CACCIACONTI, Ghino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 15 (1972)

CACCIACONTI, Ghino

Paolo Bertolini

Figlio di Tacco di Ugolino signore del castello della Fratta in Val di Chiana, il C. nacque nella seconda metà del sec. XIII, verosimilmente intorno al 1270. Ci sono ignoti il luogo e l'anno esatto di nascita, così come ci è sconosciuto - per il silenzio delle fonti - il nome della madre. Il C. non apparteneva dunque - come invece è stato ripetuto ancora di recente - alla famiglia Del Pecora di Torrita; ma, secondo quanto ha potuto stabilire il Cecchini (pp. 264, 269 s.), al ramo dei conti di Guardavalle della famiglia feudale senese dei Cacciaconti, che aveva dominato sino agli inizi del secolo su una regione che si stendeva nelle valli di Chiana e dell'Ombrone, sino ad Asciano (Siena).

Che il C. appartenesse alla famiglia Del Pecora, lo affermò per primo il Tommasi, tratto forse in inganno - come opina il Cecchini, - da un documento del 1275: una delibera del Consiglio generale di Siena, relativa alla richiesta di risarcimento avanzata dal Comune di Montepulciano in favore degli eredi di un Ghino del fu Ugolino, il quale - come risulta dal seguito del contesto del documento - era però un Ghino "Pecciare", cioè un Del Pecora. Bisogna inoltre considerare che nel 1275 l'omonimo zio del C. (e figlio del signore di Torrita e della Fratta) era vivo, e non aveva ancora rotto l'amicizia con i Senesi: la condanna del fratello Tacco per l'uccisione di Montanello di Buonaventura è infatti dell'anno seguente.

Il nome del C. compare per la prima volta nelle fonti a noi note in un documento del primo semestre del 1285 relativo alla vendita, per conto del Comune di Siena, di una partita di stoffe. La laconica annotazione dell'entrata di 12 denari, ricavo di tale vendita, segnata sui registri della Biccherna non fornisce alcun chiarimento sul modo con cui quei tessuti erano finiti nelle mani, in un primo tempo, del C., e in seguito in quelle delle autorità senesi.

In proposito, il Cecchini, dopo aver rilevato che appunto agli inizi di quell'anno 1285 il padre e lo zio del C. erano ricomparsi nella Val di Chiana con le loro bande di fuorusciti per dare man forte al vescovo di Arezzo allora in guerra contro i Senesi, ha avanzato l'ipotesi, peraltro sufficientemente plausibile, che si trattasse del "frutto di una ruberia commessa a carico di qualche mercante di passaggio per opera di Ghino stesso", o di merce di origine furtiva "che Ghino aveva ricevuta dal padre", sequestrata nel corso dei rastrellamenti organizzati dal giudice aretino Benincasa da Laterina, vicario del podestà di Siena, al fine di reprimere il movimento insurrezionale e di pacificare una volta per tutte la regione (Cecchini, p. 275).

Nel 1285 il C. prese il posto del padre Tacco, catturato e fatto giustiziare per ordine di Benincasa da Laterina, tra i capi ghibellini e i fuorusciti alla guida della disperata guerra per bande che si stava combattendo contro il governo guelfo di Siena, moltiplicando le aggressioni e i colpi di mano, e riaccendendo la rivolta nelle valli di Chiana e dell'Ombrone sino all'alta Maremma e ai confini con i territori di dominio pontificio. Per circa quindici anni la sua figura e le sue gesta dominarono, acquistando ben presto un carattere di leggenda, nelle vicende dell'estrema battaglia combattuta dalla minore nobiltà toscana per la difesa dei suoi ultimi privilegi contro il progressivo prevalere - anche sulle campagne - dell'autorità delle città a regime guelfo. Probabilmente prese parte, insieme con lo zio Ghino di Ugolino, al colpo di mano che nel 1286 tolse di mezzo il signore di Prata, Tollo, e ne consegnò il castello ai rivoltosi (ma il nome del C. non compare nella lista dei ribelli che furono condannati per aver partecipato all'impresa). Due anni dopo ferì e catturò, ignoriamo se nel corso di un'imboscata, un certo Leuccio di Buono, forse un funzionario senese, senza dubbio un personaggio influente, come è provato dall'ingente somma di 1.000 libbre di denari inflittagli come multa dalle magistrature di Siena. Pur non avendo partecipato - a quel che sembra - alle operazioni militari che portarono nel 1289 all'occupazione di Chiusura (piazzaforte presso Asciano) e a quella di Giuncarico e di Corsignano da parte degli insorgenti, nel 1290 venne condannato a morte, non sappiamo per quali delitti, e le sue sostanze furono confiscate: il tipo della condanna e le modalità con cui essa è stata registrata nel libro degli atti pubblici del Comune di Siena inducono tuttavia a ritenere che solo in quell'anno il C. fosse stato riconosciuto ufficialmente ribelle all'autorità municipale, e, pertanto, bandito.

