PIRANESI, Giambattista

Enciclopedia Italiana (1935)

PIRANESI, Giambattista

Alfredo Petrucci

Architetto e incisore, nato il 4 ottobre 1720 a Moiano di Mestre, morto il 9 novembre 1778 a Roma. Presso lo zio materno Matteo Lucchesi, architetto del Magistrato delle acque, incominciò a studiare l'arte di costruire; quindi passò con Carlo Zucchi, continuando a respirare in quell'atmosfera neo-palladiana erudita e un po' fredda; ma egli aveva il desiderio dei monumenti di Roma, sia repubblicani e imperiali, sia barocchi, dei quali gli andava parlando un suo fratello certosino e al cui contatto si sarebbe poi orientato verso modi più liberi e pittoreschi, favorito dalla consuetudine con lo scenografo Giuseppe Valeriani. Nel 1740 parte per Roma come disegnatore dell'ambasciata veneziana. Le grandi feste per l'ascensione al pontificato di Benedetto XIV colpiscono la sua fantasia, incline per natura allo spettacoloso; ma più di tutto egli è sospinto a studiare, misurando e disegnando, i colossali resti dell'antichità. Tuttavia i suoi propositi non sono ancora ben chiari: probabilmente, appresa l'incisione per poter diffondere, com'era uso del tempo, i suoi progetti architettonici, finì per esserne preso totalmente, assecondato in ciò dall'amicizia col veneziano Felice Polanzani, "maestro d'intaglio" all'ospizio di S. Michele, e dall'esempio di Giuseppe Vasi, che pare gli sia stato per poco maestro, senza però comprenderlo, tanto da rimproverargli quel suo esser "troppo pittore". Intanto ha inciso alcune prospettive e le ha dedicate a un muratore arricchito, che mostra di non gradire l'omaggio. Il P., di temperamento irascibile, ne è sdegnato. Di altra specie di protettori egli ha bisogno: Nicola Giobbe, collezionista di cose d'arte, N. Salvi e L. Vanvitelli, architetti, gli diventano subito amici, insieme con monsignore Bottari; il quali gli apre la raccolta di stampe del cardinale Neri Corsini, consentendogli così di accostarsi ai grandi intagliatori del passato, conoscere l'effetto dell'incisione "per coperture" sulla prospettiva aerea nelle vedute romane di G. B. Mercati e apprendere il modo di popolare le lastre di minute figure gesticolanti, proprio di J. Callot e di S. Della Bella e di un più antico e modesto vedustista romano, Giov. Maggi. Arricchita in siffatto ambiente la sua educazione e tornato per poco a Venezia, dà alla luce nel'43 i dodici rami della Prima parte di Architetture e Prospettive, nella quale l'"Architetto Veneziano" si dichiara "fra gli Arcadi Salcindio Tiseio". La sua fisionomia non è ancora perfettamente determinata; ma c'è qui una tavola, la Carcere oscura del suplizio de' malfatori, in cui, col tema di quel che sarà in seguito il suo capolavoro, è già chiaramente indicata la strada su cui sta per mettersi. Il bisogno di trovare al suo talento di architetto quella naturale applicazione che aveva sperato invano a Roma e il proposito di trarre maggior profitto dall'incisione, lo spingono, coi suoi rami, a Napoli; ma tolta forse l'amicizia col Maderna e la conoscenza degli scavi di Ercolano, non ne ricava nulla. Nel marzo del'44 è di nuovo a Venezia. Questi ritorni alle origini sono decisivi per lui. Nei Capricci del Tiepolo, come già in Rembrandt e Castiglione, egli deve avere sorpreso il tratto libero, scanzonato, frizzante che mancava ai suoi rami; ma certo modo di frangere la luce sulle vecchie mura, svariandone le tonalità, certo modo di slargare i cieli e gittarvi su una smerlettatura di nuvole, lo intuisce piuttosto a contatto delle stampe che escono dalla bottega di Giuseppe Wagner, una specie di semenzaio dell'incisione veneziana. Qualche cosa gli dicono pure il Canaletto e i rami scenografici di Francesco Gaspari e Marco Ricci. Così si prepara a incidere le celebri Carceri e quei Capricci che aggiungerà alla Prima parte... in un'edizione del 1750 ribattezzata col titolo di Opere varie di Architettura, prospettive, grotteschi, antichità. Forse a questo punto il P. ha la rivelazione del suo destino d'incisore, destino in cui le ambizioni deluse dell'architetto troveranno un adempimento fittizio ma generoso, esaltato dalla gioia di poter dare libero sfogo alla passione dell'archeologo e alla vena incarcerata del pittore squisitamente veneziano. Intanto il Wagner gli diventa amico e gli affida la stampa in Roma di un gruppo di rami della sua calcografia. Lo stesso anno egli torna a Roma e s'installa al Corso, "dirimpetto l'Accademia di Francia". Non passano che pochi mesi e già ha pubblicato le quattordici tavole della prima edizione delle Invenzioni capric. di carceri ("Giovanni Buzard in Roma Mercante al Corso"). Egli ha venticinque anni, ma la sua potenza creativa, come mostra questa concezione da incubo, che ha nondimeno il suo positivo fondamento nello studio dell'arte di costruire "all'uso degli antichi Romani", è al colmo. Intanto incide, per vivere, a dieci lire l'una, quelle Varie vedute che l'Amidei pubblicherà nel'48 e che, dopo essere state ripubblicate nel'52 dal Bouchard, andranno a finire, logore, nell'opera di Ridolfino Venuti, e inizia la serie grandiosa delle Vedute di Roma, che dal'46 in poi andrà pubblicando lastra per lastra e che infine riunirà in due tomi di complessive 137 tavole. Nel 1748, mentre collabora alla riduzione della pianta di Roma di G. Nolli, licenzia e dedica a mons. Bottari le sue Antichità romane de' Tempi della Repubblica e de' primi Imperatori che vanno sotto il nome di Archi trionfali dato più tardi alla seconda edizione e in cui, accanto a qualche composizione altrui, son fermati su piccoli rami argentini e scintillanti i suoi primi ricordi di viaggio. Nel'53 escono i Trofei di Ottaviano