BORBONE, Giacomo di

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 12 (1971)

BORBONE, Giacomo di

Peter Partner

Conte della Marche, nacque intorno al 1370, maggiore tra i figli di Giovanni I di Borbone e di Caterina di Vendôme. Nel 1395 partecipò alla crociata, militando sotto il comando del duca di Nevers, e nel 1396 venne catturato dai Turchi nella battaglia di Nicopoli. Ottenuto il riscatto, tornò in Francia nel 1397; nel novembre del 1400 comandò alcune navi francesi all'attacco del regno di Ladislao di Napoli-Durazzo in appoggio di Luigi d'Angiò. L'attacco fu agevoltmente respinto dalle forze di Ladislao e il B., rimasto nelle vicinanze delle coste meridionali italiane, il 4 febbr. 1401 ricevette nell'isola di Dino, di fronte alla Calabria, il giuramento di fedeltà dei membri della famiglia Sanseverino che erano rimasti fedeli a Luigi II. Nel 1403-04 al B. fu affidata un'altra missione navale; questa volta si trattava di invadere il Galles in favore della corona di Francia, per appoggiare la ribellione di Owen Glendower contro Enrico IV d'Inghilterra. A questo scopo firmò un trattato il 14 giugno 1404 e armò la flotta ad Harfleur. Canzoni politiche francesi ci dicono che egli non prese mai il mare: "mare vidit et fugit". In realtà sembra che il B. devastò Falmouth nell'Inghilterra meridionale, ma non raggiunse le coste del Galles. Nel 1406 sposò Beatrice di Navarra. I Diurnali del Duca di Monteleone narrano che nel 1407 il "conte della Murtia" giunse nel regno francese per prendere parte alla guerra civile e con l'intenzione di sposare Maria d'Enghien. L'editore moderno dei Diurnali afferma che il "conte della Murtia" deve essere identificato con il B.: il che è, però, poco probabile dal momento che egli aveva sposato Beatrice l'anno precedente. Partigiano dapprima del partito borgognone, nel 1411 fu fatto prigioniero a Le Puiset. Liberato, fece prigioniero suo fratello Luigi di Vendôme nel corso di una vertenza sull'eredità; più tardi passò al partito degli Armagnacchi, sotto il comando di suo cugino, il duca di Borbone.

In seguito alla morte di Ladislao di Durazzo (6 ag. 1414) si presentò con urgenza il problema di trovare un marito per l'erede al trono del Regno napoletano, Giovanna, sorella di Ladislao, che era rimasta vedova.

Candidati alla sua mano furono presentati dall'Inghilterra (il duca di York), da Cipro e dalla casa reale di Aragona. Il favorito sembrò essere don Giovanni d'Aragona e il 4 genn. 1415 furono stesi gli articoli del contratto matrimoniale. Ma più approfondite considerazioni mutarono la situazione in senso contrario al partito aragonese. Probabilmente giocò un ruolo importante in quella circostanza il rapporto feudale tra il Regno e il Papato, il destino del quale stava allora per essere deciso dalle potenze europee e dal loro clero riunito a Costanza. La politica ecclesiastica aragonese perseguiva fini non del tutto simili a quelli del Regno e si poteva pensare che, nonostante la debolezza e la divisione dei Francesi, un principe di quello stato costituisse la scelta migliore. Beatrice di Navarra nel frattempo era morta, e il B. fu scelto quale marito di Giovanna. La ragione addotta dal Minuti, biografo dello Sforza, che il B. fu scelto "come più maturo di tempo et da poterlo manezare et regere", può anche avere avuto un certo peso. Giovanna era sui quarantacinque anni e circa la stessa età aveva il Borbone.

Nel luglio 1415 il B. attraversò l'Italia fino a Venezia con un seguito di circa 400 cavalieri francesi, e di lì si imbarcò raggiungendo Manfredonia. Era un momento delicato della storia napoletana. Due potenti condottieri, Paolo Orsini e Muzio Attendolo Sforza, erano stati imprigionati a Napoli, come pure l'ex regina, Maria d'Enghien, e molti dei suoi familiari. Il potere restava per il momento nelle mani del favorito di Giovanna, Pandolfello Piscopo.

