MARINO, Giambattista

Enciclopedia Italiana (1934)

MARINO, Giambattista

Fausto Nicolini

Poeta, nato a Napoli il 18 ottobre 1569. Fu avviato dal padre (il giureconsulto Gianfrancesco) alla giurisprudenza. Ma l'ingegno vivacissimo e l'innata straordinaria facoltà di versificazione lo portarono a coltivare con ben altro entusiasmo letteratura e poesia: campo in cui, fin dall'età giovanile, acquistò tanta notorietà, che, cacciato di casa dal padre per la sua vita sregolata, non tardò a trovare mecenati prima in Giambattista Manso, poi (1596) in Matteo di Capua principe di Conca, nella cui casa entrò come segretario. Nel maggio 1598 fu arrestato per immoralità e rinchiuso nelle carceri della Vicaria. Liberato per intercessione del Conca, si recò a Roma per il giubileo (1600): sennonché, tornato a Napoli, venne nuovamente imprigionato per aver falsificato ed esibito in giudizio taluni atti vescovili allo scopo di salvare dalla condanna a morte (eseguita il 31 ottobre 1600 e che porse argomento a una delle sue migliori poesie) l'amico Marcantonio d'Alessandro. Fuggito dal carcere e riparato a Roma, in casa di monsignore Melchiorre Crescenzio, poi (1602) del cardinal Piero Aldobrandini, nipote del papa regnante (Clemente VIII), composizioni letterarie, accademie (per es., gli Umoristi), amori (per es., con Margherita Sarrocchi, che gli divenne poi fiera nemica) e viaggi (a Siena, Firenze e a Venezia) l'occuparono fino al febbraio 1605, quando seguì l'Aldobrandini nella sua diocesi di Ravenna.

La sopraggiunta morte di Clemente VIII richiamava l'uno e l'altro a Roma, ove il M. cantò l'elezione di Leone XI (1° aprile 1605), ma non l'altra, avvenuta appena quarantacinque giorni dopo, di Paolo V, inviso all'Aldobrandini, che il M., poco di poi, seguì nuovamente a Ravenna, distraendosi dalle noie di quel soggiorno con viaggi a Venezia, Rimini, Roma, Bologna, Modena e Parma (1606-7). Lo accompagnò più tardi (principî del 1608) a Torino, dove gli epitalamî composti per le nozze di Francesco Gonzaga e Alfonso d'Este con Margherita e Isabella di Savoia, l'essere stato gaio compagno delle due coppie nel loro viaggio a Mantova e a Modena, l'aver poi verseggiato in lode di Carlo Emanuele I e, più ancora, le arti non sempre leali con cui riuscì a far congedare il suo antico amico Gaspare Murtola, segretario nella corte sabauda, finirono con l'indurre costui, dopo una fiera guerra di verseggiate satire, a tirargli in pubblica strada cinque colpi di pistola, andati tutti a vuoto (1° febbraio 1609). Mentre il Murtola era condannato a morte e, per intercessione del rivale, mandato libero, il M. veniva insignito della croce di cavaliere dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro (16 marzo 1609) e, dopo altre peregrinazioni a Modena Genova, Parma e Ravenna, chiamato alla corte di Torino con una pensione (primi mesi del 1610). Ma, irrequieto e insofferente, prese a sparlare del duca, pare anche a deriderlo in versi satirici: colpa che gli valse il carcere (aprile 1611), donde, soltanto quattordici mesi dopo, l'intercessione di personaggi potenti d'ogni parte d'Europa riuscì a levarlo. Con pensione assottigliata restò a Torino altri tre anni, combattendo di là e facendo combattere dai suoi amici (1614) una battaglia letteraria contro Ferrante Carli da Parma: dipoi (aprile 1616), accettando l'iterato invito della regina Maria de' Medici, mosse verso Lione, indi a Parigi per attendervi alla stampa dell'Adone, ch'egli immaginava sollecita e invece si protrasse fino all'aprile del 1623. Bene accolto nella capitale francese e gratificato d'una pensione, ebbe nel 1617 momenti pericolosi, allorché, con l'uccisione della coppia Concini, il partito, a cui egli aveva fortemente aderito, precipitò. Ma, ponendo la facile penna al servigio del partito vincitore, tornò a galla: onde poté attendere alla composizione e alla stampa di parecchie altre opere e a difendersi e soprattutto offendere nell'altra fiera guerra mossagli nel 1617 da Tommaso Stigliani, continuata anche dopo la sua morte e alla quale parteciparono letterati d'ogni regione italiana. Tornato in Italia col cardinale Maurizio di Savoia (aprile 1623), fu, dopo una breve fermata a Torino, a Roma, ov'ebbe accoglienze trionfali, culminate il giorno che prese possesso, con un discorso, della carica di principe dell'Accademia degli Umoristi. Poco appresso, deluso nelle troppo alte speranze riposte nell'elevazione al pontificato del suo amico e collega in poesia Maffeo Barberini, si recò a Napoli (maggio 1624), ove accoglienze ancora piò clamorose gli fecero le accademie rivali degl'Infuriati e degli Oziosi, della seconda delle quali accettò la presidenza. Tuttavia, anelava sempre a tornare a Roma, allorché la stranguria, che già a Parigi lo aveva tenuto fra morte e vita (1622), acuita a Napoli da un'operazione chirurgica mal fatta, lo uccise il 25 marzo 1625.

