SOREL, Georges

Enciclopedia Italiana (1936)

SOREL, Georges

Carlo Antoni

Pensatore francese, nato il 2 novembre 1847 a Cherbourg, morto il 30 agosto 1922 a Boulogne-sur-Seine. Allievo dell'Ècole Polytechnique, ingegnere civile di ponti e strade dal 1870 al 1892, ottenuta la pensione, si ritirò in una villetta di campagna alle porte di Parigi per dedicarsi alla "propria istruzione", alla critica della società del suo tempo e a quel rinnovamento delle teorie socialiste, che ha fatto di lui il maestro del sindacalismo.

Il suo pensiero non si è mai chiuso in un sistema, sicché riesce difficile raccoglierlo in una definizione: egli è stato considerato, a seconda dei varî punti di vista, un moralista, un sarcastico osservatore della vita sociale, un poeta assetato di austerità e sincerità, un borghese di vecchio stampo, un teorico dell'imperialismo, un parvenu della cultura sprovvisto del senso della responsabilità scientifica. Ha contribuito a disorientare gl'interpreti il disordine dei suoi scritti, selva selvaggia di trattazioni filosofiche, polemiche personali, sarcasmi, digressioni storiche. Si aggiunga il suo carattere di autodidatta, che voleva lavorare, come Cartesio, per liberarsi dai luoghi comuni appresi, ma procedeva senza metodo, con una spregiudicatezza che spesso apre insospettate prospettive, talvolta però dà l'impressione dell'improvvisazione e dell'arbitrio. Si proponeva di destare l'"esprit d'invention" nei lettori e in effetti ogni suo scritto è atto ad agitare gli spiriti. D'altra parte la sua originalità era di riflesso: aveva bisogno di sostenersi, reagendo, su un libro altrui, sicché le sue opere sono quasi sempre recensioni sviluppatesi per proprio conto o saggi polemici nati occasionalmente. Gli scrittori, su cui maggiormente si appoggiò, erano Renan e Proudhon.

Di famiglia normanna, fedele alle tradizioni morali della vecchia borghesia provinciale di Francia e alle tradizioni classiche e giansenistiche della grande letteratura francese, vissuto per lunghi anni a contatto con la vita del lavoro, sposatosi con una donna del popolo, che gli diede l'esperienza d'intatte risorse spirituali latenti nel popolo, egli appartiene a quella generazione formatasi negli ultimi anni del Secondo Impero, che fu repubblicana e dreyfusarda, ma restò delusa dal trionfo della plutocrazia e dell'affarismo nella Terza Repubblica. Fu perciò anzitutto un violento censore dei costumi, che avvertì angosciosamente il problema francese della "decadenza" e insieme la nostalgia francese della "grandezza" e della robespierriana "virtù". Persuaso che la decadenza fosse dovuta allo spirito mondano, utilitaristico e scettico diffuso dagli Enciclopedisti, odiò il tipo dell'"intellettuale" e del "letterato" del suo tempo e di tutti i tempi. Nella storia dello spirito europeo egli ha un posto anzitutto come creatore del concetto dell'"intellettuale", irreligioso, fatuo, staccato dalla realtà del lavoro e del dolore.

Dopo essersi occupato nei suoi primi articoli di questioni filosofiche aventi qualche attinenza con la sua esperienza di tecnico (Revue philosophique, 1886-1888), si diede alla meditazione della Bibbia, in cui ritrovava la sorgente prima della vita morale dell'Occidente (Contribution à l'étude profane de la Bible, Parigi 1889). La sua religiosità, che non si espresse mai in forme definite, è rimasta anche in seguito quella dell'Antico Testamento. Nello stesso tempo prese ad analizzare le origini della decadenza greca (Le Procès de Socrate, Parigi 1889), che volle attribuire a Socrate e ai suoi amici.

