Vico, Giambattista

Dizionario di filosofia (2009)

Vico, Giambattista


Filosofo (Napoli 1668 - ivi 1744).

La vita e le opere

Di famiglia assai umile e numerosa (il padre era libraio ed egli era il terz’ultimo di otto fratelli), e di temperamento ombroso e collerico, acuito da una costituzione gracile, trascorse i primi anni alternando la vita di scuola con periodi in cui si chiudeva in casa e da solo portava avanti i suoi studi. Mantenne tale abitudine anche durante gli anni di università a cui si iscrisse nel 1688 ma dove si recò una sola volta. Conseguì poi la laurea, forse a Salerno, tra il 1693 e il 1694. Costretto, per le modestissime condizioni finanziarie della sua famiglia, a cercare ben presto lavoro, dopo un tentativo di dedicarsi all’avvocatura, accettò il posto di precettore dei figli del marchese Domenico Rocca. I nove anni di tale incarico (1686-95), trascorsi in parte a Vatolla nel Cilento, dove la salute di V. rifiorì, furono un periodo di studio intenso e ordinato, durante il quale V. partecipò a quel largo movimento culturale che dal 1660 ca. si era andato sviluppando intorno a T. Cornelio, Di Capua, F. d’Andrea, promotori di un’assidua polemica contro la cultura scolastica e di forti aperture verso la nuova cultura europea cartesiana, gassendiana, storico-erudita (ne nacque anche un processo di ateismo intentato dal Sant’Uffizio contro parecchi sostenitori di tali nuove dottrine). In quegli anni V. abbandonò lo studio del greco per dedicarsi interamente a quello del latino; s’impossessò pienamente della filosofia cartesiana, contro la quale venne prendendo il suo atteggiamento polemico; continuò i suoi studi di diritto, iniziando la conoscenza dei grandi teorici e storici del diritto francesi e olandesi; educò il suo gusto letterario al neopetrarchismo e al trecentismo. Tornato a casa, dovette provvedere al mantenimento del padre e dei fratelli, quindi incominciò a dare lezioni di retorica e anche di grammatica elementare, ad accettare per commissione ogni sorta di lavoro (poesie, epigrafi, orazioni funebri, panegirici, ecc.): lavoro che non poté tralasciare quando (1699) fu nominato, per concorso, lettore di eloquenza all’università, poiché lo scarso compenso era del tutto insufficiente ai bisogni della famiglia (in quell’anno egli prese moglie, dalla quale ebbe poi otto figli). L’obbligo imposto agli insegnanti di eloquenza di pronunciare una solenne orazione all’apertura di ogni anno scolastico, gli diede modo di comporre sei prolusioni (1699-1706), che costituiscono i suoi primi scritti filosofici, e che, rielaborate negli anni successivi, furono pubblicate postume nel 1869. Una settima prolusione, pronunciata il 18 ott. 1708 e pubblicata l’anno seguente con il titolo De nostri temporis studiorum ratione, segna la prima affermazione originale del pensiero vichiano. Negli anni seguenti, accentuatasi la sua posizione polemica contro Cartesio, approfonditi i suoi studi platonici (lesse e rilesse il Cratilo platonico), V. compose il De antiquissima Italorum sapientia ex latinae linguae originibus eruenda, che doveva constare di tre libri (uno sulla metafisica, con un’appendice sulla logica, uno sulla fisica e uno sull’etica) e di cui invece uscì soltanto il primo libro (1710) con il sottotitolo di Liber metaphysicus. Con il materiale preparato per il secondo libro, sulla fisica, V. compose nel 1713 un opuscolo (De aequilibrio corporis animantis), di cui sono andati perduti sia il manoscritto sia il testo a stampa, apparso postumo, pare, in una rivista napoletana alla fine del Settecento. Seguirono poi una Risposta (1711) e una Seconda risposta (1712) ad alcune censure sul De antiquissima che erano uscite anonime nel Giornale de’ letterati d’Italia. Incaricato dal suo allievo, il duca Adriano Carafa, di scrivere in latino la vita del maresciallo Antonio Carafa (De rebus gestis Antonii Caraphaei), fra il 1713 e il 1715 si impegnò nello studio del De iure belli ac pacis di Grozio, e tanto ne fu preso, che Grozio fu da allora da lui considerato come il quarto dei suoi «autori» dopo Platone, Tacito e F. Bacone. In questo periodo egli elaborò e condusse a termine tutte quelle ricerche che poi costituiranno la Scienza nuova (➔): i primi abbozzi della quale (annotazioni all’opera di Grozio, una prolusione del 1719, una trattazione in tre libri) sono andati quasi completamente perduti, mentre ci è pervenuto il Diritto universale, composto di una specie di manifesto stampato in foglio volante (Sinopsi del diritto universale, 1720), di due libri (De universi iuris uno principio et fine uno; De constantia iurisprudentis), e di una lunga serie di Notae (1722). Nonostante il grave dolore causatogli dal non aver vinto il concorso a una cattedra di diritto romano (la cui retribuzione avrebbe sanato le finanze familiari), egli in questo tempo ricompose completamente l’opera in quella che si suole designare come la Scienza nuova in forma negativa, completamente perduta, e che fu poi riscritta e condensata in un mese (ag.-sett. 1725) nei Principj di una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni, stampati a Napoli a sue spese nell’ott. 1725 e da lui stesso chiamati poi con il nome di Scienza nuova prima. Nello stesso anno, nonostante la grave delusione sofferta per la freddezza con cui l’opera fu accolta e altre gravi preoccupazioni e sciagure familiari, scriveva l’Autobiografia, pubblicata a Venezia tra il 1728 e il 1729 e a cui nel 1731 faceva un’aggiunta, pubblicata postuma nel 1818. Dal 1725 al 1728 dava, in quattro lettere, notevoli saggi critici sull’indole della vera poesia, su Dante, sulla condizione degli studi in Europa, sul cartesianesimo; le due sue migliori orazioni funebri, mentre s’intensificava la sua attività didattica, che aveva sempre più successo fra i giovani; un opuscolo (Vindiciae, 1729) contro un denigratore della Scienza nuova, andato disperso, e finalmente (dic. 1729 - apr. 1730) la seconda Scienza nuova. Neppure questa volta l’opera ebbe successo; tuttavia ormai la multiforme attività di V. gli aveva procurato larga fama, e così anche le sue difficoltà economiche, essendogli stato raddoppiato lo stipendio e assegnata la carica di storiografo regio (1735), furono superate. Durante gli ultimi anni non cessò mai dall’aggiungere alla Scienza nuova commenti, note, correzioni, che, nuovamente rielaborate, e fuse nel testo, costituirono la Scienza nuova terza, uscita postuma nel giugno 1744.

