Vico, Giambattista

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Filosofo (Napoli 1668 - ivi 1744). Terzultimo degli otto figli di Antonio, modestissimo libraio, e di Candida Masullo, dotato di un carattere che egli stesso definiva "melanconico ed acre", di debole e delicata costituzione, entrò all'età di dodici anni nel collegio gesuita "a Gesù vecchio" per frequentarvi la seconda classe di grammatica. Lasciata la scuola, si mise a studiare per proprio conto i testi logici di Pietro Ispano e Paolo Veneto, impresa che si rivelò ben presto superiore alle sue forze e che abbandonò, interrompendo gli studî per più di un anno. Tornato al collegio gesuita per seguire le lezioni del filosofo scotista Giuseppe Ricci, ma nuovamente insoddisfatto, attese per proprio conto allo studio della metafisica di F. Suarez. Per assecondare un desiderio del padre che lo voleva giurista, frequentò per un paio di mesi le lezioni private di Francesco Verde e si iscrisse per tre anni, dal 1688 al 1691, ma senza seguirne i corsi, alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Napoli. Conseguì poi la laurea, forse a Salerno, tra il 1693 e il 1694. Costretto a cercare ben presto lavoro, dopo un tentativo di avviamento all'avvocatura, accettò il posto di precettore dei figli del marchese Domenico Rocca. Nei nove anni di tale incarico (1686-95), trascorsi in parte a Vatolla nel Cilento, V. venne consolidando la sua preparazione filosofica, partecipando altresì attivamente a quel movimento di idee che si era venuto sviluppando attorno a personalità come Tommaso Cornelio, Leonardo di Capua e Francesco d'Andrea, che conducevano un'assidua lotta contro la cultura scolastica, aprendosi alle nuove correnti della cultura europea come il cartesianismo, la filosofia di Gassendi, l'erudizione storica. In questi stessi anni, abbandonato lo studio del greco, si dedicò interamente allo studio del latino e si impadronì della filosofia cartesiana, verso la quale assunse però subito un atteggiamento polemico. Riprese anche gli studî di giurisprudenza, accostandosi al pensiero dei grandi teorici e storici del diritto francesi e olandesi, e affinò la sua cultura letteraria. Tornato a casa, dovette provvedere al mantenimento del padre e dei fratelli, quindi incominciò a dar lezioni di retorica e anche di grammatica elementare, ad accettare per commissione ogni sorta di lavoro (poesie, epigrafi, orazioni funebri, panegirici, ecc.): occupazione che non poté abbandonare neppure quando (1699) fu nominato, per concorso, lettore d'eloquenza all'università, poiché lo scarso compenso era del tutto insufficiente ai bisogni della famiglia (in quell'anno egli prese moglie, dalla quale ebbe poi otto figli). L'obbligo imposto agli insegnanti di eloquenza di pronunciare una solenne orazione all'apertura di ogni anno scolastico gli diede modo di comporre sei prolusioni (1699-1706), che costituiscono i suoi primi scritti filosofici, e che, rielaborate negli anni successivi, furono pubblicate postume nel 1869. Una settima prolusione, pronunciata il 18 ott. 1708 e pubblicata l'anno seguente con il titolo De nostri temporis studiorum ratione, segna la prima affermazione originale del pensiero vichiano. Negli anni seguenti, accentuatasi la sua posizione polemica contro Cartesio, approfonditi i suoi studî platonici (lesse e rilesse il Cratilo platonico), V. compose il De antiquissima Italorum sapientia ex latinae linguae originibus eruenda, che doveva constare di tre libri (uno sulla metafisica, con un'appendice sulla logica, uno sulla fisica e uno sull'etica) e di cui invece uscì soltanto il primo libro (1710) col sottotitolo di Liber metaphysicus. Col materiale preparato per il secondo libro, sulla fisica, V. compose nel 1713 un opuscolo (De aequilibrio corporis animantis), di cui sono andati perduti sia il manoscritto sia il testo a stampa, apparso postumo, pare, in una rivista napoletana alla fine del Settecento. Seguirono poi una Risposta (1711) e una Seconda risposta (1712) ad alcune censure sul De antiquissima che erano uscite anonime nel Giornale de' letterati d'Italia. Incaricato dal suo allievo il duca Adriano Carafa, di scrivere in latino la vita del maresciallo Antonio Carafa (De rebus gestis Antonii Caraphaei) fra il 1713 e il 1715, prese a studiare il De iure belli et pacis di U. Grozio, e tanto ne fu preso, che Grozio fu da allora da lui considerato come il quarto dei suoi "autori" dopo