GRADENIGO, Gian Paolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 58 (2002)

GRADENIGO, Gian Paolo

Giuseppe Gullino

Nacque a Venezia, nel sestiere di S. Marco, nel 1456, da Giusto del cavaliere Giovanni e da Lucchese Dandolo di Andrea. La famiglia era economicamente solida e bene inserita nel governo della Repubblica: un fratello del padre, Giovanni, avrebbe conseguito l'alto titolo di procuratore de supra. Il G. era primogenito di quattro fratelli maschi e aveva sposato, nel 1479, Maria Malipiero di Giacomo di Dario (che gli diede numerosi figli), imparentandosi così con il futuro doge Andrea Gritti (1523-38), suo cognato.

Il padre della moglie del G., infatti, era Giacomo Malipiero, che nel 1460 aveva sposato Vienna Zane di Paolo di Lorenzo, vedova di Francesco Gritti cui in precedenza aveva dato un figlio, Andrea, che perciò risultava fratellastro della moglie del Gradenigo.

Nonostante queste aderenze e le presumibili ricchezze che le accompagnavano, gli esordi politici del G. furono di bassa levatura. Aveva ventisette anni quando entrò podestà a Noale, il 22 giugno 1483; dopo sedici mesi fu sostituito da Bernardo Tagliapietra e, rimpatriato, il 14 giugno 1486 divenne giudice di petizion, magistratura cittadina competente soprattutto su questioni di eredità patrimoniale.

Dopo alcuni anni di silenzio, risulta provveditore a Lonato dal 23 giugno 1494 al 28 ott. 1495. Qui forse gli fu data occasione di fornire prova dell'autentica sua vocazione: l'attitudine al comando militare e la capacità di decisione. Coraggioso e sprezzante della fatica, il G. era superbo e attento verso la ricaduta economica degli eventi bellici. Il 30 genn. 1497 fu nominato comandante degli stradiotti (la cavalleria albanese al servizio della Serenissima) che operavano in Piemonte contro i Francesi, i quali avevano mantenuto numerose piazzeforti nella penisola anche dopo la sconfitta di Fornovo (6 luglio 1495). Nella Lega veneto-genovese-milanese la Repubblica cercava di escludere dall'Italia le sempre più pesanti ingerenze oltramontane, si trattasse dei Tedeschi di Massimiliano o degli Spagnoli di Ferdinando, ma il principale e immediato nemico era rappresentato dall'alleanza tra Firenze e Luigi XII.

Scrive il Sanuto - che per la biografia del G. rappresenta una fonte ricchissima - che l'elezione del G. "fo molto laudata" dalle truppe: trattandosi del suo primo incarico di natura militare, è probabile che a Lonato, in uno snodo viario prossimo agli eventi bellici, il G. avesse avuto modo di farsi conoscere dai reparti che là stazionavano o transitavano.

Nel febbraio 1497 il G. era dunque ad Alessandria al comando di 450 stradiotti; comandante in capo dell'esercito era il conte di Pitigliano, Nicolò Orsini, il provveditore in campo era Marco Zorzi. In marzo il G. fu raggiunto a Novi dal fratello Marco, non si sa con quale incarico: "homo di grandissimo cuor, et era sempre il primo con stratioti di andar a combater con inimici, unde si fece honor"; con quest'appoggio, superando le avversità di una regione impervia, il 20 marzo il G. conquistò la rocca di Spino, presso Sezze, tenuta dai Francesi, ma non poté resistere a un contrattacco dei Guasconi comandati da Gian Giacomo Trivulzio. Un mese dopo, una delle effimere tregue che segnarono la serpeggiante conflittualità del periodo consentì al G. di tornarsene a Venezia per qualche tempo, ma già l'8 ag. 1497 era eletto commissario pagatore presso le truppe che operavano in aiuto di Pisa, minacciata dai Fiorentini.

