FOSCARINI, Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FOSCARINI, Giacomo (Jacopo)

Roberto Zago

Primogenito di Alvise di Andrea del ramo di S. Fosca, e di Marietta Donà, nacque a Venezia il 5 apr. 1523, probabilmente a S. Sofia, ove la famiglia dimorava.

Il padre (c. 1491-1563) "senator ragguardevolissimo" (Priuli), integrò l'esercizio degli uffici pubblici con i traffici mercantili in un'epoca nella quale il patriziato veneziano tendeva ad abbandonare il mare per i più sicuri investimenti fondiari. Un'attività peraltro non così florida da assicurargli più di un decoroso mantenimento della numerosa famiglia. Il F. trascorse la prima adolescenza dedicandosi agli studi, ma dimostrò subito vivo interesse e curiosità per ciò che accadeva fuori dai confini veneziani, attratto dalle prospettive della mercatura. Vinte le resistenze del padre, alla fine del 1539 lasciò Venezia per la Francia al seguito degli ambasciatori straordinari Antonio Cappello e Vincenzo Grimani. Restò per qualche tempo a Parigi approfondendo le conoscenze della politica e dei commerci e stringendo rapporti di amicizia con operatori italiani e stranieri.

Prese così avvio quella permanenza all'estero durata sedici anni, nel corso della quale il F. fece il vero apprendistato alla vita e pose le basi per una solida fortuna economica e un prestigio personale che al rientro in patria costituiranno un buon viatico per i suoi successi politici. A Londra, dove si era successivamente trasferito subentrando all'agente commerciale del padre, la vita del F. si intrecciò con quella di un altro debuttante, Giacomo Ragazzoni, inviato dal padre Benedetto a compiere il tirocinio d'affari. I due costituirono una compagnia mercantile che prosperò a lungo. Il legame di interessi si trasformò poi in una solida amicizia che durò per tutta la vita. Il F. acquisì ben presto solida reputazione nei circoli mercantili e politici dei paesi in cui operava, in particolare in Inghilterra, come ricorda con ridondanti particolari il suo biografo Ridolfi Sforza. Le navi del F. e del Ragazzoni solcavano i mari del Mediterraneo e del Nordeuropa trasportando le merci più richieste, ma non senza rischi e pericoli di perdita del carico o di sequestri, come avvenne nel 1544 e nel 1557. Nelle sue Memorie Francesco Molin testimonia della modernità e dell'efficienza delle imbarcazioni descrivendo un viaggio compiuto nel 1566 in Inghilterra sulla nave "Giustiniana", che aveva "fato il caricho al Zante tutto d'uve passe di raggion di ser Giacomo Foscarini et Jacomo Ragazzoni che mi parve cosa segnalata il caricar navi di mille botti di tal mercantia". Anche quando sciolse la società per dedicarsi alla politica, il F. non abbandonò del tutto i traffici e anche negli anni Sessanta operò investimenti in attività patrocinate dall'ex socio. Più tardi, quando la guerra di Cipro ridimensionò i commerci dei Veneziani e il loro ruolo nel Nordeuropa fu insidiato dall'intraprendenza inglese, il F. lasciò spazio alla società dei figli Giambattista e Foscarina e vi aggiunse una robusta attività speculativa in campo fondiario e immobiliare in Veneto e Friuli. Alla metà degli anni Cinquanta era tornato a Venezia, lasciando a Londra il fratello Girolamo e aveva esteso il campo degli affari al ramo creditizio aprendo un banco (da qui l'appellativo "dal banco") che chiuse nel 1568 per darsi interamente alla vita politica. Il 26 nov. 1556 il F. aveva sposato Elena Giustinian, che gli portò in dote 5.000 ducati e una parentela prestigiosa saldamente legata alla Chiesa.

