Germania

Enciclopedia Dantesca (1970)

Germania

Filippo Brancucci
W. Theodor Elwert

Dell'odierna G., detta da lui Lamagna o Alamania (If XX 62; VE I XVIII 5), D. ha scarse notizie e poco chiare, di gran lunga inferiori a quelle che dimostra avere Fazio degli Uberti nel suo Dittamondo. Ne indica precisamente i confini con l'Italia segnati dalle Alpi (l'Alpe che serra Lamagna / sovra Tiralli, If XX 62) e genericamente gli altri (ab hostiis Danubii sive Maeotidis paludibus, usque ad fines occidentales Angliae, Ytalorum Francorumque finibus et Oceano limitatur, VE I VIII 4). Questi confini racchiudevano ai tempi di D. un insieme di stati accomunati da una stessa finalità politica; infatti fin dai tempi di Ottone I era invalsa la consuetudine di scegliere l'imperatore fra i sovrani germanici.

Il regno germanico aveva avuto per la prima volta nell'833, nella figura di Ludovico, detto, appunto, il Germanico, un suo sovrano e un suo territorio. Questo stato, sorto dalla scissione dell'impero carolingio, comprendeva diversi popoli (Bavari, Svevi, Frisoni, Sassoni), che però non riuscirono mai a fondersi completamente. Anzi, i sentimenti particolaristici dei vari raggruppamenti etnici, ognuno con un proprio signore, furono causa di numerose crisi e conflitti interni nel corso dei secoli. La situazione del regno, scosso da tali dissidi interni e minacciato all'esterno dal dilagare degli Ungari, dei Normanni, dei Vendi, non pacificata dall'azione di Corrado I di Franconia, eletto nel 911, fu risanata infine dall'opera sagace ed energica di Enrico I, della casa di Sassonia. Suo figlio Ottone I ispirò fin dall'inizio la sua azione a una grandiosità non conosciuta nel passato. Oltre ad assoggettare gli Slavi, a fermare le scorrerie degli Ungari, a impossessarsi a est della Baviera (marche di Carinzia e Austria), a estendere la sovranità sui Danesi, Boemi, Polacchi, egli rese vassalla l'Italia, allargò la sua influenza sul papato riuscendo così ad associare la corona di G., d'Italia e dell'Impero. La dinastia francone o salica successiva a quella sassone, pur con la politica accentratrice dei suoi due esponenti Corrado II il Salico (1024-39) ed Enrico III il Nero (1039-56), non poté evitare con Enrico IV (1506-1106) che il potere imperiale uscisse fortemente indebolito dalle lotte per le investiture (mentre si riacutizzavano le istanze autonomistiche, imperniate sulla rinnovata forza dei duchi) e dalle non sempre fortunate guerre di difesa dei confini. Tutto mostrava l'aprirsi di una nuova crisi. La successiva lotta per la supremazia fra la casa guelfa di Baviera e quella Hohenstaufen di Svezia ebbe grande influenza nella politica interna della Germania. Il conflitto temporaneamente sopito con l'elezione di Federico I Barbarossa e poi del figlio Enrico VI si riaccese alla morte di quest'ultimo per risolversi solo dopo anni di guerra civile sui campi di Bouvines, dove Federico II vinse il suo avversario Ottone di Brunswick. Il periodo degli Hohenstaufen aveva visto il grande sviluppo germanico verso oriente, ma aveva anche assistito a un lento processo di disgregazione del potere centrale (ormai più interessato all'Italia che alla G.) e di formazione degli stati territoriali. Esso diviene più intenso ed evidente negli anni successivi con il grande interregno (1256-1273).

I principi elettori infine si accordano sulla persona del conte Rodolfo d'Asburgo (1273-1291): comincia così la successione di tre sovrani (Rodolfo d'Asburgo, Adolfo di Nassau, Alberto I d'Asburgo) i quali, ricordando la tragica esperienza degli ultimi Svevi, preferiscono non intervenire in Italia, preoccupandosi di assicurare alle proprie famiglie domini territoriali sempre più vasti. La loro politica consente in Italia ai pontefici di usare liberamente del governo spirituale e temporale e alle città di non avere freno nelle loro terrene cupidigie. La considerazione amara (Rodolfo imperador fu, che potea / sanar le piaghe c'hanno Italia morta, Pg VII 94-95) nasce anche dalle deluse speranze di pace concepite dai Fiorentini all'elevazione del nuovo sovrano Rodolfo I.

Così dell'opera dei successori di Rodolfo - Adolfo di Nassau (1292-1298) e Alberto I (1298-1308), a cui D. dirige la nota invettiva (Pg VI 97 ss.) - mette in evidenza solo l'incuria per le cose d'Italia.

In Cv IV III 6, a proposito dell'uso dell'officio imperiale, D., ribadendo il suo giudizio negativo sui tre imperatori, scrive: Federigo di Soave, ultimo imperadore de li Romani - ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Andolfo e Alberto poi eletti siano, appresso la sua morte e de li suoi discendenti. L'elezione di Enrico di Lussemburgo (1308-1313) e la sua ripresa di una politica italiana suscitano entusiasmo nell'animo di D., facendogli concepire nuove speranze. Si passa così alle felici apostrofi di Ep V, VI, VII, e culminanti con la visione di Pd XXX 136 ss., anche se non gli sfuggono talune incertezze (vedi Ep VII 7-8) dell'imperatore, ritenuto pur sempre dal poeta il risolutore della vacanza dell'Impero iniziata con la morte di Federico Il. Ma l'improvvisa e immatura fine di Enrico tronca tutte le speranze di Dante. Si riaccende in G. il contrasto per la successione, alla quale aspirano Federico d'Austria e Giovanni re di Boemia, figlio di Enrico VII; il partito lussemburghese propone contro gli Asburgo Ludovico, duca di Baviera: avviene una doppia elezione. Il 19 ottobre 1314 a Francoforte è eletto Federico d'Asburgo; il giorno successivo Ludovico di Baviera: è la guerra aperta; Federico viene vinto e fatto prigioniero a Müldorf (28 settembre 1322). Tutti, a eccezione di Giovanni XXII papa, in Avignone, riconoscono Ludovico, il quale nel corso del suo regno rinnoverà il conflitto ideologico con il papato. D. è morto da un anno.