Platone, Tacito, Bacone. Frattanto condusse a termine i primi abbozzi della Scienza nuova: annotazioni all'opera di Grozio, una prolusione del 1719, una trattazione in tre libri, che sono andati quasi completamente perduti, mentre ci è pervenuto il Diritto universale, composto di una specie di manifesto stampato in foglio volante (Sinopsi del diritto universale, 1720), di due libri (De universi iuris uno principio et fine uno; De constantia iurisprudentis), e di una lunga serie di Notae (1722). Perduto il concorso a una cattedra di diritto romano con la cui retribuzione avrebbe potuto far fronte alle sue esigenze economiche, V. si diede alla ricomposizione dell'opera che è solitamente designata come la Scienza nuova in forma negativa, oggi completamente perduta, e che fu poi riscritta e condensata in un mese (agosto-settembre 1725) nei Principj di una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni, stampati a Napoli a sue spese nell'ottobre 1725 e da lui stesso chiamati poi col nome di Scienza nuova prima. Nello stesso anno, segnato da varie difficoltà e sciagure familiari, prese a scrivere l'Autobiografia, pubblicata a Venezia tra il 1728 e il 1729 a cui nel 1731 fece un'aggiunta, pubblicata postuma nel 1818. Dal 1725 al 1728 dava, in quattro lettere, notevoli saggi critici sull'indole della vera poesia, su Dante, sulla condizione degli studî in Europa, sul cartesianismo; le due sue migliori orazioni funebri, mentre s'intensificava la sua attività didattica, che aveva sempre più successo fra i giovani; un opuscolo (Vindiciae, 1729), contro un denigratore della Scienza nuova, andato disperso, e infine (dicembre 1729 - aprile 1730) la seconda Scienza nuova. Neppure questa volta l'opera ebbe successo; tuttavia la multiforme attività gli aveva ormai procurato larga fama, e così anche le sue difficoltà economiche, essendogli stato raddoppiato lo stipendio e assegnata la carica di storiografo regio (1735), furono superate. Durante gli ultimi anni non smise mai di aggiungere alla Scienza nuova commenti, note, correzioni, che, nuovamente rielaborati e fusi nel testo, costituirono la Scienza nuova terza, uscita postuma nel giugno 1744. ▭ V. è fortemente legato alla cultura umanistica (per la sua stessa preparazione retorico-letteraria) quale si era venuta arricchendo nell'ambiente napoletano della seconda metà del Seicento; qui avevano trovato diffusione le grandi opere degli autori che meglio rappresentavano la cultura europea del secolo: Bacone e Grozio, Descartes e Gassendi, Hobbes e poi ancora Spinoza e Bayle. Le idee e polemiche della sua epoca sono ben presenti negli scritti di V.: nelle sei orazioni inaugurali e soprattutto in quella De nostri temporis studiorum ratione, interviene nella polemica anticartesiana difendendo il valore dello studio delle lettere e della storia, delle discipline morali e civili e polemizzando contro il primato da Cartesio riconosciuto alle scienze matematiche e fisiche. Temi questi che vengono approfonditi nel De antiquissima Italorum sapientia: partendo da un'analisi di termini latini, V. vuole ritrovare in essi i principî dell'antica "sapienza italica", e anzitutto i fondamenti di una metafisica quale presupposto della fisica. Contro la riduzione cartesiana della materia a estensione, V. svolge la dottrina dei corpi come costituiti di punti metafisici indivisibili, centri di forza (conati). Nella stessa opera, V. rifiuta il cogito come fondamento di scienza, perché esso non esce dal piano della certezza soggettiva; criterio di verità e fondamento di una vera scienza è invece per V. la "conversione" del vero con il fatto (verum et factum reciprocantur seu convertuntur), nel senso che il principio e la regola di verità sta nel conoscere la genesi delle cose e quindi nella capacità di produrle. Ciò posto, Dio solo conosce le cose della natura perché ne è il creatore; l'uomo non può attingere siffatta conoscenza, ma semplicemente potrà conoscere gli aspetti esteriori delle cose, non la natura o causa che ne costituisce l'intima struttura; potrà invece pienamente conoscere le matematiche perché qui l'uomo è il creatore del "mondo di figure e numeri" di cui esse sono costituite. Le matematiche quindi, per il loro carattere convenzionale e arbitrario, sono perfettamente conosciute dall'uomo ma per sé stesse non possono ritenersi costitutive della realtà esterna. Il criterio della "conversione" del vero con il fatto, che affonda le sue radici nella cultura