Dal matrimonio nacquero sette figli: Alvise, Giambattista (1564-1628) continuatore del casato, sposato con Elena Da Mula, e Francesco, che si fece monaco. Le figlie, riccamente dotate, furono tutte ben collocate in famiglie prestigiose, grazie all'accorta politica matrimoniale del F. che consentì di consolidare vecchie alleanze politiche e di crearne di nuove: nel 1574 maritò la primogenita Marietta ad Alvise Barbaro; Laura a Stefano Trevisan nel 1578; Paolina a Pietro Priuli nipote di Francesco procuratore di S. Marco, e Foscarina prima a Francesco Mocenigo, poi nel 1578, ad Antonio Correr. Alla morte del padre il F. da capofamiglia aveva assunto la gestione della casa, che risultò fin dall'inizio intrigata dalle discordie con i tre fratelli, finite di comune accordo con la suddivisione dei beni.

Il F. fece il suo ingresso in politica esordendo a quasi quarant'anni in una carriera tardiva, ma consumando in un periodo di tempo insolitamente breve la distanza che lo separava dalle cariche più prestigiose. Nel 1544 con l'estrazione della Balla d'oro aveva anticipato la sua entrata in Maggior Consiglio, ma solo nel 1559 fu savio alle Acque. Dopo l'elezione nel 1561 a provveditore alla Sanità, il F. restò lontano dalla vita politica per ragioni familiari, rientrandovi nell'agosto 1564 nella prestigiosa sede senatoriale tra i sessanta della zonta, e per altre tre volte, dal gennaio dell'anno dopo fino al 1566, tra i membri ordinari. Nel 1566-1568 fu per due volte savio alla Mercanzia, carica che alternò con quella di giudice sopra gli Atti. Il 6 febbr. 1569 fu nominato podestà a Verona, ove rimase fino alla primavera del 1570 tra il generale apprezzamento per l'abilità e l'energia dimostrate nel fronteggiare sia l'ordinaria amministrazione sia gli imprevisti. In riconoscimento di ciò, nel settembre dello stesso anno il F. fu eletto savio di Terraferma.

Il precipitare della situazione a Cipro e l'intensificazione degli attacchi turchi in Adriatico avevano indotto il governo a disporre avvicendamenti nelle cariche militari, affidando le operazioni in mare alla tempra di Sebastiano Venier e al F., il 20 nov. 1570, la carica di provveditore generale in Dalmazia e Albania. Giungeva a Zara nella primavera del 1571 un F. nuovo a compiti militari e incerto, a causa della consapevolezza di mettere in gioco una consolidata reputazione e una promettente carriera. Il senso del dovere e la considerazione che un rifiuto avrebbe comunque danneggiato la sua immagine ebbero ragione dei dubbi; inoltre - glielo aveva fatto notare il doge - c'era più bisogno di un organizzatore esperto in uomini che di un professionista delle armi. Il F., infatti, coniugando efficacemente fermezza e duttilità, rimise in sesto l'amministrazione civile e con alacre dinamismo, spostandosi incessantemente da un punto all'altro della Dalmazia, ristabilì la disciplina, riorganizzò le difese e prese l'iniziativa contro un nemico che aveva sempre imposto la sua strategia. Nella relazione inviata al Senato fornì un chiaro e analitico quadro della situazione prima e dopo il suo arrivo, offrendo, attraverso schizzi rapidi ed efficaci, una vivida descrizione dei centri della regione. Per fermare l'aggressività dei Turchi, nel maggio 1571, auspice il papa Pio V, venne formata una Lega tra principi cristiani alla quale Venezia, che diffidava della Spagna, aderì con qualche perplessità. Il 7 ottobre la vittoria di Lepanto suscitò molte aspettative e altrettante delusioni. Dopo la battaglia le forze della Lega tergiversavano e si inaspriva lo scontro tra don Giovanni d'Austria e il Venier, capace ma irruento e inviso anche alla S. Sede. Il 3 febbr. 1572, pertanto, il Senato veneziano sostituì il Venier con il F., "che seben non havea havuto altri carichi in mare pur, essendo intendentissimo delle cose del mondo, diligente et valoroso, fu estimato a proposito a tale carico et peso" (Francesco Molin, c. 25). Paolo Paruta mise in rilievo nella sua Historia vinetiana la singolarissima figura del neoeletto "il quale pochi anni prima, passato con meravigliosa felicità dalle faccende private al governo delle cose publiche, et dimostrando ne maneggi grande ingegno et prudenza singolare, haveva eccitato tale concetto della sua virtù che pareva che in lui sicuramente riposar potessero le speranze della Repubblica" (p. 278). Il nuovo capitano generale da Mar salpò il 3 aprile per Corfù con l'ordine di elevare la prontezza operativa della squadra, di mostrare volontà offensiva e tenere buoni rapporti col comandante supremo don Giovanni d'Austria. I fatti sono noti: le divergenze tattiche e strategiche tra gli alleati, le tensioni tra i protagonisti sul campo e le titubanze del comandante in capo portarono a un progressivo affievolirsi dell'impegno bellico e alla pace separata tra la Repubblica e i Turchi nel marzo del 1573.

