione, avventuroso, bellico o western che sia, del poliziesco e della commedia (la cui unione dà luogo a un tipo di film definito a suo tempo giallo-rosa). Ma a volte la commistione avviene a livello micronarrativo, attraverso l'inserimento nel film di un genere ben definito di sequenze o scene che appartengono a un'altra tradizione narrativa. Ciò accade soprattutto per gratificare più vaste zone di pubblico rispetto a quelle tradizionalmente previste. Il pubblico infatti sa perfettamente che tipo di storia gli verrà proposta da un certo genere. Sa anche che le leggi e i comportamenti in base ai quali vedrà agire i personaggi non sono certo quelli della vita reale, ma quelli relativi al genere stesso che ha una sua 'verosimiglianza'. Il che appunto non significa riproduzione del mondo nella sua realtà ma, come osservato da Metz (1968; trad. it 1972, pp. 312-31), accettazione e adeguamento alle leggi del genere. Egli fa un significativo esempio traendolo dalla storia del teatro: la presenza delle agnizioni finali in tante commedie, dall'antichità all'età moderna, non vuol dire che nei secoli passati genitori e figli si perdessero molto più di quanto accada in epoca contemporanea, ma semplicemente che questa era una soluzione verosimile all'interno del genere commedia.

A seconda dei periodi e delle trasformazioni del gusto e della cultura anche i g. c. si evolvono, nascono e muoiono, possono essere potenziati o distrutti, sempre in rapporto alla risposta del pubblico prima ancora che alle strategie politiche. In certi periodi naturalmente, come a Hollywood negli anni della Seconda guerra mondiale, queste ultime possono prevalere. Si tratta comunque di scelte limitate e provvisorie. Altra cosa è invece la produzione di genere presente nelle cinematografie di Paesi dominati da un potere centralizzato molto forte: si pensi alla Germania hitleriana, alla Russia di Stalin o alla Cina di Mao Zedong, in cui i generi filmici dovevano conformarsi all'ideologia dominante.

La principale funzione dei generi filmici è legata alla memoria, ed è quella di richiamare storie, personaggi, miti che una cultura ritiene importanti. Con la società mediatica tuttavia il discorso si è allargato, in quanto non è più rivolto a culture specifiche ma a tutti i settori sociali. E mentre i generi filmici sono andati sempre più perdendo le loro caratteristiche rigide, di classicità, in favore di più eterogenee commistioni, il consumismo e i mass media hanno condotto a una proliferazione di narrazione per immagini che si estende agli spot e ad altre forme di comunicazione.

Bibliografia

V.Ja. Propp, Morfologija skazki, Moskva 1928 (trad. it. Morfologia della fiaba, Torino 2000).

A. Bazin, J.-L. Rieupeyrout, Le western, ou le cinéma américain par excellence, Paris 1953 (trad. it. 1957).

Ch. Metz, Essai sur la signification au cinéma, Paris 1968 (trad. it. Semiologia del cinema, Milano 1972).

Tz. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Paris 1970 (trad. it. Milano 1977), R. Campari, I modelli narrativi, Firenze 1974.

S. Cavell, Pursuit of happiness. The Hollywood comedy of remarriage, Cambridge (Mass.)-London 1981 (trad. it. Torino 1999).

R. Campari, Il racconto del film, Roma-Bari 1983.

D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The classical Hollywood cinema. Film style & mode of production to 1960, New York 1985.

R. Altman, The American film musical, Bloomington 1987.

R. Altman, Film/Genre, London 1999.

R. Campari, Cinema. Generi, tecniche, autori, Milano 2002.

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