DE CRISTOFARO, Giacinto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DE CRISTOFARO (Cristoforo), Giacinto

Augusto De Ferrari

Nacque a Napoli nel 1664 (secondo alcuni anche parecchi anni prima, addirittura nel 1650, seguendo il Minieri Riccio) dal noto avvocato Bernardo e da Vittoria De Rosa.

Bernardo, nato a Napoli e vissuto nel sec. XVII, amico di T. Cornelio, aveva partecipato alle adunanze dell'Accademia degli Investiganti, intervenendo nei salotti del Caravita e di Fulvio Caracciolo, e suscitando la opposizione della curia per i suoi atteggiamenti aperti e nonconformisti. Ma ciò non dovette incidere sulla fermezza della sua fede, se nel 1660 fece condannare l'avvocato Giacomo Marotta dal S. Uffizio per aver tenuto in casa libri proibiti. Tali suoi atteggiamenti gli arrecarono molti nemici sia nel ceto intellettuale sia nel quartiere della Montagnola dove abitava, una zona residenziale di un certo prestigio.

La sua attività intellettuale è testimoniata da un paio di ponderose opere, oggi disperse, dedicate l'una alle vite degli accademici pontaniani, l'altra ad una storia delle scienze e delle lettere di tutto il mondo. È certo che la sua influenza sul giovane D. dovette essere enorme, non solo nell'ampiezza degli interessi ma anche nell'indipendenza di giudizio, accompagnata da una fede sincera e ferma.

Presso i gesuiti il D. studiò grammatica e filosofia, poi diritto civile e canonico all'università di Napoli con Carlo Cito e Girolamo Cappella, col quale continuò anche in seguito la preparazione giuridica, senza abbandonare i suoi interessi letterari e storici: nel 1693 si propose di scrivere una storia degli uomini illustri napoletani che non portò a termine. L'amicizia del Vico, che lo ricorda con Nicola Galizia e Paolo M. Doria ad un banchetto in casa Filomarino, ma più ancora l'esempio di maestri come il Cornelio, Francesco D'Andrea, Leonardo Di Capua lo avvicinarono naturalmente alle nuove idee venute dalla Francia e sviluppate dagli Investiganti. Il D. frequentava i figli del Di Capua, Nicola Cirillo, Niccolò Amenta, Antonio Monforte, Basilio Giannelli, intellettuali dalle idee troppo aperte per non incorrere nell'irritazione della curia napoletana, impegnata con quella di Roma in una battaglia di difesa delle proprie prerogative contro i ceti intellettuali appoggiati dal viceré, rappresentati appunto da quei D'Andrea, Cornelio, Caracciolo che il viceré aveva scelto come propri collaboratori e che divennero i veri nemici da colpire attraverso la montatura di un processo per eresia, il famoso processo agli ateisti che durò dal 1688 al 1697 e che stroncò la carriera e la personalità stessa del D., preso in un ingranaggio di cui non seppe capire il meccanismo.

In effetti la lotta ingaggiata dalla Chiesa contro la diffusione delle dottrine cartesiane e contro gli atomisti si appuntò contro gli Investiganti e i loro tentativi di rinnovare sperimentalmente scienza e filosofia proseguendo la lezione di Galileo, ma copriva una più vasta reazione del potere ecclesiastico e aristocratico-feudale contro la giurisdizione regia e i suoi nuovi alleati, che aprì una profonda frattura all'interno della cultura napoletana, influendo in modo decisivo sulla formazione del Vico e del Giannone. Fin dal 1671 l'Inquisizione aveva preso posizione contro la diffusione delle idee cartesiane e aveva identificato in tutto l'ambiente in cui si era formato il D. il più pericoloso avverario dell'ortodossia, messa in pericolo dalla tendenza della filosofia a staccarsi dalla scolastica per procedere con maggiore libertà. Il recente ritrovamento (1971) e lo studio dei documenti originali del processo (comparizioni, difesa degli imputati, interrogatori, dei testimoni, abiura del D. ecc.) contenuti in un manoscritto dell'Archivio storico diocesano di Napoli (Sant'Ufficio, Processi, fascio 250, fascic. 761, di ff. 566) hanno permesso all'Osbat di correggere le precedenti interpretazioni basate sulla Copia legalis Processus S. Offici Neapolitani anni 1693 Hiacinto Christophori (Napoli, Bibl. naz., I. Aa 32).