Imbattutosi nell'opera di Marx, che gli apparve "la maggiore innovazione introdotta nella filosofia da molti secoli", accettò di essa la teoria della classe, traducendola però dal terreno economico a quello etico. Nel proletariato operaio ha scorto l'erede della borghesia nella direzione morale della società più ancora che in quella economica: quelle virtù borghesi che ormai la borghesia aveva perdute, egli sperò di ritrovarle e di portarle a intensità eroica nel proletariato. Pervaso dalla convinzione della necessità e sanità della lotta e del dolore, assetato di sublime, respinse il riformismo socialista, predicò l'intransigenza, la violenza, l'insurrezione. Può quindi esser considerato un rivoluzionario conservatore, che applicò al marxismo l'immagine delle antiche comunità agrarie, religiose e guerriere, rievocate dal Niebuhr, lo storico della prisca romanità.

Dal 1893 al 1905 si dedicò ai dibattiti intorno al marxismo, partecipando alla fondazione di alcune riviste socialiste (L'ère nouvelle, Le devenir social, Le mouvement socialiste) e collaborando a molte altre riviste francesi, italiane e tedesche. Tenne conferenze al Collège libre des Sciences sociales, strinse amicizia con i critici italiani del marxismo, Ant. Labriola, V. Pareto, B. Croce, si formò un gruppo di discepoli ed entrò in rapporto con organizzatori sindacali, specialmente con F. Pelloutier, che lo avviò a fissare l'attenzione sulle "Camere del lavoro", come strumenti della lotta di classe indipendenti da partiti politici.

Trasse pure da Marx la dottrina delle ideologie, che interpretò in senso pragmatistico: le metafisiche gli apparvero bensì riflessi d'un sistema economico e d'interessi di classe, ma anche traduzioni astratte di impulsi interni, grandi illusioni che fatalmente dominano la vita dei popoli. Il suo bisogno di franchezza trovò qui uno strumento, che gli assicurò le amare soddisfazioni dello smascheratore permettendogli di scoprire nei sistemi dei filosofi larvate tendenze sociali e politiche. Si scagliò però contro quei volgarizzatori del pensiero marxistico, che facevano di esso un dogma. Non ammise leggi storiche deterministiche, ma solamente règles de prudence per l'interpretazione storica. Fu invece ortodosso di fronte ai parlamentari socialisti, come Briand e Jaurès, e a ogni deviazione democratico-massonica. Flagellò il cosiddetto "dovere sociale "dei ricchi, la tendenza dei proletarî a chiedere l'"elemosina" di salarî migliori, perché attendeva, hegelianamente, la nuova sana vita soltanto dalla virile e aperta lotta e quindi temeva che ogni attenuazione delle antitesi di classe infiacchisse lo slancio rivoluzionario. Perciò avversò il trade-unionismo, il blanquismo e la riduzione del movimento rivoluzionario a partito politico, cioè a feudo d'"intellettuali" arrivisti. Sognò di fare dei lavoratori delle coraggiose élites, che, chiuse nei loro sindacati, come le chiese del cristianesimo primitivo, avrebbero appreso a governarsi da sé e a coltivare quelle virtù eroiche, da cui sarebbe nata la civiltà del "puro operaio".

In contrasto con gli utopisti non disegnò piani o programmi, perché riteneva che il movimento rivoluzionario non potesse seguire una direzione fissata in precedenza. Importante era soltanto la preparazione morale del proletariato. Per suscitare però l'entusiasmo rivoluzionario egli riteneva necessario un mito: non una nuova ideologia intellettualistica, bensì una immagine fantastico-affettiva della rivoluzione stessa, concretantesi nello sciopero generale. Nella visione eccitante della propria futura battaglia il proletariato avrebbe trovato il suo slancio eroico e dal reciso contrasto con la "civiltà" borghese sarebbe nata un'era nuova, magari anche una nuova fresca barbarie, secondo il concetto vichiano del "ricorso". Con l'andar del tempo la profezia marxistica della catastrofe del capitalismo si trasformò in lui nell'augurio d'una severa penitenza medievale, con cui l'Europa avrebbe calpestato la cultura e gl'ideali liberali e restaurato la severa spiritualità quiritaria e cristiana.

Le opere di questo periodo sono: La ruine du Monde antique (Parigi 1901; 2ª ed., 1925), Saggi di critica del marxismo (a cura di V. Racca, Palermo 1903), Introduction à l'économie moderne (Parigi 1903; 2ª ed., 1922), Le système historique de Renan (ivi 1906) e finalmente l'opera sua più celebre, Réflexions sur la violence (ivi 1906; 5ª ed., 1921). Seguirono negli anni successivi: Insegnamenti sociali dell'economia contemporanea (a cura di V. Racca, Palermo 1907), La décomposition du marxisme (Parigi 1907; 2ª ed., 1910), Les illusions du progrès (ivi 1908; 3ª ed., 1921), La Revolution dreyfusienne (ivi 1909; 2ª ed., 1910), La religione d'oggi (a cura di A. Lanzillo, Lanciano 1910).

