STEVENS, George

Enciclopedia del Cinema (2004)

Stevens, George

Anton Giulio Mancino

Regista, direttore della fotografia, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense, nato a Oakland (California) il 18 dicembre 1904 e morto a Lancaster (California) l'8 marzo 1975. Tra i grandi esponenti della Hollywood classica, perfettamente a suo agio nelle commedie e nei melodrammi quanto nei musical e nei western, S. ebbe fama di cineasta meticoloso, perfezionista e attento alle qualità specifiche della messa in scena (notevole il suo senso della composizione dell'inquadratura e della dissolvenza incrociata) e della recitazione (numerosi gli attori candidati all'Oscar o vincitori del premio per i suoi film). In sintonia con l'abilità tecnica, la sua grande umanità e il suo profondo senso dell'umorismo si sono tradotti in grandi ritratti degli Stati Uniti, densi e complessi, in cui vengono impietosamente descritti le schermaglie amorose, le tensioni coniugali e i rapporti familiari segnati da conflitti generazionali, ma anche la ricerca del benessere come spinta per infrangere le barriere sociali. Ottenne due Oscar come miglior regista, nel 1952 con A place in the Sun (1951; Un posto al sole) e nel 1957 con Giant (1956; Il gigante).

Figlio d'arte (suo padre e suo zio erano attori del muto), S. entrò nel mondo del cinema come operatore, lavorando alla fine degli anni Venti per Hal Roach e diventando il direttore della fotografia fisso della coppia Stan Laurel e Oliver Hardy, dall'epoca dei proverbiali 'due rulli' fino al loro primo lungometraggio, Pardon us (1931; Muraglie) di James Parrott. Nel 1932 si congedò da Roach per passare alla Universal Pictures, che lasciò l'anno dopo per la RKO. Qui, dopo aver diretto, grazie all'esperienza maturata nella slapstick comedy, la coppia Bert Wheeler e Robert Woolsey in Kentucky kernels e in The nitwits, usciti entrambi nel 1935, firmò nello stesso anno il primo film davvero personale e importante, Alice Adams (Primo amore), dove Katharine Hepburn, sfiorando l'alienazione, dissimula l'umile estrazione sociale con atteggiamenti snobistici dagli effetti spesso esilaranti. L'eccezionale capacità di portare alle estreme conseguenze le situazioni comiche, ereditata dall'apprendistato con Laurel e Hardy, gli consentì di contaminare i codici del musical in Swing time (1936; Follie d'inverno), con Fred Astaire e Ginger Rogers, e in A damsel in distress (1937; La magnifica avventura), con il solo Astaire. Il gioco degli equivoci e la propensione dei protagonisti a fingere identità improbabili diventano tratti riconoscibili di S. anche in Quality street (1937; Dolce inganno), con la Hepburn ancora alla prese con una sorta di doppio velleitario, e in Vivacious lady (1938; Una donna vivace), dove la protagonista, una ballerina di nightclub (Ginger Rogers), non può dichiarare pubblicamente di essere la consorte di un giovane accademico (James Stewart). Il matrimonio, blando traguardo o tappa prematura dell'amore, si trasforma in un terreno rischioso e fragile in cui è impossibile essere sinceri, lieti e trasparenti fino in fondo. È in questa chiave dissacrante che vanno lette, nonostante fosse nel frattempo scoppiata la Seconda guerra mondiale (che segnò indelebilmente il cinema successivo di S.), l'avventuroso Gunga Din (1939), ispirato all'omonimo poema di R. Kipling, al cui contenuto epico si sostituisce l'allegro spirito goliardico dei protagonisti, Cary Grant, Douglas Fairbanks Jr e Victor McLaglen, il melodrammatico Penny serenade (1941; Ho sognato un angelo), con Cary Grant e Irene Dunne, comunque divertenti alle prese con una bambina adottata. E soprattutto le più mature commedie immediatamente successive, a partire da Talk of the town (1942; Un evaso ha bussato alla porta), con Cary Grant, Jean Arthur e Ronald Colman, con cui S. ottenne la sua prima nomination all'Oscar, proseguendo con Woman of the year (1942; La donna del giorno), che inaugurò il sodalizio tra Katharine Hepburn e Spencer Tracy (trasformato da S. nel maschio sornione, perfetto partner di schermaglie domestiche in cui l'umorismo nasce dal sapiente e originale effetto ritardato della gag), e The more the merrier (1943; Molta brigata, vita beata), che filtra le restrizioni in tempo di guerra attraverso la simpatia di Charles Co-burn e il sensuale e inconfessabile desiderio reciproco dei due protagonisti (Jean Arthur e Joel McCrea).