Il F. trascorse l'ultimo periodo del suo mandato - tra il novembre 1572 e il maggio 1573 - sostanzialmente inattivo, pattugliando le acque tra Corfù e Creta. A Venezia non mancarono disappunto e delusione per il suo comportamento ritenuto troppo cauto, e si rimpiangevano l'irruenza e l'audacia irriflessiva del Venier. Ma il F. aveva dovuto mediare tra opposte esigenze e nel gruppo dirigente veneziano aveva prevalso l'opinione di coloro - i più autorevoli - che ritenevano la guerra contro i Turchi alla lunga non vantaggiosa, e che la politica veneziana in Levante non poteva più fondarsi su un Dominio da mar costosissimo e sproporzionato ai vantaggi commerciali che poteva offrire. Il F., che la pensava così, finché era stato responsabile in campo non aveva espresso opinioni nette (gli si rimproverarono tardive prese di posizione antispagnole quando ormai la Lega era naufragata) ed era contrariato ma rassegnato al comportamento degli Spagnoli. Nella sua relazione non nasconde i dissapori con don Giovanni, di cui rileva i difetti di carattere e i comportamenti irresoluti ed evidenzia viceversa con puntigliosa precisione la propria lealtà, la pazienza e la diplomazia inutilmente esercitate, nonché l'orgoglioso attivismo nelle operazioni belliche. Si diffonde sulla conclusione della pace e i nuovi ordini di non attaccare i Turchi; su come avesse addirittura consigliato il comandante turco di non ingaggiare combattimento con gli Spagnoli, perché la "vittoria dell'uno et dell'altro non poteva se non essere dannosa alla S.V. et che per ella faceva che le cose che questi doi gran Principi stessero in bilancia et sospese".

Le idee, lo stile e la personalità espresse nella relazione connoteranno il futuro politico del F., e ne faranno uno degli interpreti di primissimo piano del patriziato moderato, politicamente e culturalmente contrapposto ai cosiddetti "giovani".

Rientrato da Corfù, il F. andò a ricoprire la carica di savio del Consiglio, ma i timori di un colpo di mano turco su Candia e soprattutto la grave situazione interna dell'isola suggerirono l'invio nell'isola di una personalità prestigiosa e qualificata e la scelta cadde nuovamente sul F., che il 15 maggio 1574 fu nominato provveditore generale (con le attribuzioni di un capitano generale) sindaco e inquisitore con poteri straordinari. Nel frattempo il passaggio del re di Francia Enrico III per il territorio veneto, nel luglio del 1574, dette al F. l'opportunità di mettersi ulteriormente in luce, con l'incarico di scortare il sovrano - che lo fece cavaliere - nel suo soggiorno. Nella grande tela di Andrea Vicentino nella sala delle Quattro porte di palazzo ducale, che ricorda il fatto, il F. campeggia dietro il nunzio.