Degli eventi della G. anteriori alla sua epoca D. non si occupa particolarmente; è un ‛ tòpos ' letterario fin dall'antichità. la designazione di ‛ barbari ' per gl'invasori venuti dal nord, in Pd XXXI 31. Di origine letteraria è pure la menzione del Reno come scena delle imprese di Giulio Cesare (Pd VI 58).

Dei vari personaggi tedeschi che compaiono nella Commedia ce n'è uno solo che non vi stia per ragioni politiche, ed è s. Alberto Magno (ricordato anche nel Convivio), presentato come teologo insieme con s. Tommaso nel cielo del Sole (Pd X 98). Tutti gli altri sono principi imperiali che D. ricorda in rapporto al suo concetto dell'Impero e all'influenza che hanno avuto nelle vicende politiche italiane, e di conseguenza alle sue personali.

Alla lingua tedesca D. accenna solo di sfuggita nel De vulg. Eloq. (I VIII 3-4), dove afferma che un solo idioma si diramò in differentissimi volgari, cioè quelli degli Schiavoni, Ungari, Teutoni, Sassoni, Inglesi e parecchi altri popoli. Come unico segno della comune origine di queste parlate rimase, secondo D., il fatto che quod quasi praedicti omnes iò affermando respondent. È da notarsi che D. si mostra correttamente informato in quanto osserva che non tutti, ma quasi tutti affermano dicendo iò, perché, difatti, ciò non vale per gli Ungheresi, né per gli Slavi. Ma ciò non toglie che D. afferma ingiustamente la comune origine dei detti volgari. È evidente che D. fu indotto a far ciò dall'aver egli adoperato il criterio della particella affermativa per distinguere gl'idiomi romanzi nel passo che vien dietro immediatamente. Quanto alla forma iò, essa rispecchia la pronuncia dialettale del tedesco ja, pronuncia caratteristica dei dialetti della Val d'Adige e delle valli friulane.

Bibl.- F.C. Dahlmann-G. Waitz, Quellenkunde der deutschen Geschichte, Lipsia 19319. Per la storia generale della G.: H. Prutz, Storia degli stati medioevali nell'Occidente, Milano s.a. [1894-1897]; O. Lorenz, Deutsche Geschichte im XIII und XIV Jahrh., Vienna 1863-67; E. Michael, Geschichte des deutschen Volkes vom 13. Jahrh. bis zum Ausgang des Mittelalters, Friburgo 1897-1915; A. Hofmann, Das deutsche Land und die deutsche Geschichte, Stoccarda 1930²; I. Bühler, Deutsche Geschichte, Berlino 1934-1960; cfr. inoltre B. Gebhardt, Handbuch der deutschen Geschichte, riveduto e ampliato, I, Stoccarda 1959, utile soprattutto per la bibliografia aggiunta a ciascun paragrafo. Per quanto concerne il pensiero politico di D. riguardo alla G.: R.W. e A.J. Carlyle, Il pensiero politico medievale, voll. 4, Bari 1956-1968 (cfr. in particolare IV 296-308 per la ricca bibliografia su D. politico); H. Grundmann - O. Herding - H. Peyer, D. und die Mächtigen seiner Zeit, Monaco 1960; E. Sestan, D. in relazione con la vita politica del suo tempo, in Celebrazioni del VII centenario della nascita di D., Roma 1967, 49-62; I. Goudet, D. et la politique, Parigi 1969.

Fortuna di D. In Germania. - Al principio del secolo XV il nome di D. venne fatto per la prima volta in pubblico, in terra di lingua tedesca, al concilio di Costanza, ove Giovanni da Serravalle, vescovo di Fermo, lesse e commentò la sua traduzione latina della Commedia dal 1416 al 1417; ma questo rimase un episodio limitato. Sulla fine del secolo il nome di D. appare per la prima volta in un libro stampato in Germania, ma di autore italiano, cioè nel Chronicon sive opus historiarum di s. Antonino da Firenze, stampato a Norimberga nel 1484; della lunga chiosa biografica di Antonino si valse solo l'umanista tedesco Nauclerus. Una prima traduzione di una terzina della Commedia (If III 1-3) in un manoscritto del 1479 rimase senza eco e fu pubblicata solo nel 1886 da K. Bartsch (in " Zeit. Romanische Philol. " VI). La conoscenza di D. cominciò a diffondersi sulla fine del Quattrocento. Il primo erudito tedesco a darne più ampia notizia pare fosse Johannes Trithemius in un'opera pubblicata nel 1494, ma già scritta nel 1492: il Liber de scriptoribus ecclesiasticis. Ma già prima appariva, nel 1493, il Liber Chronicarum di Hartmann Schedel (1440 - 1514), che nello stesso anno 1493 uscì anche in lingua tedesca, sicché la ‛ Weltchronik ' dello Schedel fu la prima opera in lingua tedesca a riportare notizie più esplicite sulla vita e le opere di D., attinte alla stessa fonte di cui si valse il Trithemius. Lo Schedel, nonché l'umanista e patrizio norimberghese Willibald Pirckheimer (1470 - 1530) furono i primi tedeschi di cui si sa con certezza che abbiano posseduto un'edizione a stampa della Commedia, lo Schedel quella veneziana del 1497, il Pirckheimer l'edizione mantovana del 1472. Anche altri umanisti tedeschi possedevano intorno al 1500 edizioni italiane del poema; queste ebbero maggiore diffusione in G. dalla seconda metà del Cinquecento in poi. Il primo tedesco a ricordare D. come creatore della lingua letteraria italiana e a metterlo sullo stesso piano del Petrarca fu l'umanista Jakob Locher (1470/1 - 1528), professore di rettorica e poetica a Ingolstadt, nella prefazione alla sua traduzione della Stultifera navis (Basilea 1497) di Sebastian Brandt, di cui era allievo.