Il 21 marzo 1688 Francesco Paolo Manuzzi, collabbratore del conte di Conversano, denunciò al S. Uffizio di Napoli Basilio Giannelli, Filippo Belli e il D., colpevoli d'aver professato idee eretiche, fra cui la credenza nell'esistenza prima di Adamo di uomini formati da atomi, nella natura non divina di Cristo e quindi nell'assenza di valore universale della Chiesa e dei suoi insegnamenti e anzi nell'inesistenza di Dio.

Erano le dottrine del libertinismo, unite alla riscoperta dell'atomismo di Lucrezio, allora molto dibattute nei salotti e nelle accademie con la partecipazione anche di ecclesiastici. Il Manuzzi era mosso da ragioni personali più che religiose; dietro a lui e a Felice Pisano, scrivano del tribunale del S. Uffizio cui il Manuzzi aveva riferito le conversazioni avute con gli accusati, e che il D. accusò a sua volta di omosessualità, agiva il conte di Conversano, in conflitto con il viceré per le accuse di abuso di potere nel suo feudo avanzate dagli intellettuali come D'Andrea, Caracciolo, Cavalieri, collaboratori del potere centrale. I tre accusati (e l'accusatore) avevano in comune la formazione culturale e filosofica, studi e interessi intellettuali nonché un vasto giro di amicizie. Il Giannelli, avvocato come il D., apparteneva ad una delle famiglie più potenti di Napoli ed era legato all'ambiente degli Investiganti; al seguito del D'Andrea suo maestro, nel 1689 in Spagna subì un rapido processo da parte dell'Inquisizione spagnola che lo spinse ad autoaccusarsi e ad accusare a sua volta il D. e i suoi fratelli, forse nella speranza di una pena minore: in effetti fu condannatoalla perdita dei beni e all'abiura, ma fu presto liberato e poté tornare in patria. Appare evidente che, attraverso lui, il Conversano intendeva colpire soprattutto il D'Andrea. Filippo Belli, entrato in contatto col D. per mezzo del Giannelli, era governatore e giudice, e apparteneva ad una facoltosa famiglia di Atripalda, feudo dei Caracciolo. Il suo processo coincide sostanzialmente con quello del De Cristofaro.

In seguito alla denuncia del Manuzzi, che coinvolgeva anche parenti del Giannelli e del D. (il padre e i fratelli Germano e Giacomo), il vescovo Giuseppe Giberti compì una prima indagine che permise al S. Uffizio di disporre l'incarcerazione immediata degli imputati, con l'ovvio intento di scavalcare le autorità civili. Il procedimento ebbe un imprevisto rinvio a causa del terremoto del 5 giugno 1688, ma si allargò ad altre persone legate al D'Andrea, Daniele Pinelli, Domenico de Tomasob Francesco Sterlich. Convocato dal tribunale della curia. il D. (come gli altri imputati) si dichiarò innocente, contestò 12 competenza del tribunale stesso e, per inficiare alcune testimonianze, citò un lungo elenco di avversari che avrebbero potuto volerlo danneggiare (tra cui, oltre al Belli e al Manuzzi, diversi frequentatori dei salotti e dei raduni cui aveva partecipato egli stesso). Le accuse invece si fecero più gravi: anche in seguito all'abiura del Giannelli, lo si accusò d'aver sostenuto la separazione tra scienza e fede.

