GIACOMO DA LENTINI

Federiciana (2005)

GIACOMO DA LENTINI

RRoberto Antonelli

Caposcuola della Scuola poetica siciliana, è più dubbio che possa esserne riconosciuto anche quale primo promotore (Monteverdi, 1971, p. 282; Antonelli, 1994, pp. 311-317): Federico II, pur autore di prove poetiche certamente meno alte e impegnative, vanta al riguardo maggiori titoli, rafforzati dalla scoperta del frammento della canzone Resplendiente di Giacomino Pugliese, databile al 1234-1235 (Brunetti, 2000), e forse dalla stessa Quando eu stava in le tu' catene (Stussi, 1999). Il frammento zurighese, coevo all'attività poetica dell'autore, conferma la retrodatazione degli inizi della Scuola siciliana al periodo immediatamente successivo al rientro nel Regno di Federico II, dopo la nomina a imperatore, nel decennio 1221-1230. Sono infatti databili allo stesso periodo almeno il discordo Donna, audite como di "messer lo Re Giovanni" (di Brienne, unica candidatura possibile, malgrado i molti dubbi al riguardo; cf. Antonelli, 1994, pp. 326-328), fra il 1226 e il 1228, e la canzone di crociata di Rinaldo d'Aquino, Già mai non mi conforto, anch'essa scritta intorno al 1228 per i riferimenti all'unica reale crociata condotta da Federico II. L'attività di G. quale notaio imperiale è attestata per il decennio successivo, negli anni 1233-1240, e potrà essere anticipata di qualche tempo, ma non di molto. Il suo eventuale ruolo di promotore (proposto fra gli altri da Contini in Poeti del Duecento, 1960, pp. 45-46, e Folena, 1965, pp. 296, 300) ne risulta ulteriormente indebolito, senza che ciò peraltro incida sul suo primato poetico e sulla sua complessiva precedenza cronologica (due aspetti almeno storiograficamente quasi indissolubilmente collegati), come sembrerebbero confermare le fitte e continue citazioni da G. reperibili negli altri rimatori della Scuola, compresi i più antichi e solidali (come Pier della Vigna, Jacopo Mostacci, Rinaldo d'Aquino, tutti in corrispondenza o in fitto dialogo con lui). G. deve dunque essere nei fatti considerato come il primo poeta, o uno dei primissimi poeti, certo il più significativo, della Scuola siciliana. La datazione al 1204-1205 di una sua canzone formalmente molto provenzaleggiante, La 'namoranza disïosa (Santangelo, 1959, pp. 178-181, che riprendeva un'ipotesi di Cesareo, 1894, p. 14, poi anche in 19242, p. 108, ora riproposta da Castellani, 2000, p. 536), poggia su esili riscontri storici ed è per di più fondata su un testo quantomeno discutibile (cf. Contini, 1952, p. 371 n.; Giacomo da Lentini, 1979, pp. 75, 77, e aggiornamento in corso di stampa): risulta invece probabile la datazione al 1234 di un'altra canzone, Ben m'è venuto, e al 1241-1242 della tenzone con l'Abate di Tivoli sulla natura d'amore, coerentemente con quanto acquisibile dai documenti d'archivio. I dati biografici sottolineano la vicinanza di G. alla corte di Federico e ai suoi vari interessi, come del resto era inevitabile per un notaio dell'imperatore: due privilegi redatti "per manus Iacobi de Lentino notarii et fidelis nostri" sono emessi da Federico II nel marzo del 1233 a Policoro e nel giugno dello stesso anno a Catania; nell'agosto 1233 è pure di mano di G. ("per manus Iacobi notarii et fidelis nostri") una lettera dell'imperatore al papa Gregorio IX sulla questione lombarda, scritta a Castrogiovanni. La mano di G. è stata riconosciuta anche in una donazione emessa da Federico a Messina e forse (ma è molto dubbio) in un atto palermitano, rispettivamente del giugno e settembre dello stesso 1233. Come "Iacobus de Lentino domini Imperatoris notarius" appare in una testimonianza resa a Messina il 5 maggio 1240, ove è la sua firma autografa, e a lui si riferiscono forse anche lettere e documenti imperiali dell'aprile e del maggio 1240: nel primo caso sarebbe da riconoscere in G. il "nuntius" all'imperatore (che ne scrive da Lucera il 3 aprile) del giustiziere di Sicilia oltre il Salso, nell'altro ‒ ma secondo taluni è da escludere (Sciascia, 2000, p. 32) ‒ il castellano di Carsiliato presso Lentini, secondo lettere imperiali del 29 aprile e del 10 maggio (elenco e analisi dei documenti in The Poetry, 1915, pp. XV-XIX, copia o estratto dei principali alle pp. 131-135). Quand'anche nella lettera imperiale del 3 aprile si trattasse proprio di G., occorre constatare che dal punto di vista documentario l'attività di G. a corte sembra svolgersi tutta all'interno del Regno e segnatamente nella Sicilia orientale, fra Lentini e Messina, intorno ai luoghi di origine della sua famiglia (il passaggio per Tivoli, v. oltre, sarebbe dunque un'eccezione). Pur se occorre sottolineare la consistenza documentaria a Lentini di una nobile famiglia "Lentini" di origine normanna (Sciascia, 2000, pp. 18-28), "de Lentino" / "da Lentini", rimane dubbio che G. vi fosse imparentato, se non alla lontana (ibid., pp. 30-33). È interessante notare che nei canzonieri italiani più antichi la formula completa ("Notar iacomo dallentino") sia riportata soltanto nel manoscritto probabilmente più antico, comunque il più vicino stemmaticamente, per G., all'archetipo, il Laurenziano rediano 9 (siglato L; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana), nel solo componimento con cui si apre la serie delle canzoni di G., Madonna, dir vo voglio; in tutte le altre, così come negli altri due manoscritti all'incirca duecenteschi, il Palatino 418 (ora Banco Rari 217, siglato P; ivi, Biblioteca Nazionale Centrale) e Vat. Lat. 3793 (siglato V; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana), la rubrica recita soltanto "Notaro jacomo" o "Notaro Giacomo". Soltanto i trecenteschi Chig. L. VIII. 305 (nell'intera serie lentiniana, comprese le false attribuzioni), e Barb. Lat. 3953 (ambedue in Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana) e la cinquecentesca giuntina di rime antiche riproporranno la formula completa, come nel Laurenziano, che peraltro sembra riflettere da vicino la situazione dell'archetipo, per quanto riguarda la rubrica, a conferma ulteriore della posizione incipitaria della canzone Madonna, dir vo voglio nella serie di rime tramandateci di Giacomo da Lentini. "Notaro" sarà d'altra parte il modo con cui si autodefinisce lo stesso G. ("ch'è nato da Lentino", Meravigliosa-mente, vv. 62-63) e con cui sarà noto fino a Dante, che tale lo definirà per antonomasia (Purgatorio XXIV, 56), rispettando un uso evidentemente consolidato ("ser Giacomo" ancora per il contemporaneo Abate di Tivoli, Con vostro onore 2, "Lentino" al v. 4, quale città natale, ma "Notaro giacomo valente" per l'anonimo V 72 Amor non saccio, v. 57, "ch'è nato da Lentino" al v. 56; "Notaro" e "Iacopo Notaro" per l'anonimo Di penne di paone, vv. 10 e 14, a rimprovero di un plagiario, appunto, di G.). Emblema di un caposcuola ma anche di una collocazione sociale che segna con le sue coordinate culturali la nuova poesia italiana, alla corte di Federico e nell'espansione successiva nell'intera penisola, in particolare nelle città comunali toscane e a Bologna (Antonelli-Bianchini, 1983).

