GESÙ CRISTO

Enciclopedia Italiana (1932)

GESÙ CRISTO

Leone TONDELLI
Giuseppe FILOGRASSI
Alberto PINCHERLE
Guillaume DE JERPHANION

. Secondo la dottrina cattolica è il Figlio di Dio, seconda Persona della Trinità divina, incarnato e fatto uomo, nascendo da Maria Vergine (v.).

Sommario. - Nome (p. 856); Fonti (p. 856). - Vita, opera e dottrina: Metodo (p. 856); Infanzia (p. 856); Vita pubblica di G.: quadro cronologico (p. 857); Insegnamento morale (p. 857); Insegnamento religioso (p. 859); Il Regno di Dio (p. 860); Redenzione ed Eucaristia (p. 862); Gesù Messia (p. 862); Il Figlio dell'uomo e il Figlio di Dio (p. 863); Gesù nel IV Vangelo (p. 865); Il doppio giudizio di Gesù (p. 865); La passione e la morte (p. 866); La resurrezione (p. 867). - Gesù Cristo nel dogma cattolico: L'unione ipostatica (p. 868); Gesù taumaturgo (p. 870); Carattere di Gesù (p. 871). - La persona di Gesù nella storia del pensiero cristiano (p. 872). - Iconografia (p. 876). - Storiografia critica di Gesù (p. 877).

Nome. - "Gesù" è, attraverso il greco 'Ιησοῦς, l'ebraico EBRAICO, Yeshūa‛, la forma abbreviata, usata dagli Ebrei specialmente in età tarda, di EBRAICO,Y hŏshūa‛, "Giosuè", "Iahvè è salvezza" (v. giosuè). Il nome, nelle due forme, abbreviata e piena, appare portato anche da altri personaggi della Bibbia (cfr. anche Ecclesiastico, XLVI, 1; Filone Aless., Nom. mut., XXI; Matteo, I, 21). "Cristo" è il greco χριστός, nella lingua classica aggettivo verbale ("da ungere", usato per lo più in unione a ϕάρμακον o ἀλέξημα), ma in ambiente giudaico e poi cristiano equivalente di EBRAICO, mashīa "unto" con gli olî fragranti, com'era presso gli Ebrei l'eletto a particolari dignità: quindi, concettualmente, il "messia", l'"eletto" per eccellenza atteso dall'ebraismo (cfr. i Settanta, in Salmo II, 2 a). (V. messianismo).

Fonti. - I documenti piò importanti per la ricostruzione della vita e del pensiero di G. sono i quattro Vangeli di Matteo (v.), Marco (v.), Luca (v.), Giovanni (v.). Fra essi i tre primi hanno pure nome di "sinottici", perché presentano la vita e la dottrina di G. in forma parallela e in uno stesso fondamentale quadro cronologico. Qui si citerà spesso per brevità uno solo dei tre, anche quando gli altri hanno testi paralleli (indicati nelle edizioni migliori). Parlandosi d'un racconto o d'una idea dei "sinottici", s'intende parlare di elementi comuni ai tre primi Vangeli. Per la cosiddetta "questione sinottica", v. sinottici, vangeli.

Gli Atti degli Apostoli (v.), avendo lo stesso autore del terzo Vangelo, hanno poco in aggiunta; ma sono importanti perché riflettono sulla persona di G. le idee e la vita della chiesa di Gerusalemme nei primi decennî della propaganda cristiana. S. Paolo nel suo epistolario segue l'ingegnamento morale di G. anche nella forma, probabilmente attingendo a una fonte scritta. Della vita di G. egli tocca i punti fondamentali: G., secondo Paolo, nacque "dal seme di David secondo la carne" (Romani, I, 3); "si fece povero" (III Corinzî, VIII, 9); prese "forma di schiavo" (Filippesi, II, 7). Da lui narrata distesamente è l'istituzione dell'Eucaristia (I Cor., XI, 17-34), come accennate copiosamente sono le apparizioni di G. risorto (I Cor., XV,1-11); importantissimo quest'ultimo passo, come dimostrazione dell'uniformità delle tradizioni apostoliche. Sparsi sono diversi insegnamenti riferiti espressamente a G.: sul secondo avvento nella I e II Tessalonicesi; sull'indissolubilità del matrimonio (I Cor., VII, 10), sull'amore fraterno (I Tessal., IV, 9), sulla preghiera, ecc. Ma la teologia stessa di Paolo è cresciuta sul pensiero di G. che "fu fatto a noi sapienza da Dio" (I Cor., I, 30).

Importanti come tradizioni del pensiero cristiano la Didachè (v. apostolo) e i Padri dei tempi apostolici.

Notevoli i frammenti di raccolte di sentenze di G. trovati a Ossirinco in Egitto (Logia Iesu) e in papiri altrove riesumati. Essi sono raccolti insieme con altre tradizioni tardive sotto il nome consueto di Agrapha (v.).

Accanto ai Vangeli canonici crebbe un'abbondante letteratura apocrifa, di cui si sono conservati frammenti. Essa è inutilizzabile affatto per la ricostruzione del pensiero e della vita di G., mentre serve a conoscere le idee e le tendenze di speciali ceti o conventicole del cristianesimo (v. apocrifi, libri). Creazione tardiva è la lettera di G. ad Abgar (v.).

Le fonti non cristiane sono estremamente rare. Alle occulte e modeste sorgenti del cristianesimo i grandi storici del sec. I portarono poca attenzione e vi fecero al più qualche accenno, stravolto dalle incomprensioni popolari. Tacito, Ann., XV, 44: "Il fondatore di questa setta, il Cristo, aveva sofferto il supplizio sotto il regno di Tiberio, per ordine del procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente repressa, la funesta superstizione si scatenò di nuovo, non solamente nella Giudea, culla del male, ma in Roma stessa". (Sulla genuinità e le fonti di Tacito, cfr. A. Harnack, Der jüdische Geschichtschreiber Josephus und Jesus Christus, in Intern. Monatschrift, giugno 1913, per la tesi che Gius. Fl. abbia servito di fonte a Tacito; e la risposta di E. Norden, Josephus u. Tacitus über Jesus Christus und seine messianische Prophetie, in Neue Jahrbücher für das klassische Altertum, XXXI, 1913, pp. 637-666. P. Batiffol, in Orpheus et l'évangile, Parigi 1910, congetturava come fonte di Tacito le Historiae - perdute - di Plinio il Vecchio). Svetonio, Claud., 25: Claudio "cacciò da Roma i Giudei in continuo tumulto a istigazione di Cresto" (v. Atti, XVIII, 3); Nero, 16. Se i tumulti in varie parti dell'Impero cui accenna Claudio in una lettera agli Alessandrini dell'anno 41, edita da M. Idris Bell, Jews and Christians in Egypt (Londra 1924), si riconnettessero con il movimento cristiano, è assai dubbio, per quanto non da escludersi completamente. Che Chrestus vada identificato con Cristo si può ritenere certo; i seguaci di G. furono chiamati chrestiani sino verso il 200. - La lettera di Plinio il Giovane (Plinii Secundi Epistularum, I, x, 96, ed. Müller, Lipsia 1903) riguarda già più il cristianesimo che Gesù.

Minor rilievo ancora hanno le fonti rabbiniche, del resto tardive e generiche. I testi, che possono servire più per la conoscenza dell'atteteggiamento giudaico verso il cristianesimo che per la storia di G., possono trovarsi presso R. Travers Herford, Christianity in Talmud and Midrash (Londra 1905), e in J. Klausner, Jesus of Nazareth (Londra 1925). L'autenticità del testo di Giuseppe Flavio, Ant., XVIII, 3, 3, ha trovato sempre sia partigiani sia avversarî. La maggioranza, con maggiore probabilità, sostiene una tesi media, di elementi interpolati in un brano genuino. Il Berendts nel 1906 pubblicò alcuni nuovi elementi conservati in codici della versione del De Bello iudaico in antico russo: Die Zeugnisse vom Christentum im slavischen "De Bello judaico" des Josephus (in Texte und Untersuchungen, n. s., XIV, 4, Lipsia 1906); ma nessuno li prese in seria considerazione prima che R. Eisler, 'Ιησοῦς βασιλεὺς οὐ βασιλεύσας (Heidelberg 1928-1930, voll. 2) cercasse di dimostrarne l'autenticità, sconvolgendo la storia di Giovanni Battista e di G., il quale sarebbe stato un rivoluzionario a capo di forze armate contro i Romani. Ma anche l'Eisler non sembra aver ottenuto che il proprio suffragio, oltre a quello di S. Reinach (recensione in Rev. des études juives, aprile-giugno 1929); un esame definitivo di R. Draguet, Le juif Josèphe temoin du Christ? (in Rev. Hist. Eccl., XXVI, 1930, pp. 833-879) di M. J. Lagrange (in Rev. Biblique, XXXIX, 1930, pp. 28-46) meno deciso A. Goethals, Anti-Eisler (Parigi 1932). - Interpolato, da mano cristiana, è pure il testo dei Libri Sibillini, V, vv. 256-259.

Vita, opera e dottrina.

Metodo. - L'esposizione che segue è fondata specialmente sui Vangeli, ritenuti e usati come sicure fonti storiche secondo la grande tradizione cristiana, le cui basi documentarie e il cui valore sono esposte e valutate negli articoli dedicati ai singoli Vangeli. Le tesi della critica indipendente in cui si rileva la tendenza a considerare le fonti evangeliche come espressioni delle credenze delle prime generazioni cristiane piuttosto che del pensiero di G., come in genere le questioni controverse, sono esposte solo di rado e succintamente: sia per l'impossibilità di condurre qui una discussione minuta e precisa indicando per ciascuna delle tesi contrastanti le basi specifiche di critica letteraria sulla composizione e il valore delle fonti, sia perché ogni sistema critico si forma una ricostruzione complessiva e organica dell'opera di G. e del sorgere del cristianesimo, che non si può scomporre o proporre isolatamente nei suoi particolari senza distruggerlo. Si è perciò preferito esporre a parte (v. sotto, Storiografia critica), nel loro susseguirsi storico, i diversi sistemi. Una succinta esposizione di tesi opposte è fornita solo in relazione a qualche punto di speciale importanza.

Infanzia. - Gesù nacque a Betlemme (v.) tra gli anni 747-49 dalla fondazione di Roma, da 7 a 5 anni avanti l'era volgare La sua famiglia, discendente dalla dinastia di David (v.), s'era fissata a Nazaret (v.); ma un censimento (Luca. II, 1-3) ordinato da Cesare Augusto ta obbligò in prossimità della nascita di G. a portarsi al luogo donde era originaria, cioè a Betlemme.

Nove mesi prima della nascita l'angelo Gabriele (v.) era apparso a una vergine di nome Maria (v.), fidanzata (o sposata) a un uomo di nome Giuseppe (v.), del casato di David, salutandola e annunciandole (v. annunciazione) che sarebbe stata madre del Messia: rispondendo poi alle preoccupazioni verginali di lei, le assicurò che la concezione del nascituro sarebbe dovuta esclusivamente alla potenza dell'Altissimo. Le indicò insieme il nome da imporre al fanciullo, "Gesù".

Recatasi Maria con Giuseppe a Betlemme in occasione del censimento, né avendo trovato posto al pubblico ricetto, diede alla luce il figlio in una grotta (o stalla), mentre angeli annunciavano ai pastori dei dintorni la sua nascita, cantando "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di retta volontà".

Portato a Gerusalemme e presentato al Tempio, secondo la legge ebraica circa i primogeniti, fu riconosciuto come "luce delle genti e gloria del suo popolo" da un pio vecchio di nome Simeone. A Betlemme ebbe pure il riconoscimento dai Magi, venuti dall'Oriente seguendo una stella misteriosa loro apparsa.

A questo inizio d'assoluta umiltà e povertà, ma insieme segnalato da luminosi interventi sovrannaturali, segue un periodo di silenzio e nascondimento. Perseguito a morte dal sospettoso Erode il Grande (v.), cui erano arrivate voci della nascita d'un fanciullo predestinato Messia, viene condotto in Egitto, donde ritorna sotto Archelao, fissandosi a Nazaret. La storia della sua adolescenza viene riassunta dall'evangelista con la frase che G. andava crescendo "in sapienza e grazia presso Dio e presso gli uomini": sottomesso ai genitori, esercitava il mestiere di Giuseppe. Non frequentò le scuole rabbiniche, se non forse quelle elementarissime della sinagoga di Nazaret. Rapporti, puramente congetturali, con gli Eiseni (v.) sono oggi da tutti esclusi. Solo una fugace manifestazione del suo pensiero illustra questo periodo, allorché a dodici anni d'età, rimasto nel tempio di Gerusalemme, manifesta ai suoi che egli deve interessarsi delle cose del Padre suo.

Il racconto dell'annuncio e della nascita di G., come di quella di Giovanni Battista (v.), è dato da Luca, II-II; i due capi, che di solito si ritengono attinti da una fonte di origine palestinese, sono capolavori di delicatezza e di poesia. La principale informatrice dei fatti, com'è suggerito dal testo, è Maria stessa: "e la madre di lui conservava tutte queste parole nel suo cuore" (Luc., II, 51 cfr. 19).

S'è avvicinata la concezione verginale di G. alle "partenogenesi pagane: ma occorre osservare che: a) il racconto è originato in un ambiente ebraico, in cui i rapporti sessuali tra divini e umani erano considerati come la piu grande degenerazione del concetto del divino; b) il cristianesimo non mutò il concetto dell'assoluta spiritualità divina, e G. secondo il racconto è concepito per virtù dello Spirito; c) è nel racconto un'impronta di verginale delicatezza che è proprio l'opposto della passionalità trasferita negli dei dalle mitologie pagane.

Di Gesù sono date due genealogie nei Vangeli, indipendenti e divergenti in varî punti l'una dall'altra. Esse hanno lo scopo di mostrare la discendenza di Gesù da David e da Abramo, da cui era profetizzata la discendenza messianica. Sembrano entrambe d'origine palestinese. Per conciliarle si è supposto: o che intervenga la legge ebraica del "levirato" (Deut., XXV, 5-6; tale soluzione fu sostenuta sulla testimonianza di consanguinei di Gesù da Giulio Africano, al principio del sec. III, in Eus., Hist. Eccl., I, 7); o che Matteo dia la genealogia paterna di Giuseppe, mentre Luca presenterebbe la genealogia di Maria, da cui solo nacque Gesù.

Il viaggio a Betlemme per il censimento, e l'essere salutato G. come "figlio di David" già durante la sua vita, garantiscono la sua origine davidica. Se oltre Giuseppe anche Maria fosse di origine regale è discutibile, per quanto probabile. L'accusa fatta al testo di Luca (II, 1-2) d'aver confuso il censimento di Quirinio dell'anno 6 d. C. con altro ignoto o non esistito, perde del suo valore dinnanzi alla netta distinzione fattane dall'autore. Per nuovi documenti non è più sostenibile la nota di inverosimiglianza del gravame imposto a ogni famiglia di recarsi per censirsi nel luogo d'origine: era un costume, constatato per il sec. I in papiri egiziani, i quali ci mostrano pure la frequenza periodica dei censimenti.

L'èra volgare, il cui inizio fu fissato all'anno 754 di Roma da Dionigi il Piccolo (v.), nel sec. VI, parte da un inizio errato: poiché secondo i dati biblici G. nacque nel regno di Erode: ora è sicuro che Erode morì avanti la Pasqua del 750 di Roma, l'anno 4 a. C.

Vita pubblica di G.: quadro cronologico. - Gesù rivelò i suoi propositi e la sua missione messianica all'età di trent'anni (Luc., III, 23). Il suo manifestarsi fu predisposto dal ministero di Giovanni Battista, di cui G. favorì il movimento di preparazione all'avvento dei tempi nuovi nella penitenza e al cui battesimo egli stesso volle sottomettersi. Quel battesimo fu considerato alle origini della Chiesa come la consacrazione di G. a Messia: la consacrazione materiale veniva sostituita dalla discesa visibile su lui dello Spirito Santo, e dalla proclamazione dell'Altissimo: "Questi è il mio figlio diletto, in cui mi compiacqui".

Questa rivelazione diede un nuovo indirizzo alla predicazione del Battista, che indicò G. come "l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo" e ne delinea la grandezza. G. frattanto si ritirò nel deserto per un digiuno di 40 giorni, con l'unico pensiero di Dio, nella meditazione dell'opera che stava per iniziare, ben più vasta e profonda di quella di Mosè, mentre Satana tentava in varie maniere di distoglierlo dalla via divinamente fissatagli.

Dal deserto egli uscì annunciando: "Fate penitenza, perché il Regno di Dio s'è approssimato". La durata della vita pubblica può fissarsi in tre anni e mezzo circa, secondo altri in due e mezzo. I tentativi recenti (ma già presso Ireneo) di ridurla entro l'ambito di un solo anno, hanno trovato limitati consensi.

La vita pubblica si svolge apparentemente in un anno presso i Vangeli sinottici, i quali narrano gli avvenimenti di una Pasqua sola celebrata da G. a Gerusalemme e chiusa dalla tragedia del Calvario. Nel IV Vangelo invece la predicazione di Gesù a Gerusalemme si rinnova in quattro (o tre) successive solennità pasquali (Giov., II, 13; V, I (?); VI, 4; XIlI, I). Ma secondo la critica cattolica e quanti non ripudiano il carattere storico del IV Vangelo (il Belser nel suo tentativo di ridurre la cronologia di Giovanni a un anno non ebbe seguito), si hanno prove presso gli stessi sinottici di un ministero più lungo. Anzitutto, l'invocazione di Gesù a Gerusalemme: "Gerusalemme... quante volte volli raccogliere i tuoi figli come la chioccia i suoi pulcini e non volesti" (Matt., XXIII, 37; Luc., XIII, 34): frase ritenuta inintelligibile nel caso che Gesù non avesse ancora predicato nella capitale. La parabola del fico infruttuoso supporrebbe pure la durata di tre anni della vita pubblica: "Ecco sono tre anni da che vengo a cercar frutto da questo fico, e non ne trovo" (Luca, XIII, 6-9). La cronologia del IV Vangelo è già difesa, in confronto di quella di Marco, da Giovanni il Presbitero in un testo di Papia (presso Eus., Hist. Eccl., IlI, 39). I teorici dell'escatologismo propendono volentieri per un periodo brevissimo, supponendo in G. tale stato di febbricitante attesa da non potere durare a lungo. Per altre scuole, invece, i sinottici dànno appoggio alla cronologia giovannea. Anche più complessa, e assai dibattuta, la questione della collocazione, in questo quadro cronologico, degli avvenimenti narrati dai Vangeli. Così la cacciata dei mercanti dal Tempio, collocata dai sinottici verso la fine del ministero pubblico di G., è posta dal IV Vangelo (II, 13 segg.) verso l'inizio, con riferimento, secondo alcuni, alla raffigurazione di G. che sarebbe propria di questo (v. sotto); a meno che non si tratti, come pensano altri, di un fatto ripetuto. Ma la questione riguarda piuttosto i rapporti tra le fonti e il loro carattere: l'insegnamento e l'opera di G. non subiscono modificazioni sostanziali da una diversa disposizione di alcuni fatti (per le idee della "scuola escatologica", v. sotto: Storiografia critica).

Insegnamento morale. - Gesù fu chiamato "maestro", il maestro" (ebr. rabbī, "mio maestro") durante la sua vita. Effettivamente egli ha un proprio insegnamento morale e religioso e una sapienza della vita che si distinguono profondamente dalla legge mosaica e dalla saggezza dei libri sapienziali ebraici. La dottrina morale è riassunta principalmente nel "discorso del monte" (Matteo, V-VII, 29; Luca, VI, 20-40), in cui G. espone l'idea della nuova "giustizia" abbondante più di quella degli scribi e dei farisei, necessaria per entrare nel "Regno dei cieli". Il discorso s'inizia col proclamare beati i poveri, che siano tali anche nel loro spirito alieno dall'avidità delle ricchezze, i mansueti, coloro che piangono, quelli che hanno fame e sete della giustizia (in Luca sono indicate la fame e la sete fisica come sequela della povertà), i misericordiosi, i puri di cuore, i pacifici, i perseguitati per amore della giustizia. Di costoro è il Regno dei cieli, e si promette ad essi che la loro sete di giustizia sarà saziata.

Nel testo di Luca si contrappongono minacce (Οὐαὶ, vae) ai ricchi, ai satolli, a quelli che ridono e hanno gli applausi delle folle. La contrapposizione di ricchi e poveri, di gaudenti e sofferenti, e del diverso giudizio di Dio a loro riguardo, trova nitida illustrazione nella parabola dell'epulone, che non ha verso il mendico la pietà che mostrano i cani (Luca, XVI, 19-31). La ricchezza rende difficicile l'entrare nel regno dei cieli: "è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago", benché presso Dio tutto sia possibile. L'affermazione è in Matteo, XIX, 16-26; ciò che si oppone all'idea di alcuni critici che attribuirono a Luca speciali tendenze ebionite. "Non potete servire a Dio e al Mammona (ricchezza)" (Matteo, VI, 24): perché la ricchezza s'impadronisce dell'uomo e si mette al posto di Dio; distoglie dalle preoccupazioni dello spirito e difficilmente si concilia con la generosità che G. esige verso i sofferenti. Gli uomini sono invitati a cercare il loro "tesoro" nel cielo, a farsi presso Dio degli amici beneficando i poveri. La carità usata verso i sofferenti è usata verso G. stesso; il giudizio finale si farà soprattutto sulla base della carità usata verso di lui, cioè verso gl'infelici. Le ricchezze sono come spine che soffocano il grano della "parola" divina: tersissima in tal senso la parabola del "convito" in Luca, XIV, 16-24. Vendere i proprî beni non è obbligo, ma atto di perfezione: "se vuoi essere perfetto..." (Matt., XIX, 21; Atti, V, 4). Compaiono nel Vangelo ricchi che sono elogiati, come Zaccheo (Luca, XIX,1-10) e Giuseppe di Arimatea (Matt., XXVII, 57 segg.).

Egualmente è combattuta l'avidità della lode. Occorre fare il bene nel nascondimento; se si fa "elemosina" (nel senso di usare compassione) "non sappia la tua sinistra quel che fa la destra" (Matt., VI, 3): se si prega, non si vada agli angoli delle strade, ma nella camera e si chiuda l'uscio: similmente digiunando "profùmati il capo" (Matt., VI, 17). Né alcuno può vantare la propria giustizia dinnanzi a Dio (parabola del pubblicano e del fariseo in Luca, XVIII, 10 segg.); verso Dio siamo tutti debitori insolventi di somme enormi (parabola dei servi e dei debitori in Matt., XVIII, 23-35). "Lèvati prima la trave dall'occhio tuo, e allora vedrai di levare la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello" (Matt., VII, 5); "non vogliate giudicare, affinché non siate giudicati" (Matt., VII, 1).

Base di tutto l'insegnamento è l'amore. Il primo e più grande comandamento è quello di amare Dio con tutto il cuore e le forze, e il secondo è simile al primo: amare il prossimo come sé stessi (Matt., XXII, 37-40). La regola fondamentale di G. è: "Tutto quanto desiderate vi facciano gli uomini, questo stesso voi fate agli altri" (Matt., VII, 12). "Da' a chi ti chiede: e non voltare il dorso a chi vuol chiederti un prestito" (Matt., V, 42). È meglio dare che ricevere" è un prezioso detto di Gesù sfuggito alle raccolte dei Vangeli, ma ricordato da Paolo in Atti, XX, 35. L'amore si deve estendere ai nemici: "fate del bene a coloro che vi odiano..." (Matt., V, 44); in tal modo si sarà "figli del Padre ch'è nei cieli " e "perfetti" come lui (Matt., V, 45-48). Questo concetto dell'"imitazione" di Dio, sostanzialmente nuovo, si duplica con quello dell'imitazione del Maestro: "Siate miti e umili di cuore come sono io"; "chi tra voi vorrà essere primo sia vostro servo: come il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita a redenzione di molti" (Matt., XX, 28). Simile senso ha la lavanda dei piedi ai Dodici (Giov., XIII, 2-16). L'obbligo del perdono e dell'amore dei nemici - di cui Gesù stesso darà esempio verso Giuda: "Amico, che venisti a fare?" e verso i giudici che lo beffeggiavano morente: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che si fanno" - viene completato dalla regola di "non resistere al malvagio" (Matt., V, 39). Il principio e lo scopo della regola sono espressi da Paolo: "non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene" (Rom., XII, 21). L'amore nuovo deve superare anche le rivalità nazionali, come è espresso nella parabola del Samaritano (Luc., X, 30-37).

Un amore singolare, nuovo, ha G. per i fanciulli e per i peccatori. Dei fanciulli egli difende la coscienza dagli scandalosi, affermando che meglio sarebbe per questi venissero sprofondati nel mare (Matt., XVIII, 6, 10). Presenta i piccini come modello di semplicità e umiltà: "Se... non diventerete come pargoli non entrerete nel Regno dei cieli" (Matt., XVIII, 3-4). "Non impedite loro di venire a me; ché di essi è il Regno dei cieli, (Matt., XIX, 14).

Sua missione è quella di richiamare i traviati per ogni strada del male. E circondato da peccatori e peccatrici convertiti: e ai farisei, che gl'rimproverano quegli impuri contatti, risponde ch'egli "è venuto per cercare non i giusti, ma i peccatori"; non hanno bisogno del medico i sani, ma i malati. Regolarmente avanti la guarigione del corpo egli pone la guarigione dell'anima. Le parabole del figliol prodigo e della pecorella smarrita sono capolavori di bontà e di delicatezza.

Esaminata la condotta degli uomini al riflesso di questi principî, il "mondo" gli appare pieno di tenebre. Tutto il mondo è dominato dal male e dal rappresentante suo, Satana. I discepoli suoi ricevono perciò una missione senza confini: "voi siete il sale della terra...; voi siete la luce del mondo..." (Matt., V, 13-14). Essi sono "i figli della luce" contrappostì "ai figli delle tenebre", benché questi siano spesso più prudenti nel genere loro. Perché per l'acquisto del Regno dei cieli e della sua giustizia tutto occorre sacrificare. Il mercante che ha rintracciato una perla preziosa, vende tutto quanto ha per comperarla (Matt., XIII, 45-46). Se l'occhio fosse ad alcuno di scandalo conviene cavallo e gettarlo via, perché "è meglio entrare nella vita eterna con un occhio solo, che con due occhi essere gettato nel fuoco dell'inferno" (Matt., XVIII, 9). Ai pavidi egli insegna la via del martirio: "Non temete quelli che uccidono il corpo..." (Matt., X, 28); "chi ha cara la sua vita, la perderà" (Matt, X, 39).

Alla legge mosaica e a sue interpretazioni correnti G. contrappone il suo insegnamento. Così, riguardo al comandamento "Non uccidere", G. non proibisce solo l'atto violento, ma insiste sulla delittuosità anche dell'ira e dell'insulto al proprio fratello (Matt., V, 21-27). Riguardo al comandamento "Non fare adulterio", insegna: "Ma io vi dico: Chiunque guarda una donna disonestamente, in cuor suo ha già commesso adulterio" (Matt., V, 27 segg.). Sconvolta è pure la legge del taglione che diceva "occhio per occhio, dente per dente" (Matt., V, 38 segg.).