Sebbene ormai la conoscenza della Commedia si andasse facendo strada, nel sedicesimo secolo D. fu conosciuto e stimato soprattutto come autore della Monarchia (sulla quale opera aveva già insistito s. Antonino), opera che gli ambienti protestanti utilizzarono ampiamente come testimonianza di spiriti antipapali. Dal punto di vista della Chiesa di Roma la Monarchia venne condannata dall'umanista Johannes Nauclerus Verge (Vergenhaus; 1470 c. - 1510 c.), primo rettore dell'università di Tubinga, nella sua Chronica ab initio mundi (Tubinga 1501). La Monarchia fu invece invocata in favore del protestantesimo da Matthias Flaccius Illyricus (Albona 1520 - Francoforte s. Meno 1575), nel suo Catalogus testium veritatis qui ante nostram aetatem reclamarunt Papae (Basilea 1556), ove vengono citati anche alcuni passi antiecclesiastici del poema. Nello stesso anno si parla della Monarchia nel Catalogus haereticorum (Königsberg 1556), attribuibile a Pier Paolo Vergerio il Giovane (Capodistria 1497 c. - Tubinga 1564), il quale aggiunse le sue Annotationes all'opera Postremus catalogus haereticorum Romae conflatus, 1559 (Pforzheim 1560). Più che altro contribuì alla conoscenza di D. come autore della Monarchia la pubblicazione del testo latino, fino allora inedito, per cura dell'umanista Giovanni Herold, a Basilea nel 1559, e la sua traduzione tedesca che uscì nello stesso anno. Del trattato dantesco parlò anche il giurista Johannes Wolfius (1537 -1600) nella sua cronaca Lectionum memorabilium et reconditarum Centenarii XVI (Lauingae 1600). Il Wolfius fu anche il primo in Germania a tradurre, bensì in prosa latina, alcuni passi della Commedia ritenuti d'ispirazione antiecclesiastica.

Nel secolo seguente continuarono a considerare D. come antipapale ed eretico, e principalmente come autore della Monarchia, Matthias Bernegger (1582-1640), professore di storia a Strasburgo, e Johannes Gottfried Olearius (1635-1711), professore di teologia ad Halle. Nel sedicesimo secolo si conobbe D. anche sotto un aspetto del tutto diverso, cioè come oggetto di una delle Facezie di Poggio Bracciolini (due stampe di Norimberga del 1472, una, ivi, 1475). Da Poggio la facezia fu riportata dal Brandt nel suo Mythologia Aesopi ecc. (Basilea 1501), che uscì anche in tedesco nel 1545 a Friburgo. Del Brandt nonché della Monarchey dello Heroldt, e forse del De Genealogiis del Boccaccio si servì il maestro cantore Hans Sachs per la sua poesia Dantes der Poet von Florenz, scritta nel 1563, pubblicata nel 1579; in essa il Sachs dimostra una certa familiarità con la vita di D. e con il contenuto della Commedia. La stessa facezia del Bracciolini nonché altre vengono compilate dal medico Theodor Zwinger (1533-1588) nel Theatrum vitae humanae (1565, 1571, 1586, 1596, 1603); lo Zwinger dimostra anche la sua stima per D. che egli giudica un secondo Lucrezio, riecheggiando il giudizio dell'umanista italiano Raffaele da Volterra (1450-1521).

Se nel sec. XVII continuano a scarseggiare notizie su D., il D. della Commedia riaffiora e soppianta il D. della Monarchia. Markward Freher (1565-1614) è il primo autore tedesco che cita in un libro scritto e stampato in G. versi della Commedia in lingua italiana (1610). La prima traduzione in versi tedeschi di alcune terzine compare nella Sapiens stultitia (1615) dell'alsaziano Georg Friedrich Messerschmid. Di traduttore anonimo sono alcune terzine volte in prosa tedesca incluse nella traduzione tedesca della Piazza universale di Tommaso Garzoni (1549-1589) stampata a Francoforte nel 1619. Il primo a tradurre terzine dantesche di sua scelta fu Christian Breme di Lipsia (1613-1667), che le pubblicò insieme alle sue proprie poesie nel 1639. Alcuni brani della Commedia tradusse poi Andreas Gryphius per le annotazioni alla sua tragedia Aemilius Paulus (1659). L'interesse per questioni di lingua e di poetica che animava allora i poeti tedeschi portò l'attenzione sul De Vulg. Eloq.; ne cita alcuni brani il gesuita Melchior Inchofer (Vienna 1584 - Milano 1684). Il poeta Georg Philipp Harsdörffer (1607 - 1658) cita in un suo trattato di metrica un verso del poema (1644). Finalmente, sulle orme di autori italiani, Daniel Georg Morhof (1639 - 1691) assegna a D. un posto fra Virgilio e Omero (Von der Teutschen Poeterey, 1682), e il medico Paul Freher (1611 - 1682) parla della Commedia sotto la voce ‛ Dantes Aligerius ' nel suo Theatrum virorum eruditione clarorum (postumo, 1688), ove paragona D. a Omero; inoltre egli dà un elenco delle opere di D., il più completo fino allora apparso in Germania. Già nella prima metà del secolo il legislatore del Parnaso tedesco, Martin Opitz (1597 - 1639), in una prefazione alle sue opere datata del 1628 (Weltliche Poemata, 1644) aveva ricordato D. come " il primo luminare della lingua hetrusca ". Un anonimo dantista tedesco del Seicento lasciò una breve analisi della Commedia (Kurtzer Bericht undt Inhalt des prophetischen Gedichts des Dantes Aligheri) con un'interpretazione allegorica (" figurliche Deuttung ") per ciascuno dei primi canti dell'Inferno nelle cc. 204 r - 217 V del miscellaneo Helmstedt 778 (Wolfenbüttel).

