GENGHIZ KHĀN

Enciclopedia Italiana (1932)

GENGHIZ KHĀN (più esattamente Cinghiz Khān)

Giorgio Levi Della Vida

Fondatore dell'impero mongolo dei Tartari. Il suo vero nome era Temucin, mentre G. K. non è che un epiteto onorifico, da lui assunto nella grande assemblea (qurultāy) tenuta dai capi tartari sotto la sua presidenza nel 1206, la seconda parte del quale è l'usuale titolo di capo, di origine turca, khān o qān, abbreviazione di khāqān mentre la prima parte è stata variamente spiegata ed era già di significato oscuro ai più antichi storici dell'impero mongolo. Figlio di un piccolo capo di tribù nomadi della Mongolia orientale vassallo dell'impero cinese, G. K., nato nel 1155, rimase orfano a dodici anni, essendogli stato ucciso il padre in una delle guerriglie che insorgevano frequenti tra le tribù. Dopo un'adolescenza errante e travagliata, riuscì a riprendere il dominio paterno e per molti anni continuò la vita di nomadismo e di rapina usuale fra i Tartari. Una serie di guerre fortunate lo rese signore, dal 1203, della Mongolia orientale e tre anni più tardi di quella occidentale. I successi di G. K. furono dovuti alla sua singolare personalità: in essa si univano l'energia e l'astuzia, temperate e nobilitate da un innato e semplice sentimento di giustizia, il quale, s'intende, non escludeva la crudeltà, dovuta piuttosto, occorre rilevarlo, all'ambiente barbarico che era il suo anziché a una particolare inclinazione del suo carattere. La figura di G. K. è stata, come quella di tutti i fondatori di imperi, idealizzata dagli ammiratori (la sua leggenda sorse già durante la sua vita) e denigrata dal terrore sparsosi in tutto il mondo musulmano e cristiano in seguito alla minaccia della travolgente invasione tartara: in realtà essa è quella di un uomo d'indole semplice e primitiva, che appunto dalla vergine freschezza del proprio mondo spirituale trasse la capacità di operare grandi imprese senza piano prestabilito.

L'unificazione delle tribù mongole diede a G. K. l'opportunità d'intraprendere una vasta spedizione contro la Cina, la quale naturalmente non poteva tollerare il sorgere di uno stato potente tra i suoi vassalli settentrionali. Dopo una serie di vittorie chiusasi nel 1211 sotto le mura di Pechino, con una pace per la quale G. K. ottenne la piena indipendenza e la mano di una principessa cinese, la guerra fu ripresa nel 1215 e Pechino stessa fu espugnata; tuttavia la dinastia cinese dei Kin non fu rovesciata e continuò a dominare la Cina media e meridionale fino al tempo del nipote di G. K., Qūbilāy. Nel frattempo G K., che fino dal 1209 aveva ricevuto in vassallaggio la dinastia turca (uigurica) dei Gūr Khān del Qarā Khiṭāi (estendentesi dall'attuale Turchestan cinese fino quasi al lago di Aral), era venuto a confinare con lo stato del Khwārizm, allora egemonico negli attuali territorî di Khiva e Bukhārā, nella Persia e nell'Afghānistān, e che costituiva il maggiore stato musulmano di quel tempo. L'assassinio (di cui sono tuttora oscuri i motivi) di un'ambasciata inviata allo scià del Khwārizm, Gialāl ad-dīn Mangberti, da G. K. fornì a questo il pretesto della guerra, la quale, condotta con la spietata energia caratteristica dei Tartari, annullò completamente la dinastia del Khwārizm (lo scià e i suoi figli caddero tutti uccisi) e in pochi anni (1218-1225) rese i Tartari padroni di tutto il suo territorio. Mentre una parte dell'esercito tartaro, sotto la guida del primogenito di G. K., Giūcī (premorto al padre, cui sembra si fosse verso la fine della vita mostrato ostile), continuava la marcia verso occidente, G. K. tornò indietro per compiere la conquista della Cina: ma fu colto dalla morte nella provincia di Kan-su nell'agosto 1226. Secondo il costume tartaro, il regno rimase unito anche dopo la sua morte, e i quattro rami dei suoi discendenti che ne governavano le varie provincie (i discendenti del già nominato Giūcī e degli altri figli di G. K., Ciagatāy, Ogutāy, Tulūy) si ritennero per lungo tempo semplici rappresentanti dell'unità familiare, le cui assise si tenevano nell'antica capitale mongola di Qaraqorum (v. mongoli).

I contemporanei videro la spiegazione degli straordinarî successi di G. K. nella perfetta organizzazione dell'esercito (il quale s'identificava con lo stato in un rigido sistema gerarchico) e nell'inflessibile disciplina con cui esso si governava; e molto vi contribuì anche, senza dubbio, il terrore per le crudeltà commesse dall'esercito invasore. Terrore che si sparse con somma rapidità in tutto il mondo musulmano e diede, per contrasto, non poca speranza all'Europa cristiana di trovare nei Tartari dei validi alleati nella lotta contro l'Islam. Sicché tanto l'imperatore Federico II (il quale era appunto in procinto di riprendere la crociata) quanto i pontefici romani tentarono di mettersi in rapporto con G. K. (le più importanti missioni nell'Asia centrale avvennero peraltro sotto i successori di lui; v. asia: Storia dell'esplorazione), del quale si era sparsa la fama che fosse favorevole al cristianesimo. Il che era senza dubbio un'illusione; peraltro in realtà G. K. praticò una larga tolleranza, ispirata certamente al proposito di favorire l'incremento economico del suo stato, così verso i musulmani e i buddhisti come verso i cristiani (nestoriani) allora abbastanza diffusi nell'Asia centrale. Personalmente, tuttavia, egli rimase fedele alla tradizione religiosa (sciamanismo) e ai costumi del suo popolo, e gli elementi culturali da lui direttamente accolti furono esclusivamente cinesi e uigurici. Soltanto i suoi successori finirono con l'islamizzarsi completamente (salvo, s'intende, il ramo cinese).

Bibl.: W. Barthold, in Encyclopédie de l'Islām, I, Leida-Parigi 1913, pp. 877-883, con elenco di fonti e di bibliografia sull'argomento (si veda inoltre la grande opera, oggi però alquanto invecchiata, di H. H. Howorth, History of the Mongols, voll. 3, Londra 1876-78). Il lavoro russo dello stesso Barthold, fondamentale, ivi citato, è apparso in traduzione inglese aggiornata in Gibb Memorial, nuova serie, V (Turkestan down to the time of the Mongol Invasion, Londra 1927).