Non ch'egli intenda abolire la legge ebraica: "Non crediate che io sia venuto per abolire (καταλῦσαι) la Legge o i Profeti, ma per compirli (πληρῶσαι)" (Matt., V, 17-18). Effettivamente, contro la legge mosaica egli non riconosce il divorzio, spostando le discussioni delle scuole dai testi della legge relativi al divorzio, al primo disegno del Creatore: "Ciò che Dio congiunse, l'uomo non divida" (Matt., XIX, 3-12 e parall.). Nei testi (Matt., V, 32 e XIX, 9) in cui sembra eccettuarsi il caso dell'adulterio della donna l'esegesi cattolica vede la permissione di un rimando della donna senza soluzione del vincolo (v. divorzio); ciò che può trovare conferma nei testi paralleli degli altri evangelisti e di s. Paolo. G. trascura pure le leggi di purificazione: così nel Vangelo, che deve essere norma della nuova giustizia, non si trova traccia delle leggi civili mosaiche, né alcuna insistenza sulle leggi cultuali. Alla lettera della Legge o a sue interpretazioni egli contrappo. ne l'insegnamento del più perfetto concetto divino che la ispirava. Ne consegue che la legge nella sua letteralità è sconvolta. Al permesso del libello di ripudio è opposto il primitivo disegno divino del matrimonio. Alla proibizione "Non uccidere" o alla legge del taglione che imponeva una misura di giustizia nella vendetta si oppone la nuova legge dell'amore e del perdono. Il "compimento (τὸ πλήρωμα, conforme al testo del Vangelo) della legge è l'amore" commenta Paolo (Rom., XIII, 10; cfr. Gal., V, 14): ciò che ripete il pensiero di G., per il quale dai comandi dell'amore di Dio e del prossimo "dipende tutta la Legge e i Profeti" (Matteo, XXII, 40).

Non è che G. opponga a una legge, che era insieme morale e civile, una legge civile propria. Egli non intende presentare un codice di governo, ma trasfigura i principî e i sentimenti degli uomini, perché ne siano poi trasfigurati i costumi e le legislazioni future. Un codice civile è di sua natura contingente e nazionale: G. invece espone dei principî che superano i confini di tempo e di spazio. Si deve a ciò la diffusione del Vangelo fra i non Ebrei. Se G. non insegnò formalmente, come Paolo, la decadenza della legge mosaica, occorre riconoscere che quel decadere era nel suo pensiero.

Al rabbinismo e al fariseismo, che si erano formati un culto della legislazione mosaica e delle "tradizioni dei padri", G. oppone la novità sostanziale del proprio insegnamento: "Nessuno cuce sopra un vestito vecchio un pezzo di panno nuovo,... e nessuno mette il vino nuovo in otri vecchi..." (Marco, II, 21-22). La forma stessa è nuova. Il suo insegnamento non è un commentario, né una raccolta di sentenze di dottori, come il Talmūd: esso è personale, tessuto d'affermazioni recisamente presentate come rivelazioni divine. Se non era infrequente nei dottori ebrei la brevità del sentenziare e la forma parabolica, le sentenze di G. sono sovente espresse in una forma paradossale, che dà rilievo possente all'idea; anzi, le parabole raggiungono tale perfezione di concetto e di forma, che nessuno nel mondo cristiano osò imitarle. Nelle comunità nuove di cristiani l'insegnamento ha quale elemento essenziale la "via del Signore", che forma il codice della vita nuova già nella Didachè (v. apostolo, III, p. 710 seg.). Le dottrine del sacrificio di sé per gli altri, dello spirito di povertà, di umiltà, di purezza, l'ideale di farsi servi degli altri, l'imitazione di Dio e del Maestro penetreranno nelle anime più a fondo di qualsiasi filosofia, muteranno costumi, addolciranno e nobiliteranno rapporti familiari e sociali, creeranno eroismi di vergini e martiri, faranno fiorire nel paganesimo "privo di misericordia" (Rom., I, 32) le multiformi opere di carità che si volgeranno con delicatezza amorosa a tutti i dolori umani.

Insegnamento religioso. - Oltre all'amore per i fratelli, G. ha rinnovato l'amore a Dio. Non si potevano "amare" gli dei pagani, e anche Iahvè era più temibile che amabile. L' amore è invece la nota dominante della nuova religione. G. desume dall'Antico Testamento il comando: "Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima tua, con tutta la tua mente"; ma dà ad esso impronta e argomenti nuovi da trasfigurarlo. Amare gli uomini e le creature, e non amare Dio mentre "egli solo è buono" (Matteo XIX, 17), è contraddittorio. Dio è il "Padre": la sua provvidenza si estende amorosa e delicata agli esseri più insignificanti, e sorveglia tutte le lotte dell'uomo. "Sino i capelli del vostro capo sono tutti contati" dirà in un'istruzione ai Dodici, ai quali predice tuttavia persecuzioni e morte (Matt., X, 30).

Riconoscere Dio come padre implica il dovere della fiducia e dell'abbandono filiale. Egli, che nutre gli uccelli dell'aria e ammanta di splendidi colori i fiori dei campi, provvederà ai suoi figli che valgono più di "due passeri". Per questo nel "Padre Nostro", G. insegna a domandare il pane quotidiano (ἐπιούσιος: la voce si trova solo in Matt., VI, 11 e Luca, XI, 3: derivazioni più accolte da ἐπὶ τὴν οὖσαν [ἡμέραν] "per l'oggi"; ovvero dal corrente ἡ ἐπιοῦσα "il dì che sopravviene", che può essere il giorno stesso che sta per svolgersi; una terza da ἐπὶ τὴν οὐσίαν, spiega il superessentialis o supersubstantialis delle versioni latine, specie in Matt.). La povertà, le lotte, il martirio non sono una difficoltà contro la provvidenza divina: anzi beati i poveri e i perseguitati perché saranno consolati e loro è il Regno dei cieli.

L'occhio di Dio si posa soprattutto sugli umili e i piccoli: "Ti ringrazio, o Padre, perché hai tenute occulte queste cose ai dotti e sapienti, e le hai svelate ai piccoli" (Matt., XI, 25).

Si fa festa in cielo più per un peccatore che si converte, che non per molti giusti che si mantengono tali: è quanto insegnano le parabole della dramma ritrovata (Luca, XV, 8 segg.), del figliol prodigo (Luca, XV, 11 segg.), della pecorella smarrita (Matt., XVIII, 12 seg.), del vero pastore e del mercenario (Giov., X, 1 segg.). Ciascuno deve presentare il fruttato dei doni ricevuti: a chi sotterra il talento a lui dato da Dio, tutto sarà tolto (Matt., XXV, 24-30). Il fico infruttuoso sarà sradicato e buttato al fuoco (Luca, XIII, 6-9). A tutte le ore il padrone ricerca e manda operai nella sua vigna: e a tutti darà la ricompensa, a cominciare dagli ultimi (Matt., XX, 1-16). Prendendo l'immagine d'un pagamento in frumento, la ricompensa data dal Padre sarà "colma, scossa e calcata". Ma vi sarà il tormento per chi non ha avuto cuore (Matt., XXV, 31-46) e non è tornato alla voce di G. La ricompensa è presentata sotto diversi aspetti e simboli. È il "Regno dei cieli" (Matt., V, 3 segg.; V, 12). I giusti splenderanno "come il sole nel regno del loro Padre" (Matt., XIII, 43) preparato per loro "fin dalla fondazione del mondo" (Matt., XXV, 34). È come un convito (Luca, XIV, 15). È la casa del Padre nel quale sono molte dimore (Giov., XIV, 2); è il "seno d'Abramo" (Luca, XVI, 19-31). I morti risusciteranno (Matt., XXII, 30 segg.), saranno "come angeli in cielo" (Marco, XII, 25). È infine "la vita eterna".

Il castigo è la "Geenna" (v.). A coloro che per G. affamato, ignudo, infermo - tale cioè nei poveri suoi - non hanno avuto pietà, il Figlio dell'uomo dirà all'estremo giudizio: "Via da me, maledetti, al fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli" (Matt., XXV, 41). Eterno è il castigo: dal luogo della felicità a quello dei tormenti vi è un abisso che non si può traghettare (Luca, XVI, 26). Per la vita celeste tutto occorre sacrificare. È saggezza dare la propria vita, perché chi amerà la vita (terrena) la perderà (eterna). Gli uomini accumulino "tesori in cielo": è da stolti il gioire per beni, che nella notte si dovranno forse lasciare (Luca, XII, 13-21).

I doveri verso Dio comprendono la preghiera, in cui come prime domande devono figurare l'onore del Padre, l'avvento del suo Regno e il perdono per quanto verso di lui si è mancato. Non è quindi solo domanda interessata: ma espressione d'amore al Padre e d'adesione alla sua volontà, meditazione dei problemi che interessano il Regno divino della giustizia e dell'amore nel mondo, umile pentimento delle proprie colpe unito con il perdono verso i fratelli. G. passa in preghiera il primo mattino in qualche luogo solitario; digiuna quaranta giorni avanti d'iniziare la vita pubblica; si ritira su un monte avanti la scelta dei Dodici, il primo nucleo che s'associa nella sua missione; passa tre ore nel Getsemani, ripetendo a varie riprese al Padre: "sia fatta la volontà tua, e non la mia". Nei diversi bisogni della vita, dobbiamo però ricorrere con fiducia e costanza al Padre, perché è migliore dei padri terreni che pur essendo cattivi sanno dare cose buone ai figlioli (Matt., VII, 9-11). Non basta però esclamare: "Signore! Signore!", ma occorre "fare" la volontà del Padre. Per lui ciò è come "il suo cibo".

La rivelazione di un'amorosa paternità divina è così preminente, che si è potuto vedervi l'idea essenziale del cristianesimo. Anche l'Antico Testamento aveva usato verso Dio il titolo di Padre, ma piuttosto nei rapporti del "popolo" che non dei singoli. L'amore a Dio acquista nell'anima di Gesù e nel cristianesimo tale tenerezza fiduciosa, una sì viva coscienza dell'amore provvidenziale divino, che è vano cercare nell'antica pietà ebraica; il concetto della redenzione allarga poi all'infinito quell'amore. Dio non è più solo l'eterna Sapienza e l'eterno Vero, ma è Carità, l'eterno Amore. È la definizione data dal discepolo di Gesù, che più profondamente di ogni altro ne comprese il pensiero (I Giov., IV, 16).

Il culto stesso è trasformato: non più sul monte Garizim (il luogo preferito dai Samaritani) o a Gerusalemme (ove sorgeva l'unico tempio legittimo della religione ebraica) si è obbligati ad adorare Dio, poiché Dio ricerca "adoratori in spirito e verità" (Giov., IV, 24). Si comprende come le forme cultuali della religiosità pagana, e il culto stesso giudaico, dovessero sparire dinnanzi a siffatta concezione religiosa e al suo culto spirituale.

Il Regno di Dio. - Alcuni punti delle dottrine morali e rengiose di G. hanno particolare importanza per comprendere la missione di G. e il concetto suo del nuovo Regno di Dio. Se il mondo è nelle tenebre, G. è "la luce" (Giov., VIII, 12; ma anche Luca, II, 32, e Atti, XIII, 47). Non egli solo: ché anche i discepoli sono "la luce del mondo..., il sale della terra"; essi devono essere la lampada posta sulla mensola perché illumini tutta la casa; devono essere come una città costruita su un monte, che non può nascondersi (Matt., V, 13-16). Nel mondo c'è odio invece d'amore: vi sono giovinezze che prodigano in una vita lussuriosa le sostanze loro date dal Padre: la stessa religiosità ebraica, guidata dagli scribi e dai farisei, s'è trasformata in superbia e ipocrisia, mentre il popolo minuto è come "un gregge senza pastore": Dio è ancora quasi un ignoto, poiché non lo si conosce e non lo si ama come padre. Non invano Satana, mostrando a G., nelle tentazioni, i regni della terra, dirà: "Io ti darò tutto questo potere e la gloria di essi: ché a me sono stati dati e li dò a chi voglio" (Luca, IV, 6). Il Regno di Dio s'afferma e cresce in quanto la forza del Maligno è vinta e atterrata (Matt., XII, 24-29; Luca, X, 18).

Nella frase "Regno dei cieli" (EBRAICO: è frase rabbinica che designa la sovranità di Dio) usata costantemente in Matteo, "i cieli" sono sostituzione del nome divino: la prova si ritrova in Marco e Luca, che nei testi paralleli parlano sempre di "Regno di Dio". La modificazione della frase ebraica usata da G. ha lo scopo di evitare a lettori greci una confusione: quella cioè di trasportare nei cieli, e confondere con il regno degli eletti in una vita oltremondana, un Regno di Dio che doveva svolgersi sulla terra mediante il ritorno a Dio e al bene delle anime traviate. Ora, traviati, per Gesù - come per Paolo - sono tutti. La prima forma con cui G. ai primi chiamati all'apostolato esprimerà la loro futura missione sarà questa: "Vi farò pescatori d'uomini" (Matt., IV, 19). È un regno quindi spirituale quello che egli vuole instaurare con l'opera sua e dei suoi. Paolo, che percorre le vie della gentilità, misurerà, nella lettera Ai Romani e alla luce del Vangelo, l'abisso in cui è caduta l'umanità e traccerà le linee della rigenerazione dell'uomo in Cristo. Se Dio è "Verità" e "Amore", occorre confessare che allora Dio aveva un regno molto limitato e c'era luogo per il suo avvento.

La teoria recente chiamata "escatologica", esposta per la prima volta da Giovanni Weiss e seguita poi da molti, attribuisce a Paolo e a Giovanni, o alle prime comunità, questa "interpretazione" spirituale del Regno di Dio. Secondo il pensiero di G. il Regno di Dio invece doveva intendersi in conformità con i sogni dell'apocalittica giudaica, come il termine della storia per il regno eterno dei santi e degli eletti nel ritorno trionfale di lui (parusia). Egli avrebbe ritenuto ormai vicina la fine del mondo, e, con questa, la sua venuta nella gloria del trionfo messianico. Quindi per G. nessun pensiero d'una società spirituale (Chiesa), la quale tramandasse nella storia una sua dottrina e sue istituzioni.

In realtà G. parla spesso di un suo ritorno trionfale: nelle sue ultime parole stesse dinnanzi al sinedrio: "d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto a destra dell'Onnipotente venire sulle nuvole del cielo" (Matt., XXVI, 64) e anche prima nelle parabole delle vergini savie e stolte (Matt., XXV, 1-13), dei servi invitati a vigilanza (Marco, XIII, 33-37), ecc. Inoltre egli sarà il giudice della umanità (Matt., XXV, 31-46): allora gli apostoli siederanno attorno a lui su dodici troni (Matt., XIX, 28): tutte le tribù della terra vedranno al termine delle cose il Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo, preceduto dagli angeli suoi che raduneranno gli eletti dai quattro venti (Matt., XXV, 31-32). Sono queste tra le affermazioni più nitide e singolari di G. sulla sua autorità e sulla sua missione. Ma quella venuta è un ritorno: tra la vita presente e quel ritorno vi sarà la morte violenta, e un periodo di tempo in cui gli apostoli dovranno agire da soli, sorretti dal Paracleto e da G. stesso che rimarrà spiritualmente con loro: perché anch'essi nel loro apostolato dovranno subire come il Maestro le lotte più gravi. Essi dovranno lavorare per il Regno di Dio.

Paolo e Giovanni hanno attinto da G. quella profonda angosciosa visione delle condizioni umane e la luce d'una rinascita. È inverosimile che i Dodici non abbiano compreso quale fosse la loro missione, presentata loro sotto le semplici immagini della pesca e della pastorizia. Essi attendono, sì, il ritorno di G., ma frattanto si lanciano nel mondo a portarvi la nuova luce. Hanno uomini da pescare, e G. ha mostrato ad essi con un miracolo che le loro reti sarebbero meravigliosamente riempite.

La prova che il Regno doveva avere una continuità sulla terra e il fatto che G. formò con lavoro assiduo i continuatori del suo ministero. G. li scelse "perché fossero con lui" secondo la frase di Marco. Dovettero abbandonare le loro occupazioni e la famiglia per seguirlo, non per quanto potevano prestargli nel presente, ma per quello che potevano nel futuro. "La messe è molta e gli operai sono pochi" (Matt., IX, 37-38). Ad essi G. svolge le parabole rimaste oscure alle folle, perché "a voi è dato conoscere il mistero del Regno di Dio" (Marco, IV, 11); nel IV Vangelo dirà: "V'ho chiamati amici: perché vi ho manifestato tutto quello che ho udito dal Padre mio" (Giov., XV, 15). Svela ad essi la sua natura di Messia Figlio di Dio (Matt., XVI, 13-20), la sua fine dolorosa, lo scopo di essa a riscatto di molti, il suo ritorno glorioso. Dà a loro istruzioni pratiche particolareggiate: sul modo di presentarsi, di scegliere e serbare l'ospitalità, sulla gratuità dell'opera loro, sino sul modo di vestire e sul bagaglio da portare con sé: "non tenete oro, argento o moneta nelle vostre borse: non sacca da viaggio, né due vesti né calzari, né bastone; poiché l'operaio è degno del suo nutrimento" (Matt., V, 41). lnsegna loro quanto devono dire in una prima loro missione: "Predicate dicendo: il Regno dei cieli è vicino" (Matt., X, 7) e affida loro il potere di compiere miracoli.

C'è dunque un'"organizzazione", incipiente senza dubbio, ma studiata minutamente nelle sue forme. Gli elementi ne sono scelti dopo una notte di preghiera (Luca, VI, 12-16), e G. li vuole esclusivamente per sé e pronti a tutte le lotte sino al martirio: "Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me..."; "non temete coloro che uccidono il corpo...". La loro formazione non è solo per il presente. Dovranno essere i continuatori dell'opera sua; perché G. deve "partire" ed essi dovranno nella famiglia dei credenti essere come "il dispensiere fedele e prudente" (Luca, XII, 35-48): sono i "servi" mandati per le città, per le strade e i sentieri della campagna a invitare quanti potranno trovare affinché la sala del grande convito sia piena (Matt., XXII,1-10). A capo dei Dodici è posto Simone, da G. detto pietra (Pietro) perché su lui costruirà la propria Chiesa. Gli scelti, nel loro entusiasmo, si fanno delle illusioni, e si preoccupano di accaparrarsi i primi posti nel nuovo regno (Matt., XX, 20-28; v. anche sotto, pp. 862 e 863), ma il maestro predice loro che dovranno prima, come condizione, bere il calice che egli stesso berrà. Tuttavia la prova ch'essi hanno poi compreso bene la loro missione è il fatto che in seguito narreranno, con garbo sorridente, le loro ingenuità del passato, e soprattutto la loro convinzione di disimpegnare col loro apostolato una missione. Conoscono la loro autorità, perché ci hanno trasmesso le parole di Gesù: "Quanto voi legherete sulla terra, sarà legato nei cieli..."; "Andate a istruire tutte le genti... insegnando loro ad osservare quanto v'ho comandato" (Matt., XXVIII, 19-20); "Dite nella luce quel che vi dico all'oscuro: e predicate sui tetti quel che v'è stato detto all'orecchio" (Matt., X, 27). Ma sanno che l'autorità loro non permette di insuperbire e dominare: "Sapete che i principi delle nazioni le signoreggiano...; chi tra voi vorrà primeggiare sia vostro servo" (Matt., XX, 25-27).

La natura e le sorti del nuovo Regno di Dio sono delineate in un gruppo di parabole che hanno per tema il descriverlo. V'è una parola del Regno (Matt., XIII, 19), la quale non può essere che il nuovo insegnamento di Gesù. La parabola del seminatore mostra come quella parola fruttifichi secondo le disposizioni degli ascoltatori. L'altra della zizzania di cui, come della prima, è data spiegazione autentica dal Maestro stesso, indica che la parola si diffonderà sulla terra e sino "alla fine del mondo" frammista alla zizzania seminata dal diavolo. Nell'una e nell'altra, le sorti della parola sono identificate con le sorti del Regno dei cieli. Pure importanti le brevi parabole del granello di senapa e del lievito. Il Regno di Dio è un piccolo granello, ma crescerà su tutti gli erbaggi, e gli uccelli del cielo andranno a posarsi tra i suoi rami. Gli uccelli del cielo sono una reminiscenza biblica, e denotano le genti lontane (Ezech., XVII, 23; Daniele, IV, 9). Il Regno di Dio è pure simile al lievito che una donna prende e nasconde in tre staia di farina, fino a che tutta fermenti. Chi osservi oggi la storia del cristianesimo e la sua diffusione sulla terra e la virtù di apostolato che tuttora lo pervade, e osservi ancora la trasformazione di coscienze, costumi e leggi da esso operata - per quanto, secondo la parola di G., in mezzo ad esso cresca pure la zizzania - non potrà non ammettere una corrispondenza fra questa realtà e la profetica parabola.

Punti fondamentali per un esame della teoria "escatologica" sono le Parabole, la scelta dei Dodici (apostoli), il Discorso escatologico.

Il genere parabolico, rappresentato scarsamente nell'Antico Testamento, ebbe maggiore sviluppo presso i rabbini. Non è quindi particolare a G., ma egli, che l'ebbe come metodo abituale d'insegnamento, lo portò a una perfezione somma per la spontaneità e l'aderenza delle sue parabole alla vita, per la nobiltà e sublimità dei concetti resi evidenti dalla loro forma. Il cristianesimo non osò più tentare quel genere. Le parabole rabbiniche non hanno mai come oggetto il Regno di Dio; mentre questo è il tema di gruppi interi di parabole di G.: donde la loro importanza per fissare il concetto suo del Regno.

Per l'elezione dei Dodici, v. apostolo; per quella di Pietro come capo permanente della Chiesa (Matt., XVI, 17-19: Giov., XXI, 15-17), v. pietro, santo.

Nei Sinottici è riportato un discorso di G. sulla fine di Gerusalemme e l'ultima catastrofe cosmica. I due avvenimenti, almeno allo stato attuale dei testi, sono nettamente ed esplicitamente distinti, benché non venga segnalata la distanza di tempo dell'uno dall'altro. Il primo è dell'ordine della storia, è localizzato nella Giudea, e alla sventura si potrà scampare col fuggire rapidamente ai monti al profilarsi del segnale dato da G.; il secondo invece chiude la storia, e riguarda l'universo e tutte le nazioni della terra. Anche il primo però non è vicino (Marco, XIII, 7-8; Matt., XXIV, 4-8; Luca, XXI, 8-10). La divisione delle parti è diversamente fissata; sembrano riferirsi alla fine di Gerusalemme e ai suoi prodromi Matt., XXIV, 4-28; Marco, XIII, 5-23; Luca, XXI, 8-24: invece alla fine del mondo e al ritorno trionfale di G., si riportano Matt., XXIV, 29-31; Marco, XIII, 24-27; Luca, XXI, 25-28.

Segue nei sinottiei un ritorno del pensiero alla fine di Gerusalemme con la parabola del fico. È un richiamo del segno misterioso annunciato innanzi: "quando vedrete l'abbominio della desolazione stare dove non deve...". Quelli che sono nella Giudea sono allora invitati a fuggire ai monti (Marco, XIII, 14; Matt., XXIV, 15), mentre nella parabola s'avverte: "sappiate ch'è vicino, alle porte" il nemico (Matt., XXIV, 33-34; Marco, XIII, 29).

Le frasi seguenti invece: "Di quel giorno e di quell'ora nessuno ne sa, neppure gli angeli del cielo (Marco XIII, 32 aggiunge: "neppure il Figlio"), ma solo il Padre" si devono riferire a un avvenimento del quale non è concesso nessun indizio, ma al quale occorre tenersi continuamente pronti: tale è presentato abitualmente il ritorno finale di G.

Le difficoltà sono presentate: 1. dalla singolarità dello stile profetico e apocalittico, in cui gli avvenimenti sono presentati come quadri successivi di visione; 2. dal fatto che i grandiosi avvenimenti profetizzati per il futuro sono varî: a) la fine di Gerusalemme, il cui giudizio è pure attribuito a un ritorno di G. (deve intendersi di essa "la venuta del Figlio dell'uomo", in Matt., X, 21-23, e XXIV, 27-28); b) l'avvento del Regno di Dio indicante la grandiosità e rapidità della diffusione del cristianesimo (Marco, IX, 1; Luca, IX, 27); c) infine il ritorno finale. Le frasi "non passerà questa generazione prima che tutte queste cose avvengano", o simili, sono riferite dall'esegesi cattolica alla distruzione di Gerusalemme, avvenuta di fatto entro il giro di una generazione, e talvolta al Regno di Dio, da essa identificato con la Chiesa. Circa l'istituzione di essa, secondo le dottrine cattoliche, v. chiesa, III, p. 7; circa le relazioni tra le fonti, v. sinottici, vangeli.

Redenzione ed Eucaristia. - Fra la vita pubblica di Gesù che detta le norme del nuovo Regno e pone le basi della sua organizzazione, e il suo ritorno glorioso (parusia) alla fine del mondo, sta la sua morte. G. parla sovente del suo "ritorno", nei discorsi sulla "fine" o nelle parabole, appunto perché egli deve "partire": così nella parabola delle mine, detta "a riguardo della loro idea che il Regno di Dio dovesse tosto manifestarsi" (come commenta Luca, XIX, 11-27); similmente nella parabola dei servi prudenti e infedeli (Matt., XXIV, 45-51), dei servi che attendono il padrone (Luca, XII, 35-48) e delle vergini stolte e savie.

Gli accenni alla sua morte violenta sono espressi da G. fin dagli inizî della vita pubblica. I discepoli digiuneranno "quando sarà ad essi strappato lo sposo" (Marco, II, 18-20). Dopo che Simon Pietro l'ebbe proclamato Messia Figlio di Dio "da allora G. incominciò a mostrare" che "il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto, essere reietto dagli anziani e dai capi dei sacerdoti, ed essere ucciso per risorgere dopo tre giorni". Caratteristica la scena di Pietro che, preso G. in disparte, comincia a sgridarlo, e a cui G. impone silenzio: "Va' lungi da me, Satana, poiché non hai il sentimento di Dio ma degli uomini" (Marco, VIII, 27-33). Ai figli di Zebedeo, che gli domandano di sedere alla destra e alla sinistra del suo trono, G. domanda a sua volta se possono bere il calice che egli berrà (Matt., XX, 22-23). Ai messi di Erode Antipa, che gli consigliano di allontanarsi dalla Galilea, G. risponde: "Dite a quella volpe: Ecco io scaccio demonî e compio qualche guarigione oggi e domani, e il terzo dì sono alla fine..." (Luca, XIII, 31-33). Le predizioni si moltiplicano avvicinandosi la tragedia. Nella parabola dei vignaioli, costoro, dopo aver maltrattato i servi del padrone, uccidono l'unico figlio di lui (Marco, XII, 1-12). L'atto della donna, che nella casa di Simone il lebbroso versa un alabastro di profumo sul suo capo, è un anticipo delle sue onoranze funebri (Marco, XIV, 3-9).

Ma G. non prevede solo la propria morte. A Pietro esponeva che egli "doveva" morire. Ripeterà a tre riprese che il Figlio dell'uomo deve essere messo a morte, come di un elemento della sua carriera messianica. Altrove (Marco, X, 45; Matt., XX, 28) G. afferma che il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e dare la sua vita a redenzione di molti. Dopo le nitide predizioni dell'ultima cena, nell'orto del Getsemani egli prega: "Padre, se è possibile, passi da me questo calice: però non come voglio io, ma come vuoi tu" (Matt., XXVI, 39).

Poco prima, nell'ultima serata passata con i suoi, egli stesso aveva istituito il rito commemorativo della sua morte. Per quanto ciò sia singolare e senza esempio, ne sono testimoni i Vangeli e S. Paolo. I Sinottici (Matt., XXVI, 26-30; Marco, XIV, 22-26; Luca, XXII, 15-20) raccontano distesamente l'istituzione della Eucaristia, conservando la parole e i gesti di Gesù. Solo il IV Vangelo omette quel racconto; ma, in suo luogo, ha un lungo discorso di G. in cui preannuncia e commenta profondamente il significato e il valore del rito. Nei discorsi dell'ultimo addio, conservati dal IV Vangelo, G. sviluppa il comandi nuovo della carità e la preghiera perché tutti i suoi siano un essere solo come lui col Padre: sono la spiegazione psicologica dell'istituzione eucaristica. Ma, prima ancora, S. Paolo ricordava le forme e il senso di quell'istituzione alla comunità cristiana della città di Corinto, che già celebrava la "cena" ad ogni adunanza. G. stesso "nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e avendo reso grazie lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo, ch'è per voi: fate questo in mia memoria". Similmente sul calice G. aveva detto: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Fate questo tutte le volte che ne berrete in memoria di me" (I Cor., XI, 23 segg.). Per i rapporti tra le fonti, v. sinottici, vangeli.