Caratteri artistici. - Veramente più che di arte sarebbe da parlare di virtuosismo, giacché, se c'è cosa che, nei versi del M. e dei suoi innumeri discepoli, seguaci e imitatori, non si trovi mai o quasi mai, è precisamente la poesia. Del che la causa, se è anzitutto in loro medesimi, che non avevano temperamento di poeti, vuole essere riposta, subordinatamente, anche nell'età in cui vissero; età, per l'Italia, quasi del tutto priva di vita interiore e affettiva, che è condizione indispensabile perché la poesia germini e fruttifichi. In tanto vuoto spirituale, ciò che solo poteva sorgere, e sorse, furono surrogati di poesia, ossia forme varie di pseudopoesia, tra le quali più importante di tutte, per durata, numero e valentia di cultori, fu quella che si usa chiamare marinistica o barocca.

Elemento fondamentale di siffatta pseudopoesia è quello che noi diremmo edonistico-ingegnoso: formula che, con altre parole, si trova in una delle non rare affermazioni programmatiche dello stesso M. Bisogna - egli sentenziava - "titillare le orecchie dei lettori con la bizzarria della novità": il che importava l'elevare a canone estetico l'ibridismo tra l'arte, avente un piacere affatto proprio, e il piacere inteso come arte, tra l'alta fantasia e la capricciosa e stravagante immaginativa, tra l'individualità, l'originalità, la novità, che sono d'ogni vera creazione, e la ricerca di quanto vi fosse di più impensato, di più smisurato, di più sorprendente. Che se poi dall'affermazione programmatica si passa a quelle che ne furono nel M. innumeri applicazioni, si scorge che, generalmente parlando, egli, come il più frigido, così era altresì il meno inventivo e il più libresco letterato di quel secolo di letterati: onde, impotente a trovare una forma propria, si contentò d'agghindare e imbellettare i più frusti luoghi comuni della più cerebrale letteratura. Questa intrinseca povertà, più o meno abilmente nascosta sotto le parvenze di ricchezze immense, s'avverte molto meno e talora nulla del tutto nelle sue cose giovanili e in talune d'argomento sensuale, che sono indubbiamente le più felici; s'accentua, con precipite crescendo, nelle poesie varie della maturità; e diventa poi esasperante nell'opera capitale: l'Adone. Sarà magari un'invenzione maligna dello Stigliani che Lope de Vega lo affermasse materiato d'una cinquantina di parole o frasi variamente combinate; ma è un fatto che quel poema, così macchinoso e pomposo, quanto è ricco d'una concettosità che si compiace di sé medesima, e cioè d'analogie convenzionali, di antitesi astratte, di metafore sbalorditive, di sinonimie a lungo metraggio e di bisticci a volte triviali nella loro scurrile oscenità, altrettanto è povero di rappresentazioni concrete d'immagini sensuose, di calore lirico, insomma di poesia. Anche di rappresentazioni concrete, giacché quella che si suol chiamare la squisita perizia descrittiva del M. era certo perizia, e grande perizia: ma non perizia artistica, che importa sintesi descrittive, tutte pervase dal sentimento; bensì perizia meramente meccanica e letteraria, che importa ciò che solo c'è nel M.: esattezza e minuzia, talora stucchevole, di figurazione. Più dunque che di pitture, si tratta di fotografie; più che di sano realismo, di decadentistico descrizionismo e impressionismo, mirante anch'esso, con la sua audace stravaganza, a sbalordire le immaginazioni.