Anche nella prima metà del Settecento l'opera di D. rimase quasi sconosciuta. Notizie sulla vita e le opere del poeta cominciano però a circolare in modo più ampio e capillare attraverso le enciclopedie, in primo luogo quella del Bayle, diffusissima in Germania, nonché attraverso quelle tedesche, le quali però, in genere, non fanno altro che riportare riduzioni dell'articolo del Bayle; tali l'Allgemeines historisches Lexikon (1709) di J.F. Buddeus (1667 - 1729), il Kompendioses Gelehrtenlexikon (Lipsia 1715) di J.B. Mencke (1675 - 1732), l'Universallexikon (1732 ss.) di J.H. Zeidler, la Bibliotheca mediae et infimae aetatis (Amburgo 1734) di C.G. Joecher (1694 - 1758). Anche il fatto che D. venga menzionato in vari articoli anonimi di riviste non toglie che resti praticamente ignoto. Nemmeno il Gottsched (1700 - 1766) portò un radicale cambiamento a questa situazione.

Il primo a segnalare più esplicitamente D., e a intuire il valore della Commedia fino a chiederne la traduzione integrale fu lo svizzero J.J. Bodmer (1698 - 1783), l'avversario del Gottsched. Tuttavia, ai grandi critici l'essenziale dell'arte dantesca ancora sfuggiva. Il Lessing (1729 - 1781), che conobbe D. attraverso il Gerstenberg (1737 - 1823), accennava all'episodio del conte Ugolino nel XXV capitolo del Laokoon (1766), ove parla del brutto in poesia, per biasimare D., mentre lo Herder (1744 - 1803) non ebbe conoscenza diretta di Dante. Il primo critico a dare un impulso decisivo alla dantologia tedesca, dopo il Bodmer, fu il Gerstenberg, ma notevole ostacolo a un giudizio concreto era l'assenza di conoscenza diretta dell'opera dantesca. Se la prima stampa dell'Inferno in G. appare nel 1755 (a Lipsia), le prime due stampe dell'intero poema uscirono solo nel 1788 e nel 1804. Prima, dovevano preparare la strada i traduttori. Alla prima traduzione in prosa dell'episodio del conte Ugolino, fatta su una versione inglese, di Moses Mendelssohn (1729 - 1786), nel 1758-59, seguì nel 1763 (seconda ediz. 1774) la prima traduzione letterale in prosa di lunghi brani, completati da sunti di tutte le tre cantiche, di Johann Nikolaus Meinhard (1727 - 1767). Il Meinhard non si cura delle altre opere di D. e la sua comprensione critica della Commedia rimane inferiore a quella del Bodmer, in quanto perdurano in lui pregiudizi razionalistici e riecheggiano le opinioni di Voltaire quando opinava che la Commedia è " sonderbar " (strana), termine che ripete il " bizarre " di Voltaire. Inoltre la composizione della Commedia gli sembra " artificiosa, secondo il gusto gotico ". Voltairiano nel suo giudizio fu anche J.G. Jacobi (1740 - 1814), il quale nel 1764 pubblicava una sua traduzione dell'episodio del conte Ugolino. Lo Jacobi fu tuttavia il primo a tradurre un lungo squarcio della Commedia in versi, adoperando l'endecasillabo giambico, il metro di cui si servirono subito dopo lo Jagemann e i traduttori che gli vennero dietro. Non maggiore comprensione dimostrò il Bachenschwanz (1729 - 1802) che diede la prima traduzione in lingua tedesca della Commedia, la prima integrale in prosa (1767, 1768, 1769). Se il susseguirsi di traduzioni rivela un crescente interesse a D., bisogna tuttavia attendere ancora un decennio fino alla prima traduzione integrale dell'Inferno in versi: fu l'opera di J.C. Jagemann (1735 - 1804), che la pubblicò nei volumi I - III (1780-1782) del " Magazin der italienischen Literatur und Kiünste " (8 volumi, 1780-1785), la prima rivista tedesca specializzata nella diffusione della cultura italiana in Germania. Lo Jagemann aveva pubblicato già prima alcuni brani del testo italiano della Commedia e di alcune liriche nella sua " Antologia poetica italiana " (Weimar 1776/7). L'opera dello Jagemann va allacciata alla scoperta della letteratura italiana in genere che fu un elemento essenziale del romanticismo in Germania. Fu riscoperta solo di recente (Mitteilungsblatt der Deutschen Dante-Gesellschaft 1967, 1) una traduzione dei passi sul conte Ugolino del poeta svevo K.F. Reinhardt (1761 - 1837) nel " Schwäbischer Musenalmanach " del 1784.