La produzione del Notaro occupa il primo posto nella sezione dedicata alle canzoni nel ms. Vat. Lat. 3793, il più ampio e insieme il più organico fra i grandi manoscritti delle nostre origini, secondo un ordinamento confermato da Lae che doveva dunque essere anche quello dell'archetipo comune a tutta la tradizione duecentesca: sedici canzoni e un discordo. Anche la sezione dei sonetti del Vaticano è aperta con una tenzone in cui figura G., seguita immediatamente da un'altra tenzone, anonima, di due sonetti (Non truovo chi mi dica e Io no lo dico), molto vicini a G. (Antonelli, 1992). A queste due tenzoni, entrambe sulla natura d'amore e certo poste non casualmente in apertura del settore, quasi a fondarne i presupposti 'teorici', segue immediatamente una serie di quattro sonetti del Notaro (V 333-336), che si trova così al primo posto, il più rilevante non solo storicamente, anche nella seconda sezione del manoscritto più strutturato dal punto di vista storiografico e critico. Con gli altri quattro sonetti tràditi dal Vaticano (talvolta accompagnato da altri manoscritti, primo fra tutti il Laurenziano), gli undici del solo Laurenziano (sezione 'fiorentina', con qualche dubbio per alcuni), e il sonetto Amor è uno disio che ven da core, in tenzone con Pier della Vigna e Jacopo Mostacci sulla natura d'amore, del solo Barb. Lat. 3953 (alcuni degli altri sono assistiti da ulteriori testimonianze, compresi i frammenti trascritti dai notari bolognesi nei Memoriali), G. risulta essere pertanto autore del più vasto corpus di sonetti fra i Siciliani (ventidue su circa trentacinque complessivi, anonimi esclusi: due terzi del totale), pur considerando i soli componimenti univocamente attribuitigli (e compresi peraltro tutti quelli trasmessi dal solo Laurenziano). Un dato che testimonia ulteriormente in suo favore quale probabile 'inventore' del sonetto (v. oltre). Con le sedici canzoni di certa attribuzione e il discordo (accanto a cui andranno ricordati anche la canzone anonima Membrando l'amoroso dipartire e i due sonetti, in dubbia attribuzione con "Meser Monaldo", Lo badalisco a lo specchio lucente e Guardando basalisco velenoso), G. risulta titolare non solo del più vasto e articolato complesso di rime fra i Siciliani (circa quaranta componimenti di attribuzione pressoché certa), ma anche fra quasi tutti i rimatori profani duecenteschi (prima di Cavalcanti e Dante lo supereranno soltanto l'Anonimo Genovese, Guittone, Rustico Filippi, Chiaro Davanzati e Monte Andrea): altre dieci false attribuzioni (Giacomo da Lentini, 1979, pp. 405-421) assicurano ulteriormente della sua fama e di un vasto impatto che conobbe fra i lettori contemporanei e posteriori, almeno sino a Petrarca (ma si ricordi la sua presenza ancora nella Raccolta Aragonese e nella Bartoliniana).