La polemica anticartesiana: il vero e il fatto

V. è fortemente legato alla cultura umanistica (per la sua stessa preparazione retorico-letteraria) quale si era venuta arricchendo nell’ambiente napoletano della seconda metà del Seicento; qui avevano trovato diffusione le grandi opere che meglio rappresentavano la cultura europea del secolo: Bacone e Grozio, Descartes e Gassendi, Hobbes e poi ancora Spinoza e Bayle. Le idee e le polemiche della sua età sono ben presenti negli scritti di V.: nelle sei orazioni inaugurali e soprattutto in quella De nostri temporis studiorum ratione, interviene nella polemica anticartesiana difendendo il valore dello studio delle lettere e della storia, delle discipline morali e civili e polemizzando contro il primato cartesiano riconosciuto alle scienze matematiche e fisiche. Temi questi che vengono approfonditi nel De antiquissima Italorum sapientia: partendo da un’analisi di termini latini, V. vuole ritrovare in essi i principi dell’antica «sapienza italica», e anzitutto i fondamenti di una metafisica quale presupposto della fisica. Contro la riduzione cartesiana della materia a estensione, V. svolge la dottrina del punto metafisico e del conato: i corpi sono costituiti di punti metafisici, indivisibili, centri di forza (conati). Nella stessa opera, V. rifiuta il cogito come fondamento di scienza perché esso non esce dal piano della certezza soggettiva; criterio di verità e fondamento di una vera scienza è invece per V. la conversione del vero con il fatto (verum et factum reciprocantur seu convertuntur), nel senso che il principio e la regola di verità stanno nel conoscere la genesi delle cose e quindi nella capacità di produrle. Ciò posto, ne consegue che Dio solo conosce le cose della natura perché ne è il creatore; l’uomo invece non potrà attingere questo genere di conoscenza, ma semplicemente potrà conoscere gli aspetti esteriori delle cose, non la natura o causa che ne costituisce l’intima struttura; potrà tuttavia pienamente conoscere le matematiche perché qui l’uomo è il creatore del «mondo di figure e numeri» di cui esse sono costituite. Le matematiche quindi, per il loro carattere convenzionale e arbitrario, sono perfettamente conosciute dall’uomo anche se per sé stesse non possono ritenersi costitutive della realtà esterna.