I vari accenni alla Commedia fin dalla metà del Settecento dimostrano un interesse determinato in primo luogo dal contenuto e allo stesso tempo un apprezzamento incompleto, frammentaristico, limitato a certi episodi, intralciato da pregiudizi razionalistici. Malgrado le cure dello Jagemann, la Commedia rimase pur sempre quasi sconosciuta fin verso la fine del secolo. Il notevole saggio di J.B. Merian del 1784, scritto in conoscenza dei lavori del Meinhardt e dello Jagemann, passò inosservato (il Bouterweck, se lo lesse, erratamente l'interpretò in senso negativo). Il merito di aver sentito e di aver lumeggiato il valore estetico della Commedia e di averla resa nota al gran pubblico spetta ai critici e ai poeti romantici. La parte che ebbe Goethe in questa scoperta fu insignificante. Il vero scopritore della Commedia fu A.W. Schlegel (1767 - 1845), e giustamente se ne vantava in una lettera al Tieck del 1837. L'articolo che egli pubblicò nel 1791 sulla rivista del Bürger, " Akademie der schönen Redekünste ", fu una rivelazione; all'articolo lo Schlegel aveva aggiunto alcune traduzioni dall'Inferno, parte in prosa, parte in versi, nonché un rapido ma limpido schizzo biografico. Lo Schlegel mise in rilievo soprattutto il poeta D., per parlare solo dopo del teologo e del filosofo; insisteva sulla necessità della preparazione storica per arrivare a una vera comprensione poetica e sosteneva che l'apprezzamento estetico rimaneva indipendente dall'interpretazione allegorica. Negli anni seguenti lo Schlegel pubblicò altri brani della Commedia da lui tradotti in terzine, ma lasciando il verso mediano senza rima (Schlegelterzine), nella rivista dello Schiller " Die Horen " (1795 ss,). Lo Schlegel mirava a far intendere l'unità della Commedia; perciò intercalava tra i brani tradotti prose riassuntive. Fino alla morte lo Schlegel continuò a scrivere articoli introduttivi a vari problemi della Commedia: difese D. contro i residui d'incomprensione razionalistica nel Bouterweck (1766 - 1828); dissertò anche con fine gusto artistico sulle liriche di D. e sulla Vita Nuova; sempre sostenne che si doveva studiare l'opera di D. come creazione poetica, talché, polemizzando con D.G. Rossetti, ripeteva nel 1832: " C'est comme poètes (Dante, Petrarca, Boccaccio) qu'il nous importe de les justifier ". Anche suo fratello Friedrich (1772-1829) segnalava in vari articoli tra il 1795 e il 1800 in D. il poeta. La Commedia gli pareva illustrare la sua definizione della poesia romantica: specchio di un'epoca, opera che si sottrae alla classificazione dei generi letterari e che eccede i limiti della poesia nazionale. L'entusiasmo di Friedrich diminuì dopo la sua conversione al cattolicesimo; fu allora che stimò che la Commedia non fosse che poema didattico; censurò l'atteggiamento antipapale di D., e finì col non occuparsene più.

F. Schelling (1775 - 1854) fu attratto allo studio della Commedia perché in essa trovava confermato il suo concetto di poesia. Esercitò grande influsso sui contemporanei il suo saggio (Über D. in philosophischer Beziehung del 1802-03, ove sosteneva che la Commedia era un'opera unica, non classificabile secondo lo schema dei generi letterari, essendo essa la perfetta compenetrazione di tutti i generi, divenendo così l'essenza stessa della poesia moderna. Meglio di F. Schlegel, egli sentiva profondamente, come A.W. Schlegel, la bellezza del poema dantesco. Perciò tentò di darne ai lettori tedeschi un'idea traducendo il secondo canto del Paradiso in terza rima; fu così il primo tedesco a servirsi della terza rima dantesca, in cui compose una poesia, che chiudeva il saggio, da cui traspare non solo il suo entusiasmo, ma anche il suo concetto dell'unità del poema.

Contribuirono non poco al riconoscimento di D. le varie menzioni che ne fece lo Hegel. Benché i suoi giudizi sulla Commedia fossero subordinati al proprio sistema filosofico e servissero a illustrare qualche sua tesi, p. es. della natura dell'epopea, essi furono efficaci grazie all'autorità di cui godeva. Ciò che importa è che lo Hegel confermava la realtà del mondo dantesco come opera di poesia, e aveva anche intravveduto l'importanza estetica della figura stessa di D. nell'insieme del poema.

La scoperta della Commedia come opera di poesia aprì la strada a una maggiore diffusione. Tra il 1800 e il 1810 si ebbero tre edizioni tedesche, di cui una, del 1807, fu la prima curata da un tedesco, K.L. Fernow (1763 - 1808). Seguirono quella del Kannegiesser (1781 - 1864), la prima traduzione integrale in terzine dantesche (1809-21), e quella dello Streckfuss (1778 - 1844), pure completa e in terza rima; ambedue acquistarono alla lettura di D. un largo pubblico, soprattutto quella dello Streckfuss, che fino al sec. XX ebbe una diffusione non uguagliata da alcun'altra. Concorse alla scoperta di D. il risveglio dell'interesse per le letterature medievali in genere e specie per l'italiana. Pubblicarono antologie e sunti di storia della letteratura italiana lo Jagemann, il Bouterweck (Geschichte der italienischen Poesie, 1801), J.K. Orelli (1810). Il Fernow pubblicava una grammatica italiana (1804, 1815²) e curò edizioni di Ariosto, Tasso e Petrarca. Fu lo stesso Goethe a riconoscere il merito dello Jagemann e del Fernow come divulgatori della letteratura italiana (ediz. di Weimar, vol. 36, p. 41). Lo Streckfuss si era dato alla traduzione della Commedia dopo aver tradotto dal 1804 in poi il Petrarca, il Boccaccio, l'Ariosto e il Tasso. Allo studio di D. conduceva anche il nuovo interesse per l'arte italiana (Rumohr, Italienische Fragen, 1826) e della storia d'Italia (Sismondi). Lo storico B.R. Abeken scrisse un'introduzione alla vita e all'epoca di D. (Beiträge für das Studium der Göttlichen Komödie D. Alighieris, 1826), opera che il Goethe aveva nella sua biblioteca.