La reazione degli ambienti aristocratici, forse aizzati dal padre, la cui casa era stata perquisita, sfociò in una manifestazione popolare che prese d'assalto il tribunale del S. Uffizio; ciò costrinse il viceré a intervenire allontanando il Giberti e proponendo maggiori garanzie per gli imputati. Vedendo in pericolo i poteri dell'Inquisizione, il papa minacciò l'interdetto sulla città; inviò il vescovo Cantelmo a strappare nuove testimonianze, anche con la tortura, contro gli imputati e a tessere nuove accuse, tra cui quella di non credere all'eucarestia né ai miracoli (compreso quello di s. Gennaro), di giustificare l'incesto e addirittura d'aver usato violenza carnale. Emersero tuttavia anche testimonianze a favore del D., che ricordavano la sua devozione e la sua religiosità ferma ma non bigotta.

Nei successivi confronti con gli accusatori, il D. rigettò ogni accusa, anzi ribaltò sui suoi nemici e sui nemici dei padre (rivali del foro, clienti sconfitti, maniaci sessuali) l'intento di attribuire a lui anche la colpa dei tumulti che avevano portato all'allontanamento del Giberti. Negò con sicurezza d'aver mai professato le idee che gli venivano attribuite, ma, intuendo che il processo si spostava dal piano delle idee a quello personale, non volle cercare di diminuirne le conseguenze sconfessando quella nuova cultura che attraverso lui si voleva condannare. Chiese anzi l'aiuto di un avvocato difensore, Michelangelo Baccalà, che, viste tutte le testimonianze, propose d'accordo col cliente un nuovo questionario sulla cultura, le amicizie, la posizione dei testimoni, in modo da far emergere le contraddizioni delle loro deposizioni. I nuovi interrogatori, condotti anche per il Belli, nonostante la presenza di elementi a Avore del D., non portarono alla caduta delle accuse.

Erano intanto stati arrestati anche Nicola Galdieri, Matteo Vitale, Giovanni de Magistris e Carlo Rosito, accusati d'ateismo, ma, provenendo da ceti sociali inferiori rispetto a quelli dei primi accusati, furono rapidamente giudicati e costretti all'abiura.

Invece il processo del D. rischiava di prolungarsi ancora ed egli, malato e amareggiato, chiedeva piuttosto di venir giudicato a Roma, sicuro di un trattamento più equo.

Ma Roma, dopo aver esaminato gli incartamenti, con l'appoggio anche della Spagna emanò soltanto nuove norme sul funzionamento dei processi del S. Uffizio, e lasciò il D. in mano alla curia napoletana. Nessun conto fu tenuto di un nuovo memoriale di difesa del D. (in Osbat, pp. 305-09) che intanto veniva a sapere della morte dei genitori e della conclusione del processo al Belli, che il 18 dic. 1695 abiurava pubblicamente. Sei anni di carcere però non l'avevano piegato; nel suo memoriale si diceva "non inquisito ma calunniato", soprattutto dal Pisano.

Dopo un'altra comparizione il 16 aprile 1697, il tribunale emise la sentenza di condanna: come sospetto d'eresia, per aver creduto all'esistenza di uomini prima di Adamo, per aver negato ogni potere spirituale alla Chiesa e al papa, per aver negato l'eucarestia, i miracoli, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, Dio stesso; per aver giustificato la fornicazione e l'incesto e fatte proprie le tesi luterane del libero esame: tutte le accuse vennero ribadite, pur non essendo state provate (il D. seppe con precisione solo allora di che cosa l'accusavano). Fu condannato a non abbandonare più la propria casa senza autorizzazione del tribunale e a compiere tutti i formali adempimenti del buon cristiano, quale aveva sempre sostenuto di essere.

Per quanto stroncato nella carriera forense e ridotto in difficili condizioni economiche, dopo la conclusione del processo si dedicò intensamente a studi matematici e scientifici, tanto che questo suo ultimo periodo di vita è segnato non tanto da avvenimenti significativi, quanto della pubblicazione di due opere matematiche. La prima, De constructione aequationum libellus (Neapoli 1700), testimonia una buona conoscenza delle opere di Cartesio, Van Schooten, de Sluse, Fermat.