Partito subito dopo per Candia, ove giunse tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre, il F. era cosciente dell'immane lavoro che lo attendeva e del fatto che, nonostante gli ampi poteri di cui era stato dotato, forse proprio a motivo di essi, il suo operato sarebbe stato attentamente controllato. Ne spiegò le ragioni Francesco Molin, che ebbe parole di elogio per il F., ma aggiunse che "essendo queste supreme autorità pericolose e riuscendo quasi tutte al fine di pernitie alle Republiche e massime alla nostra che aborrisce tal maniera di governo diforme a quella degli antichi nostri e sopramodo odioso e di mala soddisfation a suditi, dirò al Signor Dio che simplicemente il prego che mai più ci facci veder tal Magistrato sopra a nostri sudditi et al governo d'alcune nostre Provincie" (cc. 48 s.). Il F. mise vigorosamente mano a riforme che, conservando il sistema feudale, frenassero il processo di grecizzazione, migliorassero la vita della popolazione rurale, dessero impulso all'economia, alleviassero la crisi alimentare dell'isola mediante il sostegno alla coltura del grano e il ridimensionamento della vite. Notevoli furono gli interventi del F. nel settore difensivo e nel riassetto delle fortificazioni, ma una attenzione particolare fu da lui riservata ai problemi religiosi. Venezia aveva sempre favorito la Chiesa latina, quella della minoranza veneziana, e limitato quella greca, e ciò aveva alienato alla Repubblica gli animi della gente. Il F. non abbandonò questa linea, ma si sforzò di cercare la reciproca comprensione con la popolazione greco-ortodossa e con quella ebraica. Nei confronti di quest'ultima, assai radicata nell'isola, il F. compì un notevole sforzo di realismo anche quando dovette emanare ordinanze rigorose (gli "Ordini"). In ventisette mesi aveva compiuto un'opera di profonda trasformazione dell'isola senza risparmiarsi, ma nella richiesta di rimpatriare, oltre ai motivi di salute emergeva anche l'amarezza per le "voci", le "maldicentie" di coloro che lo attaccavano "scandalizzati" e "offesi" dalla "nova dignità" di cui era investito (Arch. di Stato di Venezia, Provv. Terra e Mar, 738). Rientrò a Venezia agli inizi del 1578 tra il generale riconoscimento che sopì ogni dissenso; tuttavia il F. volle rispondere attraverso la relazione presentata circa un anno dopo: un esame articolato e meditato della sua attività, non solo un adempimento formale ma un memoriale, com'era nel suo stile.

A Venezia il F. riprese il posto che gli competeva negli organi dirigenti, andando a ricoprire la carica di consigliere, da tempo riservatagli mentre era a Candia. Pose numerose volte la sua candidatura anche all'altissima dignità di procuratore di S. Marco, nel 1575, nel 1576, due volte nel 1577 e nel 1578 e agli inizi del 1579, uscendone sempre sconfitto solo di misura, finché l'8 marzo 1580 fu eletto alla Procuratia de supra, la più prestigiosa. Assurto ai più alti livelli dello Stato, il F. poté dispiegare nei successivi vent'anni una molteplicità di funzioni pubbliche alle quali venne chiamato costantemente, in virtù delle riconosciute competenze e della posizione di guida del patriziato tradizionalista che egli aveva assunto. Occupando senza soluzione di continuità i ruoli più alti nella gestione del potere - non a caso solo il dogado gli fu precluso - il F. dominò con il suo "rivale" Leonardo Donà la politica veneziana nell'ultimo decennio del '500. In veste di procuratore ebbe il ruolo culturalmente e politicamente rilevante di sovrintendere alla sistemazione urbanistica dell'area marciana. Con Marcantonio Barbaro il F. fu uno dei protagonisti della renovatio architettonica e urbanistica di Venezia. Ancor prima della elevazione alla Procuratoria il F. aveva fatto parte della commissione incaricata del restauro di palazzo ducale dopo il rovinoso incendio del 1577. Ben più significativo sotto il profilo politico fu il suo ruolo dopo il 1580, con gli interventi di sistemazione della Libreria e delle Procuratie secondo una visione "romanista" che prevalse su quella più tradizionale. Nel 1584 il F. fu eletto con altri eminenti senatori commissario "sopra la fabrica" del ponte di Rialto che si era deciso di riedificare in pietra. Se per piazza S. Marco si era imposto il disegno rinnovatore, per Rialto vinse il progetto di una più sobria venezianità, che il F., inizialmente favorevole al "romanismo" scamozziano, aveva finito per non contrastare. Dal 1582 al 1590 per quattro volte il F. fu provveditore all'Arsenale e partecipò da protagonista al dibattito sulle operazioni di restauro e di rinnovamento architettonico-funzionale dell'immenso complesso. Esperto di cose di mare, culturalmente aggiornato ma legato a una visione sostanzialmente tradizionale, il F. si fece interprete a volte delle istanze di modernizzazione a volte di conservazione.