Il cristianesimo, segnando una tappa decisiva nello svolgimento del culto a Dio, dimenticherà ormai i sacrifici d'animali e le oblazioni degli antichi culti; unica azione liturgica sarà per esso la rinnovazione del rito istituito da G. (v. eucaristia; fractio panis).

Ricordo della morte di G. nella distinzione del "corpo" dal "sangue"; l'istituzione dell'Eucaristia offre di quella morte il senso recondito, spiegando espressamente il modo col quale essa rientra nella missione del Figlio dell'uomo e perché egli "doveva" morire. Si è che il sangue "è sparso per voi": "la nuova alleanza", che sostituisce quella antica di Mosè, è confermata da quel sangue. Nel testo di Matteo il significato è ancora più nitido: il sangue "è sparso per molti a remissione di peccati".

Gesù Messia. - Se il moto di rinnovazione spirituale iniziato da G. viene presentato da lui sotto l'espressione favorita di "Regno di Dio" o "dei cieli", si è perché esso si riallaccia alla grande attesa messianica. Gesù, espressamente e ripetutamente, si presenta come Messia. Il motto che esprime la prima fede dei suoi si racchiude nella parola di Cristo-Messia (v. sopra; Nome). Il primo messaggio di lui è l'annuncio del Regno vicino (Matt., IV, 17). La promessa ai poveri, ai tribolati, ai perseguitati, sotto diverse forme è sempre il Regno di Dio. Ai due inviati dal Battista con la domanda "Sei tu quei che deve venire, o dobbiamo attendere altri?" G. risponde: "Annunciate a Giovanni quanto avete udito e veduto: i ciechi veggono, i zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono e i poveri sono evangelizzati" (Matt., XI, 4-5). Egli cioè non afferma soltanto la propria messianità, ma ne fornisce la prova nei miracoli da lui operati e nell'evangelizzazione dei poveri, preveduta dai profeti. Il Regno è il tema della maggior parte delle parabole. Infine egli sarà condannato come "re dei Giudei" traduzione politica del concetto di Messia (v. messianismo).

Terreno scottante questo delle attese messianiche, vivacissime nella Palestina nel sec. I cristiano, che condurranno il popolo ebraico alle insurrezioni e rovine del 70 e del 136. Nulla di più eloquente, per comprendere il concetto messianico di G. e l'atteggiamento suo verso quelle attese, del riserbo con cui egli manifestò la propria messianità.

G. ebbe lo studio di evitare, quant'era possibile, di dare al movimento da lui suscitato un'interpretazione e un indirizzo contrarî a quelli da lui intesi. Un'affermazione messianica tendeva fatalmente, nell'eccitazione degli spiriti, a trasformarsi in un moto irredentistico. Un movente politico, solo o combinato con altri, hanno: la missione mandata da Gerusalemme (Giov., I, 19-28) a Giovanni Battista; l'arresto di lui da parte di Erode Antipa; il complotto d'arresto di G. agl'inizî della vita pubblica (con i farisei sono gli erodiani, Marco, III, 6); le voci riferite a G. dei tentativi d'Erode di sopprimerlo (Luca, XIII, 31-33).

La questione capziosa del tributo è elusa da G. con una frase abile non meno che verace. Ancora un particolare prezioso del IV Vangelo: dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, G. "accortosi che sarebbero venuti a rapirlo per farlo re, fuggì di nuovo solo sul monte" (Giov., VI, 15). A calmare la sovreccitazione popolare è diretto il breve ritiro di lui fuori della Galilea, nelle terre confinanti della Fenicia: "entrato in una casa, non voleva che nessuno lo sapesse" (Marco, VII, 24); come prima aveva cercato il nascondimento e il ritiro durante lo sviluppo della missione di Galilea (Luca, IX, 10). Altro ritiro indicato in Giov., XI, 56. Si comprende quindi come egli, pur iniziando pubblicamente un movimento messianico, non avesse fretta di assumerne il titolo.

L'applicazione a sé della profezia d'Isaia nella sinagoga di Nazaret (Luca, IV, 16-30), per quanto esplicitamente messianica, come pure il discorso del monte che promulgava la sovrabbondante giustizia del nuovo Regno, erano espressi in modo che dovevano lasciare più che sospesi sullo sbocco al quale sarebbe arrivato il messianesimo di G. La frase stessa "Regno di Dio", o, come proprimente s'esprimeva G., "Regno dei cieli", poteva interpretarsi in significati diversi: e sotto un aspetto religioso e morale nessuno poteva adombrarsi che Dio riprendesse il Regno a lui spettante nel mondo. Si comprende allora perché, quando Pietro lo proclamò Messia e Figlio di Dio nel cerchio ristretto dei Dodici, G. vietasse loro "di parlarne con alcuno" (Marco, VIII, 30), divieto ripetuto varie volte. La prima esplicita profezia della passione segue quel riconoscimento come un antidoto: se egli è il Messia, non si illudano i discepoli di sùbiti e facili trionfi. Tale è pure il significato della risposta data ai figli di Zebedeo (Matt., XX, 22; v. sopra pp. 861 e 862). Le predizioni sulla rovina del Tempio di Gerusalemme e la fine sono pure dette ai discepoli in disparte (Matt., XXIV, 3). Probabilmente anche la brevità del tempo passato in Samaria ha lo scopo di non creare nuovi imbarazzi al movimento iniziato.

Non è che G. sia pavido; egli che preparerà i suoi all'idea delle persecuzioni e del martirio. Ma ha bisogno d'un minimo di tempo per poter dare una base alla sua costruzione: "m'è necessario camminare oggi e domani e il dì seguente..." (Luca, XIII, 33). Egli deve attendere l'ora fissata dal Padre perché sia glorificato il Figlio dell'uomo (Giov., XII, 23). Soprattutto egli deve curare che non sia svisata e condotta a fini opposti l'opera sua. Per questo ha cura di spiegare la natura del suo Regno. Le parabole del Regno, che formano uno speciale gruppo nei Sinottici, come dovettero formarlo nella realtà storica, sono destinate a chiarire come il Regno di Dio, che non ha nulla di mondano, sarà il meraviglioso fruttare della parola. Se G. parla in parabole, si è perché c'è un "mistero" del Regno di Dio che non è dato ancora penetrare a quelli che sono "fuori" della piccola schiera dei più intimi (Marco, IV, 11). Trasformare la nervosa attesa d'una resurrezione nazionale e religiosa, mediante un'abbagliante azione divina nell'attesa di un'insondabile trasformazione spirituale delle coscienze e del mondo, era tutt'altro che facile: si correva il pericolo di allontanare immediatamente da sé non solo la folla, ma altresì gli scelti per la continuazione dell'evangelizzazione. L'uomo ha bisogno di rivestire i beni spirituali d'immagini, perché vi aspiri e ne comprenda e gusti il valore: e G. lo sa, giacché usa abbondanza di similitudini, e a un certo momento non parla che in parabole: "tutto ciò G. fece noto alle turbe con parabole" (Matt., XIII, 34). Il IV Vangelo ha rilevato quel costume di G., poiché i discepoli dopo i discorsi dell'ultima cena dicono a lui: "Ecco, adesso parli chiaro e non usi alcun paragone" (Giov., XVI, 29). Ma prima ancora di quell'insegnamento parabolico, che tendeva ad esporre la natura e le sorti del Regno, egli aveva scartato l'interpretazione nazionalistica del messianesimo col discorso del monte. Sono i "miti" quelli che "possederanno la terra". Il mondo è da illuminare, da condire col sale della sapienza nuova, non da conquistare e dominare. Nonché slanciarsi a una conquista, occorre "non resistere al maligno" per spezzare la catena dell'odio. Tutto l'insegnamento è improntato a questo concetto. Occorre farsi piccoli per riuscire a entrare nel Regno dei cieli.

I re della terra spadroneggiano sui sudditi, ma i grandi del Regno di Dio devono farsi servi degli altri. È opportuno rilevare che la concezione dell'apocalittica giudaica era decisamente orientata verso quelle aspirazioni di conquiste nazionali e terrene.

La manifestazione detta "delle palme", all'indomani del sabato precedente alla crocifissione, poneva termine a quel riserbo con la rivelazione pubblica della sua messianità. Essa era stata preparata perché si comprendessero le parole del profeta alla Figlia di Sion: "Ecco, il tuo re viene a te mansueto". Sul puledro d'asina i discepoli stendono i loro mantelli, e la folla fa un tappeto di vesti e rami di palme e d'olivo "al figlio di David che viene nel nome del Signore" (Matt., XXI, 1-11). Lungo la strada e nel tempio stesso, dove G. si è recato, i fanciulli gridano: "Osanna al Figlio di David", fra lo sdegno dei capi dei sacerdoti e degli scribi e l'approvazione esplicita di G. (Matt., XXI, 15-16). Il "Figlio di David" equivale evidentemente al re "della figlia di Sion". Per quanto clamorosa quella proclamazione di G. a Re Messia, si conformava al suo insegnamento. La processione non si dirigeva minacciosa al pretorio, ma al Tempio che G. purificava dai mercanti. Gli aspri dibattiti con i capi sacerdotali, che domandano a G. con quale diritto egli fa da padrone nella casa di Dio, e con gli scribi e farisei sulla giustizia e sul Regno, mostrano che G., indipendentemente da ogni moto politico, tende a sostituirsi alle classi dominanti il culto e la pietà della nazione. Nella realtà storica il cristianesimo si afferma come un nuovo culto e una più profonda sete di giustizia. Se non ottenne la riforma nel tempio di Gerusalemme e nell'ebraismo esso la otterrà nel mondo.

Il Figlio dell'uomo e il Figlio di Dio. - Fondatore del Regno messianico, redentore di molti nel proprio sangue, maestro di una nuova dottrina che sarà "luce del mondo", trionfatore nel suo ritorno finale: tale presenta sé stesso G. Ma queste prerogative non illuminano il mistero della sua persona. G. applica frequentemente a sé una frase, a primo aspetto almeno, assai umile: "il figlio d'uomo", o più esattamente, secondo la versione datane dai Vangeli: "il figlio dell'uomo". Il titolo è usato nelle profezie di Ezechiele: "Or tu, figlio d'uomo, prendi una tavoletta d'argilla" (Ezech., IV, 1, e passim). Ma è Dio o un angelo che così chiama il profeta; Ezechiele non l'usa mai di sé, come invece lo usa G.: "Perché voi sappiate che il Figlio dell'uomo ha sulla terra il potere di rimettere i peccati, àlzati (dice al paralitico), prendi la tua stuoia e va' a casa tua" (Marco, II, 10-11). Dinnanzi al sinedrio G. dirà: "Da qui innanzi vedrete il Figlio dell'uomo, seduto alla destra della potenza di Dio, venire sulle nubi del cielo" (Matt., XXVI, 64), con frase che già aveva usata altra volta riguardo al suo proprio ritorno (Matt., XXIV, 30).

In questi due casi è perspicua l'allusione al testo di Daniele che descrive, dopo quattro grandi imperi successivi, simboleggiati da quattro fiere, il Regno eterno del "popolo dei santi dell'Altissimo": "Quand'ecco venire tra le nuvole del cielo uno dalla sembianza di Figlio d'uomo che si avanzò fino al Vegliardo dei giorni antichi..., e questi gli conferì la podestà, l'onore e il Regno: tutti i popoli, le schiatte e le lingue serviranno a lui" (Dan., VII, 13 segg.). Le cosiddette Parabole dell'Apocrifo etiopico di Enoch (v. enoch) avevano ripreso la frase "Figlio d'uomo", per indicare l'eletto da Dio per l'avvento messianico. La difficoltà più seria contro l'interpretazione messianica del titolo è anzi la sua trasparente chiarezza; perché G., il quale evitò agl'inizî della vita pubblica di proclamarsi Messia e proibì severamente a Pietro di dirlo ad alcuno quando l'ebbe come tale riconosciuto, non avrebbe potuto senza contraddirsi usare un termine che ne fosse esplicito equivalente. Ma nella frase "Figlio dell'uomo" il significato politico nazionale del messianesimo era meno evidente, e nell'incertezza del suo significato preciso essa si prestava bene a quel piano di manifestazione graduale che G. s'era fissato. Se "Figlio d'uomo" presso Daniele sottolineava la natura umana nella sua distanza da Dio, presso G. designa la natura umana in quanto vela un essere o un'autorità ad essa superiore. Così il "Figlio dell'uomo" ha il potere di rimettere i peccati, è padrone del sabato; "il Figlio dell'uomo" benché proclamato Messia dai suoi, deve patire e morire per poi risorgere: ma questo stesso "Figlio dell'uomo" deve sedere alla destra di Dio e venire sulle nubi a giudicare le nazioni della terra secondo la profezia di Daniele.

Il titolo "il Figlio dell'uomo" usato da G. di sé stesso pone un problema complesso. In aramaico "il figlio dell'uomo", bar nāshã, indica "l'uomo" in generale: il Lietzmann e il Wellhausen ne dedussero che G. non poteva averlo usato di sé, e il suo uso nei Vangeli doveva mettersi a carico della tradizione più che di lui. Ma si fece osservare giustamente che la tradizione della Chiesa primitiva, quale ci è nota dai documenti neotestamentarî, evita costantemente di attribuire a G. il titolo di Figlio d'uomo, usando termini più onorifici, quali "Signore" e "Figlio di Dio". Alle ragioni grammaticali risposero G. Dalman, Die Worte Jesu (Lipsia 1908), e P. Fiebig, Der Menschensohn (Tubinga 1901). Il titolo, per il richiamo al libro di Enoch, fu uno degli appoggi della teoria escatologica. La frase equivarrebbe a Messia; interpretazione accettata anche da cattolici, come il Tillmann. Ma tende a prevalere un'idea mitigata, che salvaguardi il fatto della graduale manifestazione messianica curata da G. La scuola comparatista (religionsgeschichtliche) ha ricercato a sua volta le origini della frase e dell'idea soggiacente, identificando questa con un mito dell'Uomo primigenio (Urmensch), di cui si troverebbero tracce nella religione egiziana, nelle concezioni iraniche, babilonesi e mandee. Ma l'identificazione della concezione dell'Uomo primigenio e del suo ufficio nella storia con quella del Figlio dell'Uomo è tutt'altro che dimostrata. La prima è rimasta d'altronde estranea allo ebraismo, mentre non si ha altro esempio di persona che si sia appropriato il titolo di Figlio dell'uomo, all'infuori di G. L'uso fattone da questo non ha alcun accenno a quelle ideologie mitologiche. V. F. Tillmann, Der Menschensohn (Friburgo in B. 1907), e, con maggiore aderenza ai testi evangelici, M. J. Lagrange, Évangile s. S. Marc, p. XCXXV segg., e in Rev. Biblique, 1908, pp. 280-293. Più semplice la tesi di G. Meloni, ripresa da Pr. Vannutelli (Il Figlio dell'Uomo, Roma 1923), che la frase fosse usata da G. nel senso di quest'uomo=io. Ma per accoglierla occorre astrarre dall'uso messianico della frase nel libro di Enoch (v. anche sotto: Storiografia critica; Bibliografia).

Il titolo quindi invita a ricercare in G. qualcosa di più grande che non sia l'umano. G. stesso si proclama più grande di Giona e di Salomone, dei profeti (Matt.., XII, 41-42; XIII, 17) e di Mosè di cui perfeziona l'insegnamento e le leggi. Egli compie, da padrone della natura, i miracoli più strepitosi: non solo, ma ne comunica il potere ai Dodici, senza appellarsi a Dio, in nome proprio: "Andate: guarite i malati, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demonî: gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date" (Matteo, X, 8; Marco, XVI, 17-18). Non solo rimette i peccati attirandosi l'accusa di bestemmiatore come usurpatore dei diritti divini (Matt., IX, 2), ma ne dà il potere ai Dodici: "Quanto avrete legato sulla terra sarà legato nei cieli: quanto avrete sciolto sulla terra sarà sciolto nel cielo" (Matt., XVIII, 18). Su loro farà scendere lo Spirito Santo: "Ecco ch'io farò scendere su voi il promesso del Padre mio. Rimanete nella città sin quando voi siate rivestiti d'una virtù dall'alto" (Luca, XXIV, 49). Il giudizio finale di tutte le genti, penetrante nel fondo delle coscienze di ciascuno degli umani passati e futuri, quale si attribuisce G., non può essere prerogativa d'uomo, per quanto elevato in dignità. Né il titolo di Messia né quello di Figlio dell'uomo sono quindi sufficienti ad esprimere la realtà della sua persona. G. effettivamente parlerà di sé come "Figlio di Dio".

Che G. si sia presentato come "Figlio di Dio", da nessuno (o quasi) è messo in discussione. S'è cercato piuttosto di diminuire e d'interpretare quel titolo in senso meno trascendente di quello affermato dal cattolicesimo. "Figlio di Dio" egli si chiamava: o in quanto egli, che aveva rivelato l'universale paternità divina, era in un contatto speciale con Dio; o in quanto l'anima di lui, più ancora che non i profeti, era pervasa da Dio in modo che egli solo poteva conoscere a fondo il Padre, come lui solo era dal Padre conosciuto. Ovvero "Figlio di Dio" sarebbe stato un equivalente di Re Messia, del quale appunto era stato detto nell'Antico Testamento: "oggi io ti ho generato", con allusione alla sua incoronazione a re (Salmo II, 7). Ma la fede delle prime comunità e della grande tradizione cristiana, non si è tenuta a queste interpretazioni.

In realtà le prerogative attribuitesi da G. non si esplicano con un concetto di filiazione morale, e neppure con quello di Messia, se non si riconosca un Messia divino. Esse sono prerogative e diritti divini. Prima della lettera Agli Ebrei G. stesso aveva parlato di sé come di un unico figlio ed erede, in contrapposto ai servi raffiguranti i profeti dell'Antico Testamento, nella parabola dei cattivi vignaioli; essa è riferita da tutti i sinottici (Matt., XXI, 33-46 e parall.). La discussione sul Messia, che è figlio di David e tuttavia è chiamato da David "suo Signore" (nel Salmo CX [CIX]), sollevata da G. stesso nel Tempio, non è spiegabile se non diretta a mostrare essere egli il "Signore", pur essendo figlio di David "secondo la carne" come si esprimerà S. Paolo (Rom., I, 3). ln un tratto, pure della tradizione sinottica, G. si esprime così: "Tutto è stato dato a me dal Padre mio: e nessuno conosce il Figlio fuori del Padre e nessuno conosce il Padre fuori del Figlio e fuori di colui, cui il Flglio l'avrà rivelato" (Matt., XI, 25-27; Luca, X, 21-22). Il Figlio è collocato col Padre a uno stesso livello, come nei testi del IV Vangelo che il brano anticipa. Nella confessione di Cesarea Pietro riconobbe in G. il Messia: "Tu sei il Cristo", secondo il testo di Marco, VIII, 29; ma in Matt., XVI, 16, le parole di Pietro sono più ampie: "Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente", e in Luca, IX, 20: "Tu sei il Messia di Dio".

L'affermazione più nitida della propria divinità G. la fece dinnanzi al sinedrio, radunatosi affrettatamente per giudicarlo. A G., che nell'interrogatorio suo e dei testi aveva mantenuto un silenzio dignitoso, Caifa rivolge solenne la domanda: "Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio" (Matt., XXVI, 63). Marco, XIV, 61, ha lo stesso tenore, con una perifrasi ebraica del nome divino in più: "Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?", mentre Luca, XXII, 66-70, distingue in due la domanda. G. alla domanda rispose con una netta affermazione. Nessuna apologia della propria dottrina o del proprio operato (Giov., XVIII, 20-21) egli fece innanzi ai capi della nazione, che lo avevano fatto arrestare nottetempo "come un ladro"; nessuna risposta alle accuse portate dai testimonî (Marco, XIV, 60) o attenvazione o spiegazione delle frasi più urtanti le correnti dottrinali dei suoi giudici; ma l'affermazione recisa della propria messianità e d'essere "il Figlio di Dio", con l'aggiunta che, "Figlio d'uomo" qual era, sarebbe tornato sulle nubi del cielo con la potenza del Padre.

Quell'affermazione fu l'unica motivazione della condanna: essa fu giudicata "bestemmia". Fu rilevato che l'affermarsi Messia non costituiva una bestemnna, quand'anche fosse apertamente ingiustificata la pretesa a quella dignità; molto meno costituiva una "prova provata" di reità, poiché, essendo il Messia atteso, s'imponeva giuridicamente l'obbligo di esaminare se chi diceva di esserlo ne avesse le prove e i requisiti. Affermarsi "Figlio di Dio" era invece, per rigidi monoteisti, usurpare i diritti dell'unico Dio.

D'altra parte se con il titolo di "Figlio di Dio" G. voleva indicare solo una filiazione morale, come e perché non avrebbe sciolto l'equivoco? Si può supporre che la condanna, e in seguito tutta la la fede cristiana, si siano basate su un malinteso puerile? Le prerogative attribuitesi da G. comprovano ch'egli realmente intese il titolo in senso letterale, e che né i Giudei né i cristiani s'ingannarono sul suo significato. Il IV Vangelo testimonia esplicitamente ch'egli fu condannato perché s'era proclamato "Figlio di Dio". I Giudei rispondono a Pilato: "Secondo la Legge deve morire, perché s'è fatto Figlio di Dio" (Giov., XIX, 7). È quanto risulta ancora da Luca (XXII, 70-71), presso il quale la condanna non è pronunziata quando G. s'afferma Messia, ma quando risponde alla domanda se è Figlio di Dio. Né Matteo e Marco dissentono, raccogliendo due cose per sé distinte in unica domanda: se G. era il Messia, Figlio di Dio. Effettivamente la prima teologia cristiana ha meditato su quell'affermazione, e ne ha tratto i principali elementi della cristologia (v. sotto, pp. 868 segg., 872 segg.). Così S. Paolo, il quale dalla fede nel Figlio di Dio" trae la descrizione delle sue prerogative: "egli è l'immagine dell'invisibile Dio, il primogenito di ogni creazione" (Coloss., I, 15) e deduce la nostra adozione a figli coeredi del Padre dal nostro immedesimarci in Cristo "il Figlio". Così la lettera Agli Ebrei; così il IV Vangelo, che non è tanto il Vangelo del Logos quanto quello del Figlio e dei suoi rapporti col Padre. Da quelle affermazioni di G. deriva una modificazione tanto profonda nella dottrina ebraica, quanto l'innesto dell'idea trinitaria sul monoteismo. Questa idea fu accolta nel cristianesimo senza polemiche, sino al sorgere dello gnosticismo cristiano. Sostengono alcuni che essa s'infiltrasse a gradi insensibili per un'esaltazione crescente della figura di G. Rispondono i cattolici che gli evangelisti sapevano bene che essa per israeliti (e tali erano quasi tutti i pionieri del movimento cristiano) appariva una bestemmia degna di morte. Non quindi un'evoluzione: a base del cristianesimo occorre mettere bensì un'affermazione recisa di G., pagata, per farla trionfare, col sangue proprio e dei primi che nel inartirio lo seguirono.

Gesù nel IV Vangelo. - Giovanni ha elementi proprî, che meritano d'essere esaminati a parte. Il Prologo rivela la tendenza dell'autore a cercare un contatto con le idee filosofiche-religiose contemporanee mediante la concezione del Logos (v.). Ma questa concezione rimane estranea al Vangelo e alle affermazioni ch'esso raccoglie di G. Questi nel IV Vangelo, più nitidamente e frequentemente che nei Sinottici, parla della propria persona e delle proprie prerogative. Non è possibile far ascendere il concetto di G. più alto di quanto sia espresso dai Sinottici; ma le manifestazioni del Maestro sono raccolte nel IV Vangelo da un testimone che si è trasformato in teologo: "Io sono la luce del mondo..." (Giov., VIII, 12); "Io sono la Via, la Verità, la Vita" (Giov., XIV, 6); "Pane di Dio è coluî il quale discende dal cielo e dà al mondo la vita" (Giov., VI, 33). G. è soprattutto il Figlio di Dio: la vita sta nel conoscere il Figlio: "La volontà del Padre che mi ha mandato è questa: chiunque conosce il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; ed io lo risusciterò all'ultimo giorno" (Giov., VI, 40). L'insegnamento morale è lo stesso, e si raccoglie nel comando "nuovo" d'amarsi scambievolmente come G. ci ha amati (Giov., XIII, 34). La religione nuova non è legata né a Gerusalemme, né al Garizim, perché il Padre ricerca degli adoratori "in spirito e verità", senza però che venga tolto il "battesimo" di acqua e Spirito Santo, né l'Eucaristia, poiché "se non mangerete la carne del Figlio dell'uomo e non berrete il suo sangue non avrete in voi la vita" (Giov., VI, 53). Se nei Sinottici c'è la rivelazione del Padre, che nessuno poteva conoscere fuori del Figlio, che a sua volta nessuno poteva conoscere fuori del Padre, nel IV Vangelo i rapporti fra Padre e Figlio sono da G. esposti più frequentemente e amorosamente. G. riconosce tutto dal Padre: "Le parole ch'io vi dico, non le dico da me: ma il Padre che sta in me, egli stesso è quei che opera" (Giov., XIV 10). Egli è "nel Padre"; "in quel giorno conoscerete ch'io sono nel Padre mio (Giov., XIV, 20). A Filippo, il quale domandava a G. che gli "mostrasse il Padre", G. risponde: "Filippo, chi vede me, vede il Padre... Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?" (Giov., XIV, 8-12). G. è, col suo insegnamento e con la sua divina bontà, la più perfetta manifestazione di Dio, poiché nell'anima sua si riflette e rivela l'infinita sapienza e l'infinito amore del Creatore. È il concetto che esprimerà teologicamente l'evangelista col termine Logos e con la frase: "Nessuno ha veduto mai Dio: l'unigenito Figlio che è nel seno del Padre, egli ce l'ha rivelato" (Giov., I, 18). Si comprende pertanto come tra il Padre e il Figlio vi sia reciprocità d'amore e delicatezze: "Io ho fatto e farò noto ad essi il tuo nome, affinché l'amore col quale mi hai amato sia in essi e io in loro" (Giov., XVII, 26). L'unione tra Padre e Figlio è presentata come l'ideale della carità che deve congiungere i credenti. Nella "preghiera sacerdotale", come viene chiamata la sublime invocazione di G. al termine delle espansioni dell'ultima cena, G. prega "che siano tutti uno, come tu sei in me, Padre, e io in te: siano anch'essi uno in noi, sicché creda il mondo che tu mi hai mandato (Giov., XVII, 21). L'amore infinito che lega Padre e Figlio deve legare tra loro e nell'amore di Cristo col Padre i fedeli quasi in unità di natura; e quel divino vincolo amoroso deve dare al mondo stesso la dimostrazione della missione di G.

Il doppio giudizio di Gesù - Le affermazioni di Messia e Figlio di Dio condussero G. alla morte. Certo altri motivi acuirono contro di lui la lotta delle classi dominanti. Il suo insegnamento non solo prescindeva dalle forme scolastiche, ma ne ripudiava le "tradizioni" divenute sacre. La "giustizia" e la pietà farisaiche erano state bersaglio frequentissimo delle sue critiche, culminanti nelle invettive vivacissime degli ultimi giorni dinnanzi alla folla accalcantesi nei cortili del Tempio. Su sacerdoti e farisei esse cadevano come sferzate sanguinose, a riparo delle quali non rimaneva che la congiura. L'umiliazione inflitta ai capi delle classi sacerdotali con la purificazione del Tempio dai mercanti e con la frase "voi n'avete fatto una spelonca di ladri" (Matt., XXI, 13) non doveva essergli perdonata. S'aggiunsero, fossero motivo dominante o apparente, le preoccupazioni politiche che già avevano operato nella soppressione di Giovanni Battista (v.). Il IV Vangelo mette in rilievo il consiglio di Caifa: "Voi non capite nulla, né riflettete come ci conviene che uno solo muoia per il popolo, e la nazione tutta non perisca" (Giov., XI, 49-50; cfr. XVIII, 14). Ma questi sentimenti e preoccupazioni non potevano essere addotti in pubblico giudizio: si trovò modo invece, nello svolgersi del processo, di condannare G. come bestemmiatore, prestandone G. stesso argomento col proclamarsi "Figlio di Dio".

G., arrestato nella notte, fu condotto prima dinnanzi ad Anna (Hanan), genero di Caifa pontefice a quel tempo. Anna, deposto dal pontificato da Valerio Grato nell'anno 15 d. C., era tuttora dinnanzi alla legge ebraica il vero pontefice, e godeva d'altronde molta autorità, poiché ebbe la fortuna d'avere cinque figli pontefici (Ios. Flav., Antiq., XX, 9, 1); e Caifa, che aveva imbastito l'arresto teneva, per ogni evenienza, a collegare, insieme con la sua, l'autorità del vecchio pontefice e dei suoi dinnanzi al popolo e ai colleghi del sinedrio. Il sinedrio, composto dei capi delle classi sacerdotali, di anziani dell'aristocrazia, di scribi e di farisei, doveva essere convocato perché s'avessero un processo e una condanna legale. La soppressione di G. non era d'altronde un'idea nata negli ultimi giorni, né maturata con l'improvvisa profferta di Giuda Iscariota. L'idea era stata ventilata da giorni, e Caifa aveva esposto vivacemente le ragioni che quella soppressione imponevano (Giov., XI, 49-50). Di quella cospirazione fanno parola anche i Sinottici: essa si svolse nell'atrio della casa di Caifa, decidendosi di arrestare G. "non di festa, perché non nasca tumuuo nel popolo" (Matt. XXVl, 3-5). Anna però non s'interessò molto della cosa, rinviando il disbrigo della faccenda a Caifa. Secondo Luca, XXII, 66, il tribunale si radunò "appena fattosi giorno", mentre Matteo e Marco sembrano porre lo svolgimento del processo nel cuore della notte, pur accennando a un "consiglio" tenuto dal sinedrio al mattino avanti la presentazione di G. a Pilato (Matt., XXVII, 1). Probabilmente, secondo è in sé più verosimile, il vero giudizio si tenne al mattino conforme al racconto di Luca, mentre nel cuore della notte si dové tenere un'adunanza sine formis, con un abbozzo d'istruttoria preliminare.

Nel processo si osservarono le linee essenziali della procedura. Prima fu interrogato G. come imputato, sui suoi discepoli e sulla sua dottrina: ma G. rispose solo ch'egli aveva insegnato e operato in pubblico (Giov., XVIII, 20-21). Si sentirono quindi i testimoni e delle loro testimonianze, che Matteo e Marco dichiarano "false", ci viene riferito un solo specimen: "Egli disse: Posso distruggere il Tempio di Dio, e ricostruirlo in tre giorni" (Matt., XXVI, 59-61) o "distruggerò questo tempio manufatto e fra tre giarni ne costruirò un altro non manufatto" (Marco, XIV, 55-58). A G. venne ancora data la parola per rispondere alle accuse (Marco, XIV, 60), ma egli nulla rispose. Vedendo che in tal modo poco si concludeva, perché la fretta non aveva concesso il tempo di preparare l'accusa, Caifa, quale presidente, domandò a G. stesso di rispondere su questioni decisive: se egli fosse il Messia, se egli si ritenesse il Figlio di Dio. G. rispose affermativamente: furono le uniche affermazioni sue dinnanzi al sinedrio, perché le altre sue parole non facevano che eludere una risposta diretta.

Seguì la condanna senza discussione, per il crimine di bestemmia. Il crimine d'affermarsi "Figlio di Dio" era stato commesso avanti ai giudici stessi: si poteva dunque trascurare una valutazione dei testi. Caifa non omise il gesto rituale di stracciarsi le vesti dinnanzi alla bestemmia udita. In consiglio segreto il sinedrio poi studiò il modo di ottenere una rapida ratifica della condanna dall'autorità romana. Si contava sul disorientamento della folla e dei discepoli di G., privati del loro capo. Il processo dinnanzi a Pilato c'è noto nei suoi episodî più salienti e caratteristici. Se la fretta non aveva concesso tempo per una requisitoria dinnanzi al sinedrio, molto meno ci fu una requisitoria avanti il procuratore. Il sinedrio tentò anzi di ottenere la ratifica senza riaprire un processo; quando Pilato domandò l'atto regolare d'accusa, si rispose: "Se costui non fosse un malfattore, non l'avremmo tradotto dinnanzi a te" (Giov., XVIII, 29-30). In tal caso era logica la risposta del procuratore: egli non poteva giudicare senza un atto d'accusa: lo giudicassero altrimenti essi secondo la loro legge (Giov., XVIII, 31). Viene allora prodotta l'accusa di un sommovimento politico-messianico: G. s'era detto Messia, cioè re. Testi non ne furono uditi, tranne gli accusatori. Fu invece sentito G. stesso, il quale lamentò quella trascuratezza delle testimonianze; interrogato s'egli era il re dei Giudei, rispose: "Lo dici da te, o altri te l'ha detto di me?" (Giov., XVIII, 33-34). La difesa sua su tal punto fu: "Il Regno mio non è di questo mondo; se fosse...., certo i miei servi avrebbero combattuto perché non cadessi nelle mani dei Giudei..." (Giov., XVIII, 36).

L'accusa cadeva davanti a Pilato; a costui non potè non sembrare strana tanta premura dei Giudei per segnalare un moto sedizioso, di cui egli non aveva avuto sentore. Ma, dopo varî tentativi d'eludere una condanna capitale, il procuratore si decise ad accogliere l'idea. prima propostagli dal sinedrio. Una condanna che partisse da lui, no; perché non c'era stato regolare processo, e le interrogazioni dell'imputato lo proscioglievano dall'accusa (Giov., XVIII, 38); non restava quindi che una semplice ratifica della sentenza del tribunale giudaico: "Io sono innocente del sangue di questo giusto: pensateci voi" (Matt., XXVII, 24). Era una soluzione abile, sotto un certo aspetto. Il sinedrio non aveva accettato il semplice disinteressamento proposto da Pilato a principio: e il procuratore dové subodorare che si mirava a coinvolgere la sua autorità in un processo odioso, riversando su lui la responsabilità della morte d'uno che aveva commosso profondamente il popolo col suo insegnamento. Egli allontanava quindi da sé, con un gesto solenne e popolarmente espressivo quale quello del lavarsi le mani, la responsabilità di quella condanna. Anche l'esecuzione fu rimessa ai giudei: "Lo abbandonò nelle loro mani, perché fosse crocefisso" (Giov., XIX, 16); pur essendo di Pilato la scritta "Gesù Nazareno Re dei Giudei", e dei soldati romani l'esecuzione materiale.

Circa i rapporti tra le fonti v. sinottici, vangeli.

La passione e la morte. - G. fu condannato alla morte di croce (v.): era il supplizio più terribile secondo la gradazione data dal giurista romano Paolo (Sent., V, xviii, 2): "summa supplicia sunt crux, crematio, decollatio (cfr. anche Sent., V, 21, 5 e Callistrato, in Dig., XLVIII, 19, 28 pr., dove ad furcam damnatio è stato certo sostituito a crux).

Dal pretorio, per una via non identificabile, G. fu condotto al monte Calvario (v.), fuori la porta più vicina della città: era costume crocifiggere i condannati lungo le strade frequentate, su qualche rialzo, perché essi fossero di ammonimento. Egli stesso, secondo l'uso, portava la croce: ma fuori della porta gli si diede per aiuto un certo Simone di Cirene, noto più tardi ai cristiani come padre di Rufo (Rom., XVI, 13) e Alessandro. Una scritta (v. sopra), in aramaico greco e latino, portata nel corteo e poi infissa sulla croce, manifestava la motivazione della condanna.

Due ladroni da strada furono crocefissi ai suoi lati: di essi uno fu tocco dal contegno di G., che forse già ammirava, e gli domandò di ricordarsi di lui quando fosse giunto al suo Regno; e G. di rimando: "Oggi sarai con me in paradiso" (Luca, XXIII, 39-43). I due ladroni (il buono reca il nome di Disma negli apocrifi Atti di Pilato) furono tema in tempi antichi e recenti di racconti romanzeschi.

La morte di G. fu di una nobiltà senza uguali. Avanti la crocifissione gli fu offerto, probabilmente da persone amiche, del vino misto a mirra (Marco, XV, 23), per attutirgli la sensibilità e la conoscenza (Talmūd, Sanh., b, 43); ma egli non lo prese, per mantenere piena conoscenza; gliene fu offerto più tardi, quando si lamentò della sete, accostandosi a lui una spugna imposta a una canna (Giovanni, XIX, 28-30). Agli scherni dei nemici, che l'invitavano a scendere dalla croce se era "Figlio di Dio", e a salvare sé stesso come aveva salvato altri, risponde con la preghiera: "Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno". Un momento di prostrazione morale s'è visto da qualcuno nelle parole, riferite dai Vangeli nel loro suono aramaico: "Eoì Eloì, lamma sabactani" - Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? - Ma G. esprime allora la preghiera del Salmo XXI [xxii], che ha sorprendenti profetiche analogie con la sua passione e conclude con parole di trionfo. La scena più tragica è la consegna della madre, che rimaneva sola, al discepolo diletto Giovanni (Giov., XIX, 25-27). Più giovane tra gli apostoli, più profondamente di ogni altro poteva sentire verso di lei affetto filiale: d'altronde egli era di famiglia benestante.

G. spirò verso l'ora nona (ore 15 circa) dopo avere gridato: "Tutto è compiuto" mentre il cielo si oscurava, la terra si scoteva e avvenivano altri prodigi (Matt., XXVII, 45-56, parall.).

Un membro del sinedrio, Giuseppe d'Arimatea, andò a chiedere a Pilato il permesso di dar sepoltura al giustiziato: ottenutolo, e ritornato al Calvario, i soldati, prima di consegnare il cadavere, spezzarono le gambe ai due ladroni ancor vivi, mentre, vedendo G. già morto, uno di essi trapassò a lui il petto con u. ia lancia. Dal cuore di G. sgorgò sangue e acqua; ne fa testimonianza il discepolo che ne scrisse nel IV Vangelo (Giov., XIX, 31-37). Il seppellimento venne fatto in fretta per l'imminente riposo sabbatico; prima che tramontasse il sole, il cadavere fu messo in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia, d'un giardino vicino al Calvario e a sua custodia le autorità giudaiche posero sigilli e soldati.

La resurrezione. - Con le predizioni della propria morte G. aveva insieme predetto la propria resurrezione (Matt., XVI, 21; XVII, 23; XX, 19, e paralleli). La sua resurrezione era presupposta dall'idea del suo ritorno, che non doveva certamente avvenire solo in spirito. A essa si allacciano due detti di G. che col loro carattere enigmatico richiamano la forma della ḥidāh ebraica. Ai farisei, che domandavano un segno del cielo, G. promette soltanto "il segno del profeta Giona: perché come Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre del cetaceo, così starà il Figlio dell'uomo tre giorni e tre notti nel seno della terra" (Matt., XII, 39-40).

Si è riportata sopra l'accusa elevata nel processo davanti al Sinedrio dai "falsi testimoni", relativa alla distruzione del tempio: essa ritorna nei dileggi al crocefisso (Matt., XXVII, 40; Marco, XV, 29). Ora il IV Vangelo riporta questo motto di G.: "Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo susciterò" (Giov., II, 19-20) interpretandolo della sua resurrezione. Infine sacerdoti e farisei s'interessarono presso Pilato perché mettesse delle guardie al sepolcro: "C'è venuto in mente che quell'ingannatore disse da vivo: Dopo tre giorni risusciterò" (Matt., XXVII, 63).

Dopo il crollo improvviso di tutte le loro illusioni per la tragica fine del loro maestro, gli apostoli, che durante il processo e l'esecuzione non avevano avuto il coraggio d'un solo gesto a suo favore ripresero animo con le apparizioni di G. già morto e poi redivivo. Lo stato d'animo dei discepoli ci è rivelato dai seguenti episodi. Alcune donne fra le più devote a G. o della sua parentela vanno, avanti l'aurora del giorno appresso all'inoperoso sabato, al sepolcro per ungere di nuovi profumi il corpo di G. che già era stato avvolto in una mistura di mirra e aloe di cento libbre (Giov., XIX, 39). Esse trovano con sorpresa la pietra ribaltata e il sepolcro vuoto: e corrono a dare l'annuncio agli apostoli. Quei discepoli che vanno ad Emmaus la sera dello stesso giorno, e sono al corrente del sepolcro vuoto e delle apparizioni angeliche alle donne, parlano di speranze svanite (Luca, XXIV, 13-25). Ancor più caratteristico il contegno di Tommaso (Giov., XX, 19-29): episodio proprio del IV Vangelo, con accenno forse nella finale deuterocanonica di Marco, XVI, 14. Lo scetticismo moderno verso il soprannaturale non esulava dalla mentalità ebraica e pagana, come testimoniano le difficoltà mosse dagli Ebrei contro i miracoli di G., e dagli Ateniesi al racconto della resurrezione di lui fatta da Paolo all'Areopago (Atti, XVII, 31-32).

Ma il sepolcro è controllato vuoto; e sul principio gli apostoli non sanno che pensare, mentre viene diffusa ad arte la voce che essi abbiano asportato il corpo di G. Si discute circa la possibilità (e la natura) di un rapporto tra questa voce e un'iscrizione proveniente da Nazaret, edita da F. Cumont nel 1930, che riporta in versione greca un rescritto imperiale minacciante la morte a chi violi in qualsiasi modo una sepoltura. L'iscrizione va ritenuta autentica e posteriore al 44 d. C. La distanza di tempo, e più la molteplicità dei casi che l'ordinanza contempla e la diffusione in Siria del malcostume di cercare i tesori nelle tombe, lasciano ancora perplessi circa quella connessione, sostenuta dal Cumont, da A. Momigliano e da altri. Comunque si valuti il nuovo dato, apparizioni d'angeli e più ripetute apparizioni di G. stesso tolgono ai discepoli ogni dubbiezza sui a realtà della sua resurrezione e trasformano il timore in audacia.

Le apparizioni del risorto sono riferite più o meno ampiamente da tutti gli evangelisti. Le donne vedono prima degli angeli (Matt., XXVIII, 5-7; Marco, XVI, 5-7; Luca, XXIV, 3-8), poi G. stesso (Matt., XXVIII. 9-10). È però possibile che l'apparizione che Matteo dice veduta dalle donne, senza specificazione, sia quella veduta da Maria Maddalena (Marco, XVI, 9-11, e Giov., XX, 11-19). Luca ha in proprio l'apparizione ai due discepoli che vanno a Emmaus (XXIV, 13-35), l'accenno a un'apparizione a Simon Pietro (XXIV, 34; cfr., I Cor., XV, 5) e sviluppa un'apparizione agli Undici radunati in Gerusalemme (XXIV, 36-49). Marco nel testo canonico conserva l'ordine, dato alle donne, di avvisare i discepoli e Pietro di precederlo nella Galilea: ordine pure riferito da Matteo, XXVIII, 9-10. Ma tra i Sinottici l'accenno a un'apparizione in Galilea su un monte fissato da G. è solo in Matteo; mentre il IV Vangelo, che ha in proprio l'apparizione a Tommaso, sviluppa in bellissimi episodî un'apparizione di G. sulle rive del lago di Gennesaret (Giov., XXI,1-23), conservando parole rivolte a Pietro e al discepolo diletto.

Ciascun evangelista cioè (se si eccettui la finale deuterocanonica di Marco, che raccoglie sunteggiando) ha lavorato per proprio conto (per altre interpretazioni dei rapporti tra le fonti, v. sinottici, vangeli): e possiamo anche meravigliarci della povertà dei loro racconti singoli. Sarebbe tuttavia erroneo ritenere che gli evangelisti conoscessero solo le apparizioni che ciascuno racconta, o che le tradizioni andassero a grado a grado aumentando col tempo. S. Paolo infatti nella I Corinzî (v.), anteriore per tempo forse a tutti i Vangeli, offre l'enumerazione più ampia: Cristo "risuscitò il terzo giorno, secondo le Scritture, e apparve a Cefa, e poi agli Undici: in seguito apparve anche a oltre cinquecento fratelli in una volta sola, i più dei quali sono oggi ancora in vita, alcuni però si sono già addormentati. Apparve ancora a Giacomo, e poi a tutti gli apostoli; e finalmente dopo tutti, come ad aborto, è apparso anche a me" (I Cor., XV, 4-8). L'apparizione a Cefa (Pietro), data come la prima da S. Paolo, non è narrata da nessun evangelista, non potendo identificarsi con quella a un gruppo di apostoli di Giovanni, XXI, 1-23. Essa ha un semplice accenno in Luca, XXIV, 34; mentre l'apparizione a Giacomo è del tutto omessa dagli evangelisti. Pure assente dai Vangeli è quella "ai cinquecento fratelli", almeno con quel dato numerico, tanto importante, poiché i più erano vivi ancora negli anni 56-57; da alcuni esegeti è identificata con la scena dell'Ascensione (Luca, XXIV, 50-53; Marco, XVI, 19-20; Atti, I, 2-3); ma S. Paolo sembra attenersi a un ordine cronologico e quella apparizione ai cinquecento è tra le prime, non l'ultima. Più probabilmente essa va identificata con quella in Galilea cui accenna Matteo (XXVIII, 16-17): "gli Undici se ne andarono in Galilea, al monte loro fissato da Gesù: e vistolo l'adorarono, mentre alcuni dubitavano....".

Se si osserva che la resurrezione di G. era il primo e più fondamentale argomento di dimostrazione della sua messianità e condizione di ogni fede in lui, e quindi nella predicazione doveva essere svolta particolareggiatamente, come da S. Paolo ai Corinzî, le omissioni degli evangelisti si dovranno attribuire a una scelta fatta da essi nell'abbondante materiale della tradizione. G., partendo dalla terra per il cielo, disse: "A me fu dato ogni potere in cielo e in terra: andate dunque e insegnate a tutte le genti..." (Matteo, XXVIII, 18-20; cfr. Luca, XXIV, 47-49; Atti, I, 4-11). Quell'ordine nella realtà fu mantenuto, e ne sorse il cristianesimo.

Gesù Cristo nel dogma cattolico.

L'unione ipostatica. - La dottrina cattolica insegna che in Cristo vi sono due nature e una persona. Due nature, la divina e la umana; egli è veramente Dio e veramente uomo. Una persona, la divina persona del Figlio unico di Dio; egli è veramente Dio-Uomo. La divinità di Cristo, affermata dai Sinottici e più apertamente da Giovanni e da Paolo, fu professata dai cristiani dei primi secoli. Tuttavia la solenne definizione di questo dogma da parte della chiesa ebbe luogo solamente nel concilio di Nicea (325) contro le dottrine di Ario (v. appresso e arianesimo). Ma G. Cristo è anche veramente uomo: ha un corpo per vera generazione da una madre, e un' anima ragionevole e intellettiva. Fin dagl'inizî del cristianesimo fu propugnata, contro le dottrine dello gnosticismo (v.) e il docetismo (v.), la perfetta e integra umanità di G.C., come fondamentale verità senza di cui cade la rivelazione, la redenzione e ogni umana certezza. Secondo il Nuovo Testamento, G. è concepito nel seno di una donna, nato e fatto di donna, della stirpe di David (Luca, I, 31; Gal., IV, 4; Rom., I, 4); è soggetto a tristezza, prega, obbedisce, pratica la virtù, progredisce in sapienza, soffre e muore. È dunque un uomo come gli altri, e niente gli manca di quello che appartiene alla verità e realtà della natura umana.

Pertanto, Gesù Cristo è Dio-Uomo. Una è la persona, quella divina del Verbo: la natura umana e la divina si uniscono ipostaticamente. Una è la persona o ipostasi, per sé stante e operante, cui tutto si attribuisce quello che di G. si afferma. Il vincolo, che sostanzialmente unisce le due nature, è la personalità divina.

Natura, nella sua comune e volgare accezione, importa qualche cosa di concreto, con le sue note essenziali distintive, come principio e fonte prima di attività operativa. Persona, nel significato ovvio a tutti noto, che prescinde da ogni sottile ricerca filosofica, designa un individuo pienamente distinto dagli altri, che di sé possa dire: io. L' "io" resta sempre identico a sé stesso, in mezzo alle variazioni che subisce il corpo o l'anima. L'uno cresce, acquista nuove cognizioni, è moralmente onesto o malvagio, ma la persona non muta: rimane sempre l'"io", di prima. In questo senso si sogliono contare quante persone si trovino in un luogo; e nella stessa persona si discerne ciò che le appartiene da quello che costituisce precisamente la personalità. La persona ha un corpo, è dotto, è malato, è sano: questi sono attributi della persona, non coincidono perfettamente con essa. La persona si concepisce dotata di intelligenza, di volontà, di una coscienza propria; è sui iuris, ha una sua responsabilità, dice infine qualche cosa di perfetto in sé e di incomunicabile. Quando perciò si afferma in Cristo una sola divina persona, si vuole semplicemente indicare che in lui uno è il soggetto o substrato, cui appartengono due essenze specifiche, due primi principî operativi, o nature; quanto insomma, fisicamente e oggettivamente, costituisce ciascuna delle nature o le è proprio o comunque la perfeziona, tutto appartiene alla persona del Verbo, come a una qualsiasi persona umana appartiene la natura umana con le sue proprietà.

Nel Nuovo Testamento una doppia serie di attributi, divini e umani, vengono applicati a un solo e medesimo Cristo. Il Figlio naturale di Dio - questo riguarda la divinità - è identicamente lo stesso che è generato e nato di donna - questo concerne l'umanità (Gal., IV, 4). Quegli che aveva la natura di Dio, per diritto a Dio eguale, è identicamente lo stesso, che, esinanito, ha prestato obbedienza sino alla morte (Filipp., II, 6-8). Dio è nato dalla stirpe d'Israele secondo la carne, col suo sangue si è conquistato la Chiesa; ha dato sé stesso alla morte per gli uomini (Rom., IX, 5; Atti, XX, 28; Tito, II, 13-14). Il Verbo si è fatto carne, cioè uomo: i due termini carne e uomo si equivalgono (Giov., I, 14). Facendosi uomo, il Verbo non si è potuto spogliare della natura divina, né cambiarsi nell'umana. Questa alla sua volta rimane quella che è, né può venire assorbita dalla divina. Né Dio può fondersi e quasi mescolarsi con l'uomo, né l'uomo con Dio. Il Verbo d'altronde non si unisce all'umana natura con unione accidentale o solo morale, come l'uomo si veste d'un abito o come Dio abita in un tempio: nell'un caso e nell'altro, né l'uomo diventa veste, né Dio tempio, mentre pure del Verbo si dice che diventa uomo. Resta perciò che la doppia serie di attributi divini e umani, lasciando intatte e distinte le due nature, non implicando composizione meramente accidentale, si riferiscano a una sola e medesima persona; e che il Verbo, unendo a sé "sostanzialmente" la natura umana, le comunica la propria personalità.

In tal senso è da intendere l'insegnamento del concilio di Efeso (431) contro Nestorio (v.). Il concilio di Efeso (v.) condannò le opinioni nestoriane in genere, senza però emanare alcuna professione di fede. Deve però tenersi che i cosiddetti anatematismi di Cirillo Alessandrino, nel senso in cui furono intesi a Efeso e accettati nei concilî posteriori, contengono l'esposizione del dogma cattolico. Riportiamo qui i canoni 2°, 3°, 5°: "Se alcuno ricusa di confessare che il Verbo di Dio Padre è personalmente unito alla carne e che vi è un solo Cristo con la carne sua propria, Dio insieme e uomo, sia anatema. - Se alcuno separa le sostanze in Cristo, dopo fatta l'unione, né tra esse ammette altri rapporti che di dignità, di autorità, di potenza, sia anatema. - Se qualcuno osa affermare che Cristo è uomo teoforo, cioè che porta con sé Dio e che egli non è vero Dio, Figlio di Dio per natura, in quanto è Verbo fatto carne, che con noi ha comune la carne e il sangue, sia anatema".

I Padri di Efeso intesero definire verità di primaria importanza nel cristianesimo. Se in Cristo non c'è unità personale fisica e ontologica, l'incarnazione non ha avuto luogo. L'unione puramente morale non darebbe diritto a Gesù Cristo di attribuirsi prerogative divine; non sarebbe possibile la redenzione, ché né la persona divina è capace di atti meritorî, né l'umana di meritare quanto si richiede per la remissione del peccato, che è offesa di un Dio infinito.

Ma, secondo l'insegnamento cattolico, l'unione ipostatica è un mistero vero e proprio, che si percepisce approssimativamente, per concetti analogici, in base alle espressioni con cui l'incarnazione ci viene proposta nelle fonti della rivelazione; mistero che eccede la capacità nativa dell'intelligenza umana, né può penetrarsene l'intima natura. I Padri e Dottori della Chiesa non ne tentarono mai la spiegazione se non per mezzo di lontane analogie e similitudini che non adeguano la realtà, e appariscono sempre manchevoli e deficienti. Si suole apportare la somiglianza dell'innesto: come nell'antico ramo si inserisce un ramo di altra pianta, così nella stessa persona, in cui era già una natura divina, si inserisce un'altra natura, l'umana. La comparazione meno lontana dal vero e classica nella tradizione patristica è tolta dall'unione dell'anima col corpo nell'uomo. Il "simbolo atanasiano" dice: "Sicut anima rationalis et caro unus est homo, ita Deus et homo unus est Christus" Però anche in questo paragone occorrono subito alla mente divergenze notevoli. L'anima attua e informa il corpo; il Verbo non può in alcun modo attuare e informare la natura umana. Dall'anima e dal corpo per mutua comunicazione risulta un nuovo primo principio di attività; al Verbo e all'umanità al contrario ripugna assolutamente una vicendevole comunicazione di tal genere.

Dall'unione ipostatica, analizzata alla luce della rivelazione, la dottrina cattolica deduce alcune conseguenze che ne completano il concetto, senza però eliminare il mistero.

Le due nature unite rimangono immutabilmente distinte e inconfuse, conservando ciascuna le sue proprietà. La crisi monofisita contribuì a mettere in miglior luce questo punto dell'insegnamento cattolico. Leone Magno, nel celebre Tomus ad Flavianum, fissò la dottrina cattolica in questi termini: "Salva igitur proprietate utriusque naturae et substantiae, et in unam coeunte personam, suscepta est a maiestate humilitas... In integra ergo veri hominis perfectaque natura verus natus est Deus, totus in suis, totus in nostris... Sicut enim Deus non mutatur miseratione, ita homo non consumitur dignitate. Agit enim utraque forma cum alterius communione, quod proprium est; Verbo scilicet operante, quod Verbi est, et carne operante, quod carnis est". Il decreto di Leone fu accolto con plauso dal concilio ecumenico di Calcedonia (v.) e confermato con una formula più esplicita delle precedenti definizioni. "Fedeli alla dottrina dei Santi Padri, noi insegnamo che il Figlio di Dio, Nostro Signore, perfetto nella sua divinità, perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, generato prima dei secoli dal Padre secondo la divinità, e nel tempo dalla Vergine Madre secondo l'umanità, è un solo e medesimo Cristo, Figlio unico di Dio, sussistente in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione, rimanendo la differenza delle nature nell'unione e ciascuna conservando la sua proprietà".

In secondo luogo: se due in Cristo sono le nature inconfuse e non miste, si avranno anche due ordini di facoltà o potenze attive e di operazioni. Confondere le operazioni sarebbe confondere i principî stessi operativi e quindi le due nature, alterando così la persona e l'opera riparatrice dell'Uomo-Dio. In particolare, bisognerà riconoscere due volontà e due ordini di atti volitivi. Cristo attesta di sé medesimo: "Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato" (Giov., VI, 38); "Padre se vuoi, allontana da me questo calice; non si faccia però la mia volontà, ma la tua" (Luca, XXII, 42). La volontà che si sottomette è la umana, mentre la volontà divina è identica a quella del padre. Soltanto per mezzo di un atto volitivo umano Cristo ubbidisce, merita, soddisfa per le colpe degli uomini. La volontà umana, anche conformandosi pienamente alla divina, ha un proprio movimento e opera secondo le esigenze della sua propria natura. Cristo, è vero, non resiste alla volontà paterna; ma la resistenza non è essenziale alla volontà umana, e il sottomettersi al divino volere, come il resistergli, costituisce già un'attività volontaria.

La definizione del sesto concilio ecumenico di Costantinopoli (680-681), riprende il contenuto e le espressioni di Calcedonia e aggiunge la professione di fede nelle due volonta e operazioni, riallacciandosi esplicitamente al Tomus di Leone che già proponeva la stessa dottrina: "Secondo l'insegnamento dei Santi Padri, dichiariamo che in Cristo vi sono due operazioni naturali, indivisamente, inconvertibilmente, inseparabilmente, inconfusamente (ἀδιαιρέτων, ἀτρέπτως, ἀμερίδτων, ἀσυγχύτως)... e due naturali volontà non contrarie... in modo che la volontà umana segua (la divina) e non le resista e ripugni, ma resti soggetta alla onnipotente e divina volontà".

In conseguenza, nella tradizione patristica e nella teologia cattolica, l'operazione "teandrica" o "deivirile", non dice attività che, fisicamente e per una specie di fusione e di mistura, sia insieme divina e umana; vuole soltanto indicare che, secondo la classica espressione di papa Leone, "agit utraque forma quod proprium est cum communicatione alterius". A questa categoria appartengono le azioni strettamente umane di Cristo, come parlare, camminare, soffrire, ecc. La persona parla e soffre in quanto possiede una natura umana, e, essendo persona divina, conferisce a queste azioni una speciale dignità e un particolare valore morale. Più propriamente meritano l'appellativo di teandriche quelle in cui si esercita la doppia attività umana e divina verso lo stesso scopo ed effetto, richiedendosi nel caso, oltre all'intervento umano, anche uno speciale intervento divino: così nei miracoli compiuti da Cristo agiva l'umanità, ma confortata e corroborata dalla straordinaria potenza ed efficacia che la divinità le conferiva.

In conseguenza ai due principî precedenti - se cioè alla stessa persona appartengono le proprietà delle due nature - si potranno logicamente formare proposizioni, in cui allo stesso soggetto si applichino attributi risultanti da nature differenti. È ciò che, nel linguaggio teologico, si chiama communicatio idiomatum. Idioma (ἰδίωμα) sta a significare ciò che è "proprio" alla natura; comunicazione (ἀντίδοσις) esprime la possibilità e il fatto di tali affermazioni logiche.

Perché le proposizioni rimangano vere e rispondenti alle norme del linguaggio umano, è da osservare questa regola generale: le proprietà delle due nature possono "in concreto" affermarsi di qualunque nome che dica l'ipostasi o persona, sia che un tal nome comprenda la doppia natura, come Cristo; sia che comprenda la sola natura divina, come Dio; sia che si riferisca alla sola natura umana, come Uomo. Al contrario le proprietà di una natura, prese "in astratto", non si attribuiscono all'altra. Sarà quindi lecito dire: Cristo è eterno, immenso, immortale, nasce nel tempo, muore; oppure: un Dio è uomo, un uomo è Dio, un Dio è nato di donna, un Uomo è figlio eterno di Dio. Viceversa, si cade nel falso, affermando che la divinità patisce, l'umanità è immensa ed eterna, ecc.

Infatti i vocaboli concreti - Dio, uomo, eterno, immenso - importano sempre il soggetto e la persona con la proprietà da essa posseduta: quindi un sostantivo concreto, predicato di un altro anche concreto, dice sempre che una stessa persona ha tale o tale proprietà. Il dogma perciò è salvo. Invece i termini astratti esprimono la natura o le proprietà considerate da sé e non come inerenti alla persona. Perciò, se in astratto di una natura si afferma l'altra o qualcuna delle sue proprietà, si afferma che le nature e le relative proprietà si identificano tra di loro; ciò che è falso. In altre parole, se l'identità si enunzia in ordine alla persona, le proposizioni sono logicamente vere: è ciò che accade coi nomi concreti. Se l'identità si asserisce in ordine alle nature, le proposizioni logicamente sono false: è ciò che accade con i nomi astratti.

A questi vengono equiparati i nomi designanti le parti della natura umana: il corpo, il sangue, l'anima, ecc. Non si dirà che Dio è corpo, sangue, anima, giacché questo genere di asserzioni è legittimo solo quando i termini si riferiscano alla persona. Invece le parti della natura umana, appunto perché tali, non importano il tutto o la persona, ma soltanto ciò che parzialmente concorre a costituirla.

Altra conseguenza dei precedenti principî è che in Cristo si trovano pure due intelligenze e quindi due ordini di conoscenze, il divino e l'umano. Gesù scruta i cuori (Matt., IX, 4), discute con i dottori della legge, insegna al popolo: tutto questo dimostra un'intelligenza e una conoscenza umana.

Quanto alle varie specie di cognizioni umane, si ritiene comunemente nelle scuole cattoliche che l'anima di Cristo possedesse in terra il modo di conoscenza proprio dei beati in cielo, che vedono intuitivamente l'Essenza Divina. Un decreto del S. Uffizio (7 giugno 1918) interdice d'insegnare che: "Non consta che ci fosse nell'anima di Cristo, vivente tra gli uomini, la scienza che hanno i beati o comprensori". La scienza beata conviene alla dignità della persona divina: a un'anima, che è sostanzialinente unita alla divinità, conviene le sia unita nel miglior modo anche con l'intelligenza, il che si ottiene a mezzo della visione intuitiva di Dio. Un'anima che ha ricevuto il massimo dei doni, l'unione ipostatica, non doveva essere priva di un dono tanto minore, qual'è la scienza beata.

G. inoltre ebbe una scienza naturale, "acquisita" con l'esercizio delle facoltà umane, così come entrano in attività e si svolgono negli altri uomini, con i quali ebbe comuni i sensi e l'intelligenza. Egli assunse la natura umana con tutte le perfezioni che le sono proprie; tra le altre quella di arrivare alla conoscenza degli oggetti per via di esperienza sensibile e di lavoro dell'immaginazione. La scienza acquisita non ebbe luogo in Cristo fin dal principio, né raggiunse la sua perfezione fin dalla prima adolescenza. In questo genere di cognizioni Cristo poté veramente progredire e a esso adattare le esterne manifestazioni delle più alte e superiori conoscenze che possedeva. Tale progressiva manifestazione era del tutto necessaria: forse non l'avrebbero creduto vero uomo, se anche nella puerizia avesse dimostrato maturità perfetta di sapienza e scienza.

Altra conseguenza dell'unione ipostatica è che la natura umana si debba adorare con lo stesso culto di latria con cui si adora la divinità. A Dio si presta un culto del tutto peculiare in riconoscimento della sua infinita e incomunicabile eccellenza e del supremo dominio sopra tutte le cose: a questo culto si dà il nome di latria, non applicabile ad altro di grado inferiore, che si rendesse a persona all'infuori di Dio. Il culto di latria poi s'indirizza alla persona come a termine adeguato vero e proprio; se ad altro termine si riferisce, ciò avviene in linea seco1idaria e solo a motivo della persona. L'umanità di Cristo, pertanto, è adorabile non considerata per sé stessa, ma insieme con la divinità e per ragione dell'unione ipostatica col Verbo. Negare l'adorazione così intesa equivarrebbe a negare la divinità di Cristo o per lo meno supporrebbe un'unione delle nature di ordine semplicemente morale, come vollero i nestoriani. Perciò nell'ottavo anatematismo di Cirillo, mentre si vieta di coadorare l'umanità con il Dio-Verbo, quasi fossero due termini completi di culto, si ingiunge di adorare l'Emmanuele, cioè l'Uomo-Dio, con culto unico e indiviso (μιᾷ προσκυνήσει). Similmente il V concilio ecumenico (553) escluse (can. 9) due adorazioni separatamente riferentisi al Dio-Verbo e all'Uomo, ammise un'unica adorazione del Verbo incarnato con la propria carne.

Gesù taumaturgo. - I Vangeli, nel riportare le affermazioni di G. sul suo essere e sulla sua missione, indicano pure le opere prodigiose da lui compiute quali garanzie di cui egli circonda la sua parola, per renderla credibile e accettabile. Una quarantina circa di miracoli si narrano nei Vangeli, dei quali 24 riportati da Matteo, 22 da Marco, 24 da Litca, 9 da Giovanni. Solo comune ai quattro evanglisti è la moltiplicazione dei pani. Di tre morti si narra la resurrezione: la figlia di Giairo tornò in vita al comando di Cristo (Matteo, IX, 18-26, e paralleli); il figlio della vedova, mentre era portato al sepolcro, alle parole di G. si levò a sedere e cominciò a parlare (Luca, VII, 11-17); Lazaro di Betania uscì dal sepolcro, ov'era stato messo da quattro giorni (Giov., XI,1-45). Si ricorda nei Vangeli il dominio di G. sulla natura inanimata: a Cana di Galilea, l'acqua fu cambiata in vino (Giov., II, 1-11); con pochi pani si sfamarono nel deserto migliaia di persone (Matteo, XIV, 15-21; XV, 23-38; Marco, VI, 32-34; VIII, 1-10; Giov., VI, 19-21); i venti e le tempeste del lago di Tiberiade tornarono quieti e tranquilli (Matteo, VIII, 23-27; Marco, IV, 36-41; Luca, VIII, 23-25). Frequenti le guarigioni da diverse malattie: "Dovunque giungeva, mettevano per le piazze gl'infermi e lo pregavano che potessero almeno toccargli il lembo della veste; e quanti lo toccavano erano guariti" (Marco, VI, 56; cfr. I, 32, 39; III, 10; VII, 32). Si riferisce, in particolare, di paralitici, ciechi, sordomuti, lebbrosi, ecc. curati e guariti. Già i farisei contemporanei di G. gli contestavano l'origine divina dei miracoli, attribuendoli ad arti magiche (cfr. Giustino, Dial. c. Tryph., cc 17 e 108). Il pagano Celso, pur accettando la realtà dei fatti, ricorse anch'egli per spiegarli alla magia e a virtù diabolica (cfr. Origene, Contra Celsum, I, 28 e 38).

Molti critici contemporanei acattolici, escludendo la possibilità stessa del miracolo, sono disposti in generale ad accettare la verità storica di quei fatti, ma li ritengono suscettibili di spiegazione psicologica, o li considerano espressioni di stati di animo ed esperienze interne religiose.

Secondo A. Harnack, i miracoli si connettono intimamente con ìl resto del racconto evangelico: ma il critico non è in condizione di giudicarli, quanto a entità e valore. Rimanendo nei limiti della pura storia, bisogna da una parte ammettere l'assoluta immutabilità delle leggi naturali, e dall'altra l'esistenza di zone psichiche poco note. I redattori dei Vangeli, non allenati ai metodi di severa ricerca storica in epoca incline ad accogliere facilmente lo straordinario, parteciparono alla mentalità dei loro coetanei. Alcuni dei miracoli evangelici semplicemente esagerano la natura e la portata di avvenimenti particolarmente importanti; altri traggono origine dalla virtù spirituale di G.; altri si riducono a narrazioni allegoriche e a proiezioni di impressioni soggettive nel mondo esteriore; altri nascono dal desiderio di vedere avverate profezie dell'Antico Testamento. Infine un gruppo di fatti resiste a un'adeguata spiegazione.

La scuola comparatista paragona i miracoli evangelici con i miti e i motivi folkloristici delle altre religioni. Per i seguaci del metodo delle forme letterarie storiche (formgeschichtliche Methode), i miracoli sarebbero creazione normale e spontanea delle primitive comunità cristiane, portate a circondare di prodigi le origini della propria religione, e a dare alle verità religiose forme e vesti di fatti concreti straordinarî. Secondo i modernisti, la fede sublime di G.. operava nella materia effetti a noi ignoti; la suggestione curava le infermità. Il senso religioso dei primi fedeli trasfigurò la figura di G., fino a creare, nel IV Vangelo, un'amalgama di realtà e di simbolismo mistico. Tutte queste spiegazioni, in realtà, si trovano miste l'una con l'altra nei varî autori di ciascuna scuola.

La concezione cattolica mantiene la realtà storica dei miracoli. I Vangeli, anche a prescindere dal loro carattere sacro e dall'ispirazione divina, meritano fede per lo meno quanto altri documenti storici tramandati dall'antichità. I miracoli, nella trama dei Vangeli, si connettono così intimamente con tutto il resto della narrazione, che non si possono eliminare senza turbare profondamente l'armonia dell'insieme. La narrazione evangelica regge e si sostiene, se i miracoli si conservano; cade, se si mettono da parte. Dai miracoli dipende la fede dei discepoli (Giov., II, 11; cfr. III, 2; VII, 31): dopo sedata la tempesta "furono presi da grande timore e dicevano tra di loro: Chi è costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?; "Veramente tu sei il Figlio di Dio" (Marco, IV, 41; Matteo, XIV, 33). I miracoli suscitano l'entusiasmo delle folle, l'odio e l'invidia degli avversarî: i capi dei sacerdoti e i Farisei riuniti a consiglio dicevano: Quest'uomo fa molti miracoli. Se lo lasciamo fare tutti crederanno in lui" (Giov., IX, 47, 48). Spesso le controversie con i Giudei e l'insegnamento di G. si innestano nella realtà del fatto miracoloso: la guarigione operata in giorno di sabato mena alle discussioni sulla vera maniera di santificarlo (Luca, VI, 7); il paralitico curato porge a G. l'occasione di proclamare che ha il potere di rimettere i peccati (Matt., IX, 2; Marco, II, 5; Luca, V, 20); la moltiplicazione dei pani prepara l'annunzio dell'Eucaristia (Giov., VI, 26 segg.).

La tradizione letteraria non manifesta alcuna incertezza; codici, versioni, citazioni sia di scrittori ecclesiastici, sia anche di eretici anteniceni; tutto testimonia la trasmissione uniforme e costante dei racconti di fatti prodigiosi. La distinzione tra miracolo e miracolo non si basa sui testi. A escludere interpolazioni posteriori contribuiscono le circostanze vive e minute di cui frequentemente le narrazioni sono ricche. Gli avvenimenti si svolgono in maniera naturale e semplice, aliena dalla ricerca artificiosa di effetto, in pieno accordo con la missione del taumaturgo. La sua persona si eleva e s'impone: tutto è degno e santo: nessuna traccia di egoismo di cupidigia di onori e ricchezze. Si sottrae all'entusiasmo della folla che, a motivo delle meraviglie operate, vuole proclamarlo re (Giov., VI, 15); invitato a dar saggio del suo potere per soddisfare alle curiosità di Erode e dei cortigiani, si chiude in dignitoso silenzio, provocando il disprezzo e gl'insulti del Tetrarca e dei suoi cortigiani (Luca, XXXIII, 8-11). I prodigi si compiono dappertutto, senza ostentazione, senza preparazione, istantaneamente, accompagnati da gravi e sante parole stimolanti spesso alla penitenza e alla riforma dei costumi.

Ora questi fatti, presi in complesso, trascendono le forze della natura e richiedono un intervento straordinario di Dio, che modifichi, con eccezione temporanea, la stabilità delle leggi naturali. G. operava guarigioni ad altri non concesse: e le operava senza mezzi proporzionati, con immediato successo, non solo da vicino, ma anche da lontano. L'abilità e la destrezza naturale, per quanto raffinata abbracciano un campo di azione ben definito, e raggiungono lo scopo solo con la collaborazione di altre persone messe a parte dei segreti dell'operatore. Di ciò nessun cenno nei Vangeli; né la saggezza e la santità di G. si conciliano con abilità di prestigiatore.

Alle meraviglie operate da G. non si potrebbero assegnare cause di ordine psicoterapico, come l'ipnosi e la suggestione, sotto qualsiasi forma, anche non patologica. I risultati che per questa via si ottengono, dipendono in gran parte dalla fiducia che la forza suggestiva dell'operatore sa ispirare nel paziente. L' immaginazione e l'emotività del malato si prestano docili a subire l'azione di un'altra persona; e la commozione violenta ottiene in alcuni casi, effetti non comuni. Ma la psicoterapia lascia inesplicati quei fatti, in cui è escluso ogni influsso sulla fantasia e sui nervi, quali la resurrezione dei morti, gli effetti straordinarî nella natura inanimata, la guarigione degli assenti. La psicoterapia ha efficacia nelle malattie funzionali, non nelle organiche; di rado raggiunge la piena guarigione; esige tempo e lunga applicazione: condizioni tutte che non si verificano nei miracoli di Cristo.

Una speciale influenza psicoterapica attribuiscono taluni critici alla suggestione religiosa, che opererebbe la guarigione eccitando fortemente la fede nel sofferente. Ora, è vero che G. richiese la fede nei malati (Matt., IX, 28), la fede chiamò operatrice della guarigione (Marco, X, 52; Luca, VIII, 49; XVIII, 42); ma non la domandò sempre, né sempre prima di operare il miracolo (Giov., IX, 35). Malco, privo di fede, è sanato; gli apostoli assistono al fatto già vacillanti nella fede (Luca, XXII, 51). Inoltre, in miracoli quali la moltiplicazione dei pani, la tempesta sedata, i morti resuscitati, non vi è posto per la suggestione religiosa. Recentemente si è da alcuni pochi tentato di ricorrere ai fenomeni spiritici (dato che siano scientificamente accertati) e alle leggi occulte che li governano. I miracoli evangelici tuttavia troppo si distanziano dal modo consueto delle sedute medianiche e dagli stati nervosi in cui cadono i medium. Comunque si spieghino i miracoli, se G. ebbe coscienza di possedere poteri tanto eccezionali e di servirsene a piacere, già questo fatto sarebbe straordinario; se non ne ebbe coscienza, avrebbe agito alla cieca e per caso: la vita, l'opera sua diventerebbero un indecifrabile enigma.

I miracoli storicamente certi e di origine divina sono infine, nella dottrina cattolica, il suggello e la garanzia della parola e missione di G. Era opinione comune presso i Giudei che il profeta dovesse avvalorare con segni divini la persona e opera sua; l'Antico Testamento, specie nei vaticinî messianici, provoca ai miracoli come ad argomenti perentorî. G. volle che i prodigi confermassero la divina sua legazione: al lebbroso guarito ingiunse di presentarsi ai sacerdoti per dichiarare ufficialmente l'avvenuta guarigione (Matt., VIII, 4); ridonò la salute al paralitico perché i Farisei si persuadessero che il Figlio dell'Uomo ha in terra facoltà di rimettere i peccati. Giovanni Battista gli fece domandare: "Sei tu il Messia o dobbiamo aspettarne un altro?" G., che in quella stessa ora curava malati di vario genere, rispose: "Andate, annunziate a Giovanni ciò che avete veduto e udito. I ciechi vedono, gli storpî camminano, i sordi odono, i morti risorgono, ai poveri si predica la buona novella" (Luca, VII, 18-23). Prima di operare il più solenne dei miracoli, la resurrezione di Lazaro, G. pregò il Padre che lo esaudisse, a motivo della folla circostante, "affinché credano che Tu mi hai mandato" (Giov., XI, 42). Di qui la grave responsabilità dei Giudei nel rigettare il legato divino: "Se non avessi fatto opere da nessun altro mai compiute, non sarebbero rei di colpa; ora invece hanno veduto, eppure hanno odiato me e il Padre mio" (Giov., XV, 24). Questo e altri testi analoghi indicano che i miracoli non raggiungono la loro efficacia di segni e suggelli della rivelazione indipendentemente dalle buone disposizioni di mente e di cuore ad accogliere il messaggio divino. Bisogna che tale messaggio trovi l'animo docile e propenso ad accettarlo; dove è durezza di cuore, la parola di G. cade invano. "Nessuno può venire a me, se non è attratto dal Padre mio" (Giov., VI, 44). "Chi è disposto a compiere i miei voleri, conoscerà intorno al mio insegnamento, se viene da Dio" (Giovanni, VII, 17).

Carattfre di Gesù. - G. afferma di essere senza peccato di fronte ai nemici: "Chi di voi mi convincerà di peccato se vi dico la verità, perché non mi credete?" (Giov., VIII, 46); nella cerchia intima degli amici, prima di andare alla morte: "Il principe di questo mondo nulla ha che vedere con me. Ma anché il mondo sappia che amo il Padre, che faccio secondo il Padre mi ha ordinato, levatevi, andiamo" (Giov., XIV, 30-31); in filiale conversazione col Padre, guardando indietro a tutta la sua vita: "Ho compiuto la missione che mi affidasti" (Giov., XVII, V). Nel giudizio (v. sopra, p. 866) non si trovarono valide accuse contro di lui. Quelle in tale e in altre occasioni portate a suo carico o si dimostrano infondate, o tornano a suo onore: per esempio, fu accusato di essere amico di peccatori, di perdonare i peccati, di curare in giorno di sabato i malati, di mettersi a tavola senza prima lavarsi le mani, e di aspirare alla dignità regia sollevando il popolo e rifiutando di pagare il tributo a Cesare.

Varî testi dicono la sua una vita senza macchia sotto ogni rapporto; "Non commise peccato; la sua lingua non trascorse a inganno" (I Pietro, II, 21); "In lui non è peccato" (I Giov., III, 5). Paolo, esprimendo la persuasione della Chiesa primitiva, dichiara di G. che: "Non conobbe peccato" (II Cor., V, 21). Non si ritrova in lui nessun accenno a ricordo di colpa, a rimorso o a necessità di perdono. Insegna ai discepoli a implorare perdono delle colpe, ma non lo domanda per sé; mai si mette allo stesso livello con i peccatori (Matt., VI, 9-14; VII, 11). Recisamente e sempre si oppone al male morale; esige purezza di cuore (Marco, VII, 15-23); ingiunge di sopportare ogni danno, piuttosto che macchiare la coscienza (Marco, IX, 43-49). Ama e compatisce gli erranti con simpatia viva, che lo pone in contrasto con le maniere sprezzanti dei Farisei.

Immune da macchie morali, vive una vita di religiosità intima e intensa. Gli sono familiari le realtà divine, pur camminando sulla terra in mezzo agli uomini; conosce in pieno i misteri del Regno e i consigli di Dio, e agli uomini riferisce serenamente e spontaneamente quello che ha veduto e inteso (Matt., XI, 27; Giov., I, 18; III, 11; VI, 46; VIII, 38; XV, 15). Figlio unico e diletto di Dio, tratta con Dio con filiale abbandono e profondo rispetto. Il primo e maggiore dei comandamenti è, secondo la sua dottrina, amare Dio con tutte le forze e con tutta l'anima. L'amore verso Dio è obbedienza, fedele esecuzione della missione ricevuta, dedizione piena agl'interessi del Padre. "Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato" (Giov., VI, 38). Dell'intima religiosità di G. la preghiera è una delle più significative manifestazioni. Nell'inaugurare la sua missione, prega (Luca, III, 21); per quaranta giorni nel deserto, digiuna e prega; ritiratosi dalla folla prega in luogo deserto (Luca, V, 16); dopo una notte di preghiera elegge i Dodici (Luca, VI, 13). Insegna anche la maniera e la formula della preghiera, il "Padre nostro" (Matteo, VI, 9-13; Luca, XI, 1-4). Mortalmente triste, cerca conforto nella preghiera (Marco, XIV, 36). Sul punto di morire, nelle mani del Padre raccomanda il suo spirito (Luca, XXIII, 26).

Nelle relazioni con gli uomini si dimostra mite, misericordioso, benefico. La vita sua è un succedersi di fatiche, dolori, insidie e contraddizioni, coronata da atroce morte, liberamente e tranquillamente sopportata. Tutti abbraccia nell'universale larghezza dell'amore e della fattiva compassione. Piange sulle miserie altrui (Luca, XIX, 41-42; Giov., XI, 33-35). Lo commuovono a pietà le malattie del corpo e quelle dell'anima; ma le sue preferenze vanno ai moralmente malati. "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a penitenza" (Luca, V, 29-32). La samaritana (Giov., IV), la peccatrice di Magdala (Luca, VII, 36-50), Zaccheo il pubblicano (Luca, XIX, 1-10), l'adultera (Giov., VIII, 1-11), i crocifissori (Luca, XXIII, 34), il ladro sulla croce (Luca, XXIII, 42, 43) sperimentano la bontà del suo cuore. I discepoli impediseono alle madri che gli presentino i loro bambini. "Lasciate" dice G. "che i piccoli vengano a me", e li benedice (Marco, X, 13-16).

Né deroga alla sua consueta mitezza la veemenza di linguaggio con cui investe i farisei (Matt., XXIII). Costoro deformavano la coscienza del popolo e, invece d'una religione interiore e spirituale, imponevano una farragine di pratiche esteriori, con grave danno dei principî stessi della moralità. La missione di G. esigeva che fossero denunziati gli errori e smascherato l'inganno. G. trattò gli apostoli da amici (Giov., XV, 14, 15). Se gli amici si dimostrano spesso angusti di mente, interessati, tardi a comprendere, G. li corregge e ammonisce anche con forti parole, ma la pazienza non viene mai meno e le relazioni si riallacciano affettuose come prima.

G. ha una missione da compiere, affidatagli dal Padre, e la persegue con piena coscienza, senza esitazioni e contro tutte le difficoltà. Luca riporta una risposta data dal dodicenne G., che è la sola parola sua conservataci dal periodo di nascondimento in Nazaret e manifesta un pensiero preciso e maturo. A Maria, che dopo tre giorni di ricerche, lo ritrova a Gerusalemme nel tempio e se ne lagna dolcemente, G., in tono che ha del severo, rammenta i doveri risultanti dalla propria vocazione: "Non sapevate che debbo occuparmi degli interessi del Padre mio?" (Luca, II, 41-50). La coscienza profonda di tale missione anima tutti gli atti della sua vita e gli fa accettare, contemplata con nitida chiarezza, la conclusione della morte.

La persona di Gesù nella storia del pensiero cristiano.

Non ci soffermeremo qui sui passi dei Vangeli che riecheggiano l'impressione suscitata da G. nei contemporanei (p. es. Marco, I, 22 segg.; VI, 3; VI, 14; VIII, 27; Matteo, XI, 2) o nei discepoli (Marco, VIII, 29; Matteo, XIV, 28-33). A intendere perfettamente - anche nella terminologia - le attestazioni neotestamentarie intorno alla persona di G., giova naturalmente riferirsi alle concezioni contemporanee intorno al Messia (v. sopra, e messianismo). Un posto a parte merita tuttavia la designazione "Figlio di Dio", che è messa in particolare evidenza nei rapporti sinottici del battesimo e della Trasfigurazione (v. sopra), quando una voce dal cielo proclama: "Tu sei il Figlio mio diletto (o meglio: unico), in te mi compiacqui" (Marco, I, 11; IX, 7; cfr. Salmo, II, 7; Isaia, XLII, 1; Genesi, XXII, 2). Infatti una variante antica (lo stesso testo originale, secondo B. H. Streeter, The four Gospels, Londra 1924, pp. 143, 188, 276), in più piena conformità al testo del Salmo II, 7, reca: tu sei il figlio mio unico, oggi io ti ho generato (D; a, b, c, ecc.; Giustino, Clemente Alessandrino; forse il Diatessaron, cfr. Lagrange, in Revue biblique, 1922, p. 168; cfr. altresì il frammento dell'apocrifo Vangelo degli ebioniti, in Epifanio, Panarion, haer., 30, 13). E questa variante ci mette subito di fronte all'interpretazione che dell'appellativo "Figlio di Dio" fu data in talune correnti del cristianesimo primitivo.