Alla traduzione del Kannegiesser e dello Streckfuss ne seguirono presto altre. Ma dal 1820 circa in poi si fece sentire il bisogno di una più vasta e accurata informazione. Difatti, lo studio di D. fu tratto nell'ambito della nascente filologia romanza e degli studi storici, due correnti che diedero un nuovo impulso agli studi danteschi e ne determinarono il carattere fino agli anni '70. Questo periodo fu dominato dall'attività di Karl Witte, del re Giovanni di Sassonia (il ‛ Philalethes '), di L.G. Blanc, cui si associarono K. Bartsch e E. Boehmer tra i filologi, e F.X. Wegele tra gli storici. Il Philalethes iniziò la sua traduzione nel 1825 e la terminò nel 1865. La sua maggiore preoccupazione fu la fedeltà al testo, e perciò rinunciò alla rima; inoltre diede per primo un commento storico-filosofico-letterario. Tanto la traduzione quanto il commento hanno conservato il loro valore; tuttavia il lavoro del Philalethes presuppone l'attività di K. Witte, che ebbe il merito di aver impostato il problema dell'edizione critica in un testo da lui curato nel 1862, e che segna una tappa decisiva nella critica dantesca di tutta Europa. Il Witte diede nel 1865 anche una traduzione, pur essa non rimata, ancor oggi apprezzata per la sua precisione, ed ebbe inoltre il merito di aver allargato il campo degli studi danteschi curando edizioni e traduzioni delle opere minori, assecondato dal Kannegiesser e altri. Nel 1852 uscì il Vocabolario dantesco del Blanc; nello stesso anno lo storico F.X. Wegele pubblicava la prima grande biografia dantesca in lingua tedesca (seconda edizione notevolmente ampliata nel 1865). Con la generazione dei Witte e del Philalethes la dantologia tedesca raggiunge il suo apogeo, che si esprime anche nella fondazione della " Deutsche Dante-Gesellschaft " nel 1865.

Dopo la morte del Witte gli studi danteschi languirono. Si ebbe un risveglio dopo il 1890. Ma ciò che caratterizza i decenni fino alla prima guerra mondiale è lo svilupparsi di un vero culto di Dante. Vi entravano vari motivi: l'ammirazione della civiltà italiana in genere, specie quella del Medioevo e del Rinascimento, l'entusiasmo tanto per il paesaggio italiano quanto per le opere d'arte, la scoperta dell'Italia francescana e mistica. All'idoleggiamento di D. si aggiunse l'esaltazione di Beatrice e della Vita Nuova. Il libro del Bassermann, Auf Dantes Spuren in Italien, del 1895, rispecchia accuratamente il tono generale del culto di D. caratteristico dell'epoca. Quanto il periodo tra il 1820 e il 1865 fu dominato dall'erudizione, tanto nel periodo fra il 1865 e la prima guerra mondiale predominò la tendenza alla divulgazione, per cui acquistarono maggiore importanza le traduzioni. L'ambizione dei traduttori fu quella di creare una Commedia in veste tedesca che fosse un'opera d'arte comparabile all'originale. In questo campo è possibile distinguere due correnti, quella che si rivolgeva a un pubblico largo (quella delle traduzioni del Gildemeister, del Pochhammer, dello Zoozmann), e quella esoterica, più pretensiosa e artificiosa (traduzioni del George, del Borchardt, del Falkenhausen). Le due correnti non furono prive di dilettantismo, ma assicurarono a D. un posto duraturo nella cultura tedesca. Accanto a queste tendenze dominanti proseguivano tuttavia i lavori di esegesi erudita, sorretti da filologi quali A. Gaspary, B. Wiese, A. Tobler, di storiografi come H. Grauert, di storici dell'arte come L. Volkmann. Questa corrente trovò i suoi maggiori esponenti nel teologo F.X. Kraus (1840 - 1901) che pubblicò la sua grande biografia di D. nel 1897, e nel filologo Karl Vossler (1872 - 1949) che dava la sua grande esegesi della Commedia negli anni 1907-1910.

Dopo la prima guerra mondiale il culto di D. perdurò, sempre con prevalenza delle tendenze divulgative. Questi ammiratori di D. si raccolsero intorno a H. Daffner e il suo " Dante-Jahrbuch ". Tuttavia, se continuano a prevalere le opere di divulgazione e di esegesi spicciola, e se la filologia in senso ristretto, la critica del testo e gli studi linguistici e stilistici continuano ancora a mancare quasi del tutto, è indiscutibile una ripresa degli studi di carattere erudito e critico. Ciò si rifletteva nel fatto che tanto la direzione della Deutsche Dante-Gesellschaft, quanto del Dante-Jahrbuch, passò alle cure di due universitari, i professori F. Schneider e W. Goetz, i quali diedero tanto all'attività dell'associazione quanto all'annuario un tono scientifico più elevato. Il fatto più notevole forse è che fra i collaboratori non si trovano soltanto storici e teologi, ma anche buon numero dei titolari di cattedre di filologia romanza. Ciò non toglie che dal 1921 in poi la grande maggioranza delle pubblicazioni dantesche si rivolge pur sempre meno agli specialisti che non a un pubblico colto di ammiratori di Dante. Continuano perciò a pullulare le traduzioni, oltre una dozzina nei decenni dopo il centenario della morte di Dante. Va però notato che anche i dantisti universitari non si sono sottratti a questo lavoro di divulgazione, e ciò con buoni risultati, in quanto che per loro l'esigenza della fedeltà al testo passa in prima linea, per cui si rinuncia alla rima e viene abbandonato il miraggio di un ‛ Dante tedesco '. Due di queste traduzioni, quella del Gmelin e quella del von Wartburg, vanno paragonate per la loro precisione alle migliori del secolo precedente, quelle del Witte e del Philalethes. Opera di singolare pregio e di vasta esperienza dottrinaria è anche il commento del Gmelin.

Le arti figurative hanno una notevole importanza nella diffusione della conoscenza di D. in Germania. Infatti, le raffigurazioni di scene della Commedia seguono immediatamente le prime traduzioni settecentesche, e precedono, accompagnano e assecondano la scoperta di D. dovuta ai critici e letterati romantici; acquistano un'importanza particolare nel periodo tra il 1800 e il 1820-25, cioè nel periodo che precede gli studi filologici e storici, e le traduzioni integrali a larga diffusione.

Dei disegni dell'inglese J. Flaxmann parlò con entusiasmo A.W. Schlegel nella sua rivista " Athenäum " nel 1799 (II 193-246). La prima volta che Goethe fa il nome di D. è proprio in occasione del Flaxmann (1799), dei cui disegni si ebbero tre edizioni in Germania (1809, 1824, 1833-35). Il primo tedesco a seguire il Flaxmann fu il classicista Asmus Jacob Carstens (1754 - 1798) con la sua illustrazione del c. V dell'Inferno, nel 1796. L'episodio di Paolo e Francesca trovò numerosi illustratori tedeschi attraverso tutto il secolo. All'illustrazione di D. si diedero gli artisti tedeschi residenti a Roma, cioè il gruppo dei pittori nazareni, che si raccolse nel 1809-10 intorno all'Overbeck, e la cui maggiore opera sono gli affreschi nella Villa Massimo a Roma; le pareti furono dipinte da Joseph Anton Koch, la volta da Phil. Veit, su cartoni disegnati da Peter v. Cornelius. Il Koch aveva già cominciato a illustrare la Commedia per conto suo fin dal 1802, incoraggiato da A.W. Schlegel. I disegni del Koch sono ora sparsi in varie collezioni; una prima scelta fu pubblicata nel 1836, una più completa solo nel 1904. I più notevoli artisti di questa cerchia romana, che fu incoraggiata da K. Witte, furono J. Schnorr von Carolsfeld, H. Hess, A. Rethel, J. Ritter von Führich, E. Steinle, M. von Schwind. Alcuni dei loro disegni furono pubblicati dal barone Locella, italiano che ebbe strettissimi legami con la cerchia dei dantisti di Dresda ove egli risiedeva. Ne possedeva una ricca collezione il principe Johann Georg di Sassonia. Della scuola del Carstens fu il tedesco Bonaventura Genelli (1798 - 1868) che nel 1840-46 eseguì una serie di 36 disegni ispirati alla Commedia; i suoi disegni furono adoperati per illustrare varie edizioni del poema (1915, 1921, 1922). Strettissimi legami con la cerchia di Dresda e specialmente con K. Witte, che ne scrisse il necrologio, ebbe il pittore Carl Vogel von Vogelstein (1788 - 1868), il quale dipinse per il granduca di Toscana una grande tavola raffigurando D. in mezzo ai principali personaggi del poema (Firenze, Accademia), ed eseguì inoltre 96 disegni che sono andati smarriti, tranne uno che si trova nella Neue Pinakothek di Monaco (pubblicato da W. Mathie). Meno illustrazioni che espressione del generale entusiasmo per D. sono i dipinti di Anselm Feuerbach, Paolo e Francesca (Schack-Gallerie; e altre due versioni del 1853 e 1856), D. e le nobili donne di Ravenna (Karlsruhe 1858); del suo D. morente si è conservato solo un abbozzo. Una Francesca è dovuta anche al pennello del Böcklin. Numerose furono le illustrazioni isolate, episodiche o in serie, fino ai tempi recenti, fra cui quelle di Lovis Corinth. Fra le più notevoli vanno messe quelle in stile liberty di Franz Stassen (illustrando il Dantekranz di P. Pochhammer, Berlino 1905) e di George Grosz (New York 1944).

I riflessi di D. nella letteratura tedesca sono poco notevoli. Rare le opere di autori tedeschi a soggetto dantesco. Le più numerose sono quelle ispirantesi agli episodi di Francesca e di Ugolino. D'importanza storica come testimonianza della scoperta di D. sono i drammi del Gerstenberg (1768) e quello, posteriore, del Bodmer (1769). Testimone dell'entusiasmo dei poeti romantici è il progetto di un dramma dell'Uhland (1807). Fra le numerose altre opere sullo stesso soggetto le uniche di autori notevoli sono la tragedia di Paul Heyse (1857) e la novella di Ernst von Wildenbruch (1882). Il biografismo fine secolo e il culto preraffaellitico di Beatrice si rispecchia nell'insignificante dramma D. und Beatrice di A.von Ruville (1890).

Assai più numerosi sono i componimenti poetici in lode di D. (e alcuni in lode di Beatrice). Vanno messe in primo luogo per il loro pregio poetico le terzine dello Schelling (1802), precedute cronologicamente dal sonetto di A.W. Schlegel (1800); successivamente sono da ricordare i romantici Platen, Uhland, W. Waiblinger, poi Geibel, Dehmel, Liliencron, George, e i traduttori Philalethes, Förster, Kannegiesser, Pochhammer, Bassermann, Zoozmann, cui si aggiungono le traduzioni in tedesco di liriche su D. di poeti italiani.