Benché il Cecchini (pp. 277 s.) gliene attribuisca senz'altro la responsabilità, non si può affermare che sia opera del C. e delle sue bande armate la grave aggressione compiuta nel 1291 in territorio di Montepulciano ai danni di alcuni mercanti fiorentini, aggressione che rischiò di compromettere i buoni rapporti da poco instaurati - ma non sufficientemente consolidati - tra Siena e Firenze. Il verbale (che fu pubblicato dal Cecchini, doc. XXXV, p. 292) relativo alle condanne a morte comminate dal tribunale del podestà ai responsabili del grave episodio di banditismo, infatti, se elenca i nomi dello zio e di un cugino primo del C., e inoltre quelli dialtri appartenenti alla sua consorteria, non cita in alcun modo quello del Cacciaconti.

Da un'attenta lettura delle fonti d'archivio si ha l'impressione che da questi anni il C. abbia cominciato a separare la sua attività di guerrigliero da quella degli altri ribelli. Mentre sappiamo infatti che non prese parte con le sue bande all'attacco da essi sferrato nel 1292 contro la rocca "Taderighi", e che non ebbe a che fare col rapimento della contessa Margherita vedova di Alberto di Campiglia, ci sono segnalati dalle fonti sia un moto insurrezionale da lui suscitato tra l'aprile del 1294 e il 1295 per impadronirsi del castello di Serre di Rapolano con l'aiuto delle popolazioni di Montichiello, di Radicofani, di Rocca d'Orcia e di Santa Fiora, sia di una congiura da lui ordita, insieme col conte Bindo della Ripa e con un certo Santoruccio di Carsidonio, per insignorirsi della rocca di Scrofiano, antico feudo della sua famiglia (1297). Falliti - forse per tradimento - ambedue i tentativi, le autorità municipali reagirono con estrema durezza, colpendo i complici del C. con durissime condanne. Dai verbali dei processi risulta tuttavia in modo inequivocabile il favore che il C. godeva fra le popolazioni del luogo e la costante devozione con cui esse lo appoggiavano come potevano nella sua impari lotta contro Siena, lotta resa ancora più dura da quando alla città dominante si erano affiancati nel combatterlo anche i conti Aldobrandeschi di Santa Fiora.

Non conosciamo le ragioni e le cause del suo dissidio con gli Aldobrandeschi; certo è che, rimasto soccombente, già intorno al 1295 il C. doveva aver abbandonato - come prova il mutato teatro delle operazioni da lui condotte, e secondo quanto concordemente dicono il Boccaccio e l'Anonimo Fiorentino - le terre che erano appartenute alla sua famiglia, e si era stabilito, alla ricerca di migliori fortune, al di qua del confine degli Stati di dominio pontificio con il contado senese, nel castello di Radicofani, che dominava una delle maggiori vie d'accesso da Siena a Roma, la "via Francesca", e che si prestava dunque ottimamente ad essere base d'azione per un raggruppamento di guerriglieri. Il C. non aveva però rinunziato a far ritorno nei suoi antichi possessi. Forse incoraggiato dal numero dei fautori ancora pronti a sostenerlo nella Val di Chiana, forse fidando nell'appoggio dei potenti che sicuramente lo proteggevano, aveva progettato di costituirsi una nuova base fortificata tra Sinalunga e Guardavalle, donde avrebbe meglio potuto controllare la regione e i suoi traffici. I lavori per la costruzione della nuova rocca procedettero celermente, e alla fine del 1297 dovevano essere già a buon punto. La gravità della minaccia rappresentata dall'audace iniziativa del C. fu taleda indurre i "nobiles milites" Atto da Corinalto, podestà di Siena, e Cervio de' Bovattieri da Bologna, capitano del Comune e del popolo senese, a convocare d'urgenza, il 4 dic. 1297, il Consiglio generale in seduta straordinaria, nella quale però si decise soltanto di inviare sul luogo ove stava sorgendo il castello una commissione d'inchiesta, che accertasse i fatti e vietasse - se ne avesse ravvisato la necessità - la prosecuzione dei lavori.

Come fa opportunamente osservare il Cecchini (p. 280), la prudente cautela a cui sono informate le istruzioni impartite alla commissione d'inchiesta lascia chiaramente intendere che il C. doveva godere della protezione di influenti personalità del mondo politico senese, o comunque dell'appoggio di gruppi di potere assai forti. Non si spiegherebbe, altrimenti, la riluttanza dei signori del Consiglio generale a prendere drastici provvedimenti nei confronti del ribelle, mentre non aveva esitato a prenderli, dodici anni prima, nei confronti del padre di Ghino il giudice Benincasa da Laterina.

Non siamo informati su come si risolse la questione. Il verbale della seduta del 4 dicembre è, infatti, l'ultimo documento d'archivio a noi noto relativo al Cacciaconti. Delle ulteriori vicende della sua vita avventurosa sappiamo, tuttavia, qualcosa: quanto ne dicono Dante (Purg., VI, vv. 13-14), Francesco da Barberino (I documenti d'Amore, p. 96), il Boccaccio (Decameròn, X, 2) e i commentatori di Dante. Tutti concordano nel rappresentare il C. come un bandito da strada, ma ne idealizzano la figura, attribuendogli particolari doti di misura e di generosità. Sensi di umanità dimostra il C. nell'aneddoto riferito da Francesco da Barberino, mentre Iacopo della Lana, l'Ottimo, e Francesco da Buti, affermano che usava risparmiare la vita a quanti catturava. Si può ritenere vero l'episodio accennato da Dante e riferito - pur con accentuazioni, coloriture, e particolari diversi - da tutti i commentatori, che il C. abbia vendicato l'uccisione del padre Tacco trucidando in Roma, durante il pontificato di Bonifacio VIII, con un atto di temeraria audacia Benincasa da Laterina nell'aula stessa dove questi sedeva in funzione di giudice - verosimilmente - del tribunale senatorio. Frutto dell'invenzione novellistica è invece da considerare quanto racconta il Boccaccio circa il trattamento dal C. riserbato all'abate di Cluny caduto nelle sue mani, sui favori concessigli da Bonifacio VIII e tranquillamente goduti per tutta la vita. Probabilmente il C. continuò la sua vita di sbandito, finché cadde a sua volta colpito da armi nemiche: se proprio a Sinalunga "in comitatu Senarum", assalito da molti e dopo aver pugnato da prode - secondo ciò che riporta Benvenuto da Imola -, e quando, non è possibile dire, dato il silenzio delle fonti.

Non siamo in grado di valutare le qualità - positive e negative - del C., data la impossibilità di stabilire oltre quali limiti la tradizione popolare abbia contribuito a deformare, al suo riguardo, la realtà storica nel Boccaccio e nei commentatori di Dante, inducendoli a idealizzare i moventi e l'attuazione delle sue gesta. Certo egli dovette possedere particolari dotidi coraggio e di liberalità, ed avere un suo senso della giustizia: di qui l'ammirazione e la stima che egli seppe suscitare e che non tardarono a trasformarsi, dopo la sua morte, in leggenda. Nello stesso brevissimo accenno di Dante sembra di cogliere un senso di ammirazione. Benvenuto da Imola esprime il dubbio che il poeta ritenesse il C. degno di salvare l'anima, e perciò lo citasse nel Purgatorio. E in effetti non appare improbabile che Dante, sbandito e condannato a morte dal governo guelfo di Firenze, potesse sentirsi in qualche modo solidale con l'antico feudatario senese che allora "cum suis predonibus et tenebat totam Tusciam in briga et timore".

Fonti e Bibl.: G. Cecchini, Ghino di Tacco, in Arch. stor. ital., CXV(1957), pp. 274-281, che fornisce alcune indicazioni bibliografiche, e che pubblica (docc. XXII-XLIV, pp. 289-298) tutte le fonti d'archivio inedite relative al Cacciaconti. Per l'inquadramento della figura del C. nelle vicende di Siena e dell'Italia, si vedano le opere generali di storia senese. Per i commentatori di Dante - sui quali si fondano quasi esclusivamente gli annotatori moderni - ci limiteremo a rinviare, data l'ampiezza con cui vi sono riportati i passi relativi, - all'apparato critico di G. Biagi, G. L. Passerini, E. Rostagno, al Purgatorio, Torino 1931, pp. 93-98.Vedi Francesco da Barberino, I documenti d'Amore, a cura di F. Egidi, II, Roma 1912, pp. 96 s.; G. Boccaccio, Decameròn, a cura di V. Branca, II, Firenze 1952, pp. 350 e nota 1, 352 e note 3-4. Le notizie degli eruditi dei secc. XVI-XVIII (G. B. Fulgosi, Factorum dictorumque memorabilium libri X, Antverpiae 1565, p. 758; G. Tommasi, Dell'historie di Siena, II, Venezia 1626, p. 93; I. Ugurgieri Azzolini, Le pompe sanesi, II, Pistoia 1649, pp. 276 s.; G. Gigli, Diario sanese, II, Lucca 1723, pp. 312-315) sono semplici rielaborazioni delle notizie date dal Boccaccio o daicommentatori di Dante, che il Tommasi, l'Ugurgieri e il Gigli arricchiscono di particolari del tutto arbitrari. Nessun valore scientifico si può attribuire al capitolo sul C. contenuto in B. Aquarone, Dante in Siena, Siena 1865, pp. 93-101. Anche S. Bernardino da Signa non rimase sordo alla risonanza che si accompagnava al nome famoso del C.: S. Bernardino da Siena, Novellette,esempi morali e apologhi, a cura di F. Zambrini, Bologna 1868, pp. 34 ss.; mentre una tarda e sfuocata testimonianza della sua fama è negli Annales Senenses, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XIX, Mediolani 1731, col. 420. Si vedano inoltre: C. A. Scartazzini, Enciclopedia dantesca, I, Milano 1896, sotto le voci Aretino 3, pp. 125 s., e Ghino di Tacco, pp. 890 s.; P. J. Toynbee, Concise Dictionary of Proper Names and Notable Matters in the Works of Dante, Oxford 1914, sotto le voci Benincasa d'Arezzo, p. 73, e Ghin di Tacco, pp. 261 s.; Encicl. Dantesca, III, Roma 1971, p. 141.

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