Non ci sono note le condizioni precise in base alle quali Giovanna aveva accettato di sposare il B., ma sembra accertato che egli dovesse essere marito ma non re; fu nominato duca di Calabria e principe di Taranto ed ebbe le rendite di Taranto e di altri luoghi. Molto dipendeva dalla sua abilità e dal suo tatto politico.

Dal canto suo Pandolfello era consapevole di aver bisogno di un appoggio politico contro il nuovo marito di Giovanna e quindi, prima dell'arrivo di costui, liberò lo Sforza e gli dette in moglie sua sorella (alcune fonti dicono sua nipote). Quando i baroni di Calabria si incontrarono col B. a Manfredonia, tutti, tranne lo Sforza, lo accolsero come re. Un potente partito dell'aristocrazia era, d'altro canto, ostile allo Sforza e il B. lo appoggiò quando Giulio Cesare (Zocholino) di Capua lanciò una sfida allo Sforza a Benevento. Il risultato fu che lo Sforza venne nuovamente arrestato.

Il 10 ag. 1415 il B. entrò a Napoli "come a reale con lo Palio sopra la testa de panno d'oro a cavallo". Incontrò la regina a Castelnuovo, e qui le pose al dito l'anello nuziale. Dopo il matrimonio la regina dichiarò ai baroni che fino a quel momento il B. aveva avuto il titolo di conte, ma che d'ora in avanti essa lo avrebbe chiamato re, e i baroni avrebbero dovuto fare lo stesso. La notizia è confermata dai documenti ufficiali della cancelleria napoletana che da allora furono emanati in nome di Giovanna come regina e del B. come re.

Una simile trasformazione dei termini del contratto matrimoniale fu in effetti un colpo di stato diretto contro Pandolfello e lo Sforza. Quest'ultimo veniva imprigionato in Castel dell'Ovo, e nel settembre del 1415 anche Pandolfello venne arrestato; entrambi subirono la tortura. Il B. aveva ora assunto una posizione che probabilmente era la sola ragionevole e logica per lui: per mantenerla egli avrebbe dovuto dimostrare una grande abilità politica.

Ma di tale abilità il B. dette invero ben poche prove. Dopo aver del tutto trascurato i sentimenti personali della regina ordinando l'arresto di Pandolfello, continuò col non tenere in alcun conto l'orgoglio dell'aristocrazia napoletana, ponendo nobili francesi nei posti chiave dello Stato. Nell'ottobre del 1415 Pandolfello fu condotto dinanzi alla corte della vicaria e accusato di tradimento: essendo stato riconosciuto colpevole, fu mandato a morte. Dopo di ciò il B. mise in atto una serie di intimidazioni nei confronti della regina per sottometterla al suo potere e governare, quindi, attraverso di lei. Prese a trattarla "come ad sua infantesca" privandola di ogni effettivo potere politico; si dice che la facesse così strettamente sorvegliare dai suoi servitori francesi da non lasciarle la benché minima libertà di movimento. Nel tentativo di crearsi una forza politica a lui favorevole, il B. liberò Maria d'Enghien e altri principi della casa Balzo-Orsini. Caterina Orsini, figlia di Maria d'Enghien, era stata data in moglie a Tristano di Chiaramonte, ed a Maria furono restituite le terre che le erano state confiscate (eccetto, naturalmente, il principato di Taranto). Un nobile francese, Lordin de Saligny, fu creato gran connestabile e ad un altro, Jacques de Mally, fu data in moglie l'erede dei Ruffo, Polissena. I castelli di maggiore importanza furono per la maggior parte concessi a Francesi. I baroni e le principali città dovettero giurare l'omaggio e la fedeltà al B. come re; molte potenze italiane e città all'infuori del Regno lo riconobbero tale.