Non abbiamo elementi per classificare cronologicamente tutte le Rime di G. o per individuare un ordinamento in qualche modo attribuibile all'autore. Possiamo però datare con qualche attendibilità una canzone, Ben m'è venuto (intorno al 1234; Santangelo, 1959, pp. 200-203, per allusioni interne), e, con minor certezza, la tenzone di sonetti con l'Abate di Tivoli (1241, l'anno in cui Federico II fu a Tivoli, secondo Santangelo, 1928, pp. 88-89: ma vi fu anche il Notaro?). Di altri componimenti possiamo fissare una cronologia relativa, grazie a inequivocabili citazioni intertestuali: la tenzone di sonetti con Pier della Vigna (caduto in disgrazia presso Federico agli inizi del 1249) e Jacopo Mostacci (probabilmente il falconiere di Federico II nel 1240, ambasciatore di Manfredi in Aragona nel 1262) e la canzone anonima V 72 Amor non saccio (con citazione esplicita di G., da attribuire all'Abate?) sono certamente posteriori allo scambio di sonetti con l'Abate, tenzone che a sua volta segue la 'canzonetta' Madonna mia a voi mando e la grande canzone Madonna, dir vo voglio. L'unica certezza, quantomeno a livello di fruizione storicamente accertata, proviene dall'ordinamento di V, rappresentativo dell'archetipo comune a tutta la tradizione toscana: scontata la posizione primaziale (confermata anche nel De vulgari eloquentia XII, ii, 8) di Madonna, dir vo voglio, con cui si apre V, sarebbe possibile per il moderno operatore ricostruire una sorta di 'storia d'amore', con le sue fortune e disgrazie, le dichiarazioni d'amore e le esaltazioni della donna, le richieste inevase e soddisfatte, le numerose contraddizioni, affidabili però in sostanza soprattutto alla lettura diretta dei testi e alla loro rimiscelazione a posteriori, così come peraltro deve essere avvenuto già nella tradizione quantomeno toscana. In realtà l'unica certezza positiva sembra derivare da alcuni filoni tematici e in particolare dalla consecuzione, valida e operativa già per i lettori duecenteschi, V 3 Guiderdone aspetto avere-V 6 La 'namoranza disïosa-V 7 Ben m'è venuto-V 8 Donna, eo languisco-V 11 Uno disïo d'amore sovente-V 16 Poi no mi val merzé né ben servire, tutte intorno al tema centrale della ricompensa amorosa ("guiderdone"): richiesta, auspicata, negata e concessa, infine tolta (se della stessa donna sempre si tratti, come almeno simbolicamente occorre ipotizzare). Intorno a tale asse si potrebbero collocare in vario modo gli altri componimenti, compresi i più tangenziali, come la stessa originale e importante Amor non vole ch'io clami, rifiuto di una delle più tradizionali consuetudini cortesi, la richiesta di merzé (pietà), all'altro filone tematico pur strettamente apparentata. Sarebbe peraltro un'esercitazione dialettica, con scarsi riscontri esterni, il più sicuro dei quali, riferibile appunto alla concezione d'amore di G. (V 1) e alla serie del "guiderdone" (V 3-V 16), riveste peraltro importanza notevole nella storia della lirica prestilnovistica e nell'impatto della politica poetico-culturale imperiale nell'Italia duecentesca: si veda la contraffazione metrica di Madonna, dir vo voglio operata dal guelfo e comunale Guittone d'Arezzo in Amor tanto altamente (e nei primi sonetti amorosi), in polemica aperta con i concetti espressi da G. in Guiderdone aspetto avere, e la parallela ripresa tematica di Guinizzelli in Donna, l'amor mi sforza.

Fra i prestilnovisti, il solo Bonagiunta Orbicciani di Lucca, non per nulla fervente ammiratore di G., offrirà un quadro più mosso e articolato dal punto di vista dei generi (un nodo centrale della letteratura e della lirica medievali), frequentando, oltre a canzoni, sonetti e discordi, anche la ballata, probabilmente ignota a tutti i Siciliani. Prima di G., un'analoga frequentazione di generi è attestata soltanto nei trovatori a lui contemporanei o della generazione immediatamente precedente (Antonelli, 1989, pp. 38-39), ma con la differenza che il genere corrispondente al sonetto, ovvero la cobla esparsa (v. oltre), era, dal punto di vista canonico, molto meno regolato, e fu forse codificato solo progressivamente, nella tradizione manoscritta delle antologie trobadoriche. Queste infatti distinguono spesso, come i toscani Vat. Lat. 3793, Laurenziano rediano 9 e il tripartito Palatino 418, fra una prima sezione dedicata alle canzoni e una seconda ai generi minori, tenzoni, coblas esparsas, sirventesi ‒ notoriamente assenti fra i Siciliani, tutti ruotanti intorno ad una corte regia e imperiale, poco interessata alla polemica politica in poesia volgare: i discordi hanno collocazione autonoma o legata alla seconda sezione, contrariamente a quanto avviene nei manoscritti toscani.