Ma lo stesso concetto della filiazione divina di G., per cui "nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio" (Matteo, XI, 27), è riaffermato nel Vangelo e nelle Epistole giovannee, dove anzi il termine Figlio (o "Figlio di Dio" o "dell'Altissimo") ricorre proporzionalmente con maggior frequenza che in ogni altro libro del Nuovo Testamento; e l'affermazione è fatta polemizzando contro l'incredulità dei Giudei, in un passo (Giovanni, X, 33 segg.) dal quale risulta altresì chiara l'equivalenza tra le formule esprimenti la filiazione divina e quelle che pongono l'unità del Figlio e del Padre. Su tale ordine d'idee s'innesta a sua volta l'idea del Verbo (Logos), luce verace che illumina ogni uomo veniente in questo mondo, e ch'era presso Dio, e Dio, e creò il mondo, e divenne carne e abitò tra noi, e a quanti credettero nel suo nome concesse di divenire figli di Dio (Giov., I, 1-14). Giova altresì tener presente la cura con la quale nel IV Vangelo sono del pari messi in evidenza il carattere soprannaturale di G. e delle sue azioni (non solo i miracoli, ma, p. es., la facilità con cui egli si sottrae ai nemici e la piena spontaneità della dedizione che fa di sé stesso ai soldati mandati ad arrestarlo, dopo che questi sono già caduti a terra: Giov., XVIII, 4 segg.) e insieme la realtà del suo corpo umano.

S. Paolo, in un passo considerato come classico, propone come esempio di umiltà e carità "Gesù Cristo, il quale, essendo in forma di Dio, non ritenne rapina l'essere uguale a Dio, ma svuotò sé stesso prendendo forma di schiavo, riducendosi in somiglianza d'uomo, e nella figura essendo stato trovato quale uomo, umiliò sé stesso facendosi suddito fino alla morte, e morte di croce" (Filippesi, II, 6 segg.).

Umanità e divinità insieme, dunque; ma non era facile, in una formulazione razionale e sistematica, affermare l'una senza scapito dell'altra, o viceversa. E la storia della teologia cristiana sino al concilio di Calcedonia, e in parte anche dopo, si può considerare appunto come una lunga e laboriosa serie di sforzi del pensiero cristiano per esprimere adeguatamente il rapporto tra l'elemento umano e il divino in Cristo; ossia il punto centrale e, per così dire, il nucleo della fede cristiana. Ché ogni posizione assunta riguardo alla cristologia si riflette immediatamente, com'è ovvio, nella soteriologia e nella teodicea; ma non meno fortemente nell'escatologia. E, dal punto di vista filosofico, ecco entrare in giuoco, con la cristologia e la teodicea, i più ardui problemi della metafisica; con la soteriologia e l'escatologia, quelli della morale. Sicché non esiste, si può dire, eresia, da qualunque punto dogmatico prenda le mosse, la quale non abbia anche le sue ripercussioni nella cristologia.

Il cristianesimo nasceva, ereditando dall'Antico Testamento il monoteismo, e nasceva in un ambiente, nel quale erano particolarmente vive le speranze messianiche del giudaismo. L'idea di un restauratore del regno nazionale - anche nella sua forma più vasta, per cui Israele sarebbe stato quasi un popolo sacerdotale per tutte le nazioni, tratte al culto vero dell'unico Dio - si poteva conciliare con quella della filiazione divina di G. solo considerando come primario e prevalente l'elemento umano. In tal modo, anche la parvenza di un pericolo per il monoteismo era altresì eliminata. E per alcuni G. fu l'uomo moralmente perfetto, designato da Dio come Messia e instauratore del Regno di Dio, adottato come Figlio e proclamato tale, nel momento in cui lo Spirito divino s'era posato su di lui. È questa la corrente teologica alla quale, per questa concezione caratteristica, fu dato il nome di adozionismo (v.). Per essa Cristo era, secondo la tradizione del giudaismo normativo, un Messia puramente umano; benché non un semplice liberatore del suo popolo, ma un redentore; tale, tuttavia, in quanto maestro di morale, la cui opera si riduceva a una predicazione, pure avvalorata e coronata da miracoli e dalla continua assistenza del Padre. Compito dell'uomo era seguirne i precetti, imitarlo, anche nell'ubbidienza e nella virtù eroica con cui aveva subito la croce; ma compito, al quale si poteva supporre che le sole forze dell'uomo fossero in tutto sufficienti. Rimaneva così anche intatto il valore della Legge, anzi, arrivando alle conseguenze estreme, si sarebbe potuto sostenere ch'era ancora indispensabile la stessa circoncisione. Sotto questo punto di vista, è lecito scorgere una certa parentela spirituale tra gli adozionisti avversarî della gnosi, i giudaizzanti avversarî di S. Paolo (il Vangelo degli ebioniti è significativo) e, circa quattro secoli dopo, Pelagio.

S'è nominata la gnosi. L'idea d'una filiazione divina era tutt'altro che ignota alla mitologia classica, la quale conosceva eroi, nati da un connubio tra una divinità e un essere umano, e assunti in cielo alla fine della loro carriera mortale. Eroi erano considerati i fondatori di città; a loro volta i sovrani ellenistici ricevevano l'apoteosi, e come dèi "manifesti" (ἐπιϕανής) e "salvatori" (σωτήρ) erano salutati anche in vita. Il dio redentore dei misteri era per lo più, non la divinità suprema, ma figlio di essa. E come eroe o figlio di un dio finì per essere considerato anche il sapiente, il mago, il filosofo: predicatori religiosi che asserivano d'essere venuti a recare la salvezza al genere umano, sepolto nell'ignoranza e destinato altrimenti a perire, erano tutt'altro che rari. In questa sfera di concezioni religiose ellenistico-orientali, non contrastanti con il politeismo tradizionale, ma dominate da preoccupazioni soteriologiche, la salvezza - immortalità beata dell'anima - era procacciata al fedele sia dal suo immedesimarsi come "mista col dio redentore, ucciso e risorto, condividendo così la sua sorte (e ciò avveniva attraverso la partecipazione al rito, che il racconto sacro spiegava), sia accettando la dottrina liberatrice e purificatrice (che a sua volta amava rivestirsi di forme mitiche) predicata dal redentore venuto a portare al genere umano la conoscenza salutare e suprema, o gnosi, mediante la quale si poteva attuare la necessaria liberazione graduale dell'anima dall'ignoranza e dalle tenebre in cui il contatto col corpo, la materia, il male, l'aveva sommersa. Il conseguimento della salvezza non dipendeva dunque dal conformarsi a precetti morali, dal compiere opere eticamente buone. Né contrasta con ciò il fatto che, se taluni gruppi professavano un aperto indifferentismo etico, altri praticavano un rigido ascetismo; giacché anche tale ascetismo non era considerato se non come un mezzo per attuare l'indispensabile purificazione rituale o intellettuale, per liberarsi dalla schiavitù della materia e del corpo, affine di venire in contatto con il divino. E la cultura filosofica e religiosa prevalente nell'età ellenistica nella quale si fondevano insiemne elementi orientali e greci, induceva a moltiplicare le ipostasi divine, per trovare in qual che modo una mediazione tra Dio trascendente e il mondo, che, con il male a esso inerente, non poteva essere stato creato dall'Essere supremo, ma solo da un essere divino decaduto e pur aspirante a ricongiungersi con la pienezza e perfezione della divinità. Ma il redentore, appunto come essere divino, non poteva, in base a quei presupposti, avere realmente rivestito un corpo umano, sofferto, subìto la morte: carne, sofferenze, transito, non potevano essere stati che apparenti. Non è nostro compito indagare qui in quale misura le concezioni religiose ellenistico-orientali penetrassero fra i cristiani primitivi (v. gnosticismo), e nemmeno le origini dell'ascetismo cristiano (v. ascetismo; IV, pag. 795). Solo importa notare che la negazione della realtà del corpo di Cristo (docetismo"; v.) è comune a quasi tutti i varî sistemi gnostico-cristiani, a eccezione, forse, di quelli di Carpocrate e di Eracleone (anche Clemente Alessandrino ritiene il corpo di Gesù reale, ma esente dalle necessità corporali); che il dualismo radicale, su cui si fondava l'ascetismo di tipo gnostico, qualcosa di profondamente diverso dalla contrapposizione cristiana, fondata su presupposti etici ed escatologici, tra il "secolo presente malvagio" (Galati, I, 4) e il Regno di Dio. Infine, un Cristo esclusivamente divino e venuto a redimere il mondo, o si confondeva con il redentore dei misteri e diventava un secondo Dio, mettendo in pericolo il monoteismo; o era il rivelatore d'una più perfetta dottrina, e la redenzione si riduceva a un'illuminazione intellettuale e (annullata la realtà della passione e della resurrezione) tutta simbolica.

Ma non si poteva ridurre a nulla la soteriologia, né appagarsi d'un Messia puramente umano. D'altra parte, il concetto d'un redentore divino, se poteva riuscire accettabile alla mentalità ellenistica, presentava una certa difficoltà per il fatto che il cristianesimo non intendeva certo abbandonare né attenuare quel monoteismo al quale, anche tra i pagani, gli spiriti superiori si sforzavano di pervenire attraverso forme svariate di sincretismo, intuendone, sia pur vagamente, la superiorità. Da ciò i numerosi e diversi tentativi di salvare l'unità divina. Una classificazione di questi - che dev'essere necessariamente logica, astraendo fino a un certo punto dalla cronologia, in quanto le varie correnti si perpetuano - rischia di rimanere imprecisa, perché da presupposti simili vediamo talvolta dedotte conclusioni contrastanti, e da principî divergenti illazioni affini. Tuttavia, in maniera generica e sommaria, possiamo, messo da parte il docetismo, catalogare insieme le soluzioni che più recisamente asserivano di voler salvare l'unità di Dio e del suo governo nel mondo, la cosiddetta "monarchia" divina: adozionismo da una parte e "monarchianismo" dall'altra. Questo s'opponeva al precedente, in quanto, non rassegnandosi a un Cristo puramente umano, finiva con l'ammettere, reagendo in pari tempo al docetismo, all'emanatismo e al dualismo della gnosi e di Marcione, che in G. un solo Dio, una sola persona divina si fosse incarnata, e cioè lo stesso creatore, il Padre. Onde la conseguenza che passione, morte e resurrezione fossero state subìte e compiute dal Padre (patripassianismo): sistema semplicistico, proprio di menti meno colte, e che certo fra gli strati più umili delle comunità cristiane dovette trovare i suoi non pochi seguaci. Le implicazioni fondamentali della fede - monoteismo e realtà umana e divina del redentore - erano infatti salve; a scapito però di un adeguato concetto del divino, di cui si manteneva senza dubbio la personalità, affermata dalla rivelazione, ma si negava la trascendenza. Soddisfaceva invece a questa esigenza, e insieme a quella di trovare un intermediario fra Dio trascendente e il mondo, non solo nell'opera della redenzione ma nella creazione e nella rivelazione, il concetto di Verbo. Logos era termine comune a varie correnti speculative, compresa quella di Filone, che aspirava a tradurre in termini filosofici il contenuto della religione giudaica; e la "parola" di Dio - che poteva significare l'ordine da lui dato nella creazione, o la Legge, ed era infine diventata nella letteratura rabbinica una semplice metonimia per Dio - si prestava a esprimere una vera e propria "ipostasi" divina. Inoltre, logos indicava la parte più alta dell'anima umana, la suprema facoltà dell'intelletto: pertanto con l'uso di questo termine si veniva ad affermare l'esistenza d'un rapporto tra il Logos divino e il logos dell'uomo, con che si spiegava anche meglio la redenzione. Questa teologia del Logos è quella che ha senza dubbio il sopravvento nella speculazione cristiana dei primi secoli, e ne rappresenta la corrente principale, dagli apologeti greci, attraverso Clemente alessandrino, a Origene e ai suoi continuatori. Essa presentava inoltre, per l'apologetica e per i cristiani più colti, già preoccupati del problema dei rapporti tra la nuova fede e la cultura classica, l'altro grande vantaggio, di presentare l'intera storia dell'umanità come l'attuazione di un grandioso piano della Provvidenza, che ai Giudei aveva dato la rivelazione più alta dell'Antico Testamento, e ai Greci quella, inferiore ma per nulla spregevole, della filosofia. Soprattutto in Clemente e in Origene, questo motivo acquista un'importanza fondamentale. Ma qual era in realtà il rapporto tra il Logos e Dio Padre? Esclusa ogni pluralità di dèi, si doveva concepire il Verbo come subordinato a Dio, secondo Dio, inferiore al Padre e da lui generato nel tempo, cioè creato (come in seguito avrebbe affermato l'arianesimo); ovvero come coeterno al Padre (benché "proferito" in un dato momento) e in tutto identico a Lui, semplice modo di esistere di Dio (modalismo)? Si riproducevano nella teologia del Logos, di fronte alle stesse difficoltà, posizioni affini a quelle già esaminate: il subordinazionismo spinto riduceva il Verbo a una semplice creatura; il modalismo gli negava una personalità distinta: il primo conteneva in sé il germe dell'adozionismo, l'altro era patripassianismo larvato.

Va tenuta distinta, pur presentando qualche somiglianza con il modalismo, un'altra corrente teologica la quale, poi, non respingeva apertamente neanche il termine Logos; è quella che molti storici del pensiero cristiano chiamano ora, riesumando un termine antico, la teologia "economica". Per bocca di suoi rappresentanti cospicui, essa tuttavia combatté la teologia del Logos non meno che il docetismo e il patripassianismo; assunse aspetti diversi, ma tutti contrassegnati da una medesima caratteristica fondamentale, che è l'importanza data alle concezioni e alle speranze escatologiche, in diretta antitesi con le correnti gnostiche. Fu questo atteggiamento che permise a Ireneo, forse ricollegandosi a una più antica corrente di pensiero asiatica, di approfondire, in modo indipendente dalla gnosi, il concetto di redenzione; sicché, pur senza investigare a fondo il problcma trinitario, egli pone in luce la duplice natura, umana e divina, di Cristo. Questi, a causa del suo amore infinito, divenne ciò che noi siamo, affinché potesse fare di noi ciò ch'è egli stesso; in lui tutto è ricapitolato: così Cristo è al centro della οἰκονομία, la sagace e provvidenziale "amministrazione" di Dio attuante il suo piano; e, se pure in qualche passo appare ancora subordinato al Padre, egli acquista, come Dio e Verbo, una personalità pienamente distinta, almeno con l'inizio della sua missione di rivelatore e redentore, cioè con l'Incarnazione. Per Ippolito, il Logos è l'intelligenza, la sapienza, la parola di Dio: dapprima contenuto in lui, ne procede nel momento della creazione, ma diventa perfettamente Figlio di Dio solo con l'Incarnazione. Tertulliano, a sua volta, nel De carne Christi difende la realtà del corpo di G. (ché altrimenti sarebbe messa in forse la resurrezione dei corpi, propugnando la quale egli giunge a sostenere la corporeità dell'anima) e nell'Adversus Praxean, combattendo il monarchianismo patripassiano, mantiene fermamente l'unità della sostanza divina e la distinzione delle persone, con la distinzione delle due nature, umana e divina, in Cristo: unicum quidem Deum credimus, sub hac tamen dispensatione, quam oikonomian dicimus, ut unici Dei sit et filius, sermo ipsius, qui ex ipso processarit... hunc missum a patre in virginem et ex ea natum, hominem et deum, filium hominis et filium dei... Il Verbo (λόγος, cioè piuttosto ratio che sermo) era da principio in Dio, dentro di lui, a modo di pensiero che sta per essere espresso con la parola (tacite cogitando et disponendo secum quae per sermonem mox erat dicturus), e prese aspetto e bellezza propria, suono e voce, al momento della creazione. Come la differenza delle persone non esclude l'unità di sostanza in Dio, così v'è duplicità di natura e unità di persona in Cristo: videmus duplicem statum, non confusum, sea coniunctum, in una persona, deum et hominem Iesum - de Christo enim differo - et adeo salva est utriusque proprietas substantiae, ut et spiritus res suas egerit in illo, id est virtutes et opera et signa, et caro passiones suas functa sit. Tuttavia, se la posizione antignostica e l'escatologia montanistica lo inducono a mantenere l'unità di Dio e la distinzione delle persone (egli attende, dopo l'èra del Figlio, quella dello Spirito), e se l'acutezza dell'ingegno e la sua mentalità giuridica di Romano gli fanno trovare efficaci immagini e formule tra le più vicine alle definizioni conciliari, Tertulliano non evita del tutto il subordinazionismo (sic et pater alius a filio, dum filio maior) e l'unione del divino e dell'umano in G. è da lui concepita come semplice assunzione di un corpo umano - non della persona totale - da parte del Verbo (Iesus... ex carne homo, ex spiritu deus; cfr. Adv. Prax., 2; 3; 5; 7; 9; 27).

Allo stesso modo, il subordinazionismo si ricavava da parecchie affermazioni di Origene, mentre il termine "consustanziale" (ὁμοούσιος) veniva respinto dal concilio d'Antiochia che condannò Paolo di Samosata (268 o 269) e insieme accolto, nella propria apologia, diretta a Dionigi di Roma, da Dionigi d'Alessandria. Appare da ciò quanta imprecisione e incertezza vi fosse ancora in molte menti e nell'uso dei termini. Ma la discussione teologica, impostata su quelle basi, si svolge tutta a proposito della Trinità, benché anche queste controversie trinitarie non senza frutto si studiino considerandole dal punto di vista cristologico, che a tutte soggiace. Atanasio, che tanta importanza dà all'espiazione e alla redenzione operate da Cristo, che tiene cioè soprattutto a mettere in salvo la realtà della redenzione, è appunto perciò il principale avversario dell'arianesimo (v.) e difensore della formula nicena. Ma tra gli stessi campioni di questa alcuni, come Fotino di Sirmio e Marcello d'Ancira, intesero il termine "consustanziale" in un senso ristretto e letterale, che finiva per annullare la distinzione delle persone, tornando a una forma di modalismo o di teologia "economica". Condannati costoro, e vinta la corrente ariana, restava pur sempre da spiegare il rapporto tra il Logos divino e la natura umana nella persona del Cristo: il problema si poneva ora per la prima volta, dopo il riconoscimento della consustanzialità del Figlio col Padre, di fronte all'affermazione della Scrittura (Luca, II, 40) che G. fanciullo cresceva in forza e in sapienza. Non era che una scappatoia poco felice il dire che il Vangelo si riferisce qui solo al corpo; ammettere la possibilità di un progresso, cioè di mutazione, nel Logos, era ricadere nell'arianesimo; dire che la dimora del Verbo in Cristo si riduceva a una semplice ispirazione, era fare di G. un profeta, sia pure superiore agli altri, e annullare la realtà della redenzione, che esigeva l'opera di un Dio. Per chi ammetteva la tripartizione dell'uomo in spirito (o: mente), anima e corpo, e d'altra parte non riusciva a scorgere differenza tra i concetti di "natura" e di "persona", non v'erano se non due vie: negare che Cristo possedesse una mente (o: spirito) umana, sostenendo che il Logos divino ne avesse preso il posto, e ammettendo, forse in base a quanto aveva pensato Origene, che l'incarnazione fosse dovuta a un atto volontario di Dio, a un suo autonomo "svuotamento" (κένωσις: cfr. Filippesi, II, 7) per cui s'era sottomesso a tutte le limitazioni proprie dell'umanità; oppure concepire la mente umana come sperduta, sciolta, assorbita nel divino, come una goccia d'aceto nell'oceano. La prima via fu seguita da Apollinare di Laodicea, la seconda, p. es., da Gregorio di Nissa. Un'altra difficoltà si presentava: Apollinare chiedeva come mai, se il Cristo avesse assunta una natura umana completa, con mente umana, posto che questa non può non avere pensieri peccaminosi, egli avrebbe potuto essere senza peccato. La risposta di Atanasio era che il peccato o meglio la tendenza a esso, era una disposizione infusa nell'uomo dal Demonio, non un attributo inerente alla natura umana. D'altra parte, in Occidente, Ottato di Milevi rimproverava al suo avversario Parmeniano di aver "trattato male" la carne di Cristo, "quae specialiter illius erat... de spiritu sancto concepta... quae nullum videbatur admisisse peccatum" (I, 8). Era questo un punto che stava a cuore agli Occidentali; anche Ilario di Poitiers parla del corpus caeleste di Cristo e della sua carne de caelis; senza che per questo, di fronte alle spiegazioni che Ilario stesso dà, sia lecito accusarlo di vero e proprio docetismo: quel docetismo che gli avversarî scorgevano invece nel pensiero di Apollinare, e che forse fu di qualche suo discepolo; cui in ogni modo si può arrivare solo spingendo fino alle conseguenze estreme la negazione, che Apollinare aveva fatta, di una vera e completa natura umana in Cristo.

Così, senza che le posizioni estreme - adozionismo e docetismo - fossero in realtà mai raggiunte, il dissidio si prolungava attraverso le discussioni tra le due scuole d'Alessandria e d'Antiochia. Ma la controversia, raggiunta e assodata la definizione dogmatica della Trinità, si svolge ora sul terreno propriamente cristologico. Si tratta di decidere, se nella persona di G. il Logos divino abbia una preponderanza assoluta e tale da ridurre presso che a nulla l'elemento umano, o se viceversa la completezza di questo sia tale, da costringere a una separazione abbastanza netta tra esso e il Verbo consustanziale a Dio Padre. Nel primo caso, con gli Alessandrini, spingendo all'estremo la negazione dell'umanità, si finirebbe per ridurre il corpo a una mera apparenza; nel secondo, con gli Antiocheni e sempre giungendo all'estremo, si rischia di fare del Cristo un semplice uomo ispirato, un profeta, un maestro di morale. In realtà, attraverso il contrasto in cui ciascuna delle due parti sottolinea uno degli elementi della veriti, si viene a poco a poco faticosamente elaborando la nuova definizione dogmatica. Alessandria sottolineava il divino, che quasi assorbiva l'umano: senza negare questo, e pertanto la duplicità delle nature, ubbidiva a un impulso che spingeva ad affermare soprattutto l'unità. Antiochia sottolineava l'umano e sentiva ripugnanza a unire con esso immediatamente il divino, il trascendente: tendeva perciò a separare, o almeno a distinguere fortemente, le due nature. Ma unione e distinzione - se non separazione - delle nature, rischiavano, data l'ancora incerta terminologia, di diventare unione e distinzione, o addirittura separazione, di personalità.

Teodoro di Mopsuestia mirava a escludere l'apollinarismo; inoltre portava anche nello studio di questo argomento il carattere razionalistico e positivo che distingue l'esegesi biblica della scuola antiochena. La "dimora" di Dio nei santi non può essere una "dimora", della sua essenza, né della sua energia, perché Dio è infinito, e si giungerebbe in tal caso a due conclusioni ugualmente assurde: o Dio sarebbe solo nei santi in cui "dimora" cioè finito, oppure Dio "dimorerebbe", secondo la promessa, non solo nei santi, ma in ogni cosa. Dunque questa "abitazione" di Dio nei santi, loro promessa, non può essere che morale; solo rispetto alla sua approvazione si può dire che Dio è lontano o vicino, presente o assente. Tale, benché in misura incomparabilmente superiore, è l'abitazione di Dio in G.: la sua unione con Dio è cominciata fin dal concepimento nel grembo della Vergine, e il divino si è associato in lui interamente all'umano: ciò distingue G. da tutti gli altri uomini. Ma l'unione delle due nature in una sola è da Teodoro paragonata a quella dei coniugi, che nel matrimonio sono, secondo la Scrittura, "una carne sola". Per quanto si possa ammettere che Teodoro intendesse riconoscere, con la duplicità delle due nature, l'unità della persona, quest'unità è pur sempre solo morale; e Teodoro, benché usi anche il termine "unione" (ἕνωσις), preferisce parlare di "congiunzione" (συνάϕεια). Procedendo sulle orme del maestro, Nestorio, divenuto patriarca di Costantinopoli e messosi a combattere tutte quelle che gli parevano eresie, si oppose all'uso del termine "genitrice di Dio" (ϑεοτόκος, deipara) applicato alla Vergine. La ragione addotta era questa: Dio - infinito ed eterno - non può essere stato generato da una donna; una "nascita" del divino, così intesa, ci riconduce alle grossolane concezioni della mitologia pagana. Si dica, se si vuole, "genitrice di Cristo" (χριστοτόκος), intendendo con ciò che la Vergine è madre dell'elemento umano. Ma se l'obiezione così formulata sembra irresistibile, d'altra parte l'opporsi al theotókos poteva implicare che il Figlio della Vergine non fosse Dio; e l'uso di christotókos senza ulteriori spiegazioni era una scappatoia, che, volendo ricondurre la pace, non contentava nessuno e divideva vieppiù gli animi. Non è qui il luogo di narrare gli eventi della controversia, prima e dopo il concilio di Efeso (v.), e di giudicare la condotta dell'avversario diretto di Nestorio, Cirillo di Alessandria (v.). Se larga parte della critica moderna, in seguito alla scoperta del Libro di Eraclide, è oggi, anche fra cattolici (v. p. es. E. Amann, Nestorius, in Diction. de théol. cathol., XI, 1, coll. 76-157), incline a maggior benevolenza verso Nestorio e riconosce che "su un punto capitale, quello della distinzione delle nature e della realtà delle loro operazioni, Nestorio è perfettamente d'accordo con i concetti calcedoniani" (art. cit., col. 155), resta pur sempre la condanna romana, precedente il concilio efesino e non provocata, o almeno non esclusivamente, da Cirillo. E Roma colse in Nestorio colui che, sia pure attraverso una, in apparenza innocente, richiesta di spiegazioni, tentava d'interporsi a favore di quel pelagianesimo, i cui rappresentanti, colpiti in Occidente, avevano trovato simpatie e consensi nella scuola antiochena; è soprattutto un pelagiano che viene combattuto in Nestorio da Cassiano (così anche E. Amann, articolo citato, coll. 99-100). Ma appunto la concezione che Pelagio si faceva della salvezza riduceva il Cristo a un puro maestro o profeta, e annullava in lui quasi completamente il divino, contentandosi di una semplice ispirazione o illuminazione intellettuale, e non aveva neppure - tanto meno, anzi - bisogno di affermare che la sua carne era immune dalla corruzione del peccato d'origine. Sostenere questo, o parlare di un Verbo ipostaticamente unito alla carne, era per Nestorio cadere nel docetismo: ché una carne, per contenere il divino, avrebbe dovuto essere anch'essa di natura divina ed estesa all'infinito. Nestorio ragionava e deduceva, e anche gli ariani avevano ragionato; Cirillo, più preoccupato della redenzione e più attento alle esigenze della pietà e del culto, rifiuta assolutamente di dividere in due il Cristo e di venerarlo come uomo insieme col Logos; e afferma che, se l'unione non distrugge la differenza delle due nature, entrambe concorrono in modo misterioso e inesprimibile a formare l'unico Signore e Figlio Gesù Cristo. Che questo intendesse Cirillo, parlando, con frase non troppo felice, dell'"unica natura incarnata del Verbo", o che per lo meno egli riconoscesse la necessità di non togliere di mezzo la distinzione - almeno nel nostro pensiero - tra le due nature, appare chiaro allorché si esamina la formula dell'accordo definitivo del 433 tra Cirillo stesso e Giovanni di Antiochia. Essa parla di Cristo come di "Dio completo e uomo completo, con anima razionale e corpo; generato dal Padre per quanto concerne la divinità prima dei tempi, ma nondimeno negli ultimi giorni, per causa nostra e della nostra salvezza, da Maria Vergine per quanto concerne l'umanità; consustanziale al Padre per quanto concerne la divinità, e nondimeno consustanziale a noi per quanto concerne l'umanità; poiché è stata effettuata un'unione delle due nature, e perciò confessiamo un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore". Essa rendeva piena giustizia alle due esigenze, benché lasciasse ancora indefinito il modo dell'unione. Ma, se il fatto che questa formula venne proposta da Giovanni tende a provare che anche la scuola antiochena tendeva effettivamente a definire la persona di Cristo in questo senso, e se si può riconoscere che anche Nestorio mirava ad affermare, con le due nature, anche la loro unione (benché la sua fosse piuttosto "congiunzione" che "unione"), sta anche di fatto che, a parte una spiegabile reazione contro l'aspro modo di procedere usato nei confronti di Nestorio, vi furono dei vescovi i quali non accolsero quella formula, dando così inizio alla chiesa nestoriana separata; come vi furono altri vescovi che non intendevano le formule di Cirillo nello stesso modo del patriarca alessandrino, e lo criticarono per avere accettato l'accordo. Che in realtà molti della scuola alessandrina e dell'episcopato egiziano intendessero l'unione effettuata in modo da trasmutare completamente e disperdere la natura umana nella divina, appare evidente dalle polemiche sorte poco dopo la morte di Cirillo, e che condussero alla formulazione della fede ortodossa in Calcedonia e alla separazione dei monofisiti.