La recensione all'opera, apparsa sugli Acta eruditorum Lipsiensium (forse di Leibniz) afferma che in tale opera il D. inizia a "promovere Analysin et tradere consitutionem aequationum tertii aut quarti gradus unicam simplicissimam non inconstanti methodo, modo per cuborum latera, modo per lineas circulis inscriptas, ut ab aliis traditam" (p. 465), cioè scopre il modo di passare alla combinazione e costruzione delle equazioni cubiche e quadratiche senza seguire il metodo cartesiano di togliere il secondo termine. Ebbe le lodi anche del Guglielmini, del Magliabechi e dell'Accademia delle scienze di Parigi. Amico in un primo tempo di Bartolomeo Intieri, nel 1703 questi l'accusò di essersi appropriato dei risultati dei suoi studì, ch'egli gli aveva comunicato privatamente, né volle ammettere, nel suo Ad nova arcana geometria aditus (Beneventi 1703), che il D. avesse potuto giungervi per proprio conto.

Pur continuando i suoi studi matematici, il D. si occupò in quegli anni def moto del sangue, descrivendo le idee del Cornelio in una lettera del 1701 al Guglielmini, Intorno al suo opuscolo sulla natura del sangue, aggiuntavi un'opinione circa il moto del cuore, pubblicata nel 1730 da A. Calogerà (in Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, IV [1730], pp. 475-90); Compì una ricerca (1706), su invito del Magliabechi, sulla condanna del Campanella, anche secondo lui inflitta senza prove; scrisse una Istoria genealogica della lamigha Del Pezzo (Napoli 1721). Ma l'opera più importante dei suoi ultimi Prini è Della dottrina dei triangoli (Venezia 1720), sul calcolo differenziale applicato a problemi trigonometrici. Con l'aiuto di Celestino Galiani ottenne nel 1720 la nomina di matematico imperiale e partecipò ai lavori della commissione per l'immissione delle acque del Reno nel Po.

Interrotti nel 1721 tali lavori, tornò a Napoli, dove morì alla fine del 1725.

Fonti e Bibl.: G. B. Vico, Autobiografia, in Opere (ediz. naz.), V, pp. 109, 113, 327. 367; Id., Versi d'occasione, ibid., VIII, pp. 50 s., 141, 272; Acta erud. Lipsiensium, XX (1701), pp. 464-67; M. Barbieri, Notizie istor. dei matem. e filosofi del Regno di Napoli, Napoli 1778, pp. 179 s.; P. Franchini, Saggio sulla storia delle matematiche, Lucca 1821, p. 305; C. Minieri Riccio, Mem. stor. d. scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 113; F. Colangelo, Storia dei filosofi e, dei matematici napol., III,Napoli 1834, pp. 281-85; P. Riccardi, Biblioteca matematica ital.,, I, Modena 1870, col. 384; II, ibid., col. 16; G. Racioppi, A. Genovesi, Napoli 1871, pp. 130-33, 332 ss., 341; L. Amabile, Il S. Ufficio dell'inquisizione a Napoli, II,Città di Castello 1892, pp. 54-62; B. Croce, Storia del Reeno di Napoli, Bari 1925, pp. 166, 168; D. Confuorto, Giornali di Napoli..., Napoli 1930, I, pp. 359 ss., 363 s.; II, p. 180; F. Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico, Bari 1932, pp. 20, 83, 86 s., 96, 129, 152, 169, 171; C. Cappello, G. B. Vico e il processo contro ateisti napol., in Salesianum, VIII (1946), pp. 328 s.; B. Croce, Bibliografia vichiana, Napoli 1947, pp. 15, 178, 189, 195 s., 848, 909; M. Petrocchi, Il quietismo ital. del Seicento, Roma 1948, p. 146 s.; G. Spini, Ricerca dei libertini, Roma 1950, pp. 320 s.; L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo e Napoli nel Settecento, Bari 1950, p. 18; R. Colapietra, Vita Pubblica e classi polit. del Viceregno napoletano, Roma 1961, p. 67; B. De Giovanni, La vita intellettuale a Napoli, in Storia di Napoli, VI,1, Napoli 1970, p. 432; V. Comparato, G. Valletta, Napoli 1970, pp. 143-48; L. Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Roma 1974, ad Ind.;J. Poggendorff, Biographisch-literar. Handwörterbuch…, I, col. 498.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE