DINA, Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DINA, Giacomo

Paola Casana Testore

Nacque a Torino il 24 apr. 1824 da Raffaele e Regina Vitta, secondogenito di quattro figli: Stella, primogenita, Emilio e Giuseppe. La famiglia faceva parte della comunità israelitica torinese, dove il padre era assai apprezzato per la sua cultura, e il D. compì i primi studi ebraici presso il collegio "Colonna e Finzi", continuandoli poi sotto la direzione di L. Cantoni, rabbino dell'"università" israelitica di Torino.

Nel 1838, con la morte del padre, si trovò a dover mantenere la famiglia: il Cantoni lo aiutò a proseguire gli studi e a trovare qualche lavoro saltuario. Fu segretario ed esattore della Compagnia di misericordia funebre, all'interno dell'"università" israelitica, e nell'autunno del 1843, terminati gli studi teologici, fu assunto come supplente nelle classi ebraiche ed italiane presso il collegio "Colonna e Finzi".

Nel 1845 A. Brofferio lo invitò a recensire sul Messaggere torinese la Storia degli ebrei e il Dizionario biblico di A. Bianchi Giovini. Il D. ricusò l'incarico, ma scrisse le sue opinioni direttamente all'autore incoraggiandolo a continuare la pubblicazione dei fascicoli sulla Storia degli ebrei.

Il problema della emancipazione degli ebrei era in quegli anni molto vivo nella comunità israelitica ed il D. iniziò la carriera giornalistica pubblicando un articolo al riguardo sul Messaggere torinese del Brofferio, il 26 nov. 1847; ne seguirono altri sul Mondo illustrato (del 27 dic. 1847) e sull'Opinione (del 17 marzo 1848). Furono molto apprezzati dai suoi correligionari che lo elessero, agli inizi del '48, membro onorario della società privata costituitasi, sotto la presidenza del Cantoni, per promuovere la loro emancipazione, concessa poi dal governo piemontese il 29 marzo 1848.

L'articolo sul Messaggere torinese si intitolava Desideri e speranze e fu scritto su suggerimento del Cantoni. Il D. considerava la parificazione degli ebrei necessaria e fondamentale per l'unificazione ed il risorgimento nazionale, poiché senza l'emancipazione non vedeva possibile né la realizzazione di una vera comunanza di aspirazioni fra tutti i cittadini, né il definitivo abbattimento dei sopravvissuti ordinamenti dell'antico regime. L'ebraismo italiano, secondo lui, aveva accolto con entusiasmo i movimenti nazionali e liberali, perché li identificava anche con l'inizio del proprio miglioramento sociale e politico. Il D. concludeva osservando che ormai erano giunti i tempi per compiere questo passo sulla strada del progresso civile.

Nel secondo articolo, pubblicato sul Mondo illustrato, ribadiva la sua convinzione che l'emancipazione degli israeliti fosse necessaria al conseguimento dell'Unità italiana e che, una volta ottenuta l'emancipazione, gli ebrei si sarebbero integrati nella società, "giacché gli avvenimenti contemporanei ne avvertono che essi affratellati cogli altri membri della comunità, con loro si confondono ed accomunano gli interessi, gli studi e gli affetti".

L'articolo sull'Opinione fu scritto poche settimane dopo la parificazione dei valdesi. Prendendo spunto da questo avvenimento, dichiarava che ormai l'emancipazione ebraica non avrebbe più dovuto incontrare alcuna seria opposizione né da parte del governo, né da parte dell'opinione pubblica piemontese, né da parte degli ebrei stessi, che "dimostrano sincera brama d'affratellarsi cogli altri cittadini, riscaldarsi al sole vivificatore della civiltà e progredire col secolo".

La posizione del D. si differenziava da quella di altri pubblicisti israeliti che si erano occupati dell'emancipazione, quali S. Sacerdoti e S. Anau. Essi avevano accettato le condizioni poste dagli emancipazionisti cattolici e laici, cioè una trasformazione preventiva in campo sociale, culturale e religioso degli ebrei, quale necessaria premessa alla concessione dell'emancipazione. Le loro posizioni erano dunque basate su una valutazione negativa del carattere e della mentalità degli ebrei. Il D. invece ne difendeva l'indole e il comportamento, ne metteva in rilievo il positivo contributo economico e politico e auspicava la loro integrazione in ogni settore della vita italiana presupponendo, però, il mantenimento della loro "nazionalità religiosac integrazione, dunque, non assimilazione.