Augusto..., intesi a sottoporre agli artisti del tempo i modelli offerti dall'antichità. Nelle dieci tavole della prima edizione di quest'opera il P. fissa qualcuno dei temi che svilupperà nella decorazione di S. Maria del Priorato sull'Aventino. Intanto dal Corso s'è trasferito alla Trinità dei Monti, "a Strada Felice", e lavora a un'opera colossale, le Antichità Romane, le cui 216 grandi tavole in 4 tomi, con 61 pagine di testo, vedranno la luce nel 1756. In questo lavoro, comprendente la topografia di Roma antica, gli acquedotti, le terme, il Foro, il Campidoglio, i sepolcri, i ponti, l'Isola Tiberina, i teatri, i portici, la sua idea magnanima di dimostrare come solo dall'esame dei monumenti costruiti dai Romani si possa giungere a scoprire il segreto della loro grandezza, prende forma concreta. Da una parte egli scompone, sviscera, seziona, misura pezzo per pezzo ciascun monumento, e dall'altra lo risolleva e lo colloca, reso più grande dalla disposizione prospettica e dalla generosità delle morsure, nella luce augusta del cielo di Roma. Quest'opera, di cui il Campo Marzio dell'antica Roma (1761-62), la Descrizione e disegno dell'Emissario del Lago Albano (1762) e le Rovine del Castello dell'Acqua Giulia (1771) si possono considerare un seguito, richiamò l'attenzione di tutta l'Europa sulle bellezze di Roma antica. Ma il vero complemento teorico delle Antichità si deve vedere nella Magnificenza e Architetiura de' Romani (40 rami e 212 pagine di testo), che il P. dedica a Clemente XIII. Egli s'è costituito ormai difensore della gloria di Roma, che gli sembra minacciata. L'Investigator di Londra ha pubblicato una serie di dialoghi intesi a restituire ai barbari la loro parte di merito nelle origini della cultura europea. Ma c'è di più: il Leroy suggerisce agli architetti un altro campo di studî, la Grecia, del cui genio Roma sarebbe, per stile e tecnica, tributaria. Il P. scava, misura, disegna, oppone esempio a esempio, per poter dimostrare soprattutto come prima dell'importazione greca i Romani conoscessero l'arte di costruire, arte nata su suolo nazionale e che solo nell'architettura etrusca poteva se mai avere un'antenata. Non contento di ciò, espone, con accurate tavole dimostrative, i caratteri differenziali dell'arte greca e di quella romana, subordinata a un'idea esclusiva di lusso la prima, essenzialmente pratica la seconda. Ed ecco spiegato il suo concetto di "magnificenza", inteso come grandezza e continuità di uno sforzo compiuto in servigio del pubblico bene: gli acquedotti, le cloache, le terme, sono, al pari delle leggi che Roma seppe imporre al mondo, i segni maggiori della sua civiltà. Qui si rivela compiutamente la nobiltà e la modernità dello spirito piranesiano. Qualche anno dopo (Osservazioni... sopra la lettera di M. Mariette, 1765) egli doveva ribadire e ampliare le idee sull'arte etrusca, idee che oggi non possono essere accettate appieno, ma che hanno il merito di avere anticipato un'ipotesi ripresa poi dagli studiosi. Il campo della sua attività intanto si estende, e mentre prepara nuove lastre da incidere e va integrando le sue collezioni di antichità, eccolo ripubblicare nel'60 le Carceri completamente rielaborate e accresciute di 2 tavole, licenziare nel'62 i Lapides Capitolini e tavorire o dirigere altre opere, come quella Raccolta di alcuni disegni del Barbieri da Cento che vedrà la luce nel'64, l'anno stesso in cui escono le sue Antichità d'Albano e di Castel Gandolfo, doviziose d'acque e di verde. Quindi incide le Antichità di Cora e si appresta a riordinare Santa Maria del Priorato per commissione del card. G. B. Rezzonico, al quale dedica nel'69 le Diverse maniere di adornare i camini..., seguite da un Ragionamento, in cui sono già fissate quelle sue idee sulla decorazione architettonica che poi prenderanno corpo nella raccolta dei Vasi, Candelabri, Cippi, Sarcophagi... (112 tavv.), incisa tra il 1768 e il 1778 e destinata ad alimentare lo stile neoclassico. Circa il'70 ha puhblicato anche il Trofeo o sia magnifica colonna coclide; ma la serie delle Vedute è in cima ai suoi pensieri, ed egli, tra un lavoro e l'altro, la va sempre accrescendo, preso forse dal presentimento della fine e dal desiderio di dare una visione ognora più completa della Roma del suo sogno: per questo lo si vede tornare, specie fra il '70 e il '78, su alcuni dei monumenti già incisi e presentarli sotto nuovi aspetti. Egli alza sulle lastre primi piani giganteschi, suscita magiche fughe prospettiche, dilata gli spazî con la varietà e il calcolo preciso delle morsure, trasfigurando in tal modo, senza alterarne i dati obiettivi, la realtà, e chiamandola a esprimere qualche cosa di sempre più grande di sé: la storia gloriosa di cui è carica. Questa progressiva organizzazione della visione, in armonia col crescente eroico amore per Roma e con un approfondimento veramente prodigioso della tecnica acquafortistica, fa della serie delle Vedute una specie di storia in succinto dell'arte piranesiana. Degli ultimi anni è il materiale per il Teatro di Pesto, che sarà pubblicato poco prima della sua morte, dal figlio Francesco, con aggiunte per il Teatro di Ercolano e per le Antichità della Magna Grecia. Egli è nel pieno della sua forza allorché il male lo sorprende; soffre dolori atroci, ma non ha tempo per mettersi in mano ai medici e quando è costretto a stare a letto si fa dare un Tito Livio, nel quale dice di aver fiducia. La morte gli è alle spalle ed egli chiede che gli siano portati ancora i suoi rami, essendo il riposo indegno d'un figlio di Roma. Ma forse, più che altro, vuol rivivere, con gli occhi su quelle lastre, la sua grande passione romana.