Lasciò Venezia a fine mese, recando con sé 3000 ducati destinati al provveditore in campo Giustiniano Morosini; giunto a Pisa il 9 settembre, trovò la popolazione colpita dalla carestia e dalla pestilenza, ma determinata a resistere: il 22 settembre il G. scriveva al Senato "che il voler di quelli citadini, done et tuti universalmente, era prima manzarsi l'un l'altro che ritornar sotto fiorentini". Di lì a poco, essendosi il Morosini ammalato sin quasi a rischiare la vita, il G. fu nominato suo collega (28 nov. 1497), con il compito di sovrintendere alla cavalleria, testé rinforzata da un centinaio di effettivi guidati da un altro suo fratello, Giovanni. Il G. trascorse l'inverno impegnandosi in prima persona in diversi scontri e scaramucce con il nemico, incrementando la propria fama di valoroso ("el qual non atendeva si non a farsi honor", Sanuto, 1° marzo 1498), ma scontrandosi anche duramente con il Morosini; in seguito, per certe paghe reclamate dal fratello Giovanni, il dissidio si aprì anche con il nuovo provveditore Tommaso Zen, sicché fu richiamato in patria, dove arrivò il 31 maggio. Una tempestiva lettera fatta recapitare dai Pisani al Consiglio dei dieci, in cui si lodava il comportamento del G., "il quale in questa sua stantia […] s'è portato […] con tanta humanità et diligentia in tute le ocorentie, che più non ne haveriamo requesto, né più ne farìa qual si voglia optimo nostro ciptadino", valse al G. l'assoluzione nel processo intentatogli a opera del supremo organo giudiziario veneziano nel luglio 1498; il 18 settembre il G. ricevette un nuovo incarico militare, quello di pagatore presso le truppe in Romagna.

Lasciò Venezia, tuttavia, solo il 17 ottobre, per recarsi anzitutto a Mantova, dove il provveditore in campo Nicolò Foscarini stava saggiando gli infidi umori del marchese Francesco II Gonzaga, nominato comandante dell'esercito veneto, ma già in procinto di passare al soldo del duca di Milano; quindi il G. giunse a Ravenna il 14 novembre portando con sé il denaro che avrebbe dovuto tacitare i soldati tedeschi, senza peraltro riuscirvi: spossata da anni di guerra, la Repubblica non era più in grado di far fronte alla voragine delle spese e a soddisfare gli impegni contratti con i mercenari, il soldo dei quali non veniva mai corrisposto nei tempi previsti. Il 7 dicembre il G. era al campo a Bibbiena, da dove passò a Sarzana; fallito un assalto a Pratovecchio, ne gettò la colpa sui capi delle milizie e sull'iniqua stagione, vessata da "pioza, tempesta e vento tanto grande che portava li mulli con li cariazi per tresso [traverso], per le alpe"; quanto a sé "si jactava assai, adeo el Collegio si la rise" (Sanuto, 18 dic. 1498). Non erano solo vanterie: di lì a poco il G. si ammalava, mentre suo fratello Giovanni moriva di febbri a Pisa; nonostante la febbre quartana il G. rientrò a Venezia il 5 febbr. 1499. Dopo una breve missione in Friuli al seguito delle truppe di Carlo Orsini (luglio-agosto), il 26 sett. 1499 il G. fu eletto provveditore a Cattaro, dove si recò nel seguente febbraio, non senza avere avuto la soddisfazione di vedere condannato l'ex collega Morosini, da lui trascinato in giudizio, a una pesante ammenda.

Per un veneziano era del tutto normale passare da incarichi nella Terraferma ad altri nei domini del Levante; per di più, a far da collante fra i compiti addossati al G. ci fu lo stato di guerra, senz'altro congeniale al suo temperamento. Venezia infatti era da poco coinvolta in un nuovo conflitto con i Turchi, che avevano conquistato la fortezza di Lepanto, e le operazioni interessavano proprio la zona compresa tra lo Ionio e il basso Adriatico. A Cattaro il G. si comportò come il suo solito, deprecando anzitutto la cattiva situazione trovata in materia di fortificazioni, vettovaglie, danari: così la "pocha custodia" di quei luoghi l'aveva indotto ad armare "dil suo" due caravelle "per dubito de' turchi" dal momento che, esaurite le risorse finanziarie, "la Camera è in gran inopia, non pol quasi pagar il castellano". Con tutto ciò il 20 ag. 1500 riuscì a scongiurare un attacco di oltre mille cavalieri ottomani, bloccandoli sulle montagne: "Unde lui con solicitudine provete a li passi, non con forze, per non haver ni soldati ni zente paesane, che […] sono homeni inobedienti e pezo cha capre"; ne derivò che "li nimici, vedendo non haver posuto prender el monte […], andono a la malhora, ruinati, affamati sì lhoro come li cavalli". Il Senato ormai conosceva l'uomo e sapeva come bisognasse far la tara alle straordinarie gesta ch'egli soleva ascrivere a suo merito: pure è indubbio che gli obiettivi di fondo il G. riusciva quasi sempre a conseguirli, anche se il successo gli faceva immaginare nuove e più ambiziose imprese: ecco allora come il 31 genn. 1501, quando ormai si approssimava la scadenza del mandato, egli suggerisse la conquista di Castelnuovo per riparare alla perdita di Modone; con 12 galere garantiva il buon esito dell'iniziativa, "e sarìa cossa", scriveva, "molto fructuosa a segurtà di tuto el colpho, et è grande territorio e sarìa uno stecho negli ochij a' Ragusei".