Nel giugno 1848 fu chiamato a dirigere la moderata Opinione il Bianchi Giovini, che assunse il D. come collaboratore; quindi nel luglio lasciò il collegio "Colonna e Finzi" per dedicarsi totalmente al giornale. Durante la prima guerra d'indipendenza scrisse articoli di politica estera: lanciò infuocati strali contro l'Austria, sostenne un intervento francese in appoggio del Piemonte e criticò aspramente l'armistizio Salasco. Nel 1849 gli fu affidata anche la segreteria della direzione e dell'amministrazione; nel 1851 iniziò a scrivere articoli di argomento finanziario ed economico, e talvolta anche articoli di fondo. Nel maggio 1852 il Bianchi Giovini lasciò la direzione e il D. lo sostituì, anche se ufficialmente assunse il titolo di direttore soltanto nel 1854.

Sotto la guida del D. il giornale cambiò progressivamente-la coloritura anticlericale e di centrosinistra che aveva assunto sotto il Bianchi Giovini e si spostò decisamente su linee filocavouriane: appoggiò il connubio, sostenne la necessità della spedizione in Crimea, difese il governo all'epoca della crisi Calabiana, diede un appoggio incondizionato alla politica economica. Sull'Opinione del 7 luglio 1861, per la morte di Cavour, il D. ne ricordò l'opera politica e ne ripercorse le tappe fondamentali con convinta ammirazione.

Il D. appoggiò il ministero Ricasoli, che considerò una garanzia alla continuazione dell'opera del Cavour, almeno fino a quando il Minghetti ebbe il portafoglio dell'Interno (agosto 1861); tuttavia anche successivamente la sua opposizione fu molto pacata. Fu invece meno accondiscendente verso il primo ministero Rattazzi: criticò il modo con cui venne affrontata la questione romana, e soprattutto criticò l'appoggio concesso a Garibaldi. Fedele anche in questo caso alle direttive tracciate da Cavour, il D. fu sempre propenso a una soluzione diplomatica del problema, ma non per questo fu meno fermo nella convinzione che Roma avrebbe dovuto divenire la capitale d'Italia.

Sull'Opinione del 3 apr. 1861 aveva scritto: "Non si può supporre l'Italia senza Roma capitale, né Roma separata dall'Italia, ma non possiamo, né dobbiamo andare a Roma colla forza... Potremo andarci quando l'Italia sia ben costituita; quando, esaurito ogni mezzo di transazione, avremo indotto la Francia a ritirare le sue truppe per non resistere più oltre alle aspirazioni degli Italiani". Sulla questione romana aveva sempre appoggiato e difeso la politica francese, poiché era convinto che, senza la volontà e l'appoggio della Francia, Roma non avrebbe mai potuto divenire capitale d'Italia.

Caduto il ministero Rattazzi nel dicembre 1862, il D. riprese le posizioni filogovernative appoggiando il nuovo gabinetto Farini-Minghetti. Nel 1864 difese, anche se non l'approvò totalmente, la convenzione stipulata con Napoleone III: il trasporto della capitale avrebbe rappresentato la conditio sine qua non per lo sgombero dell'esercito francese da Roma, primo ed essenziale passo per future rivendicazioni da parte del Regno d'Italia a Roma capitale.