Eutiche intendeva infatti le formule cirilliane nel senso che dopo l'unione non vi fosse in Cristo che una sola natura; se probabilmente non disse proprio che il Logos aveva portato il suo corpo dal cielo, egli riteneva però che la natura umana fosse stata come assimilata dal Logos; con ciò, il corpo cessava di essere identico al nostro, diventava un corpo divino. Anche a questo proposito, non ha interesse per noi la storia esterna della controversia, attraverso i due momenti culminanti del "latrocinio" di Efeso (449) e del concilio di Calcedonia (451). La formula approvata da questo, escludendo insieme e definitivamente le eresie di Nestorio e di Eutiche, chiude il periodo di elaborazione della definizione dogmatica della cristologia. Essa afferma che l'unico e medesimo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore, è insieme vero e perfetto Dio, vero e perfetto uomo, dotato di anima razionale (contro Apollinare) e di corpo; coessenziale a Dio nella divinità, coessenziale a noi nell'umanità, uguale a noi per ogni riguardo, eccetto che per il peccato; le due nature non si confondono, non si mutano, ma nello stesso tempo non sono separate; cioè, se la differenza delle nature non è distrutta dall'unione, neppure questa è tolta di mezzo o diminuita dalla differenza delle nature, ché unica è la persona di Gesù Cristo. La lettera o tomus (τόμος "breve spiegazione", detto soprattutto delle lettere sinodiche) di Leone Magno a Flaviano di Costantinopoli e solennemente approvata dal concilio spiega anche meglio il senso della definizione. Il Figlio di Dio è consustanziale e coeterno al Padre; la sua nascita temporale non aggiunge né toglie nulla alla sua natura divina, ma è avvenuta al solo scopo di redimere l'uomo, facendo assumere la natura umana a chi era esente dal peccato e non sottomesso alla morte. Quanto al peccato che il demonio ingannatore introdusse nella nostra natura, di esso non v'è traccia nel Salvatore. Le preoccupazioni prevalentemente soteriologiche degli Occidentali, specialmente dopo Agostino, sono palesi in questo scritto e, entrando nelle discussioni di carattere più tecnico e più metafisico dei Greci, permettono di correggere le esagerazioni, di dare, per così dire, alla dottrina cristologica tono e sapore. La dottrina agostiniana del peccato originale e trasmesso conduce a precisare a un tempo la perfetta divinità e la perfetta umamtà del Salvatore, e la sua immunità dal peccato originale; così Cristo è veramente colui che, essendo senza peccato e "fattosi maledizione per noi" (Galati, III, 13), riconcilia l'umanità a Dio. L'incarnazione è un atto volontario di Dio sommamente buono: la nozione, derivata dal passo famoso di San Paolo, dello "svuotamento" (κένωσις) che Dio ha fatto di sé stesso ritorna ad acquistare in primo luogo il significato ch'essa aveva per il suo autore (v. sopra, p. 872). Ireneo aveva spiegato che Cristo era stato uomo per poter essere tentato, Logos per poter essere glorificato; ma, mentre l'uomo era tentato e soffriva e moriva, il Logos se ne stava come in riposo (ἡσυχάζοντος τοῦ λόγου); per Ilario, anche nella "forma di schiavo", il Verbo non aveva cessato di essere sé stesso, pur accettando la limitazione che gli rendeva possibile di assumere la natura umana; ma Origene aveva interpretato la kénüsis in maniera intellettualistica, come un atto di Dio che si sforza di rendersi intelligibile all'uomo, il quale solo per gradi può assurgere alla contemplazione della divinità. Il "Tomo" di Leone, senza entrare in particolari, afferma l'interpretazione soteriologica: Dio diventa uomo e di invisibile si fa visibile, non perché la sua onnipotenza venga meno, ma proprio in virtù di questa onnipotenza, mossa a compassione dell'umanità: "ogni natura conserva le sue caratteristiche senza diminuzione e, come la forma di Dio non annulla la forma di schiavo, così la forma di schiavo non detrae nulla alla forma di Dio". Il centro (per così dire) della personalità unica di Cristo rimane tuttavia la divinità: quella che il Logos assume è la natura umana, l'umanità, non la persona di un uomo. Ma l'unità di persona è tale, che G. è al tempo stesso il Figlio di Dio e il Figlio dell'uomo; passione e gloria, divinità e morte, possono essere predicate tanto dell'uno quanto dell'altro (communicatio idiomatum, ἀντίδοσις τῶν ἰδιωμάτων; v. sopra p. 869 seg.).

A questo punto e con il distacco dei monofisiti, si può anche ritenere che la discussione teologica sia terminata. Invero, i ripetuti tentativi degl'imperatori ("Enotico" di Zenone, decreti di Giustiniano e condanna dei "Tre capitoli", "Ectesi" di Eraclio, "Tipo" di Costante II) per trovare una formula d'intesa che permettesse di riconciliare i monofisiti, benché per necessità di cose implichino discussioni teologiche, che appassionano più di un sovrano per sé stesse, e benché provochino scoppî di passione religiosa, sono però determinati da preoccupazioni politiche - non perdere il dominio delle provincie dove i monofisiti sono maggioranza - e hanno le loro ripercussioni nel campo della politica e della disciplina ecclesiastica: Roma non vuole sottomettersi né all'autorità imperiale né al patriarcato di Costantinopoli. Ma i dissensi disciplinari implicano sempre una differenza di posizioni teoriche, non foss'altro che quanto al modo di concepire il carattere e la costituzione della Chiesa; e tutte le soluzioni troppo logiche, sia per quanto riguarda la Trinità sia per quanto concerne la persona di Cristo, eliminando il mistero, scalzano contemporaneamente le basi della Chiesa, come società religiosa e autonoma. Per di più, nell'interno stesso della Chiesa monofisita, incominciano i dissensi, che dividono severiani (seguaci di Severo d'Antiochia) o "corrutticoli" (per cui il corpo di Cristo prima della risurrezione era soggetto alla corruzione) dai "giulianisti" (seguaci di Giuliano di Alicarnasso) che sostenevano il contrario e vennero pertanto detti aftartodoceti (v.) (con la loro dottrina dell'incorruttibilità del corpo di Cristo lo riducevano a una mera apparenza), agnoeti e niobiti (seguaci di Stefano Niobe, sec. VI); al "triteista" Giovanni Filopono (v.) rispose Leonzio di Bisanzio, e i triteisti stessi si divisero in varie sette (v. monofisiti). Sotto Eraclio i monofisiti sembrano disposti a riconoscere che v'è in Cristo non una sola natura divina che assorbe in sé l'umana, ma una sola volontà (monotelismo). Ma Roma resiste; e il concilio Trullano (680) fa propria la dottrina di papa Agatone, secondo la quale, se due sono le nature, due sono anche le volontà. S. Giovanni Damasceno precisa, ma non muta, le formule ortodosse. Il Verbo è quello che costituisce, per così dire, il fulcro, il centro dell'unica persona di G., così come la volontà umana è l'organo della divina; ma sono due volontà, correlativamente alle due nature; e tra l'una e l'altra v'è un contatto regolare, uno scambio di attributi. Più tardi, Roma debellerà, all'estremo opposto - geografico e teologico -, gli adozionisti spagnoli.

Nuove discussioni incominciano con la Riforma protestante. La dottrina fondamentale di Lutero, della giustificazione mediante l'imputazione immediata dei meriti di Cristo al credente, ha per conseguenza che Cristo e il credente divengono una sola cosa, quasi una sola persona: e questo spinge Lutero a sottolineare fortemente la realtà della natura umana di Cristo; d'altra parte la concezione che Lutero ha della redenzione, e proprio il suo modo d'intendere la fede, esigono che egli affermi, con energia non minore, che Cristo è Dio. Di qui la sua insistenza sulla comunicazione degl'idiomi, che diventa uno dei punti essenziali della teologia luterana; e si manifesta nella sua dottrina dell'Eucaristia e la spiega. Contro Carlostadio e Zwingli, contro tutti coloro che delle parole con cui Cristo istituì l'Eucaristia dànno una spiegazione simbolica, in modo da interpretare simbolicamente anche la sua presenza nel pane e nel vino, Lutero riafferma che quelle parole vanno intese nel loro senso letterale, e, pure rigettando la transubstanziazione, mantiene la presenza reale: perché, se Cristo è alla destra del Padre, egli è ovunque, ma più particolarmente nelle specie eucaristiche. Onde la teoria dell'ubiquità (dovunque è Cristo, ivi è anche il suo corpo), contro l'obiezione zwingliana il corpo di Cristo, dopo l'Ascensione, è in cielo e non in terra.

Il vivo senso della realtà del peccato, con il bisogno di assicurare la propria salvezza, il riconoscimento del soprannaturale, l'andamento del pensiero in cui sopravvivono tante forme della sua educazione teologica e scolastica permettono di ricollegare ancora Lutero, almeno in una certa misura, al Medioevo; il razionalismo proprio della cultura moderna e l'influsso del Rinascimento si manifestano invece pienamente nel campo teologico con il gruppo dei riformatori antitrinitarî, in prevalenza italiani. Rimettere in questione il Credo di Nicea significava naturalmente la possibilità di ritornare, in sostanza, tanto all'adozionismo quanto all'arianesimo, tanto al docetismo quanto al modalismo. Ma è notevole che tanto fra questi antitrinitarî, quanto fra gli unitariani americani e inglesi, pur tra la varietà dei sistemi e degli atteggiamenti, il docetismo non si ripresenta più. Fra gli antitrinitarî dei secoli XVI e XVII si può considerare che prevalga una posizione, in sostanza, adozionista: Cristo è, per Socino, un uomo che Dio ha ìnnalzato al disopra di tutti, e che ha dato agli uomini, col suo esempio e la sua rivelazione, il modo di conseguire l'immortalità. I sociniani ammettono ancora il concepimento verginale di Gesù, e la sua esaltazione dopo la morte e la resurrezione; perciò egli può essere adorato e pregato. Più radicale ancora, contro quello degli "adoranti" il partito dei "non adoranti", capitanato da Francesco David.

Affinità col socinianismo vennero denunciate dagli avversarî nell'arminianismo, i cui principali rappresentanti inclinavano verso concezioni della persona di Cristo che potremmo dire di tipo nestoriano. Ora, come l'antitrinitarismo si opponeva alla teologia dei riformatori tedeschi, francesi e svizzeri, eosì l'arminianismo rappresenta una reazione contro la teologia calvinistica stretta. Spinti dallo stesso impulso al razionalismo che li rendeva favorevoli a concezioni nestoriane, gli arminianisti tendevano a subordinare il Verbo a Dio Padre. Le medesime tendenze razionalistiche si affermano nel sec. XVII in Inghilterra, dove i latitudinarî si oppongono a ogni forma di intolleranza religiosa, e fra le controversie suscitate dai deisti nasce gran parte della filosofia e della critica neotestamentaria moderna; e da varie parti, con intenti diversi, si assale pur sempre la teologia del calvinismo rigido. Così, una reazione in favore di opinioni che si sogliono chiamare arminianistiche, è rappresentata dagli unitariani d'America, che avevano accolto dottrine sostenute in Inghilterra, p. es., dall'"ariano" Samuel Clarke. Teologia di uomini colti, inclini al razionalismo e tendenti a risolvere il cristianesimo con i suoi dogmi fondamentali in un vago deismo conforme in generale alle tendenze prevalenti nella filosofia del tempo, l'unitarianismo americano doveva dar luogo, con W. E. Channing, a una specie di arianesimo; con H. Bushnell a una specie di fusione tra modalismo e apollinarismo, per cui in G. quel che conta è l'elemento divino, che in lui si manifesta come Logos assumendo limitazioni umane; con l'Emerson a una pura filosofia religiosa. Analoghe tendenze razionalistiche dominano la teologia dell'illuminismo, per la quale G. è soprattutto l'"eroe religioso", apportatore all'umanità di una religione naturale e razionale (spesso messa in contrasto con quella delle chiese organizzate) e di una morale superiore.

Questo razionalismo, in forme più o meno accentuate, con maggiore o minore consapevolezza di sé, ha lasciato cospicue tracce anche in epoca molto recente. A dir vero non sono mancati, anche nel sec. XIX e nel nostro, tentativi di costruire nuove dottrine cristologiche, tutte professanti di essere in maggiore armonia con il pensiero moderno; e tutte hanno più o meno risentito l'influenza delle dottrine di pensatori quali Hegel, Schleiermacher e Kant. Ma dall'illuminismo e dal deismo inglese a costoro, da essi ad Albrecht Ritschl o al Gore - per citare questi due soli tra i moderni -, dibattuta non è più soltanto la cristologia, nel senso tradizionale, ma tutta la teologia; è lo stesso cristianesimo, nella sua forma tradizionale, che viene messo in discussione, sotto l'influsso dei nuovi indirizzi filosofici; influsso così forte, che i tentativi accennati appartengono a maggior diritto alla storia della filosofia.

Iconografia.

Mancano notizie storiche sull'aspetto fisico di Gesù Cristo. Il Nuovo Testamento non ne parla, e neanche i più antichi scritti cristiani. La descrizione della persona di Gesù diretta al Senato romano dal supposto Lentulo, procuratore della Giudea, è uno scritto apocrifo latino del sec. XIII o XIV, ispirato a fonti greche, le quali alla loro volta non risalgono oltre l'alto Medioevo. Tutte le immagini venerate come eseguite durante la vita di Gesù Cristo, o all'epoca della prima generazione cristiana, sono leggendarie. La più celebre, quella che sarebbe stata inviata dallo stesso Gesù Cristo al re di Edessa, Abgar, risale probabilmente al sec. VI. Trasportata a Costantinopoli nel 944, passò dopo la crociata del 1204 in Occidente, dove diverse città sostenevano di esserne in possesso. Le copie hanno dato origine ai Mandilion dell'Oriente e alle Veroniche dell'Occidente. La storia della "Santa Sindone" di Torino è ancora troppo oscura per trattarne. Di recente, alcuni, sulle orme dell'Eisen, hanno voluto vedere nel "calice di Antiochia" un ritratto di G. datante dal sec. I: ma questo celebre oggetto è tutt'al più della fine del sec. V.

La migliore prova dell'impossibilità in cui ci troviamo di ricostruire la vera immagine del Salvatore si ha nelle incertezze degli scrittori ecclesiastici dal sec. II al IV. Basandosi non sui dati della tradizione, ma sulle profezie dell'Antico Testamento e su ragioni teologiche, sostennero gli uni che Gesù fosse privo di bellezza, o perfino brutto (Giustino, Ireneo, Clemente d'Alessandria, Cirillo d'Alessandria, Tertulliano, Agostino), gli altri che era bello (Origene confutando Celso su questo argomento, Girolamo, Giovanni Crisostomo, Basilio). La prima opinione è fondata sulle più antiche testimonianze; ma fu la seconda a prevalere nella fede dei devoti e nelle opere degli artisti. Per queste incertezze dobbiamo rinunciare, nell'arte cristiana primitiva, a cercare ritratti di Gesù Cristo. Del resto, a norma dell'arte ellenistica, dalla quale derivava, essa volle rappresentare un tipo ideale più che un'immagine reale di Cristo, raffigurandolo il più spesso senza barba e con un viso giovanile (ma è da notare che, anche prima di Costantino, furono segnalate alcune immagini di Gesù con una corta barba). I lineamenti sono regolari e nobili; l'espressione serena, salvo nelle scene del giudizio, dove appare severa. Col sec. III la capigliatura si fa abbondante. Nelle pitture più antiche si trova il costume leggero alla foggia greca. Presto G. riceve indumenti lunghi e ampî, drappeggiati nobilmente, caratteristici degli oratori e dei filosofi, conservatigli poi dall'arte cristiana. Nessun tentativo di marcare, né nei lineamenti né nel costume, la razza cui egli apparteneva. Appare col nimbo sin dalla metà del sec. IV, ma anche allora ne è spesso privo, in particolare nelle scene di miracoli. Il nimbo crucigero compare poco dopo su un sarcofago di Costantinopoli, ma diventa di uso comune solo nel sec. VI.

La figura di Cristo con la barba comincia a diffondersi nel sec. IV e sembra di origine orientale, ma neppure allora ha caratteristiche di razza, e il tipo rimane ideale, seppur concepito con spirito diverso. Begli esempî di questo tipo sono nel mosaico di Santa Pudenziana a Roma (fine del see. IV, principio del V) e in una pittura, press'a poco contemporanea, nelle catacombe di Pietro e Marcellino. Questa immagine, i cui tratti essenziali saranno conservati fino ai nostri tempi, è così descritta da Mgr. Wilpert: "Voleva creare (il pittore), non una semplice testa barbata, ma una immagine del Dio-Uomo; l'alta fronte, gli occhi a mandorla ombreggiati da sopracciglia oscure, il naso sottile, la bocca aperta per parlare, la lunga barba a punta, il bell'ovale del volto e le ricche anella castagne della capigliatura formano una testa maestosa, caratteristica al sommo, la cui dignità è accresciuta dalle vesti di porpora".

Ma, fino al sec. VI, persiste frequentissima, accanto a quella del Cristo barbato, la sua immagine imberbe. Si ritrova quasi sempre sui sarcofaghi occidentali, sugli avorî più antichi e anche su monumenti d'origine orientale, come le colonne del ciborio di S. Marco a Venezia e la cattedra d'avorio di Ravenna (secolo VI). Nei mosaici di Santo Apollinare Nuovo a Ravenna (principio del sec. VI) due serie parallele mostrano il Cristo imberbe nei miracoli, barbato nella Passione. Si è voluta dare una spiegazione teologica a questa differenza, che cioè da una parte fosse rappresentata la natura divina, dall'altra la natura umana del Salvatore; ma è probabile ch'essa dipenda soltanto dall'incertezza dominante: le due serie erano ispirate da fonti diverse. In Occidente i due tipi si conservarono a lungo: il Cristo imberbe è frequente nell'arte carolingia, e si riscontra nell'arte romanica fino al secolo XII inoltrato. In Oriente invece la figura imberbe scompare dopo il secolo VI; prevale il tipo simile a quello delle catacombe di Pietro e Marcellino, ma con una barba più corta e divisa in due punte. I capelli sono sempre lunghi; divisi da una riga sulla fronte, ricascano sulle spalle. Quando Cristo è figurato solo, la mano diritta benedice, la sinistra tiene il libro. Nelle scene della sua vita terrestre, gli si dà come attributo il rotolo nella mano sinistra e, a meno che il soggetto non esiga altra cosa, la destra fa il gesto dell'allocuzione, che è anche quello della benedizione. L'espressione del viso varia secondo i soggetti e le tendenze dell'ambiente. Nelle immagini di Cristo Pantocrator, quale vien figurato in fondo alle cupole e nelle conche delle absidi, l'arte bizantina ricerca un effetto di grandezza e di maestà, che arriva fino alla severità (un bell'esempio nell'abside di Cefalù). Ma nelle scene del Vangelo si tende a una nobiltà e una misura in cui echeggia il ricordo delle composizioni ellenistiche. L'arte monastica e popolare dell'Oriente cerca di dare al viso, ai gesti e alle attitudini di G. un'intensità di vita e di espressione che a volte arriva all'eccesso (p. es. il Codice di Rossano e le pitture della Cappadocia). Nei secoli XIV e XV, a Costantinopoli, in Grecia e nei paesi Balcanici, si nota lo sforzo di conciliare queste due tendenze e di unire, nello stesso personaggio, la nobiltà e la vita.

In Occidente l'arte gotica si limita generalmente al tipo barbato di Gesù Cristo. Ma, fedele alle sue tendenze idealistiche e al suo carattere astratto, essa gli conferisce una nobiltà grave e serena, di cui il migliore esempio si vede nel Beau Dieu di Amiens. Le figure di Cristo imberbe in qualche scena di miracolo, nella cattedrale di Reims, sono eccezioni dovute, senza dubbio, all'imitazione di sarcofaghi antichi. Il costume è quello tradizionale. ll Cristo guerriero, con armatura dell'epoca, come si vede su un reliquiario di Visé (Liegi), è un caso isolato.

Né l'arte del Trecento, né quella del Rinascimento hanno modificato la figura di Cristo. I primitivi Fiorentini e Senesi rappresentarono Gesù nello stesso modo che i Bizantini loro contemporanei, ma con una più grande ricerca della verità umana. Non altrimenti fecero gli artisti settentrionali; i quali, anche quando introdussero arditamente in costumi contemporanei i personaggi delle scene evangeliche, conservarono a Gesù le vesti e il tipo tradizionali, eccezione fatta per alcuni soggetti particolari, p. es. nel caso di "Cristo-Re". S'intende che, nei particolari e nell'espressione del viso, le varianti furono tante quante le epoche, i paesi e il temperamento degli artisti: né è possibile enumerarle. Notiamo tuttavia che il viso imberbe è stato usato qualche volta. L'idea di dare a G. lineamenti di carattere etnico rimase estranea agli artisti del Rinascimento, perfino a quelli più portati verso il realismo, essendo loro unica preoccupazione di esprimere in forma sensibile il concetto che essi si facevano dell'Uomo-Dio.

L'arte moderna, invece, nella sua ricerca di colorito storico e locale, sovente cercò di rappresentare G. con lineamenti orientali e perfino con il volto e col costume d'un uomo di Palestina dei nostri giorni (tentativo basato su un postulato molto discutibile: l'immutabilità assoluta dell'Oriente), o anche, proponendosi un realismo di altro genere, ha tentato di trasportare le scene del Vangelo nella nostra epoca e incorporarle nella vita attuale. Questi varî sforzi, più che rispondere alle aspirazioni del pubblico, rimasto attaccato ai tipi tradizionali, procedono dall'indipendenza del temperamento degli artisti e dalla loro inquieta ricerca di novità.

Nella rappresentazione degli episodî della vita terrena di Gesù l'arte cristiana è sempre stata divisa fra due tendenze, una simbolica, l'altra realista. La prima predomina nell'arte primitiva: i miracoli sono piuttosto suggeriti che rappresentati (Gesù Cristo che tocca i canestri con la sua bacchetta ricorda la moltiplicazione dei pani). La seconda appare nelle immagini più concrete dell'arte popolare dell'Oriente, e in quella dell'alto Medioevo occidentale; ispira l'arte romanica, mentre l'arte gotica, astratta e teologica, tende verso rappresentazioni più schematiche e spesso simboliche. Il Rinascimento segna un ritorno a figurazioni concrete; tendenza prevalsa da allora. Ma, salvo rare eccezioni, l'arte cristiana si è sempre rifiutata di fare della pittura puramente storica. Le ricostituzioni archeologiche, verificatesi al sorgere del sec. XIX, non hanno mai goduto il suo favore, finché essa ha seguito una tradizione. Sotto gli eventi della vita di G. l'arte cristiana cercava sempre di rappresentare la verità religiosa che ne scaturiva. Ecco perché, perfino in pieno Rinascimento, essa non si peritava di far figurare S. Paolo all'Ascensione di Gesù Cristo, facendo assistere al trionfo di Cristo non gli undici spettatori di fatto, ma i 12 testimonî che lo annunciarono al mondo.

Storiografia critica di Gesù.

Le esposizioni biografiche di vario genere riguardanti la persona di G. partivano sostanzialmente, fino ai principî del Settecento, dai presupposti della fede cristiana. Posizioni nuove di problemi si ebbero quando, nell'evolversi della critica del cattolicismo iniziata dal protestantesimo, nel Settecento si affermò il deismo, iniziatosi in Inghilterra e sviluppatosi in Francia. Si possono distinguere in questo criticismo tre periodi principali: 1. quello dal Locke, dal Reimarus e dal Voltaire al formarsi della Scuola di Tubinga con F. C. Baur (v.); 2. il periodo di maggiore prosperità di quella; 3. dal suo declinare sino a oggi.

1. Caratteristica del primo periodo è la mancanza d'ogni ricerca sulle origini dei Vangeli, considerati autentici. Il I come il IV Vangelo sono riconosciuti scritti da apostoli; è indubitabile quindi la conoscenza loro dei fatti, ma viene richiamata in dubbio la loro veridicità. L'entusiasmo religioso - si pensava - non rifugge dalle "furberie necessarie", le quali vennero attribuite agli evangelisti (Reimarus, Boulanger, Voltaire) o anche a G. stesso (Venturini). Il problema assillante era quello del miracolo, nel Vangelo come nell'Antico Testamento. Si deve al Paulus il tentativo più minuzioso di spiegare il soprannaturale nella storia dei Vangeli secondo la ragione": donde il nome di "razionalismo" biblico, che distingue propriamente il sistema del Paulus e delle tendenze affini.

A quel razionalismo si ispira F. Renan (v.), il quale sostenne quasi sino al finire della sua vita l'origine apostolica del IV Vangelo, eppure diede tanta parte alla leggenda ("sistema delle leggende") nella sua Vita di Gesù. Dalle sue tesi sulle origini dei Vangeli egli, mentre non abbandonò le ingenuità delle interpretazioni razionalistiche, fu costretto a riversare, come gli antichi illuministi francesi, l'addebito o almeno il sospetto di finzioni volute non solo sugli apostoli ma sopra lo stesso Gesù.

Per l'impostazione del problema delle origini cristiane sulla base del soprannaturale si può avvicinare a questo periodo il tentativo dello Strauss (v.); il quale se ne stacca in quanto, per la sua interpretazione "mitica" della vita di G., dové supporre che i Vangeli fossero opere tardive, della seconda metà del secolo II, pur trascurando, come gli altri contemporanei, l'esame accurato e diretto della loro genuinità. Era il tempo in cui al problema delle antiche mitologie davano contributi poderosi il Niebuhr, il Hermann, O. Müller: e lo Strauss ritenne possibile trasferire la formazione di miti a un periodo storico come quello del primo secolo cristiano.

2. La critica modema ripudia quel periodo e ricerca piuttosto le proprie origini nell'opera di F. C. Baur (v.), fondatore della Scuola di Tubinga. Il Baur comprese l'impossibilità di spiegare naturalmente il soprannaturale dei Vangeli se si riconosceva la loro autenticità. Ebbe d'altronde una penetrazione storica più ampia e la cura d'uno studio del "documento". La sua ricostruzione dello sviluppo storico del cristianesimo si poggiò come su fondamento sul contrasto di un particolarismo giudaico capeggiato da Pietro ("petrinismo") con l'universalismo di S. Paolo ("paolinismo"). Le date degli scritti neotestamentarî sono posticipate, come, conseguentemente, quelle dei Padri apostolici. Dell'epistolario di S. Paolo si salvano come genuine solo le quattro lettere maggiori; Luca e gli Atti assegnati al periodo di avvenuto accordo fra le due tendenze primitive (fine del sec. II), intesero attenuare le tracce storiche dei dissensi. Le lettere di S. Ignazio (v.), che presentano nettamente l'episcopato monarchico, sono considerate spurie.

Tale ricostruzione, che d'un particolare formava il motivo dominante dello sviluppo del cristianesimo, crollò; ma lasciò nel criticismo, che ne seguì, delle tracce evidenti. Si continuò a considerare Paolo in fondamentale dissenso dai Dodici e in specie da Pietro, come il primo ideatore dell'universalismo della nuova religione, e si passò poi a trasformarlo in ideatore di elementi fondamentali del dogma cristiano. Furono abbandonate le tesi del Baur sulle origini dei Vangeli e degli Atti, e oggi è evidente la tendenza ad ammettere la genuinità di tutte le lettere di S. Paolo, se si eccettuino le Pastorali, considerate ancora come dubbie o interpolate. Il risultato però più importante della scuola fu quello d'avere spostato l'oggetto delle ricerche, che si porteranno sulle origini stesse dei documenti e sulla loro composizione e tendenza.