Due mesi dopo il G. era già a Venezia, ma l'8 giugno doveva accettare un'altra nomina, quella di provveditore in Friuli in funzione antiturca, a motivo dell'alleanza veneto-pontificio-ungherese, conclusa qualche giorno prima. Si trovava ancora fra i soldati sull'Isonzo quando, il 9 dicembre, gli giunse la notizia che era stato eletto provveditore a Corfù, ma stavolta rifiutò; era quindi certamente a Venezia il 2 giugno 1502, quando i Savi alle acque lo condannarono per avere illegalmente ampliato certe sue proprietà alla Giudecca mediante fanghi di riporto, bonificando qualche tratto di laguna. Per recuperare il prestigio compromesso dovette accettare di lì a poco (il 25 settembre) l'incarico di podestà e capitano di Rovigo.

L'autunno appena iniziato apportò disastri gravissimi al Polesine, poiché i fiumi ruppero gli argini; per tutto l'inverno e la primavera il G. fu impegnato a "serar le rote", a rinforzare le difese particolarmente compromesse tra Castelbaldo e Lusia, e la situazione si ripeté l'anno successivo, nell'ottobre 1503. L'8 novembre il G. poteva presentarsi in Collegio a riferire sul suo operato; giunse "con gran comitiva", annota Sanuto forse con una punta ironica, "et referì maxime di le rote che havia reparato: voleva esser longo, ma fu fato abreviar".

La politica correva, allora, a Venezia: lo stesso giorno il G. sfiorò l'elezione a provveditore in Romagna, ma prevalse per pochi voti Nicolò Foscarini; non doveva comunque fermarsi a lungo in patria, perché il 28 dicembre gli era affidata la podestaria di Crema, dove tuttavia non si recò prima del marzo 1504.

Il momento era delicato e la situazione stava evolvendo negativamente per la Serenissima: il papa, Giulio II, reclamava la restituzione delle città romagnole e Luigi XII non lasciava trapelare le sue intenzioni. Rivelando notevole intuizione politica, il G. confidava al Consiglio dei dieci fondate preoccupazioni in un dispaccio del 23 maggio 1504, nel quale veniva sostanzialmente prefigurato l'accordo di Blois del 22 settembre, così foriero di sventura per la Repubblica.

Il G. non rimase a lungo in Lombardia e a ottobre era di nuovo a Venezia; qui rapidamente si succedettero nuove nomine, talora per compiti di brevissima durata; furono incarichi molteplici, amministrativi e militari, con netta prevalenza dei secondi. Il 21 ag. 1506 era eletto provveditore in Friuli e partì due giorni dopo alla volta di Sacile, dove ispezionò le truppe di Bartolomeo d'Alviano; di qui si portò a Udine, mentre l'imperatore Massimiliano ordinava la concentrazione di reparti tedeschi a Gorizia. Ammalatosi alla fine di settembre, il 2 ottobre il Senato elesse in sua vece Giovanni Diedo, in considerazione dell'urgenza del momento.

Rimpatriato, il 21 febbr. 1507 era nuovamente inviato al di là del Mincio come podestà di Brescia.

Vi rimase per oltre un anno e mezzo, occupandosi quasi esclusivamente della guerra che era da tempo nell'aria e che divampò rapida nella primavera del 1508, allorquando le truppe venete, dapprima attaccate e sconfitte dai Tedeschi di Massimiliano, passarono ben presto alla controffensiva in Cadore e nell'Istria. Erano i prodromi del dramma che si sarebbe consumato un anno più tardi, ma per allora Venezia poteva assaporare l'ultimo inebriante successo, e il G. illudersi di avere fatto la sua parte anche in una zona solo marginalmente sfiorata dagli avvenimenti bellici, quale risultò essere la Lombardia.

Rientrò a Venezia nei primi giorni di dicembre del 1508, essendo stato eletto della zonta del Senato; ma proprio allora (10 dicembre) i principali Stati europei firmavano i protocolli segreti di Cambrai, che suggellavano la Lega antiveneziana. Il governo marciano si preparò allo scontro, mobilitando le truppe e attivando la macchina bellica. In tale contesto, il 4 febbr. 1509 il G. fu nominato luogotenente della Patria del Friuli: ai confini orientali si voleva un militare piuttosto che un amministratore, e il neoeletto lasciò subito Venezia. Il 7 marzo riferiva al Senato di avere già perlustrato "le strade verso terra todescha […]. Et di quelle parti" - così concludeva - "non è da dubitar".

In effetti gli Imperiali, dopo la recente sconfitta patita dall'Alviano, non osarono sfidare le munite difese veneziane attestate sulle fortezze di Gorizia e Gradisca, per cui solo dopo più di un mese dalla sconfitta di Agnadello, il 26 giugno, il G. riferiva di "certa incursion fata […] sul nostro" a opera del nemico. Dopo di che la situazione andò precipitando; appena due giorni più tardi il G. dovette emanare una "crida", tanto severa quanto rivelatrice dello scoramento che si era impadronito degli animi: "il primo parlasse di renderse al re di romani […] sia apichato". Tanta fermezza destò l'ammirazione del Sanuto ("quel locotenente si porta benissimo", 7 luglio 1509), sicché giusto quattro giorni dopo il Collegio gli ordinava di affidare Udine ad Antonio Giustinian, nominato suo vice, e di recarsi al campo presso le truppe. Assunto il titolo di provveditore, il G. respinse gli Imperiali comandati dal marchese di Brandeburgo, che si erano spinti sino a 2 miglia da Udine, e all'inizio di agosto tentò di spezzare l'assedio di Cividale, che ancora resisteva. Lo scontro avvenne il 2 agosto e il G. - "qual ha gran fama" - fu colpito, come riporta il Sanuto: "il proveditor combatè da hore 17 fino tardi, et fo ferito di una lanza in la gola et in la faza, et si convene redur, portato da li fanti, in un boscheto dove stete fino la note". La lesione non era grave, ma il G. dovette rientrare a Venezia, dove fu ricompensato con l'elezione a consigliere ducale per il sestiere di Dorsoduro.

La designazione non era legale poiché il G. risiedeva a S. Marco, ma si trattava di un semplice atto di riconoscimento, visto che pochi giorni dopo (30 ag. 1509) una nuova nomina a provveditore in campo lo riportava tra i soldati, stavolta a Padova, dove operavano il cognato Andrea Gritti e Cristoforo Moro.

La città era stata da qualche settimana riconquistata proprio dal Gritti, ma gli Imperiali la stringevano da ogni lato, sia dalla parte di Mira sia dalla parte di Vicenza. Per due mesi il G. badò a rafforzare le difese (gli era stato assegnato il settore di Santa Giustina), ma già il 12 novembre partecipava alla riconquista di Vicenza (dove entrò per primo) e poi di Lonigo. Qui si manifestarono le prime divergenze con il Gritti, che era provveditore generale e della cui autorità il G. fu sempre insofferente; il 21 novembre il G. propose ai colleghi di attaccare Verona, difesa dai Francesi, ma saggiamente il Gritti opinò diversamente per non sfidare i vincitori di Agnadello, rischiando una sconfitta che avrebbe compromesso la faticosa ripresa veneziana, e preferì volgersi a sud, contro gli Estensi e gli Spagnoli. Alla fine di novembre il G. era a Ficarolo, appoggiato sul Po dalle galere di Marcantonio Contarini; lo fronteggiava un esercito di 10-12.000 uomini, ma il G. si dimostrava disposto più all'azione che alla difesa e il 2 dicembre scriveva una lettera "molto colericha" alla Signoria, chiedendo rinforzi per attaccare Comacchio. A Venezia non si ignorava che dietro il dispiegato zelo del G. poteva celarsi il desiderio di "far butini" a beneficio proprio e dei suoi soldati, e gli fu ordinato di badare soltanto a "conservar" il Polesine (benché Sanuto chiosi che il G. "juditio meo, ha raxon").

In realtà la stagione era brutta e la situazione militare ancor peggiore: di lì a poco, infatti, la flotta veneziana sul fiume avrebbe subito una dura sconfitta a Polesella, che fu in parte imputata alla mancata collaborazione del Gradenigo. Questi passò l'inverno a Badia, sull'Adige; nella primavera del 1510 si verificò una massiccia offensiva del nemico, che intendeva reagire al riavvicinamento veneto-pontificio del 24 febbraio, sancito dalla revoca della scomunica. In breve tempo, tra maggio e giugno, Imperiali e Francesi ripresero quasi tutta la Terraferma, costringendo la Repubblica ad arretrare le linee difensive nell'arco Padova-Treviso-Friuli.