del Seicento europeo, avrà sviluppi assai più ampî nelle successive opere: accostatosi attraverso Grozio e la tradizione erudita antica e moderna ai problemi della storia, V. si avvia a costituire una nuova scienza, la scienza appunto dell'accadere storico. Questa è l'ispirazione centrale della Scienza nuova: una scienza della storia è possibile perché il mondo della storia è fatto dagli uomini, per cui se ne possono ritrovare i principî e le leggi "entro le modificazioni della nostra medesima mente umana". Il "mondo delle nazioni o sia il mondo civile" diviene così l'oggetto proprio della "scienza nuova" che unirà filologia e filosofia, cioè il "certo" offerto dall'erudizione storica con il "vero" della filosofia che indica le idee e leggi eterne che governano la storia. Compito della filosofia sarà dunque quello di contemplare "questo mondo delle nazioni nella sua idea eterna", in stretto rapporto con la verifica, che potremmo dire "sperimentale", data dalle ricerche della filologia. Così la "nuova scienza viene ad essere ad un fiato una storia delle idee, costumi e fatti del genere umano". La storia si svolge secondo V. scandita da una successione di momenti che riproducono le tappe dello sviluppo stesso dell'uomo: come in questo vediamo un succedersi di senso, fantasia e ragione, così nella storia si succedono l'età degli dèi, degli eroi e degli uomini. La prima è l'età in cui gli uomini erano come "bestioni" in una condizione di vita ferina, da cui, lentamente, sotto l'incombente e ostile realtà naturale, uscirono scoprendo la divinità, le leggi morali, e quindi istituendo i primi legami sociali. Inizia così il processo di incivilimento, fino all'età della dispiegata ragione, l'età degli uomini: processo che è guidato dalla provvidenza secondo disegni grandiosi che sovrastano i particolari fini perseguiti dagli uomini; da questo punto di vista la scienza nuova si vuole configurare come "teologia civile ragionata della provvidenza". Particolare importanza assume, nel quadro storico tracciato da V., lo studio delle prime fasi della vita degli uomini dalle quali resta escluso il popolo ebreo quale protagonista della storia sacra, guidato e aiutato da Dio: i primitivi "bestioni" che lentamente, attraverso istituzioni religiose e civili, raggiungono forme di vita sociale, prima di conquistare la ragione "dapprima sentono senza avvertire, poi avvertono con animo perturbato e commosso". V. dà valore e significato positivo a queste prime fasi della storia umana, momenti aurorali, primitivi, barbari, che ricordano la fanciullezza dell'uomo: furono i tempi della nascita del linguaggio, della piena espressione della "fantasia", della creazione dei grandi miti e della poesia. "I primi popoli furono poeti, i quali parlarono per caratteri poetici": il linguaggio, inteso come creazione ed espressione della fantasia (non dunque artificio), è essenzialmente poetico perché quegli antichi uomini si esprimevano con immagini e metafore; ogni espressione della loro vita è poetica, cioè poetica è la teologia, la fisica, la politica degli antichi "barbari", forme di "sapere" intessute di "universali fantastici" o "caratteri poetici" che sono alla base dei grandi miti dei popoli primitivi. L'età eroica, cui soprattutto si riferiscono le considerazioni di V. sulla fantasia, il linguaggio, la poesia, trovò la sua massima espressione in Omero: i poemi a lui attribuiti, soprattutto l'Iliade (che V. considera anteriore all'Odissea), sono l'espressione del popolo greco che narra la sua storia. All'età degli dèi e all'età degli eroi succede l'età degli uomini, "nella quale tutti si riconobbero essere uguali in natura umana" che si esprime nella "dispiegata ragione". Ma la storia umana non realizza un processo lineare: dalla "dispiegata ragione" gli uomini cadono nella "barbarie della riflessione" fino alla negazione di Dio: così gli uomini ritornano in una nuova barbarie da cui ricomincia un nuovo "corso" della storia. Esempio di questa caduta è il Medioevo, "nuova barbarie", con il suo lento riscoprire linguaggi, miti, organizzazioni civili: di quest'età è massima espressione Dante, il "toscano Omero", che la rispecchia nel suo poema. Si compie così in corsi e ricorsi, che non comportano ripetersi di accadimenti individuali ma ritorno di analoghe forme storiche, la storia delle nazioni in cui sempre "architetto" è la divina provvidenza.

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