Malgrado i tentativi di collegare tecniche e temi dei Siciliani e del Notaro a precedenti lirici antico-francesi (ancora recentemente Schulze), tutte le analisi fin qui positivamente esperite riportano la poesia dei Siciliani verso la lirica trobadorica, che appare il grande modello accertato di G. (laddove personaggi, temi e suggestioni derivano talvolta da motivi e figure esemplari del romanzo antico-francese, ovvero dal modello egemone nel genere specifico). Madonna, dir vo voglio, la canzone che apre il manoscritto Vaticano e l'archetipo comune all'intera tradizione toscana, è una traduzione molto fedele di Folchetto di Marsiglia, A vos, midons, vuelh retraire en chantan, ma con notevoli spunti innovativi sul piano del discorso e della costruzione retorico-poetica (Roncaglia, 1975, pp. 24-36); traduzione libera ma evidente da Perdigon, Trop ai estat mon Bon Esper no vi, un altro trovatore della stessa generazione di Folchetto, è invece la 'canzonetta' Troppo son dimorato (Gaspary, 1882, pp. 44-45; Brugnolo, I Siciliani, 1999, pp. 52-59), ove è peraltro ben presente e riusato anche un componimento di Peire Vidal, Tan ai lonjament sercat (Giannini, 2000, pp. 906-917), mentre dallo stesso Folchetto, Si tot me sui a tart aperceubutz 9-12, G. riprende alla lettera il motivo d'apertura e la serie rimica corrispondente (in -ura) nel genere nuovo del sonetto (Sì come 'l parpaglion c'à tal natura). Nelle riprese da Folchetto la traduzione è inserita in un contesto metrico del tutto nuovo, senza precedenti in provenzale: il sonetto ('invenzione' siciliana, anzi lentiniana) è uno schema di canzone non solo mai attestato in provenzale ma del tutto nuovo nella struttura e nella concezione (a b a C, d b d C; e e f (f)G, h h i (i)G dunque quadripartito in piedi e volte, con scansione della stanza sottolineata dall'alternanza di settenari ed endecasillabi, la combinazione che Dante indicherà poi come la più alta, De vulgari eloquentia II, v, 5). Anche in Troppo son dimorato G. rifiuta lo schema metrico (e quindi il discorso retorico-poetico) del modello, ma in questo caso è dubbio che impieghi uno schema del tutto originale, poiché uguale struttura è usata nel trovatore genovese, giurisperito e giudice, Lanfranco Cigala, contemporaneo di G. (Gloriosa santa Maria, in contesto peraltro religioso e lontano) e coinvolgibile anche nell''invenzione' del sonetto (v. oltre). Dunque a una stretta adesione al modello trobadorico si accompagna anche una evidente ed esposta innovazione sul piano metrico-retorico, che coinvolge, come è stato dimostrato, anche il discorso poetico (Roncaglia, 1975, pp. 24-36; Brugnolo, I Siciliani, 1999, pp. 45-53).

Nelle altre canzoni, il genere più alto, G. usa del resto schemi rimici uguali a precedenti trobadorici o trovierici in sette casi su quindici (dai più usati, a b b a; c d d c, con formula prosodica usualmente monometrica nei trovatori, polimetrica in G., ad altri più rari o rarissimi, come a b, a b; c c d, e e d oppure a b, a b; c c b), mentre in tutti gli altri inventa nuovi moduli raddoppiando fronti e/o sirme già impiegate dai trovatori o reinventandone di nuovi, grazie all'impiego di rime interne o all'introduzione di nuove rime con relative varianti o all'incrocio di formule rimiche della fronte (o dei piedi) e della sirma (o delle volte) desunte da fonti diverse (Antonelli, 1989, pp. 43-52, 54-63) e all'uso insistito e certamente programmato di "sirme variabili" (Antonelli, 1978), dunque di formule eterostrofiche (secondo un principio, ma non un modello, già trobadorico e trovierico). Anche in questi casi G. sembra contaminare diverse strutture metriche; in occasioni eccezionali potrebbe aver desunto dalla fonte il tema e una struttura metrica affine (ma non uguale): è il caso di S'io doglio no è meraviglia, da Jaufre Rudel, Lancan li jorn, per il motivo dell'"amore lontano" (Antonelli, 1989, p. 60; Schulze, 1989, pp. 51 ss.), mentre per Raimbaut de Vaqueiras, Engles, un novel descort (Canettieri, 1995, pp. 307-310), ripreso nel discordo di G., funzionerebbe un rimando intertestuale fra generi affini. Nel primo caso la fonte specifica potrebbe essere anche un altro trovatore, Gaucelm Faidit (in più occasioni da G. letto e riutilizzato per microstrutture o addirittura tradotto), e d'altra parte la 'canzonetta' si apre addirittura al primo verso con la citazione-traduzione di un altro trovatore 'classico', Bernart de Ventadorn, No es meravelha s'eu chan, con evidente contaminazione di auctoritates (Antonelli, 1994, pp. 332-333); il secondo non solo riguarda un genere metrico particolare ma si accompagna, come il precedente e altri, a numerose riprese da altri auctores (secondo un principio di contaminazione intertestuale tipico di G.: cf. ora anche Brugnolo, I Siciliani, 1999; Santini, 2000; Giannini, 2000). Anche per altre tecniche retorico-metriche il Notaro si dimostra ben avvertito di tutte le novità e attento lettore dei trovatori, ma quasi sempre con adattamenti innovativi o calibrando attentamente il proprio rapporto con la tradizione. Il collegamento a coblas unissonans, di gran lunga maggioritario presso i trovatori, è utilizzato in tre canzoni: Ben m'è venuto (databile, si ricordi, al 1234) e La 'namoranza disïosa, a contatto nel Vaticano, ai nrr. 6 e 7, e Poi no mi val merzé né ben servire, con incipit dipendente da Daude de Pradas e altri luoghi, invece, da Gaucelm Faidit (Santini, 2000, pp. 883-886); quello a coblas doblas soltanto in Troppo son dimorato (vs. le coblas unissonans dei modelli), laddove in tutte le altre opta per il collegamento a coblas singulars ma con frequenti ripetizioni di rime e di rimanti da strofe a strofe, con funzione quasi di Leitmotiv (dunque non perché a priori il collegamento rimico fosse più facile: il numero delle rime impiegate non è necessariamente più basso). Sa impiegare perfettamente altri strumenti retorici della tradizione, come le coblas capfinidas, optando in altre occasioni per un uso saltuario o limitato della tecnica a luoghi-chiave della canzone (le strofe centrali, ad esempio, o le prime).