Posto ciò, poteva mai un siffatto pseudopoeta riuscire effettivamente, quale pure è vantato, modello di musicalità? La musicalità vera è intrinseca armonia tra il contenuto artistico, che l'artista scava nell'intimo dell'animo suo, e la forma, la quale, nonché involucro sovrapposto in un secondo momento, sorge simultanea al contenuto ed è indissolubile da questo. Nel M., per contrario, il distacco, ossia la disarmonia, tra contenuto e forma, è fin troppo percepibile, giacché, incapace di scavare nell'animo suo, ove non avrebbe trovato nulla o quasi nulla, egli accattava, e sovente rapinava, fuori di sé, un qualsiasi contenuto, sacro o profano, lascivo o eroico, pago, nella sua indifferenza per tutti i contenuti, di sovrapporre a tutti, con noiosissima monotonia, la stessa forma macchinosa. Certo, i "bei versi senza poesia", alla guisa medesima del sapiente polifonismo senza musica o dello smagliante colorismo senza pittura, non sono cosa da tutti, e, per questa parte, il M. fu indubbiamente un maestro. Ma che a codesti bei versi mariniani si giunga non ab intra ma ab extra, ossia mercé un procedimento meccanico, ch'egli ebbe il merito di perfezionare, è provato dal fatto che, proprio per questa parte, non ci fu quasi, nel Seicento, discepolo, seguace o imitatore, che non lo eguagliasse e talora superasse.