Il D. venne a conoscenza, per vie indirette, della stipulazione del trattato con la Francia e del protocollo segreto sul trasporto della capitale il 16 sett. 1864, il giorno successivo alla firma, e pubblicò la notizia sull'Opinione, pur tacendo del protocollo segreto. Le voci però di un possibile trasferimento della capitale si erano ormai diffuse, a dispetto del governo che avrebbe voluto rimandare ancora di qualche giorno la comunicazione del trattato, ed il 18 seguente la Gazzetta del popolo pubblicava la notizia del protocollo segreto. Il giorno successivo il D. affrontò l'argomento sulle pagine del suo giornale difendendo l'operato del governo: "Il trasferimento della sede del governo è un fatto grave, gravissimo, al quale ci siamo sempre dichiarati contrari, se non era per recarsi a Roma.... Una scossa violenta non si cagiona ad una città fiorente e benemerita della causa nazionale, spese considerevoli non si impongono allo Stato... se non che per... potersi collocare in modo stabile nella capitale storica d'Italia... Ma il governo del Re, posto nell'alternativa di trasferire la capitale a Firenze, come una tappa prima di andare a Roma, ovvero di rinunciare alla convenzione per lo sgombero di Roma poteva egli esitare? Se la Convenzione è un passo importante fatto nella questione romana... chi avrebbe osato consigliare il governo di respingerla?".

Il giorno successivo in un altro articolo, scritto dietro suggerimento del Minghetti stesso, il D. smentiva recisamente la notizia del trasferimento della capitale, attirandosi poi le aspre critiche dei Torinesi. Il Chiala affermava che egli aveva ricevuto la "parola d'onore" del Minghetti che quella era la verità.

Nel giugno 1865, col trasporto della capitale a Firenze, anche la direzione dell'Opinione vi venne trasferita. Nel frattempo, anche se per poche settimane, il D. si era dimesso da direttore, ed il 20 maggio 1865 si era ritirato dalla società del giornale, cedendo la sua quota agli altri due soci, l'avvocato I. Tibaldi ed il marchese P. Peverelli. Tale atto fu provocato da divergenze sulla conduzione del quotidiano; a metà giugno, però, il D. riprendeva il posto di direttore e ricominciava a scrivere di politica estera ed interna.

Nella primavera del 1867, dopo la caduta del secondo ministero Ricasoli, il D. si presentò alle elezioni, candidato dei liberali moderati per il collegio di Imola, e superò in ballottaggio il suo avversario, l'avvocato Massimo Oppi.

Un discorso rivolto agli elettori dopo la vittoria riassume chiaramente il suo programma politico. Il D. ribadiva la necessità di risolvere tempestivamente i problemi economici e politici dello Stato, di riordinare le amministrazioni locali, di definire i rapporti tra il potere politico e quello ecclesiastico rifacendosi al programma di Cavour. Nel discorso dichiarava apertamente: "Non abbiamo noi un programma ben definito, il programma del conte di Cavour, al quale niente di più politico e di più pratico si potrebbe sostituire? Atteniamoci ad esso e lasciamo maturare gli eventi, che ne preparano immanchevolmente l'effettuazione (Chiala, II, p. 64).

Il D. collaborò al progetto di legge relativo alla tassa sul macinato, presentato dal Cambray-Digny e divenuto legge il 7 luglio 1868, che considerava indispensabile per la precaria situazione finanziaria del Regno. Durante il suo mandato, in linea di massima appoggiò sempre i vari ministeri succedutisi fino al 1876, anche se talvolta non ne condivise pienamente le decisioni. Era persuaso che soltanto un governo forte e stabile poteva risolvere le numerose difficoltà del paese, che quindi bisognava evitare le continue crisi di governo, mettendo da parte gli interessi particolaristici delle diverse fazioni in cui la Destra storica era divisa.

Nelle elezioni del 1870 si presentò per il collegio di Città di Castello, dove, il 7 novembre, venne eletto e di cui resterà il rappresentante fino al 1876. Aveva spostato a Roma, divenuta capitale, la direzione dell'Opinione, e dalle pagine del giornale continuò a sostenere, almeno nelle linee generali, la politica finanziaria portata avanti dal gabinetto Lanza-Sella, soprattutto appoggiando quei provvedimenti volti a rendere sempre più precisa e rigorosa l'esazione della tassa sul macinato, che aveva incominciato a suscitare perplessità sempre più vive anche fra gli uomini della stessa Destra.