La nuova scienza dell’accadere storico

Il criterio della conversione del vero con il fatto, che affonda le sue radici nella cultura del Seicento europeo, avrà sviluppi assai più ampi nelle successive opere: accostatosi attraverso Grozio e la tradizione erudita antica e moderna ai problemi della storia, V. si avvia a costituire una nuova scienza, la scienza appunto dell’accadere storico. Questa è l’ispirazione centrale della Scienza nuova: una scienza della storia è finalmente possibile perché il mondo della storia è fatto dagli uomini, per cui se ne possono ritrovare i principi e le leggi «entro le modificazioni della nostra medesima mente umana». Il «mondo delle nazioni o sia il mondo civile» diviene così l’oggetto proprio della «scienza nuova» che unirà filologia e filosofia, cioé il «certo» offerto dall’erudizione storica con il «vero» della filosofia che indica le idee e leggi eterne che governano la storia. Compito della filosofia sarà dunque quello di contemplare «questo mondo delle nazioni nella sua idea eterna» in stretto rapporto con la verifica, che potremmo dire ‘sperimentale’, data dalle ricerche della filologia. Così la «nuova scienza viene a essere a un fiato una storia delle idee, costumi e fatti del genere umano». La storia si svolge, secondo V., scandita da una successione di momenti che riprendono momenti dello sviluppo dell’uomo: come in questi vediamo un succedersi di senso, fantasia e ragione, così nella storia si succedono l’età degli dei, degli eroi e degli uomini. La prima è l’età in cui gli uomini erano come «bestioni» e in una condizione di vita ferma: di qui lentamente, sotto l’incombente e ostile realtà naturale, gli uomini uscirono scoprendo la divinità, le leggi morali, e quindi istituendo i primi legami sociali. Inizia così il processo di incivilimento, fino all’età della dispiegata ragione, l’età degli uomini: processo che è guidato dalla provvidenza secondo disegni grandiosi che sovrastano i particolari fini perseguiti dagli uomini; da questo punto di vista la scienza nuova si vuole configurare come «teologia civile ragionata della provvidenza». Un significato di particolare importanza assume, nel quadro storico tracciato da V., lo studio delle prime fasi della vita degli uomini (resta escluso il popolo ebreo quale protagonista della storia sacra, guidato e aiutato da Dio): i primitivi «bestioni» che lentamente, attraverso istituzioni religiose e civili, raggiungono forme di vita sociale, prima di conquistare la ragione passano attraverso l’età degli dei e l’età degli eroi; lo studio di queste prime fasi della storia umana, in cui gli uomini prima sentono senza avvertire, poi «avvertono con animo perturbato e commosso», costituisce un tratto caratterizzante tutta la prospettiva vichiana. V. dà valore e significato positivo a questi momenti aurorali, primitivi, barbari, che ricordano la fanciullezza dell’uomo: furono i tempi della nascita del linguaggio, della piena espressione della «fantasia», della creazione dei grandi miti e della poesia. «I primi popoli furono poeti, i quali parlarono per caratteri poetici»: il linguaggio, inteso come creazione ed espressione della fantasia (non dunque artificio), è essenzialmente poetico perché quegli antichi uomini si esprimevano con immagini e metafore; ogni espressione della loro vita è poetica, cioè poetiche sono la teologia, la fisica, la politica degli antichi «barbari», forme di «sapere» intessute di «universali fantastici» o «caratteri poetici» che sono alla base dei grandi miti dei popoli primitivi. L’età eroica, cui soprattutto si riferiscono le considerazioni di V. sulla fantasia, il linguaggio, la poesia, trovò la sua massima espressione in Omero: i poemi a lui attribuiti – soprattutto l’Iliade (che V. considera anteriore all’Odissea) – sono l’espressione del popolo greco che narra la sua storia. All’età degli dei e all’età degli eroi, succede l’età degli uomini «nella quale tutti si riconobbero essere uguali in natura umana» che si esprime nella «dispiegata ragione». Ma la storia umana non realizza un processo lineare: dalla «dispiegata ragione» gli uomini cadono nella «barbarie della riflessione» fino alla negazione di Dio; così gli uomini ritornano in una nuova barbarie da cui ricomincia un nuovo «corso» della storia. Esempio di questa caduta è il Medioevo, «nuova barbarie», con il suo lento riscoprire linguaggi, miti, organizzazioni civili: di questa età è massima espressione Dante, il «toscano Omero» il cui poema rispecchia, per V., l’età della «rinnovata barbarie». Si compie così in corsi e ricorsi – che non comportano ripetersi di accadimenti individuali ma ritorno di analoghe forme storiche – la storia delle nazioni in cui sempre «architetto» è la divina provvidenza.

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