Fortuna. - Un'altra affermazione programmatica su cui il M. insiste molto è che, in poesia, convenga "accommodarsi al costume corrente e al gusto del secolo". E poiché la sua abilità nell'applicarla si rivelò straordinaria, si spiegano quelle che, in tutta la storia della letteratura italiana, restano sempre le due maggiori aberrazioni critiche: l'una, che, per circa un secolo, un Dante, un Petrarca, un Boccaccio, fossero dimenticati o beffeggiati quali vecchi barbogi e oltrepassati, un Ariosto a mala pena tollerato, e un Tasso lodato bensì, ma, più che altro, quale preannunzio aurorale del fulgido sole mariniano; l'altra, che grandissimo tra i poeti passati, presenti e futuri venisse proclamato, e creduto in buona fede, proprio chi, come il M., era la negazione della poesia. Poteva, del resto, accadere diversamente, quando, in quello che fu il periodo più grigio della decadenza italiana, tutta la vita tendeva irrefrenabilmente verso quella lussuosa esteriorità, vuota d'ogni seria interiorità, di cui il M., col precetto e l'opera, si fece apostolo ferventissimo? Si marineggiava o baroccheggiava sempre, dovunque e da tutti: in chiesa e in taverna, a teatro e nelle corti, nelle aule dei tribunali e nei gabinetti politici, negli atti legislativi, nei rogiti notarili e (dove meno si crederebbe) nei dispacci diplomatici. Nel marinismo cascavano, senz'avvedersene, anche coloro che s'atteggiavano a campioni dell'antimarinismo, come, per es., quel Tommaso Stigliani che, con più bellicoso accanimento e fulgida inventiva (ossia senza recedere da bugie, calunnie e falsificazioni), consacrò gran parte della sua ininterrotta attività a combattere il M. e l'opera sua. Marinista, e dei più accesi, fu, nella sua prima giovinezza, persino un Giambattista Vico. Perché, dunque, il M. precipitasse dal suo trono di cartapesta, occorreva che quella malattia generale compisse intero il suo corso, ossia che il vuoto spirituale, da cui essa era germinata, cominciasse a riempirsi. E che tra il 1670 e il 1680 l'Italia fosse bene avviata alla guarigione, mostra, tra altri, il fatto sintomatico che, salvo per la Strage degli Innocenti, in quel decennio appunto le ristampe delle opere del M., fin allora fitte come gragnuola, cessarono di colpo. Senza dubbio, non mancarono i soliti ritardatarî; e, per es., a Napoli, sua città d'origine, il marinismo, proprio nell'ultimo trentennio del Seicento, giunse ai suoi eccessi più folli. Ma coeva a quella recrudescenza fu, precisamente a Napoli, una pugnace reazione, dovuta non tanto all'efficacia dei frigidi e compassati neopetrarchisti Carlo Buragna e Pirro Schettini, quanto all'incessante polemica teorica condotta dal filosofo cartesiano Lionardo di Capua (1617-95) e da una legione di "capuisti", che continue conversioni dal marinismo all'antimarinismo (e tra altre, nel 1692, quella del Vico), resero sempre più numerosa e (talvolta anche manualmente) aggressiva. L'istituzione della Colonia Sebezia dell'Arcadia (1706) distrusse anche quel resticciolo di marinismo, e da allora, in tutta Italia, cultori e critici della poesia dei tempi nuovi guardarono a quella del M. e dei marinisti con lo stesso occhio che gli uomini del Rinascimento all'arte medievale o, come essi per primi la battezzarono, barbara o gotica. L'illuminismo, col suo ideale di poesia raziocinante, e più ancora il romanticismo, con la sua rivalutazione della poesia ingenua, primitiva, popolareggiante e barbarica, non potevano se non accentuare siffatto dispregio; e se ancora i poeti arcadi, a cominciare dal Metastasio, continuarono a leggere, magari di nascosto, il M., non fosse per altro che per imparare da lui la tecnica del bel verso, i romantici, che di siffatta tecnica credevano potersi dispensare, relegarono in soffitta quei "dodicesimi" una volta così consunti dall'uso. È bisognato giungere all'ultimo cinquantennio, col suo rinnovamento dei criterî storiografici e col suo crescente interesse anche per le lontane origini dell'Italia contemporanea (che si ritrovano appunto nell'età barocca), perché il M., trovasse quanto meno, decorosa sepoltura. S'è sentito, infatti, il bisogno di meglio conoscere i casi della sua vita avventurosa, di compilare cataloghi più o meno compiuti delle sue opere, di studiare e valutare con animo pacato la sua pseudopoesia, persino di ristampare, di lui e dei maggiori marinisti, i componimenti più significativi e di pubblicarne taluni fra gli ancora inediti. C'è rischio, oggi, con l'accentuata tendenza a valutare e sopravvalutare segnatamente le arti figurative dell'età barocca, che si torni a considerare la pseudopoesia marinistica quale la consideravano il M. e i suoi contemporanei: quintessenza d'ogni poesia, o poesia portata all'apice della sua intrinseca perfezione? È da augurare di no. Comunque, un punto è da tenere ben fermo: che, se al M. compete un posto molto alto nella storia della cultura, non gliene spetta alcuno, o bassissimo, in quella della poesia.