La politica ecclesiastica del B. fu naturalmente diretta ad assicurare l'appoggio del papa alla sua posizione di re. Si dice che complottasse per impadronirsi del potere in Roma e per prendere la città così da costringere il papa, che sarebbe prevalso al concilio di Costanza, a riconoscerlo. Inoltre iniziò trattative con Benedetto XIII e nel 1416 richiese alcune galee veneziane per portarlo a Roma. Ma in seguito abbandonò tale politica comprendendo che poteva essergli troppo pericolosa; nel giugno 1416, infatti, un ambasciatore napoletano fu inviato a Costanza per esprimere la sottomissione di Giovanna e del B. al concilio. Nonostante le proteste di Luigi II d'Angiò e dell'imperatore Sigismondo, il concilio ricevette l'ambasciatore.

L'assunzione del potere reale da parte del B. trovò opposizioni fin dall'inizio. L'imprigionamento di Muzio Attendolo Sforza dette occasione a una guerra civile tra le forze del Regno e gli sforzeschi (guidati da Lorenzo Attendolo) che erano rimasti in libertà. L'antagonista dello Sforza, Giulio Cesare da Capua, fu inviato allora ad assalire Tricarico. Ma il tentativo di dominare gli sforzeschi fallì di fronte alla tenace resistenza della sorella dello Sforza, Margarita, e del resto della famiglia. Il B. dovette acconsentire a un accordo, in base al quale si garantiva la vita a Muzio Attendolo Sforza. Gli sforzeschi, tranne Muzio Attendolo e suo figlio maggiore, dovevano recuperare la libertà e i beni.

D'altro canto il potere del B., nonostante i suoi sforzi, non aveva trovato sufficiente sostegno. 1 baroni continuavano a riconoscere soltanto l'autorità della regina, la quale, da quando il B. aveva fatto uccidere Pandolfello e l'aveva privata del governo e della libertà, aveva preso a odiare il suo nuovo marito. Nel gennaio 1416 Giulio Cesare aveva organizzato un complotto contro il B.: Giovanna dapprima mostrò di appoggiarlo, ma in un secondo momento ne informò il marito. Giovanna infatti odiava Giulio Cesare, il traditore di Pandolfello, ancor più di quanto odiasse il Borbone. Giulio Cesare fu quindi condannato a morte. Ma dopo questo avvenimento Giovanna ebbe maggiore libertà, mentre nel contempo aumentava a Napoli l'impopolarità del Borbone. Il 13 sett. 1416 Giovanna uscì da Castelnuovo per recarsi nella casa di un mercante fiorentino, Agostino Bonciani. Ottino Caracciolo e Annechino Mormile sollevarono il popolo in suo favore, ed effettuarono un colpo di stato contro il Borbone. La regina non tornò presso il marito, e i Napoletani accorsero in suo aiuto. Il connestabile Lordin de Saligny cercò di far giungere a Napoli un'armata in soccorso del B., ma i soldati si dispersero e Lordin fu fatto prigioniero. Verso la fine di ottobre del 1416 il regno del B. come effettivo dominatore dello Stato era finito; Castelnuovo cadeva mentre il B. temeva per la sorte di Castel dell'Ovo.

Non ci è pervenuto il testo dell'accordo, concluso in Castel dell'Ovo dal B. e da Giovanna (tardo dicembre 1416 o primi del 1417). È poco probabile che sia nel vero il biografo dello Sforza, il Minuti, quando afferma che il B. accettò di cambiare i suoi titoli in quelli di "vicario generale", e principe di Taranto, e di abbandonare quello di re. Il De Tummulillis è forse più vicino alla verità quando dice che "dictus rex non deberet se impedire circa regimen regni". Gli accordi finanziari erano vantaggiosi, o lo sarebbero stati se fossero stati attuati. Il B. avrebbe ricevuto 50.000 fiorini l'anno come rendita del principato di Taranto e di altre terre. Lo Sforza doveva essere liberato e nominato gran connestabile, decisione questa di grande importanza per il futuro del Regno. Il B. probabilmente accettò di rimandare in Francia gran parte del suo seguito francese, tranne quaranta persone che sarebbero rimaste con lui, una guarnigione francese sarebbe inoltre rimasta in Castel dell'Ovo. Qualunque fossero le clausole dell'accordo, chiaro ne è il significato: il B. veniva privato completamente di ogni potere politico.