A proposito della tassa sul macinato, che aveva rischiato di far cadere il gabinetto Lanza-Sella, il D. - sull'Opinione del 29 maggio 1872 - scriveva soddisfatto: "La maggioranza della Camera, salvando ieri dal naufragio la tassa del macinato, ha impedito che le finanze dello Stato indietreggiassero di tre anni ... I 16 voti di maggioranza che ieri ha ottenuto l'on. Sella valgono assai, considerata la gravità della quistione che era agitata e gli sforzi fatti dalla Sinistra per ingrossare le sue file. Quei 16 voti hanno salvato da un colpo mortale una tassa che frutta oltre 5 milioni al mese, e che è uno dei principi fondamentali della situazione delle finanze" (Chiala, III, p. 328).

Caduto il 5 luglio 1873 il ministero Lanza-Sella, che si era visto respingere alcune proposte di nuove misure fiscali, il D. continuò ad appoggiarne e difenderne l'operato dalle pagine dell'Opinione, criticando invece il Minghetti - nuovo capo del governo -, che era stato tra i più accesi oppositori ai progetti Sella. Soltanto più tardi mitigherà i suoi attacchi, a patto che il nuovo governo continuasse, in materia di finanze, sulla linea imposta dal Sella, che egli considerava il fedele proseguimento della linea politica di Cavour. Alla fine del 1873, affaticato dalla duplice attività politica e giornalistica, abbandonò nelle mani dei suoi collaboratori l'amministrazione del giornale, mantenendone solo la direzione.

Nel 1876, alle elezioni che seguirono la caduta dell'ultimo ministero di Destra, il D. presentò ancora la sua candidatura per Città di Castello, ma non venne eletto. Con l'avvento dei governi di Sinistra incominciò a scrivere articoli di opposizione ai nuovi ministeri, sebbene la sua fosse sempre un'opposizione piuttosto equilibrata e moderata, che non mancò di riconoscere anche i meriti dell'azione politica dei suoi avversari. Nel luglio del 1878, rimasto vacante nel I collegio di Torino il posto fino ad allora occupato da C. Ferrati, fu avanzata la candidatura del D., il quale, sebbene riluttante in un primo momento, alla fine accettò dietro i consigli di C. Bon Compagni e di Q. Sella. Nel ballottaggio con A. Allis, dell'agosto 1878, venne però superato dall'avversario: non poco contribuì alla sua sconfitta la posizione tenuta a riguardo della convenzione di settembre, che i Torinesi, a distanza di quattordici anni, non avevano ancora dimenticato.

Sebbene malfermo di salute, il D. continuò ancora a scrivere sulle pagine dell'Opinione. Il 4 febbr. 1879 fu nominato vicepresidente onorario della Stampa periodica in Italia.

Morì a Torino il 16 luglio 1879.

Fonti e Bibl.: Del carteggio del D., conservato al Museo del Risorgimento di Torino, esiste un catalogo a stampa: Catalogo del carteggio politico di G. D. direttore del giornale l'Opinione. 1848-1879, Torino 1909. Fondamentale è l'opera di L. Chiala, G. D. e l'opera sua nelle vicende del Risorgimento italiano, I-III, Torino 1896-1903, in cui sono riportati anche numerosi suoi articoli scritti sull'Opinione. Brevi cenni biografici in T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, Temi 1896, pp. 405 s.; Diz. del Risorg. naz., II, pp. 935 s.; Encicl. Ital., XII, p. 852.

Su particolari aspetti della sua vita e del suo pensiero cfr. A. Colombo, G. D. e la convenzione di settembre, Torino 1913; Storia del Parlamento italiano, VI, Dalla convenzione di settembre alla breccia di Porta Pia, a cura di G. Sardo, Palermo 1969, ad Indicem; A. M. Canepa, L'atteggiamento degli ebrei italiani davanti alla loro seconda emancipazione. Premesse e analisi, in Rass. mensile d'Israele, s. 3, XLIII (1977), pp. 433-436; F. Della Peruta, Il giornalismo dal 1847 all'Unità, in Storia della stampa ital., a cura di V. Castronovo-N. Tranfaglia, II, La stampa ital. del Risorg., Roma-Bari 1979, ad Indicem.

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