Si vennero confrontando, insomma, le diverse concezioni estetiche del patriziato, espressioni di un profondo sentire politico e religioso; tra esse quella del F., che Tafuri (1985, pp. 268-270) sintetizza in un complesso di "conservatorismo e cultura antiquaria" sotteso a una "visione magniloquente" dello Stato, che si nutre anche di fasto ed esibizione, simboli di ciò che fu e che vuol ricordare, forse perché crede ormai che il futuro della Repubblica sia altro. Il gusto antiquario del F. - unito all'amore per l'arte del suo tempo - risaliva almeno al periodo candiota, quando raccolse reperti e statue inviate a Venezia e successivamente poste nel palazzo ai Carmini o nella villa a Strà che si era fatto costruire sul finire del secolo.

Figura di prestigio istituzionale, il F. fece parte per quattro volte della delegazione veneziana che si recò a salutare i pontefici appena eletti: nel 1585 presso Sisto V, nel 1590 da Urbano VII e Gregorio XIV e nel 1591 presso Innocenzo IX. Nel 1598, inoltre, fece parte di un'ambasceria inviata a Ferrara per felicitarsi con Clemente VIII dell'acquisto di quel Ducato dopo la morte di Alfonso II.

Quando nel 1585 la Spagna propose alla Serenissima l'appalto in esclusiva del pepe portoghese, e il Senato sottopose la questione al F. e al suo collega Antonio Bragadin, ne ebbe un parere favorevole. Pur non nascondendo gli aspetti negativi e le incognite, infatti, i due autorevoli procuratori affermavano che era il solo modo per salvare da progressiva stagnazione il commercio di Venezia. Non se ne fece comunque nulla, troppo forte essendo la diffidenza verso la Spagna. Ciò che colpisce però è la scelta di un patrizio come il F., nel quale vi era la consapevolezza delle ragioni di ordine economico che potevano spingere i Veneziani sulla strada degli oceani, e, più profonda, vi era la consapevolezza del mutare dei tempi, della schiacciante egemonia spagnola che solo con un disincantato realismo si poteva utilizzare a proprio vantaggio perché la Repubblica non ne venisse assorbita.

Presentato come portavoce dei "vecchi" filocuriali e filospagnoli, in realtà il F. fu personalità più complessa, incline al compromesso più che allo scontro, fautore di un accorto equilibrio tra la difesa delle prerogative dello Stato e la prudenza nei rapporti con la S. Sede, baluardo contro i pericoli esterni e interni della Serenissima. Lo dimostrò ampiamente nell'ultimo ventennio del secolo, quando numerosi furono gli episodi di frizione tra Venezia e la Chiesa, nei quali il F. intervenne come mediatore per il credito di cui godeva presso la Curia di Roma. Nel 1596 quando Clemente VIII richiese anche per Venezia l'adozione dell'Indice dei libri proibiti e il giuramento di obbedienza a stampatori e librai nelle mani dell'autorità ecclesiastica, il F., pur non arrivando alla veemenza di Leonardo Donà, si affiancò a questo nel chiedere al papa di soprassedere. Quando nel 1600 Clemente VIII chiese di esaminare a Roma il patrizio proposto da Venezia come patriarca allo scopo di verificarne l'idoneità, il governo protestò vibratamente per bocca del solito Donà. Anche questa volta il F. appoggiò il collega, manifestando la sua contrarietà alla decisione papale e facendo notare al nunzio che la crisi diplomatica avrebbe fatto pensare a tutti che tra la S. Sede e Venezia non c'era "amorevole corrispondentia di voluntà e unione di amore" (Arch. di Stato di Venezia, Collegio. Esp. principi, 9, c. 141). Nel 1595 il F. fu tra i promotori della riforma della magistratura dei savi all'Eresia, secondo la quale l'elezione veniva affidata al Collegio e non più al doge e che dava più spazio ai membri laici rispetto ai religiosi. Ancora una volta accomunato a L. Donà, si diceva che la ragione del provvedimento stava nella volontà di togliere prerogative al futuro doge indicato da molti in Marino Grimani, noto papalista. Il F., tuttavia, coerentemente con il suo sentire religioso e morale, manifestò sempre il suo appoggio all'azione di apostolato della Chiesa, in particolare a quella di Carlo Borromeo e dei gesuiti. Della Compagnia di Gesù sosteneva l'opera nella scuola e nelle istituzioni di pietà e assistenza; facendosi interprete di un sentimento comune a molti patrizi, si batté inoltre per la riapertura dei loro collegi a Padova, per contrastare il disordine morale e religioso, secondo lui rappresentato dall'ateneo patavino. Dagli anni '80 il F. ricoprì le maggiori cariche di governo in ogni settore dell'amministrazione civile e militare. Fu per due volte nella zonta dei procuratori (1580 e 1581), riformatore allo Studio di Padova nel 1588 e nel 1600, depositario in Zecca (1592), capitano generale da Mar (1594), sopraprovveditore alla Sanità (1595), numerose volte savio alle Acque, sopra la francazione del Monte novissimo (1595), provveditore in Zecca (1596), conservatore in Zecca (1601), degli Otto sopra la riparazione dei lidi (1601), savio all'Eresia (1601). E non si contano le presenze in Collegio come savio grande. Si aggiungano poi gli incarichi straordinari: quello di primo piano per la costruzione della fortezza di Palmanova e quello, non meno arduo, a causa dei difficili rapporti con la S. Sede, relativo alla deviazione del Po all'altezza di Goro, in Polesine, per allontanare il pericolo di inondazioni e di interramento di Porto Viro, portato a termine dopo trattative estenuanti con Roma, tra il 1599 e il 1604. In materia monetaria il F. era considerato "il più intendente di ogni altro", come attesta Nicolò Contarini, suo avversario politico (in Storici e politici… [1982], p. 353). Vi si applicò nell'ultimo decennio della sua vita con la consueta determinazione, allorché la difficile situazione monetaria e la necessità di estinguere il debito pubblico pregresso agitavano il patriziato, diviso tra l'accettazione della situazione di fatto e la reazione agli attacchi speculativi. Qualche anno prima il F. era stato tra gli ispiratori dell'istituzione del Banco pubblico e nel 1595, riprendendo una vecchia proposta, si era battuto per l'affrancazione dei Monti Novissimo e del Sussidio. Anziano e in non buona salute, il 28 ag. 1602 inviò una relazione al Collegio, nella quale suggeriva di affrontare il cambio delle monete mediante pagamenti presso il Banco pubblico. La proposta suscitò polemiche e il F. fu accusato di speculazioni finanziarie e interesse privato. Non erano novità per lui, ricco ed esperto di finanza, ma gli resero amari gli ultimi mesi di vita e forse ne affrettarono la fine, come scrisse il nunzio apostolico a Venezia, Offredo Offredi. Morì a Venezia il 25 genn. 1603, dopo undici giorni di febbre.

Fu sepolto nella chiesa dei Carmini, dove aveva disposto che gli fosse eretto un monumento funebre con la sua effigie nelle vesti di capitano generale da Mar. Nel testamento, puntiglioso e articolato, più volte rimaneggiato, lasciava l'immenso patrimonio diviso tra i due figli Alvise e Giambattista, con qualche riguardo per il secondo, e lasciti per gli amici più cari. Non mancò di onorare i gesuiti anche dopo la morte.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Miscell. codd., I, Storia ven., 19: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, III, cc. 552 s.; ibid., b. 26, c. 2511; Ibid. Avogaria di Comun. Libri d'oro. Nascite, I, cc. 134, 242; II, cc. 136, 138; III, c. 134; IV, cc. 124 s.; V, c. 105; VI, c. 14; VII, c. 122; ibid., bb. 97, 112, 114, 154-156, reg. 51, ad nomen; Ibid. Misc. civile, b. 45 (aprile 1564); Notai di Venezia. Atti, bb. 8134, 8136, 8138/III, c. 70; Ibid. Testamenti, bb. 56 (n. 53); 57 (nn. 251, 319); 344 (n. 370); 1221 (n. 125); 1224 (n. 368); 1249 (n. 96); Ibid., Dieci savi alle decime, bb. 17 (n. 482); 59 (n. 42); 135 (n. 228); 141 (n. 1179); 145 (nn. 1099, 110); 169 (n. 22); Ibid., Ospedali e luoghi pii, bb. 485, 489 s., 500; Ibid., Giudici del piovego, b. 21, c. 125; Ibid., Giudici di petizion. Inventari…, bb. 343 (n. 80), 346 (n. 36), 353 (n. 108); Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni Maggior Consiglio, regg. 2-5, 7-8, 11, passim; Ibid.Elezioni Pregadi, regg. 3-7, passim; Ibid., Savi ed esecutori alle Acque, 238; Ibid., Misc. codd., I, reg. 47; Ibid., Consiglio dei dieci. Misc. codd., b. 60; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci. Giuramenti rettori, reg. 4, c. 36v; Ibid. Lettere rettori, Verona, bb. 195, 255, 286; Ibid. Lettere rettori e altre cariche, b. 274; Ibid., Secreta. Materie miste notabili, b. 31; Ibid., Procuratori di S. Marco. Misti, b. 190; Ibid., Senato. Dispacci. Roma, filze 19, 28, 41; Ibid., Senato. Deliberazioni, reg. 90, cc. 30, 39; Ibid., Senato. Terra, reg. 52, cc. 38 s.; Ibid., Provv. da Terra e da Mar, bb. 439, 735-742; Ibid., Duca di Candia, bb. 27-38, 65; Ibid., Misc. codd., IV, Papadopoli, 17/2-3; Ibid., Arch. proprio di Giacomo Contarini, reg. 9; Ibid., Collegio. Esposizioni principi, filza 1, regg. 2-8, 10-14; Ibid. Esposizioni Roma, filza 3, regg. 3-11; Ibid., Provveditori e sopraprovveditori alla Sanità. Necrologi, reg. 830; Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Cod. Cicogna 56; 1070; 1089; 1676; 1767; 1993-1994: "Materie politiche"; 2021; 2385; 2547; 2555: A. Michiel, Annali 1578-86; 2560-2561: A. Morosini, Memorie politiche…, I, cc. 51, 99, 104; 2562: A. Michiel, Diari…; 2587: F. Contarini, Diari…, fil. 1/2; 2854; 2942; 3014; 3036/6-10; 3053; 3101; 3109/13; 3251; 3281/48-53; 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, cc. 27v, 32-36; 3427; Ibid., Mss. P.D. C 6b; 488/17; 675/17; 987; 1047/4; 1749; 2227; 2326/28,30; 2268/4; 2327/X-XV; Ibid., Mss. Malvezzi, b. 128; Ibid., Mss. Donà dalle Rose, bb. 18, 75, 79/VII, 121, 136; Ibid., Mss. Morosini Grimani, b. 38, cc. 50, 360, passim; 154; 358-360; 380; Ibid., Mss. Wscovich-Lazzari, 6/IX; 26/1; 46; 122; Ibid., Mss. Gradenigo, 198 (scrittura in materie di monete, 1602); Ibid., Mss. Misc. Correr, XXI, 1276; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. it., cl. VII, 1523 (=8682): G. Gerola, Descrizione di Candia…; 110 (=8612), c. 8: F. 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Prodi, Roma 1994, passim.

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