Opere principali: Autovantatore per eccellenza e sovente bugiardo, il M. non avrà scritto le innumeri opere inedite a cui affermava d'aver lavorato o di lavorare, un catalogo delle quali fu dato dal suo amico Onorato Claretti nella prefazione alla terza parte della Lira. Peraltro, sta in fatto: che parecchi suoi manoscritti furono dal M. medesimo bruciati poco prima di morire; che finirono con l'andar dispersi altri manoscritti mariniani serbati lungamente a Napoli in parte presso i Crasso di Pianura, in parte dai teatini di San Paolo; che altri ancora, contenenti talora versi inediti, sono posseduti a Napoli dalle biblioteche Nazionale e Oratoriana, a Roma dalla Vittorio Emanuele, dalla già Barberiniana e dalla Vaticana (il cui cod. 9227 è una raccolta di poesie pornografiche), a Firenze dalla Riccardiana, a Milano dall'Ambrosiana e dalla Trivulziana, a Venezia dalla Marciana, a Forlì dalla Comunale, a Vicenza dalla Bertoliniana, a Piacenza dalla Passerini-Lando, ecc., e che, anche togliendo dal novero le apocrife o dubbie (p. es. Il pianto d'Italia, ch'è quasi sicuramente di Fulvio Testi), le opere del M. messe a stampa (sia direttamente da lui, sia da altri o in vita del M. o dopo la sua morte) raggiungono un numero molto alto. Più significative tra esse sono:

1. Adone. - Poema eroico in ottava rima, concepito durante il periodo giovanile napoletano in soli tre libri, poi allargato via via a venti lunghi canti (circa 45.000 versi), e pubblicato nel 1623 a Parigi, "presso Oliviero di Varano, alla strada di San Giacomo alla Vittoria" con dedica a Luigi XIII. Ristampe: Torino 1623, Torino 1624, Venezia 1625, Venezia 1626, Parigi 1627, Torino 1644, Amsterdam 1651, Parigi 1678, Amsterdam 1679-80, Londra (Livorno) 1789, Parigi 1849, Londra 1879, Firenze 1886, Torino 1922. Parziali traduzioni francesi: Leida 1660, Parigi 1622, Parigi 1667, Parigi 1775, Parigi 1796.

2. Poesie varie. - a) Le rime (Venezia 1602). - Raccolgono in due volumetti la maggior parte delle cose composte durante il primo periodo napoletano. Con aggiunte e tagli, furono ristampate dal M. medesimo in un solo volume col titolo La lira (ivi 1608), a cui venne aggiunto (ivi 1614) una "parte terza", contenente versi composti dopo il 1602. Ristampate fino al 1675 circa venticinque volte.

b) Versi encomiastici e cortigianeschi. - Dal 1602 in poi il M. ne andò componendo con un crescendo vertiginoso. Meno indegni di ricordo: Il Tebro festante (Roma 1605), per l'elezione di Leone XI; il Ritratto del serenissimo Carlo Emanuelle di Savoia, in sestine (Torino 1608); Il Tempio, panegirico di Maria de' Medici, reina di Francia e di Navarra, anche in sestine (Lione 1615); dieci Epitalami (Parigi 1616, più sedici ristampe secentesche), a cui fanno seguito alcuni "sonetti epitalamici".

c) La Murtoleide, fischiate del cav. M., con la Marineide, risate del Murtola. - Delle dieci edizioni secentesche conosciute, le più antiche sono quelle di Francoforte 1619 e Norimberga 1619. In questa è aggiunto. tra altre cose, il capitolo bernesco Dello stivale.

d) La Sampogna, divisa in idilli favolosi e pastorali (Parigi 1620; 2ª ediz. orig., Venezia 1621; più almeno nove ristampe secentesche integrali). - Gl'idillî favolosi sono: Orfeo, Atteone, Arianna, Europa, Proserpina, Dafne, Siringa, Piramo e Tisbe; quelli pastorali (ristampati a Torino nel 1923): La bruna pastorella, La ninfa avara, La disputa amorosa, I sospiri d'Ergasto.

e) La galeria (Venezia 1620, più sedici ristampe secentesche, e, ancora, Lanciano 1927). - Serie di epigrammi su pitture reali o immaginarie, il cui primo nucleo era stato composto a Napoli prima del 1600 e accolto nella prima edizione delle Rime.