Strofe lunghe (fuori dalla norma trobadorica) e impiego dell'endecasillabo sembrano segnare tre canzoni di grande impegno teorico e/o retorico, Madonna, dir vo voglio (a b a C, d b d C; e e f (f)G, h h i (i)G), Amando lungiamente (a b b (b5)A, a b b (b5)A; c9 d (d)5C c E E), e Guiderdone aspetto avere (a8 a8 b4, c8 c8 b4; d e d (e)F, g h g (h)F); la prima di sedici versi, tutti settenari (le lettere minuscole) ed endecasillabi (le lettere maiuscole), la seconda di quattordici, pure settenari ed endecasillabi ma con inserzione di un novenario nel primo verso della sirma e di un quinario al terz'ultimo posto, e rima interna di 5+6, dunque in formula polimetrica; una formula polimetrica marca anche la posizione della terza, Guiderdone aspetto avere, svolta pure su strofa lunga, quattordici versi, ma con l'impiego contemporaneo di ottonari, quaternari, settenari ed endecasillabi a rima interna (7+4): soluzione anch'essa, come la precedente, eccezionale nella poesia duecentesca, pur essendo la canzone ben nota e citata, da Guittone fino alle soglie dello Stil Nuovo: a conferma di un vero e proprio sperimentalismo metrico che contraddistingue il primo grande lirico italiano (come risulta chiaramente anche dall'invenzione del sonetto, v. oltre) e della progressiva codificazione di uno stile canonico 'italiano' in settenari ed endecasillabi che proprio dal Notaro assumerà i tipi fondamentali. Innovative anche Donna, eo languisco (A (a5)B, C (c5)B; D d e e F F) e Uno disïo d'amore sovente (A a5 B, A a5 B; C c d d E E), entrambe con settenari ed endecasillabi e l'inserzione in rima interna, o autonoma, nel secondo caso, di un quinario. Le altre grandi canzoni con endecasillabi, La 'namoranza disïosa (a9 b9 b9 a9; c9 d9 d5 C), Ben m'è venuto (A (a5)B, A (a5)B; (b5)C C, D D) e Poi no mi val merzé (A B c, A B c; (c3)D (d5)B C) sono più legate alla versificazione trobadorica, con uso di coblas unissonans e (in linea di principio) capfinidas, strofe 'corte', sulla media di quelle provenzali, e formula metrica nei primi due casi vicina alle più usate oltralpe (ma con inserzioni innovative: la commistione di novenari, quinari ed endecasillabi nella prima, la rima interna regolare e simmetrica nella seconda) e nella terza originale (per possibile contaminazione di piedi e sirme da diversi modelli). È strettamente legato alla tradizione trobadorica il discordo, che riutilizza anche moduli rimici e/o prosodici tipici del genere, così come risultano con possibili precedenti provenzali anche alcune delle 'canzonette' (Troppo son dimorato, cit., Amor non vole, in a b, a b; c c d, e e d tutti ottonari, e Madonna mia, a voi mando in a b, a b; c d d c, ben attestata presso i trovatori, così come S'io doglio no è meraviglia in a b, a b; c c b tutti ottonari), mentre sono senza precedenti Meravigliosa-mente (a b c, a b c; d d c, tutta di settenari) e, parzialmente, Dolce coninzamento, in a b, a b; c c b, d d b, che nella strofa II, a b, a b; c c b, c c b, ha fra i trovatori un affine, ma solo per la disposizione rimica.

Complessivamente G. sottopone la tradizione lirica trobadorica a un'analisi attenta, riprendendo in misura molto parca alcune strutture rimiche e prosodiche, con riuso esteso forse anche all'aspetto musicale, almeno in taluni momenti, grazie all'equivalenza sillabica con le 'fonti', che poteva permettere, soprattutto nelle 'canzonette' e forse nel discordo, l'adozione delle melodie originali. Rielabora invece normalmente in modo del tutto autonomo schemi rimici e prosodici della tradizione, raddoppiando fronti e sirme e quadripartendo e allungando così la strofa, contaminando moduli da autori e componimenti diversi, inserendo formule prosodiche nuove in moduli rimici della tradizione, anche poco usati (a b c, a b c); perfino nelle traduzioni rinuncia alle strutture metriche dell'originale, inventandone di nuove o riusandone di note ma desumendole da altri componimenti e contaminando perciò suggestioni semantiche e formali. Si conferma pertanto il più che probabile 'divorzio' fra poeta e musico (Roncaglia, 1978), pur rimanendo possibile (Schulze, 1989; Antonelli, 1994) che G. abbia talvolta riusato in contrafactum melodie della tradizione, nei casi di perfetta sovrapposizione rimica e/o prosodica con precedenti provenzali (discordo compreso, forse), o che alle sue canzoni (come poi avverrà per Dante e Petrarca) altri abbiano potuto 'dare il suono'. Sono comportamenti metrici comunque costanti che testimoniano di un particolare gusto di G. per la sperimentazione e l'innovazione formale (quasi una consapevolezza cosciente di essere un 'padre fondatore'): li ritroviamo puntualmente nelle procedure che hanno presieduto all''invenzione' del sonetto.

Sulle 'origini' del sonetto si è a lungo discusso, sulla base di due ipotesi fondamentali: origine 'popolare', dallo strambotto; origine aulica, da una stanza di canzone modificata (cf. ora Brugnolo, 1995). La relazione stabilita fra comportamenti, gusti metrici di G. e storia della canzone trobadorica, origini e sviluppo delle coblas esparsas (Antonelli, 1989) sembra aver ormai dimostrato che la forma del sonetto va posta in relazione con la corrispondente forma della stanza di canzone sviluppata da G. e che l''ottetto' del sonetto (A B. A B. A B. A B) è il prodotto del raddoppiamento di una formula rimica (|a b a b|) particolarmente usata dai trovatori contemporanei di G. (e da G. stesso), con un significativo precedente nella strofa italiana del discordo plurilingue di Raimbaut de Vaqueiras Aras quan vei verdeiar. L'abbinamento di tale formula rimica con l'endecasillabo corrisponde anch'esso al gusto di G. e alle sue preferenze (di otto endecasillabi, fra l'altro, è composta Ben m'è venuto), ma soprattutto all'esigenza, già visibile nelle coblas esparsas contemporanee, di disporre di un genere metrico breve eppure sufficientemente ampio da poter ospitare un discorso compiuto e autonomo. L'endecasillabo e l'allungamento della strofa, estesa fino a quattordici versi, con l''aggiunta' di un 'sestetto' finale, offrono un modello quasi perfetto al riguardo: le partizioni interne lo perfezionano ulteriormente, fino a offrire un genere al tempo stesso 'fisso' e mobile, con ritmo variato fra l'ottetto, a base binaria (|a b|), e il sestetto, a base ternaria (|a a b| oppure |a b a| oppure |a b c|). Il sestetto, interpretabile come due volte o come una tornata doppia rielaborata, si dispone infatti presso l'inventore, G., soltanto su tre tipi: A A B, A A B (il solo Lo viso e son diviso da lo viso), C D C, D C D (ovvero |A B A, B A B|), in otto casi, e C D E, C D E (ovvero |A B C, A B C|) in tredici casi, con l'inserzione a volte, come avviene nella stanza di canzone, di rime interne. Il primo tipo è anche attestato per intero, quale formula rimica, in Lanfranco Cigala, autore vicino a G., in una cobla, N'Anric, con tornata (a b a b a b a b, a a b + a a b): rimane però ancora qualcosa di inesplicato, di 'inventivo'?, nella combinazione fra ottetto e sestetto e soprattutto nel tipo di sestetto |A B A, B A B|, posto che il tipo |A B C, A B C| rientra perfettamente nel gusto del Notaro (piedi impiegati in molteplici occasioni nella stanza di canzone e predilezione per gli incroci di piedi e volte di diversi modelli). Il risultato è un componimento 'quadrato' (secondo un'acuta definizione di Schlegel), particolarmente disponibile ad una trattazione concentrata, eppure dialetticamente articolata, di un tema o di uno stato emotivo, secondo una tipologia probabilmente consapevole del metodo scolastico (Mölk, 1971). È possibile che nelle particolari combinazioni rimiche e prosodiche risultanti siano state tenute presenti da G. anche suggestioni matematiche e numerologiche, magari disponibili nell'ambiente culturale federiciano (Pötters, 1998, ove rimanda all'opera del grande matematico Leonardo Fibonacci), o simboliche (Desideri, 2000, che rimanda al simbolismo di Castel del Monte [v.] e all'idea imperiale di Justitia), fermo restando che la base della struttura e la metodologia operativa sono fornite dagli sviluppi metrici della canzone trobadorica e dalla pratica innovativa di G. sul piano metrico-formale. Il risultato comuque è una 'forma fissa' sin dalle sue prime sperimentazioni: testimonianza quindi di una volontà cosciente di G. di voler proporre un nuovo genere metrico, non una semplice variante metrica delle coblas esparsas, pur essendo queste ultime il tipo di riferimento più immediato (Antonelli, 1989 e 1997). Come genere del resto fu immediatamente recepito, a differenza della sestina di Arnaut Daniel, non solo a corte ma soprattutto nell'Italia comunale e quindi in tutta Europa, fino ai giorni nostri, divenendo da Petrarca in poi il simbolo stesso della moderna lirica europea ed esempio ineguagliato di longevità poetica, secondo molteplici varianti ma sostanzialmente 'forma fissa': quale era stata stabilita presso una corte, quella federiciana, che sul prestigio culturale, anche a livello simbolico, aveva riposto tante ambizioni.