Egli fu virtualmente imprigionato in Castel dell'Ovo, e non gli fu permesso nemmeno di controllare il principato di Taranto, che veniva amministrato dagli agenti di Giovanna. Questa situazione non poteva certo durare a lungo. Nell'accordo raggiunto ad Acerra nell'ottobre del 1418 con la regina, Muzio Attendolo Sforza aveva ottenuto l'impegno che il B. sarebbe stato liberato. Molte potenze europee erano interessate al suo rilascio. Giles de la Cholletiere, e altri ambasciatori del re di Francia, del duca di Borgogna, del re di Navarra e del duca di Savoia raggiunsero Napoli il 25 dic. 1418 per negoziare a questo proposito. Il pontefice Martino V dette istruzioni al suo legato nel Regno, il cardinale Pietro Morosini di adoperarsi per la liberazione del Borbone. Di fatto questi fu liberato dalla regina il 14 febbr. 1419, e il 28 aprile dello stesso anno il B. e la regina sottoscrissero un accordo garantito dal cardinale Girolamo Colonna e da altri notabili. L'accordo non portò un effettivo cambiamento nelle condizioni politiche che si erano stabilite fin dal colpo di stato del 1416; fu però concessa al B. maggiore libertà di movimento, gli fu permesso di entrare in Castelnuovo, gli fu concesso di raggiungere Taranto e di andare a Roma per incontrare il pontefice Martino V. È molto improbabile che la sua promessa di vivere con la regina "comme se deve inter bono marito et bona muliere" venisse adempiuta o che Giovanna volesse che egli la rispettasse. Inoltre il B. si impegnava a non interferire negli affari politici o finanziari del Regno. La regina dal canto suo promise al B. un pagamento annuo di 50.000 fiorini, ma è evidente dalle clausole finanziarie dell'accordo che poco o niente di tale somma gli era stata pagata nel passato. Forse la clausola più importante dell'accordo era quella per cui la regina acconsentì a trattare il B. onorevolmente come "persona dela cristianissima casa de Franza". Non sarebbe quindi eccessivo descrivere l'intero accordo come una mossa politica della regina napoletana verso la corona francese e il Papato.

Non sorprende quindi che il B. non fosse soddisfatto dell'accordo del 28 aprile. Solo pochi giorni più tardi, il 4 maggio 1419, essendosi accordato col capitano di una nave genovese ancorata nel porto di Napoli, col pretesto di visitare la chiesa di S. Leonardo nel porto, con pochi compagni si imbarcò per Taranto. Forse sperava di assumere almeno il pieno possesso del suo principato, ove rimase per lo meno fino al 29 nov. 1419, e probabilmente oltre questa data. In questo periodo fu attaccato dalle forze di Giovanna e anche da quelle di Maria d'Enghien, ansiosa di recuperare il perduto principato. Il B. non riuscì a difendere il feudo potendo contare solo su scarsi appoggi in Terra d'Otranto e altrove, certamente insufficienti a dargli speranze di successo. Il cronista Antonello Coniger afferma che egli accettò 20.000 ducati (di cui 5.000 provenienti dalle rendite di Lecce) da Maria d'Enghien perché le lasciasse il principato di Taranto. Vera o no questa notizia, è certo che il B. alla fine del 1419 o ai primi del 1420 lasciò Taranto per Corfù, da cui raggiunse Venezia e quindi Treviso. Qui rimase almeno fino al 16 maggio 1421, ma ormai la sua avventura italiana era finita. Nel 1426 egli era tornato alla corte di Francia, dove si fregiava del titolo di re di Napoli.

Dopo la morte della regina Giovanna il B. entrò nel convento francescano di Besançon. Fece testamento il 24 genn. 1435 e morì il 24 sett. 1438.

"Lo re Iacopo vile d'animo" scrisse Luigi de Rosa, che era stato maestro di casa del B., e lo storico è tentato certamente di convenirne con lui. C'è ben poco nelle vicende del B. che possa suggerire una qualsiasi capacità politica o militare, mentre le sue vicende stanno a dimostrare la scarsa influenza francese in Italia in quel periodo.

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