3. Questo più appassionato dibattito sulle origini dei Vangeli, come su tutti gli scritti cristiani dei primi secoli, distingue il criticismo più recente: ed è un progresso evidente, perché non si può negare o affermare il valore di fonti di cui non si siano stabilite le origini e i rapporti con gli avvenimenti narrati. ll cristianesimo non fu più spiegato come frutto dell'"impostura sacerdotale", contro la quale protestava con evidenza l'elevatezza senza pari del nuovo insegnamento rinnovatore del mondo pagano, ma come il sineretismo di elementi ideali dispersi e del cui composto si doveva cercare la formula. Si cominciò quindi, in reazione alla Scuola di Tubinga battuta da diverse parti, a riesaminare le antiche testimonianze sui documenti neotestamentarî. Gli studî di F. X. Funk e del Lightfoot, che provavano la genuinità delle lettere di S. Ignazio, trasportavano senz'altro al primo secolo i Vangeli. Si riprese lo studio della formazione graduale del canone biblico (v. bibbia, VI, 882 segg.), non tanto a riprova del dogma dell'ispirazione dei libri sacri, quanto a segnalazione delle scaturigini, della trasmissione nello spazio e nel tempo delle tradizioni a loro relative. La distinzione di documenti e fonti, che sembrava avere ottenuto successi definitivi rispetto al Pentateuco e anche a documenti pagani come i poemi d'Omero, si trasporta al Nuovo Testamento. Col rilievo di apparenti cuciture maldestre di scritti anteriori, con un paziente conteggio e rapporto dei vocaboli usati e con altre analisi, si cercò di appoggiare la distinzione di documenti o di diversi stadî di concetti religiosi. Per alcuni decennî la critica del Nuovo Testamento fu assorbita dal problema dei rapporti dei tre primi Vangeli (questione sinottica), e si giunse, salvo divergenze minori, alla tesi delle "due fonti", per la quale si considerano come elementi fondamentali il Vangelo di Marco e una raccolta palestinese di sentenze di C. (Logia) dovuta all'apostolo Matteo, e si spiegano come combinazione di esse e d'altri elementi tradizionali gli odierni Vangeli di Matteo e di Luca (vedi sinottici, vangeli). Come risultato di quelle ricerche, nel protestantesimo "liberale" sempre più allontanatosi dall'antica fede cristiana, si venne a foggiare un Cristo ammodernato, quasi un profeta di elevatissimo sentire morale e religioso; si attribuirono poi volontieri alla tradizione cristiana le superiori affermazioni relative alla sua persona e alla sua missione.

Da tali preoccupazioni prevalentemente letterarie e da tale concetto diminuito di Cristo distolse le menti l'affermarsi della teoria detta "escatologica". Sorta dallo studio dell'apocalittica (v.) giudaica, ne trasferiva le attese alla persona di G. Quella speranza di un sovvertimento e di una palingenesi mondiale a breve scadenza, che dominava i visionarî giudei, avrebbe costituito l'essenza del Vangelo, annuncio dell'imminenza del regno di Dio sulla terra. Se per A. Harnack, rappresentante dell'anteriore protestantesimo liberale, l'essenza del cristianesimo consisteva in un nuovo ideale morale e religioso, culminante nella rivelazione dell'universale patemità divina, per Giovanni Weiss, fondatore della nuova teoria, il Vangelo originario si concludeva nell'attesa d'una fulminea trasformazione delle sorti umane, preceduta dal giudizio messianico delle nazioni. Mentre la critica "liberale" metteva in sordina le affermazioni di G. relative al suo ritorno glorioso e alla sua funzione di giudice venturo dell'umanità, la nuova scuola la metteva invece in alto rilievo, affermando che la sostanza del Vangelo consisteva in quelle attese, alla luce delle quali tutto veniva interpretato. L'evangelizzazione, l'idea di una morale e religione nuove, la creazione della Chiesa con un'iniziale gerarchia nella scelta dei Dodici, l'istituzione di un rito quale l'Eucaristia non potevano appartenere a G.: la sua morale stessa era "provvisoria", essendo imminente la fine del mondo. Tale interpretazione ebbe largo seguito, e solo negli studî recentissimi sembra perdere terreno.

4. La tesi escatologica era troppo rivoluzionaria per non suscitare una reazione. Essa portò all'approfondimento dello studio, non solo della letteratura apocrifa giudaica, ma ancora delle altre idee e delle altre attese delle comunità religiose giudaiche, specialmente delle scuole rabbiniche, mostrandosi che altre interpretazioni dell'avvenire messianico erano per lo meno tanto diffuse quanto quelle dell'apocalittica. A questa reazione si deve, fra molti altri lavori, lo studio del Billerbeck e dello Strack sui paralleli del Talmūd e della Mishnāh ai Vangeli. Se, fin dal Baur e dagl'inizî della Scuola di Tubinga, il pensiero greco era addotto a spiegare non solo lo gnosticismo, ma la teologia del IV Vangelo, recentemente altri indagatori, con a capo A. Deissmann, studiarono il mondo ellenistico popolare rivelato da iscrizioni, da papiri, da ostraka premurosamente raccolti e illustrati. Ne venne un rinnovamento della grammatica del greco del Nuovo Testamento: e sembrò per un momento che le tracce profonde dell'originaria lingua aramaica, rilevate dagli studî anteriori sui Vangeli con importanti conseguenze sulle loro origini o sulle loro fonti, andassero disperse. Ma poi si addivenne, non ripudiando il nuovo, a una considerazione più equa delle cose: ultimamente P. Vannutelli esponeva la tesi - non incontrastata - che le differenze dei Sinottici provengano dalla versione d'un comune fondo aramaico.

Dalla grammatica si passò alle idee. Il Bousset rintracciò nella religiosità ellenistico-siriaca l'origine del culto del Cristo-Signore e della trasformazione delle più modeste affermazioni messianiche di G., e si formò una scuola che spiega il cristianesimo come un sincretismo ellenistico-giudaico. A sua volta il Reitzenstein, il quale aveva già segnalato dei paralleli tra il misticismo ellenico e le idee cristiane, allargava ancora più la visuale, affermando influssi svariati di altre religioni del mondo orientale. I misteri dovevano ormai, nella nuova scuola da lui capeggiata, religionsgeschichtliche, essere responsabili delle idee della redenzione e della resurrezione di G., come dell'affermarsi della nuova vita nello spirito. L'opposizione della nuova teoria a quella prevalentemente escatologica è messa in evidenza dal volume di A. Schweitzer, uno degli escatologisti più in vista, sul misticismo di S. Paolo. Le prime deduzioni tratte dalla scoperta di documenti manichei e dalla versione delle fonti mandee sono già superate da nuove scoperte e studî (v. giovanni battista; mandei; manicheismo).

Alla scuola religionsgeschichtliche si deve allacciare la scuola "mitica", sopravvivenza trasformata delle tesi dello Strauss, la quale nell'entusiasmo delle scoperte babilonesi spiegava alla luce del babilonismo la figura di Cristo, giungendo anche a negare la sua esistenza. Alla negazione dell'esistenza di G. è giunta per altra via in Francia la corrente del Couchoud.

Un metodo ultimamente preconizzato in Germania è il metodo formgeschichtlich, applicabile propriamente solo al materiale sinottico. Prima d'essere raccolto nei Vangeli questo avrebbe ricevuto già una propria forma; cosicché, mentre lo studio della redazione è oggetto delle ricerche "letterarie", la forma anteriore è oggetto dello studio formgeschichtlich. Il valore e la fissità della tradizione orale nella formazione dei Vangeli era già stata esaminata e usata largamente nella soluzione del problema sinottico; ma la classifica del materiale e le origini d'esso sono stabilite dai sostenitori della nuova scuola molto diversamente, con deduzioni anche relative al suo valore.

Valutare i risultati di questo immane sforzo di ricerche non è facile. Dei sistemi antichi poco o nulla è rimasto, distrutti da sistemi nuovi. Gli studî recenti, dal Baur in poi, hanno il merito d'avere spinto all'esame e alla ricerca accurata delle tradizioni e della prima letteratura cristiana. Negli studî recentissimi quanto poteva illuminare, da presso o da lungi, il sorgere del movimento cristiano e la figura di G. è stato esaminato e illustrato. Si sono quindi avuti risultati letterarî solidi e importanti. Ma sono tutt'altro che unanimi i consensi quando si voglia determinare il problema della persona di G. e l'essenza della sua predicazione. Mai forse come oggi il combattersi di tendenze e teorie opposte è stato vivace; e occorre lamentare, non solo per la scuola mitica, ma anche per i seguaci della scuola religionsgeschichtliche un abbandono di quella rigorosità di metodo che distingueva le ricerche di alcuni decennî or sono. Non solo le teorie del Renan o della Scuola di Tubinga: ma quelle stesse di A. Harnack e di O. Holtzmann tendono a essere dimenticate, battute dalla scuola escatologica, mentre questa stessa è soverchiata dalle teorie sincretistiche o dalle tesi prospettate dalla scuola religionsgeschichtliche, per non parlare delle tesi mitiche che hanno trovato anch'esse qualche seguace (v. anche cristianesimo, XI, p. 963 segg.).

La critica cattolica non può presentare simile varietà di sistemi; ma ritiene di aver avuto meno errori e ricostruzioni arbitrarie. Essa, come del resto la critica del protestantesimo rimasta fedele alle antiche dottrine e che ebbe personalità eminenti quali il Lightfoot e lo Zahn, ha dovuto entrare nella lotta delle idee, contribuendo al crollo di tesi avventate. Rimanendo sulle basi della fede antica, ha cercato di trarre profitto dagli studî e dalle ricerche e apportarvi contributi con scuole esegetiche di valore. Fecero capo in Francia al Vigouroux che nelle università cattoliche rinvigorì lo spirito di ricerca; in Germania si raccolsero attorno alla Biblische Zeitschrift, come influenza vasta hanno da tempo la scuola domenicana di Gerusalemme e l'Istituto Biblico di Roma. I nuovi commenti ai Vangeli, lo studio dell'ambiente in cui sorse il cristianesimo, le recenti biografie di G. manifestano come la critica cattolica abbia pur essa assimilato largamente le ricerche moderne.

Bibl.: Dai Vangeli Taziano trasse una biografia unica col suo Diatessaron (v.): sulle sue influenze in manoscritte Vite di G. in italiano, v. A. Vaccari, in Biblica, XII (1931), pp. 326-354. L'insuccesso del Diatessaron, e più la cura di non trascurare i minimi dettagli della vita di G., dissuasero da altri tentativi. Si composero invece sino dal Medioevo Concordanze, trattati teologici e Catene (v.) di glosse ai Vangeli, come quella di S. Tommaso d'Aquino, e più tardi ampî commentarî. Una vita di G. spesso stampata, è quella di Lodovico certosino, Vita Christi, Strasburgo 1474. Dal secolo scorso le vite abbondano. Fra le cattoliche più recenti: E. Le Camus, La Vie de Jésus-Christ, 7ª ed., Parigi 1907 (vers. ital., Brescia 1900); P. Didon, Jésus-Christ, Parigi 1891 (vers. ital., Napoli 1913); A. Capecelatro, La vita di Gesù Cristo, Roma 1868; V. Fornari, Della Vita di Gesù Cristo, 4ª ed., Torino 1930; G. Papini, Storia di Cristo, 5ª ed., Firenze 1925; C. L. Fillion, Vie de Notre Seigneur Jésus-Christ, voll. 3, Parigi 1923; M.-J. Lagrange, L'Évangile de Jésus-Christ (ma biografia), Parigi 1930 (vers. ital., Brescia 1931); J. Lebreton, La vie et l'enseignement de J. C. notre Seigneur, voll. 2, 3ª ed., Parigi 1931. Fra le altre, oltre quelle segnalate sopra nella Storiografia di G., da notare: F. W. Farrar, Life of Christ, Londra 1874; W. Sanday, Outlines of the Life of Christ, 2ª ed., Edimburgo 1909; R. Bonghi, Vita di Gesù, Roma 1890; B. Weiss, Das Leben Jesu, Berlino 1882; P. W. Schmidt, Die Geschichte Jesu erzählt, Tubinga 1899; O. Holtzmann, Leben Jesu, Tubinga 1901; A. Westphal, Jésus de Nazareth, voll. 2, Losanna 1914; A. Meyerberg, Leben-Jesu-Werk, voll. 2, Lucerna 1922; A. C. Headlam, The Life and Teaching of Jesus the Christ, Londra 1923; M. Goguel, La vie de Jésus, Parigi 1931. L'ultima critica rinuncia a scrivere una vita completa di G., limitandosi a darne lineamenti: così R. Bultmann, Jesus, Berlino 1926; A. Omodeo, Gesù il Nazareno, Venezia 1927.

Per la questione cronologica: J. Belser, Johannesevangelium, Friburgo in B. 1905; V. Hartl, Die Hypothese einer einjährigen Wirksamkeit Jesu, Münster i. W. 1917; J. Mader, Das einjährige Wirken Jesu, Einsiedeln 1927; G. B. Bedeus v. Scharberg, Die Chronologie des Leben Jesu, Hermannstadt 1928.

Sui racconti dell'infanzia e le relative questioni, da parte cattolica: A. Durand, L'enfance de Jésus-Christ, Parigi 1908; D. Baldi, L'infanzia del Salvatore, Roma 1925; sul censimento di Quirinio: M.-J. Lagrange, in Rev. Biblique, XX (1911), pp. 60-84; sui Magi; E. Groag, in Jahreshefte des österr. Arch. Institutes in Wien, XXI-XXII (1924), coll. 446-478.

Contro l'autenticità delle parabole, spogliate del concetto spirituale del Regno, A. Jülicher, Die Gleichnisreden Jesu, voll. 2, Tubinga 1910; A. Loisy, Les Évangiles Synoptiques, Parigi 1907-1908; risposta in contrario, per i confronti con le parabole rabbiniche, in P. Fiebig, Die Gleichnisreden Jesu im Lichte der rabbinischen Gleichnisse des neutest. Zeitalters, Tubinga 1912. Studî cattolici più particolari sulle parabole: L. Fonck, Die Parabeln des Herrn, Innsbruck 1904, vers. it., Roma 1904; D. Buzy, Introduction aux Paraboles évangeliques, Parigi 1912; M. Meinertz, Die Gleichnisse Jesu, Münster 1921; J. M. Vosté, Parabolae selectae D. N. Jesu Christi, voll. 2, Roma 1930-31.

A proposito di Matt., XVI, 17-19 (primato di Pietro), da parte protestante e indipendente, A. Harnack, Der Spruch über Petrus als Felsen der Kirche, in Sitzungsber. d. preuss. Akademie d. Wiss., 1918, pp. 637-654; K. G. Goetz, Petrus als Gründer und Oberhaupt der Kirche, Lipsia 1927; K. L. Schmidt, Die Kirche des Urchristentums, in Festgabe f. A. Deissmann, Tubinga 1927; H. Koch, Cathedra Petri, Giessen 1930; T. Engert, Tu es Petrus, in Ricerche Religiose, 1931, pp. 222-260; da parte cattolica: L. Fonck, Tu es Petrus, in Biblica, 1920, pp. 240-263; P. Batiffol, L'Église naissante et le catholicisme, Parigi 1909, pp. 99-113; S. Geiselman, Das petrinische Primat, Münster 1927; Mc Nabb, The New Testament Witness to S. Peter, Londra 1928.

Studî complessivi dell'ambiente giudaico in cui si svolse l'opera di G.: E. Schürer, Geschichte des jüdischen Volkes im Zeitalter Jesu, voll. 3, più uno di indici, 4ª ed., Lipsia 1990-14; J. Felten, Neutestamentliche Zeitgeschichte, voll. 2, 2ª- 3ª ed., Ratisbona 1925 (vers. ital., Torino 1913); E. Stapfer, La Palestine au temps de Jésus-Christ, Parigi 1885; M. B. Schwalm, La vie privée du peuple juif a l'époque de Jésus-Christ, Parigi 1910. Per le idee dominanti nel giudaismo sono oggi da consultarsi gli studî sulla produzione dell'apocalittica (v.) giudaica, su cui si basò la teoria "escatologica". Sono tuttavia da tenere presenti, per una completa visione d'ambiente, anche le tendenze e idee rabbiniche. Studî più recenti: W. Bousset, Die Religion des Judentums im späthellehnistischen Zeitalter, 3ª ed. a cura di H. Gressmann, Tubinga 1926; H. Gressmann, Der Messias, Gottinga 1929; G. F. Moore, Judaism in the first centuries of the Christian Era, voll. 3, Cambridge 1927-1931; M.-J. Lagrange, Le Judaīsme avant Jésus-Christ, Parigi 1931. Limitato per tema ma decisivo lo studio citato di P. Fiebig, Die Gleichnisreden Jesu, Tubinga 1912; fondamentale ora il Kommentar zum N. T. aus Talmud und Midrasch, di H. L. Strack e P. Billerbeck, voll. 4 (il IV in due tomi), Monaco 1922-1928, che mostra i profondi rapporti dell'insegnamento di Gesù con l'insegnamento corrente, e anche le nette divergenze.

Per l'iscrizione di Nazaret: F. Cumont, in Revue historique, CLXIII (1930), p. 241 segg.; cfr. Revue biblique, XXXIX (1930), p. 505; A. Momigliano, L'opera dell'imperatore Claudio, Firenze 1932, pp. 73-76.

Per l'aderenza dei Vangeli alla forma originaria della predicazione di G., sotto l'aspetto filologico i lavori del Dalman, dello Strack, del Blass, del Viteau, mantengono un loro valore, nonostante il rinnovarsi della grammatica del greco del Nuovo Testamento alla luce delle scoperte papirologiche; in tal senso notevoli gli studî di P. Vannutelli sui Sinottici del Nuovo e dell'Antico Testamento: Gli Evangeli in Sinossi, Torino 1931; Libri Synoptici V. T., Roma 1931; id., Les Évangiles Synoptiques, in Rev. Biblique, 1926-1927. Un rinnovamento delle grammatiche del Nuovo Testamento trae origine dalle ricerche, di A. Deissmann, Bibelstudien, Marburgo 1895-97; Licht vom Osten, 2ª- 3ª ed., Tubinga 1909; seguiti dagli studî di J. H. Moulton, A. Grammar of N. T. Greek, Edimburgo, I, 1906; II (in tre parti), 1919-20-29; F. Abel, Grammaire du grec biblique, Parigi 1927. Il Deissmann, oltre alla grammatica, illustrò molti particolari storici e idee. La tesi dell'escatologismo conseguente, nettamente proposta per la prima volta da J. Weiss nell'opuscolo Die Predigt Jesu vom Reiche Gottes, Gottinga 1892, fu accolta e sostenuta, in Germania, da A. Schweitzer (v. sotto); A. von Gall, Βασιλεια του υεου: eine religionsgeschichtliche Studie zur vorkirchlichen Eschatologie, Heidelberg 1926; J. Jeremias, Jesus als Weltvollender, Gütersloh 1930; in Italia; da E Buonaiuti (v.); da A. Omodeo, Gesù e le origini del Cristianesimo, 2ª ed., Messina, 1923. Fu invece combattuta da A. Harnack, Das Wesen der Christentums, Lipsia 1900 (vers. ital., Torino 1903); H. J. Holtzmann, Das messianische Bewusstsein Jesu, Tubinga 1907; P. Batiffol, L'enseignement de Jésus, Parigi 1905; M.-J. Lagrange, Le messianisme chez les Juifs, Parigi 1909, e nei commentarî ai Vangeli; L. Billot, La Parousie, Parigi 1920; K. Weiss, Exegetisches zur Irrtumslosigkeit und Eschatologie Jesu Christi, Münster 1916; R. Frick, Die Geschichte des Reich-Gottes-Gedankens, Giessen 1928. Più importanti per lo studio del cristianesimo, ma anche per quello di G. della cui predicazione tendono a escudere elementi attribuitigli dai Vangeli e addebitati a influssi d'un sincretismo ellenico, gli studî di W. Bousset, Kyrios Christos. Geschichte des Christusglaubens von den Anfängen des Christentums bis Irenäus, 3ª ed., Gottinga 1926; in contrario W. Foerster, Herr ist Jesus, Gütersloh 1924; W. Baudissin, Kyrios als Gottesname im Judentum und seine Stelle in den Religionsgeschichte, Giessen 1929. Con simili tendenze, accentuate a formare un metodo speciale (religionsgeschichtliche Methode) e con la tesi dell'origine del misticismo di S. Paolo e dell'idea della redenzione dai misteri delle religioni pagane, si svolgono gli studi di: R. Reitzeinstein, Die hellenistischen Mysterienreligionen, 3ª ed. Lipsia 1927; A. Loisy, Les Mystères païens et le Mystère chrétien, Parigi 1919; R. Pettazzoni, I Misteri, Bologna 1924; J. Leopold, Sterbende und auferstehende Götter, Lipsia 1923. L'idea di V. Macchioro, Zagreus, nuovi studî intorno all'Orfismo, Firenze 1930, che insiste su un'analogia e influenza sul cristinaesimo delle concezioni e dei misteri orfici, non ha trovato favore. Tesi contraria sostengono: U. Fracassini, Il misticismo greco e il Cristianesimo, Città di Castello 1922; M.-J. Lagrange, in Rev. Biblique, XXVIII (1919), pp. 419-480 (Attis et le Christianisme), e XXIX (1920), pp. 424-435; XXXVIII (1929), pp. 63 segg. e 201 segg. (Mystères d'Eleusis); E. Meyer, Ursprung und Anfänge des Christentums, III, Stoccarda e Berlino 1923; A. Boulanger, Orphée, Rapports de l'Orphisme et du Christianisme, Parigi 1925. Il metodo formgeschichtlich, introdotto nello studio della Bibbia specialmente da M. Dibelius, Die Formgeschichte des Evangeliums, Tubinga 1919, è esposto nella sua natura da E. Fascher, Die formgeschichtliche Methode, Eine Darstellung und Kritik, Giessen 1924; ivi altre indicazioni bibliografiche. Meno rivoluzionaria, benché spesso radicale, la scuola inglese: oltre al citato W. Sanday, Outlines, ecc.: A. Plummer, Gospel according to S. Luke, 4ª ediz., Edimburgo 1900 (nell'International critical Commentary): A. H. Mac Neile, New Testament Teaching in the Light of St. Paul's, Cambridge 1923. Ispirati alla critica cattolica, oltre ai già menzionati: M. Lepin, Jésus Messie et Fils de Dieu, 4ª ediz., Parigi 1910; Le Christ Jésus, Parigi 1929; H. Felder, Jesus Christus, I. Das Bewusstsein Jesu, 2ª ed., Paderborn 1920; i grandi commentarî di M.-J. Lagrange ai singoli Vangeli nella collezione Études Bibliques edita a Parigi: S. Marc, 1911, S. Luc, 1921, S. Matthieu, 1927, S. Jean, 1925, conchiusi con L'évangile de Jésus-Christ, Parigi 1930. Importanti i volumi di E. Jacquier, Histoire des livres du N.T., voll. 4, Parigi 1906-08 e Les Actes des Apôtres, Parigi 1926; J. Lebreton, Les origines du dogme de la Trinité, voll. 2, Parigi 1910-1928; L. Tondelli, Gesù nella storia, Milano 1925; L. De Grandmaison, Jésus-Christ, sa Personne, son message, ses preuves, voll. 2, Parigi 1928; P. Joüon, L'Évangile de Notre-Seigneur Jésus-Christ, 1930.

Sul carattere di G., H. Felder, Die Heiligkeit Jesu, Paderborn 1921; M. Meschler, Zum Chrakterbild J., Friburgo in B. 1908; A. Sertillanges, Jésus, Parigi 1921; Ph. Kneib, Moderne Leben-Jesu-Forschung unter dem Einflusse der Psychiatrie, Magonza 1908; J. Nink, Jesus als Charakter, 3ª ed., Lipsia 1925; K. Weidel, Jesu Persönlichkeit, eine Charakterstudie, 3ª ed., Halle 1921.

Sui miracoli e la resurrezione, oltre ai lavori più generali citati altrove, presentano il punto di vista cattolico: L. Fonck, Die Wumper des Herrn, Innsbruck 1903; trad. ital., Roma 1914; L. Fillion, Les miracles de N. S. Jésus-Christ, 3ª ed., Parigi 1910-11; H. Pinard de la Boullaye, Jésus Messie, Parigi 1930; id., Le thaumaturge et le prophète, Parigi 1931; E. Mangenot, La résurrection de Jésus, Parigi 1910; A. Oldrà, Gesù Cristo, 2 voll., Firenze 1918-19; M. Cordovani, Il Rivelatore, Milano 1915. Il punto di vista acattolico in M. Dibelius, Geschichtliche und übergesch. Religion in Christentum, Gottinga 1915; F. Spitta, Die Auferstehung Jesu, Gottinga 1918; E. Fascher, Die Auferstehung J. und das Verhältnis zur urchristl. Verkündigung, in Zeitschr. für neutestam. Wissensch., 1927, pp. 1-26.

Le formule conciliari riguardanti il dogma cristologico sono riunite, con rimando alle fonti, in Enchiridion symbolorum, 17ª ed., Friburgo in B. 1928. Esposizioni della cristologia cattolica sono, fra altre: J. Franzelin, Tractatus de Verbo incarnato, 5ª ed., Roma 1902; L. Billot, De Verbo incarnato, 7ª ed., Roma 1927; C. Pesch, De Verbo incarnato, vol. IV di Praelectiones dogm., 4ª ed., Friburgo in B. 1922; P. Galtier, De Incarnatione et Redemptione, Parigi 1926; A. D'Alès, De Verbo Incarnato, Parigi 1930.

Per la storia delle idee cristologiche, oltre ai diversi trattati di dogmatica e alle principali storie dei dogmi (v. dogma, XIII, p. 94 segg.), e prescindendo da lavori particolari su questo o quel pensatore, sull'una o l'altra grande corrente teologica (per cui v. alle singoli voci), v.: J. A. Dorner, Entwicklungsgeschichte der Lehre von der Person Christi, 2ª ed., Berlino 1845-1856, voll. 5; G. Krüger, Das Dogma von der Dreieinigkeit und Gottmenschheit, Tubinga 1905; S. Faut, Die Christologie seit Schleiermacher, Tubinga 1907; G. Pfannmüller, Jesus im Urteil der Jahrhunderte, Lipsia 1908; W. Sanday, Christologies, ancient and modern, Oxford 1910; E. Günther, Die Entwicklung der Lehre von der Person Christi im 19. Jahrhundert, Tubinga 1911; H. R. Mackintosh, The Doctrine of the Person of Jesus Christ, Edimburgo 1912; H. Schumacher, Christus in seiner Präexistenz und Kenosei, Roma 1914 (Scripta Pont. Inst. Bibl. I); F. Loofs, Das altkirchliche Zeugnis gegen die herrschende Auffassung der Kenosis-stelle, in Theolog. Stud. u. Kritiken, 1927-28, pp. 1-102; K. Stange, Eintwirkung d. modernen Geisteslebens auf d. Glauben an Christus, Lipsia 1929; W. Foerster, in Zeitschr. f. neutest. Wisensch., 1930, p. 115.

Per l'iconografia v: E. von Dobschütz, Christusbilder (Texte u. Untersuch., XVIII), Lipsia 1899; I. Sauer, Die ältesten Christusbilder, Berlino 1920; N. Kondakov, Iconografia di N. S. Gesù Cristo (in russo), Pietroburgo 1905; L. Bréhier, L'art chrétien, son développement iconographique, 2ª ed., Parigi 1928; lavori di carattere generale di Wilpert, di Diehl, di Dalton, di Mâle, ecc.

Il susseguirsi e l'evolversi delle scuole e tendenze relative alla storia di G. è sviluppato, e valutato, con criterî diversi, da C.-L. Fillion, Les étapes du rationalisme dans ses atatques contre les évangiles et la vie de N.S. Jésus-Christ, Parigi 1911; M.-J. Lagrange, Le sens du Christianisme d'après l'exégèse allemande, Parigi 1918 (ambedue cattolici); A. Schweitzer, Geschichte der Leben Jesu-Forschung, 2ª ed., Tubinga 1921 (dal punto di vista dell'escatologismo puro); L. Salvatorelli, Da Locke a Reitzenstein, in Riv. storica ital., 1929 e in Harvard Theolog. Rev., XXII (1929).