A prescindere dalla possibilità di ordinare le Rime in una serie diegeticamente significativa (o in più serie, v. sopra), la fenomenologia amorosa analizzata da G. ha un momento particolarmente significativo e frequentato nella questione della ricompensa ("guiderdone") richiesta dall'Io-amante, con relativi possibili esiti, secondo una dialettica tipicamente feudal-cortese, nella quale vengono inseriti altri temi di grande rilevanza per la lirica successiva, tutti in qualche modo derivabili dalla poesia trobadorica: innanzitutto la vista / visione dell'amata, o la sua assenza, la lontananza amorosa (non il vero e proprio amor de lonh), e i suoi effetti sull'amante (l'archetipo è Jaufre Rudel, forse contraffatto anche metricamente da Lancan li jorn, ma la relazione coinvolge anche Gaucelm Faidit, Perdigon e Peire Vidal), fino all'interiorizzazione della figura femminile (motivo trobadorico, almeno da Folchetto di Marsiglia e Peire Vidal, ma anche e soprattutto tristaniano); quindi, con particolare attenzione, la morte ripetuta dell'Io non corrisposto (da Folchetto di Marsiglia, in rivisitazioni plurime, anche oltre la vera e propria traduzione, protratta e semanticamente fedele, di Madonna, dir vo voglio). A livello microtestuale il ventaglio delle relazioni è ancora più ampio (recentemente allargato dalle ricerche di Schulze, 1989; Brugnolo, 1995 e Id., I Siciliani, 1999; Santini, 2000; Giannini, 2000) e si estende anche al di là dei trovatori contemporanei e della generazione immediatamente precedente, quelli normalmente tenuti più vicini da G. (Folchetto di Marsiglia in testa, ma anche Raimbaut de Vaqueiras, Peirol, Raimon Jordan, Arnaut de Maruelh, Aimeric de Belenoi, ecc.): primo fra tutti per evidenza Bernardo di Ventadorn (da cui riprende un intero incipit, S'io doglio no è meraviglia) e forse, ma è dubbio, addirittura Guglielmo IX, il primo trovatore. G. assume però liberamente tali suggestioni, secondo un progetto preciso che sembra puntare, dal punto di vista retorico-linguistico, su un registro aulico e sorvegliatissimo; dal punto di vista semantico sulla rappresentazione del sentimento amoroso come fatto interiore (è lui che introduce, tra gli altri, un termine-chiave poi cavalcantiano, spirito), proiettato oltre il piano contingente, talvolta fino a livelli di razionalizzazione definitoria, quasi teoretica, cui si presta in modo particolare il sonetto (caso emblematico, ma non isolato, Amor è uno disïo che ven da core, in risposta a Pier della Vigna e Jacopo Mostacci), concorrenziale rispetto ai pur prestigiosi modelli. Contribuiscono alla riuscita dell'operazione anche la buona e varia cultura romanza (oltre ai trovatori almeno qualche romanzo esemplare come il Tristan di Thomas), classica (certamente Ovidio 'amoroso' ma anche l'Orazio dell'Ars poetica) e mediolatina (il De amore di Andrea Cappellano) di G., corrispondentemente alla propria formazione notarile e alla frequentazione di una corte come quella federiciana, attraversata da molteplici presenze e suggestioni ma soprattutto interessata ad una modellizzazione aulica, di tipo 'classico', svincolata dalla rappresentazione, anche per il fatto amoroso, di situazioni contingenti. La lingua poetica di G. e dei Siciliani sarà dunque a base siciliana (come la corte: ancora Dante, De vulgari eloquentia I, xii, 4, definirà "siciliana" tutta la lirica dei propri predecessori), ma con caratteri di koiné sovraregionale, per la presenza potente del modello provenzale e del latino (anche sul piano sintattico): l'adattamento linguistico a cui sarà sottoposta dai vari copisti municipali non riuscirà del tutto a cancellare la sua realtà originaria (a cominciare dalla cosiddetta 'rima siciliana', fino a Manzoni e oltre) e ne favorirà peraltro la ricezione: non solo nella prospettiva poi dantesca dei canzonieri toscanizzati, la lingua di G. e dei doctores illustres federiciani sarà la 'lingua poetica nazionale' del sec. XIII e influenzerà durevolmente, anche a livello microsintagmatico e 'formulare', l'intera poesia italiana, poste le caratteristiche durevolmente conservatrici di ogni tradizione poetica e in particolare di quella italiana.