Bibl.- In generale sulla fortuna dantesca in G., v. G.A. Scartazzini, D. in G., Milano 1881-83; R. Zoozmann, Dantes Werke, IV (Dante in Deutschland), Lipsia 1907; T. Ostermann, D. in Deutschland, Bibliographie der deutschen Dante-Literatur 1416-1927, Heidelberg 1929; ID., Bibliographie der deutschen Dante-Literatur 1928-30, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XVII (1935); W.P. Friederich, Dante's fame abroad, Roma 1950; H. Grauert, D. in Deutschland, in " Historisch-politische Blätter für das katholische Deutschland " CXX (1897); B. Wiese, Die in Deutschland vorhandenen Handschriften der Göttlichen Komödie, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XI (1929); E.R. Curtius, Danteleser und Danteforscher, in " Romanische Forschungen " LVI (1942); M.L. La Valva, Presenza di D. nelle biblioteche tedesche, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XLIII (1965) 90-111.

Sulle traduzioni: a) antologie: R. Köhler, Dantes Göttliche Komödie und ihre deutschen Übersetzungen. Der V. Gesang der Hölle in 22 Übersetzungen seit 1763-1865, Weimar 1865; altri testi in " Deutsches Dante-Jahrbuch " VI (1924), VII (1925); b) sul problema delle traduzioni: W. Goetz, Übersetzungen von Dantes Göttlicher Komödie ins Deutsche, in " Historisches Jahrbuch " LXXIV (1955), rist. in D. Gesammelte Aufsätze, Monaco 1958; R. Besthorn, Zur Problematik der deutschen Dante-Übersetzungen, in " Beiträge zur romanischen Philologie " IV (1965); W.T. Elwert, Zur Frage der Dante-Übersetzung, in Festschrift Rohlfs, Tubinga 1968; Lydia Marincocz, Studien zur Dante-Übersetzung in Deutschland, tesi di laurea, Innsbruck 1961; v. anche A. Bassermann, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XIII (1931); A. Vezin, ibid. XV (1933), su Zoozmann; F. von Falkenhausen, ibid. XX (1938), contro Bassermann; R. Borchardt, D. und Deutscher D., in Schriften, Prosa II, Stoccarda 1959 (contro Zoozmann); H. Gmelin, Grundsätzliche Erwägungen zum Problem der reimlosen Übersetzung, in " Romanische Forschungen " LXVII (1956); G. Locella, Zur deutschen Dante-Literatur, mit besonderer Berücksichtigung der Übersetzungen von Dantes Göttlicher Komödie, Lipsia 1889. Si veda inoltre: E. Sulger-Gebing, D. in der deutschen Literatur des 15. bis 17. Jahrhunderts, in " Zeitschrift für vergleichende Literaturgeschichte " n.s., VIII (1895); F. Wagner, D. in Deutschland. Sein staatlich-kirchliches Bild von 1417-1699, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XVI (1934); E. Sulger-Gebing, D. in der deutschen Literatur des 18. Jahrhunderts, in " Zeitschrift für vergleichende Literaturgeschichte " n.s., IX (1895) e X (1896); A. Noyerweidner, Das Dantebild im Zeitalter der Aufklärung, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXVIII (1960); E. Auerbach, Die Entdeckung Dantes in der Romantik, in " Deutsche Vierteljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte " I (1929); C.C. Fuchs, D. in der deutschen Romantik, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XV (1933); E. Sulger-Gebing, Goethe und D., Berlino 1907; ID., A.W. Schlegel und D., in " Germanistische Arbeiten " (1902); L. Mazzucchetti, A.W. Schlegel und die italienische Literatur, Zurigo 1917; W. Goetz, Geschichte der deutschen Dantegesellschaft und der deutschen Danteforschung, Weimar 1940; ID., Deutsche Dante- Verleger, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXVI (1946); T. Ostermann, Zur neueren und neuesten Dante-Forschung, in " Romanistisches Jahrbuch Hamburg " IV (1951); ID., D. in Germania e nei paesi di lingua tedesca (1922-1964), in D. nel mondo, Firenze 1965; molto importante il fascicolo dedicato a D. di " Beiträge zur romanischen Philologie " IV 2 (1965); Convegno di studi danteschi. D. e la cultura tedesca, Padova (Università degli studi) 1967. Per i rapporti con le arti figurative: F.X. Kraus, D., Berlino 1897; Bassermann, Orme; L. Volkmann, Iconografia dantesca, Lipsia 1897; ID., in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXI (1939), XXIII (1941), XXV (1943); ID., J.A. Koch, in " Zeitschrift für bildende Kunst " nuova serie, XVII (1905); ID., Die Brüder A.W. und F. Schlegel in ihrem Verhältnis zur bildenden Kunst, Monaco 1897; K. Witte, K.Chr. Vogel zu Vogelstein, in " Jahrbuch der Deutschen Dante-Gesellschaft " Il (1869) 407-408; C.G. Heise, Overbeck und sein Kreis, Monaco 1928; K. Gerstenberg, P.O. Rave, Die Wandgemälde der deutschen Romantiker in Casino Massimo in Rom, Berlino 1934; W. Mathie, Uber Vogels Dante-Illustrationen, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXII (1940); Vogel Von Frommanshausen, C. Vogel von Vogelstein, besonders sein Dante-Illustrationen, ibid. XXV (1943); G.A. Scartazzini, D. in G., II 95-102; W.T. Elwert, Dante-Deutung und Dante-Illustration, Zur Typologie der Dante-Illustration, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XLIV-XLV (1967). Riproduzioni in: G. Locella, D. in der deutschen Kunst, Dresda 1890 (trad. ital. Milano 1891); ID., Dantes Francesca da Rimini in der Literatur, bildenden Kunst und Musik, Esslingen 1913. Poesie italiane di autori italiani su D. tradotte da B. Jacobson, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " VI (1921).

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