La guerra determinò una svolta nella carriera di questo autore, destinato non a caso a ricoprire la carica di presidente della Screen Directors Guild dal 1941 al 1943 e dal 1946 al 1948. Arruolatosi, S. non soltanto seguì l'avanzata alleata dallo sbarco in Normandia alla caduta definitiva della Germania nazista, ma prestò servizio dal marzo al maggio del 1945 nel Signal Corps con il grado di tenente colonnello, girando documentari come The nazi plan e soprattutto Nazi concentration camps (scandito dalla gelida progressione delle macabre scoperte), serviti da prova inconfutabile dei crimini nazisti al processo di Norimberga. I nuovi film di S., quasi tutti pluripremiati, pur potenziando l'impianto spettacolare già evidente in Gunga Din, acquistarono una più dolente consapevolezza della complessa natura umana, un rinnovato senso dell'avvicendamento del tempo, e una profonda lucidità nel delineare disparità sociali e culturali dalle conseguenze spesso tragiche. In A place in the Sun, tratto dal romanzo di T. Dreiser An American tragedy, S. accentua inequivocabilmente la fragilità del giovane protagonista, spiantato e ambizioso (Montgomery Clift), diviso tra l'umile condizione di semplice lavoratore (cui corrisponde la sventurata relazione con un'operaia, Shelley Winters) e il miraggio del benessere (idealizzato nella figura romantica e fiabesca dell'ereditiera interpretata da Elizabeth Taylor). In Shane (1953; Il cavaliere della valle solitaria), che gli valse la quarta nomination all'Oscar, S. travalica i confini del western tradizionale, mettendone a nudo il sostrato mitico e morale di cui si fa interprete Alan Ladd, il solitario e silenzioso pistolero al servizio della comunità di contadini. Giant è al contempo una celebrazione e un'aspra denuncia del vecchio e nuovo capitalismo statunitense, ma anche uno studio di personalità maschili immature ‒ quelle, contrapposte ma equivalenti, impersonate da Rock Hudson e James Dean, che morì prima che finissero le riprese ‒ di fronte alla saggezza femminile della delicata ma decisa Leslie (Elizabeth Taylor). Anche The diary of Anne Frank (1959; Il diario di Anna Frank), con cui S. ottenne la sua sesta e ultima nomination all'Oscar, lascia filtrare pur nella drammaticità e nell'eccezionalità della vicenda narrata, la segregazione forzata di due famiglie ebree in un appartamento per sfuggire alla persecuzione nazista, l'analisi di un universo domestico borghese, pieno di contraddizioni e tensioni latenti.

La lunga gestazione del kolossal The greatest story ever told (1965; La più grande storia mai raccontata), ricco di star non sempre indispensabili (John Wayne, per es., nel ruolo minore di un centurione), fu invece pregiudicata dalla predilezione di S. per i freddi campi lunghi e lunghissimi che, già impiegati in Shane e Giant, dove davano respiro alla narrazione, diventano qui prevalenti, denunciando un cedimento a istanze estetizzanti.

Bibliografia

P. Bianchi, Maestri del cinema, Milano 1972, pp. 157-62.

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