Fallito il suo tentativo d'imprimere al socialismo francese un carattere "epico" egli si andò accostando ai monarchici e cattolici dell'Action française. Da un'adesione però lo trattenne il sospetto che anche Barrès, Maurras e Daudet fossero dei "letterati". Accolse le idee di James e di Bergson, in quanto il loro pragmatismo gli consentiva di tracciare una linea tra scienza ed esperienza religiosa e di ribadire le sue vecchie critiche allo scientismo positivistico e le sue nuove al modernismo (De l'utilité du pragmatisme, Parigi 1921).

Rimasto quasi solo, continuò, implacabile, ad attaccare la democrazia, "il più grande pericolo sociale per tutte le classi, specialmente per quelle operaie", e i "dogmi ciarlataneschi" del sec. XVIII, tra cui quello del progresso, che lo offendeva col suo ottimismo. Tuttavia era lontano da un pessimismo di tipo schopenhaueriano, ché ciò che vi è di profondo nel pessimismo era secondo lui lo sforzo per la redenzione, ed era estraneo all'individualismo di un Nietzsche per il senso che ebbe della solidarietà umana e per il concetto dell'eroismo come manifestazione collettiva: aveva qualche simpatia per gli anarchici, ma solamente perché li considerava dei tonificatori del movimento operaio.

Come aveva disprezzato il desiderio di pace sociale, così disprezzava la "platitude umanitaria" e derideva l'idea d'una federazione degli stati d'Europa. Tuttavia lo scoppio della guerra mondiale lo affranse: di essa non considerò che la letteratura di propaganda e quindi la giudicò un'eclissi dell'intelligenza europea. Rimase coerente: esecrò l'Intesa, previde con ira la sconfitta della Germania e le delusioni dell'Italia - le "due nazioni del lavoro" - per opera della plutocrazia anglo-sassone e francese, accolse con gioia la rivoluzione bolscevica esaltando Lenin come un nuovo Pietro il Grande e attribuendo gli eccessi della rivoluzione agli Ebrei (era divenuto più che mai antisemita). Negli articoli che pubblicò negli ultimi anni (raccolti da M. Missiroli col titolo L'Europa sotto la tormenta, Milano 1932) prese fieramente posizione contro Wilson e Versailles a favore delle rivendicazioni italiane e seguì con vigile interesse il sorgere del fascismo, il cui capo riconosceva in lui il proprio principale maestro e nelle cui file militavano i suoi antichi discepoli, i sindacalisti italiani.

Bibl.: Per l'elenco degli scritti e per ampie indicazioni bibliografiche v. G. La Ferla, Ritratto di G. S., Milano 1933. V. inoltre: A. Lanzillo, G. S., Roma 1910; B. Croce, Convers. critiche, I, Bari 1918, 2ª ed., 1924; F. D. Cheydleur, Essai sur l'évolution des doctrines de M. G. Sorel, Grenoble 1914; F. Aquilante, G. Sorel, Roma 1916; R. Johannet, Itinéraires d'Intellectuels, Parigi 1921; M. Ascoli, G. S., ivi 1921; C. Schmitt, Die geistesgesch. Lage d. heutigen Parlamentarismus, Monaco 1923; P. Perrin, Les idées sociales de G. S., Algeri 1925; G. Pirou, G. S., Parigi 1927; C. Goretti, S., Milano 1928; P. Lasserre, G. S. théoricien de l'impérialisme, Parigi 1928; L. Salvatorelli, G. S., in Pegaso, II (1930); M. Missiroli, L'ultimo S., in Politica, XIII (1932), e prefaz. a L'Europa sotto la tormenta, Milano 1932; G. Santonastaso, G. S., Bari 1932; M. Freud, G. S. Der revolutionäre Konservatorismus, Francoforte 1932; J. Variot, Propos de G. S., Parigi 1936.

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