f) Egloghe boscherecce (Napoli 1620, Milano 1627 e qualche parziale ristampa secentesca). - Sette poesie pastorali giovanili (Tirsi, Il lamento, Dafne, Siringa, Pan, Eco, I sospiri d'Ergasto), più cinque canzoni già note e un breve componimento in ottave: Amante convalescente geloso.

g) La strage degli Innocenti (Napoli 1632). - Più frigido fra tutti i componimenti del M., questo postumo poemetto in ottave fu il più fortunato di tutti. A cominciare da quella di Roma, stesso anno (nella quale fu aggiunto un frammento d'una Gerusalemme distrutta), le ristampe, a uso principalmente delle persone pie, si seguirono fittissime nel Seicento, continuarono poco meno abbondanti nel Sette e Ottocento, né ne è mancata qualcuna nel presente secolo. Fu tradotto almeno due volte in versi latini, da un G. Crescimoni (1691) e da un D. Amato (1711); in inglese, da un "M. T.", nel 1675; in tedesco, da B. H. Brockes, nel 1715 (traduz., fino al 1742, ristampata cinque volte); in olandese, da uno Stefano Opterberck, mercante di Amsterdam, nel 1740, e ancora nel 1847, un abate Fruguet de Latour, coadiuvato da un abate Orsini, ne dava una traduzione in prosa francese col testo a fronte.

3. Prose. - Fra le molte, menzione appena fugace meritano le Dicerie sacre (Torino 1614, più 14 ristampe secentesche) e lo scritto polemico anticalvinistico La sferza, invettiva ai quattro ministri dell'iniquità, composto in Francia nel 1617 per ingraziarsi il Luynes, pubblicato postumo a Parigi nel 1625 e ristampato, fino al 1633, almeno cinque volte. Assai più importanti le egualmente postume Lettere. Tra quelle pubblicate a pezzi e bocconi (e più volte ristampate) lungo il Seicento, e le altre venute poi in luce sporadicamente, sono oggi, complessivamente, 322 (comprese due allo Stigliani, riconosciute testé apocrife), e si trovano raccolte in: G. B. Marino, Epistolario seguito da lettere di altri scrittori del Seicento, a cura di A. Borzelli e F. Nicolini (Bari 1912, voll. 2).

S'hanno oggi altresì tre antologie mariniane: le Poesie varie, a cura di B. Croce (Bari 1913), Le più belle pagine, a cura di R. Balsamo Crivelli (Milano 1925), Prose e poesie, a cura di C. Culcasi (Milano 1930).

Bibl.: La bibliografia critica accumulatasi sul M. e il marinismo lungo il Sei e i primi anni del Settecento è immensa; qui si ricordano degli studî dell'ultimo cinquantennio, soltanto queli indispensabili per un primo orientamento. Sulla vita, M. Menghini, La vita e le opere di G. B. M., Roma 1888; A. Borzelli, Il cav. G. B. Marino, Napoli 1898; 2ª ed., rifatta, Napoli 1927; cfr. anche F. Nicolini, nota alla citata edizione dell'Epistolario; e, per brevi profili, quello di F. Picco nei Profili del Formiggini (Roma 1927) e il volumetto di G. Saviotti, Il cav. M., Firenze 1929. Sulla poesia: Brossmann, G. B. M. und sein Hauptwerk Adone, Leignitz 1898; G. F. Damiani, Sopra la poesia del cav. M., Torino 1899; E. Canevari, Lo stile del M. nell'Adone ossia analisi del secentismo, Pavia 1901; B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, 2ª ed., Bari 1927, specie introduzione e saggio finale; id., Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, passim; id., Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1931, passim; id., in Critica, XXX (1932), pp. 148-56. Sulla fortuna, oltre talune delle opere precedentemente citate, C. W. Cabeen, L'influence de G. B. M. sur la littérature française de la première moitié du XVI siècle, Grenoble 1904; B. Croce, nota alla sua ediz. dei Lirici marinisti, Bari 1910; F. Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico, Bari 1923, cap. VII.