G. in sostanza sottopone ad un'attenta operazione di filtraggio e riadattamento il modello lirico più prestigioso del tempo, rendendolo disponibile alla situazione italiana, in cui sarà d'ora innanzi lui (e il modello lirico della Magna Curia) il punto di riferimento per la cultura laica, anche comunale. S'inquadra dunque perfettamente nelle linee generali della politica culturale federiciana, così aperta alle traduzioni e al confronto interlinguistico e interculturale e così innovativa e autonoma rispetto alla tradizione precedente (Giacomo da Lentini, 1979); del resto la posizione privilegiata attribuita al Notaro sarà tanto più comprensibile quanto più si tenga ben presente lo stretto sodalizio che legò sul piano poetico-culturale, oltre che su quello professionale, l'iniziativa poetica di G. a quella politico-culturale di Federico II. Il decennio 1230-1240 (v. sopra) è infatti quello in cui più estesamente e organicamente si sviluppò in tutti i campi il tentativo di egemonia, anche culturale, dell'imperatore, in concomitanza e certo in stretta relazione con l'apertura di quella lotta col papato che durò ininterrottamente fino alla morte di Federico. Si trattava di creare le condizioni per un nuovo centro culturale dotato di tale prestigio da risultare oggettivamente alternativo e concorrenziale. Anche la poesia volgare si prestava perfettamente a tale scopo; ne era anzi storicamente, ormai, uno dei segni più evidenti, anche per raggiunta tradizione interna. L'opera di G. costituisce il punto più alto dei risultati raggiunti dal movimento poetico federiciano, per la qualità e l'articolata ricchezza degli esiti e quindi per l'emblematicità con cui si presentarono agli occhi dei contemporanei e dei successori ("quod quidem retinemus et nos, nec posteri nostri permutare valebunt" dirà icasticamente e quasi legislativamente Dante nel De vulgari eloquentia I, xii, 4, ove proprio Madonna, dir vo voglio, la canzone d'apertura delle Rime lentiniane e simbolo materiale di un passaggio di tradizione, è citata fra gli esempi sommi di poesia prodotta in volgare illustre dai doctores illustres). Il progetto politico di Federico II sarà sconfitto ma rimarrà operante, con notevoli effetti, quello politico-culturale, grazie anche e soprattutto, a livello poetico, a Giacomo da Lentini.

Il riconoscimento di G. come caposcuola risale con ogni evidenza agli stessi Siciliani. Non è casuale che egli sia interlocutore di entrambe le tenzoni superstiti dedicate alla natura d'Amore (e forse anche di una terza, anonima, conservata in V 331 e 332), ma soprattutto appare profondamente significativo che egli sia, a livello intertestuale, il punto di riferimento inequivocabile di tutti gli altri Siciliani, per citazioni esplicite e implicite e per allusioni: Pier della Vigna, Rinaldo d'Aquino, Jacopo Mostacci, lo stesso Federico II, suo figlio Enzo, il Re Giovanni (con evidenti conseguenze cronologiche anche per G.), Tommaso di Sasso, Guido delle Colonne, Giacomino Pugliese, Cielo d'Alcamo, Mazzeo di Ricco, ecc., tutti in qualche modo si pongono in dialogo poetico e in relazione col Notaro. Quando il grande caposcuola prestilnovista Guittone d'Arezzo, vivo forse ancora G., o da poco morto, si porrà il problema, anche politico-ideologico, di un'altra poesia, comunale e guelfa, concorrenziale a quella federiciana, assumerà G. come interlocutore e avversario principale, polemizzando con le posizioni di G. in tema di concezione d'Amore, attraverso la contraffattura e la citazione di Madonna, dir vo voglio e Guiderdone aspetto avere (cf. Antonelli, 1977, pp. 62 ss.; Schulze, 1989, pp. 189-190; Guittone d'Arezzo, 1994, pp. XIV, XXII, XLIII-XLIV). Sempre Guittone, del resto, apre la sezione amorosa delle canzoni con Se de voi, donna gente, in cui le citazioni da Madonna, dir vo voglio (oltre che da S'io doglio non è meraviglia) sono ugualmente aperte, seppur più discrete, a segnalare "una contrapposizione e un superamento" (Guittone d'Arezzo, 1994, pp. XXII-XXIII). Per gli stessi motivi G. sarà il referente principale, oltre che di un altro notaio, Bonagiunta Orbicciani, e di Guido Guinizzelli, entrambi certamente più anziani di Guittone e suoi avversari, di un nutrito gruppo di rimatori fiorentini: Neri de' Visdomini, Neri Poponi, Maestro Francesco, Gugliemo Beroardi, Carnino Ghiberti, Palamidesse Bellendote, Bondie Dietaiuti, l'amico e corrispondente di Brunetto Latini, maestro di Dante (Giacomo da Lentini, 1979, nell'aggiornamento, in corso di stampa). Questi, a sua volta, per quanto meno del suo grande maestro, Cavalcanti, e dei pur guittoniani Chiaro Davanzati e Monte Andrea, sarà significativamente segnato dall'influenza linguistica e stilistica di G. e della tradizione che a lui fa capo: il riconoscimento dantesco di G. quale precedente caposcuola, insieme a Bonagiunta e Guittone (Purgatorio XXIV, 56), segnerà un discrimine rispetto ai predecessori e alla propria stessa attività linguistica (come poi il giudizio definitivo di Petrarca sui Siciliani), ma non inficierà la precedente valutazione sulla corte federiciana, che in G. ebbe appunto il primo e più autorevole 'inventore' della poesia e della lingua: non solo in quanto 'primo' ma in quanto grande poeta e primo classico italiano.

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