La morte prematura di P. trova tre dei cinque figli natigli da quella bellissima donna romana, figlia d'un giardiniere del principe Corsini, ch'egli aveva legata alla sua vita, secondo G.L. Bianconi, in maniera romanzesca, preparati a continuarne l'opera insigne.

Francesco, nato a Roma nel 1758 o 1759, morto a Parigi il 27 gennaio 1810, pensa subito a ripubblicare le raccolte paterne più antiche, aggiungendovi altre tavole (una agli Archi Trionfali, 5 ai Trofei, 2 alle Antichità, 2 alle Vedute, ecc.); intanto mette mano all'incisione dei disegni inediti, tra cui la pianta dell'emissario del Lago di Fucino. Nel 1780 pubblica la prima parte dei suoi Tempi antichi, la cui seconda parte, dedicata al Pantheon, uscirà nel '90; nel 1781 la pianta in 6 fogli della Villa d'Adriano, la pianta e lo spaccato del "Circo di Caracalla", ultimi lavori del padre, e nel 1783 il Teatro di Ercolano, nel 1786 la Collezione delle più belle statue di Roma, nel '95 i Monumenti degli Scipioni, tra il 1804 e il 1807 i tre volumi della Magna Grecia. L'opera sua così s'intercala con quella di Giambattista e la integra. Anche sotto l'aspetto tecnico e stilistico egli procura, meno che nelle "belle statue" d'ispirazione pitteriana, di mantenersi fedele al padre. La sua attività d'antiquario prima e la partecipazione ai moti politici poi, lo tengono quindi lontano dai rami, finché, costretto a emigrare a Parigi, vi si trasferisce con la sorella Laura e col fratello Angelo e v'impianta, entusiastica ente acc lto, la "Chalcographie de Piranesi frères", con una scuo d'incisione e, in seguito, una fabbrica di terrecotte sui modelli del museo paterno. I rami dello stabilimento passano quindi alla casa Firmin-Didot, che li stampa fino al 1839, anno in cui, acquistati, in numero di 1180, da Gregorio XVI, passano alla Calcografia Camerale, oggi R. Calcografia di Roma. (V. tavole LXXXV - LXXXV III).

Bibl.: G. L. Bianconi, Elogio storico del cav. G. B. P., II, Milano 1802; Durand, Quelques idées sur l'établissement des Frères P., Parigi 1902; A. Samuel, P., Londra 1910; F. Hermanin, G. P., Torino 1915; A. Munoz, G. B. P., Roma-Milano 1920; G. Morazzoni, G. B. P., Milano 1921; A. Hind, G. B. P., Londra 1922; H. Focillon, G. B. P., 2ª ed., Parigi 1928; A. Giesecke, in Thieme-Becker, Künstl.-Lex., XXVII.

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