Il 2 maggio il Collegio scriveva al G. che "debi tajar e anegar il Polesene per segurtà dil stato nostro, non vardando a niuna cossa particular"; l'operazione fu eseguita a Trecenta quando però il fiume era povero d'acqua, sicché i Francesi di J. de Chabannes de La Palisse poterono impadronirsi di Rovigo, mentre il G. riparava a Vicenza. Accusato dal Gritti, fu convocato a Venezia; così, in data 27 maggio 1510, il Sanuto (che verso il G. non nascose mai simpatia) ne riporta la difesa sostenuta dinanzi al Collegio: il provveditore disse "che si duol di la imputation li vien fata contra raxon, et che lui non à colpa alcuna. E che l'andò a Padoa provedador, stè 17 zorni senza dormir ni spojarsi faticandosi assai et steva in li lochi più pericolosi; poi andò col campo a Vicenza: come si portò è noto a tutti, demum parse a la Signoria […] mandarlo sul Polesene dove è stato a custodia di quello con 60 homeni d'arme et 600 fanti, ni mai più ha auto altra zente".

Il G. fu assolto, ma per oltre un anno non ricevette alcun incarico; poi, nell'estate 1511, quando più forte si faceva sentire la minaccia franco-imperiale, ebbe la nomina di provveditore in campo a Treviso. Massimiliano era a Rovereto, Lonigo e Soave erano cadute, "tuti erano in fuga": il fronte era ormai sulla linea Padova-Treviso, a Padova stava il Gritti. Il 5 agosto fu, per il G., il giorno della rivincita; si recò in Collegio "et disse ch'el refudava, atento li torti li è stà fati […], et fu fato venir a caxa contra justitia, per causa di Andrea Griti so cugnado […], concludendo non voleva andar si non posto in quel grado chome l'era quando el fo fato venir a caxa, e più danari per le spexe, e titolo di zeneral".

Fu accontentato. Due giorni dopo scriveva da Treviso che "avanti smontasse da cavallo, andò atorno la terra con il podestà e capitano […]. Bisogna ruinar molte caxe et zà à principiato". Per far fronte a un attacco imminente e che si prevedeva risolutivo, il G. fece della città quel baluardo verso oriente che essa era stata sino alla conquista veneziana del Friuli, e quale sarebbe rimasta per tutto il XVI secolo, finché fu edificata Palmanova. Ne derivarono l'abbattimento di edifici a opera del G., l'escavo dei fossati perimetrali e lo spianamento di alberi per un quarto di miglio fuori della cinta muraria, rafforzata con la costruzione di bastioni.

I danni inferti dal G. al tessuto urbanistico della città probabilmente non li avrebbe provocati il più violento assalto nemico; tuttavia, facendo lavorare notte e giorno, grazie ai soccorsi di uomini e mezzi giunti da Venezia, e dispiegando inflessibile energia, fece di Treviso un baluardo in grado di difendersi efficacemente.

Il 30 agosto così si scriveva di lui in una lettera proveniente dalla Marca e riportata dal Sanuto: "[…] il provedador non mancha a far ogni provision. A' gran faticha: a una horra di note cena, e zenando mai riposa fino horre tre; scrive fino 4, riposa fino 6 over 7, poi monta a cavalo e sta sempre fino 15, poi vien a disnar e dà audientia, poi scrive e riposa un pezo, poi a cavalo solicitando la fortification, et si 'l fusse di anni 25 non potria durar". Del resto, Asolo era caduta e con i Tedeschi alle porte non si poteva far altrimenti; il 9 settembre arrivarono alcuni reparti francesi con l'artiglieria, ma non attaccarono a causa di divergenze con gli Imperiali, che volevano provvedersi di vettovaglie in Friuli, ormai nelle mani del duca di Brunswick. Il campo nemico, infatti, soffriva la fame e il G. non mancava di mandar fuori la cavalleria per intercettare quanti si fossero dati al saccheggio nelle campagne e nei villaggi. L'attacco finalmente ebbe luogo all'inizio di ottobre, quando ormai mancava poco al sopraggiungere della brutta stagione; il giorno 10 le artiglierie francesi cominciarono a tormentare le mura verso porta Santi Quaranta, ma i difensori risposero gagliardamente, per cui due giorni dopo il G. poteva scrivere al Senato che "li fu forzo retirarsi e andar a la malhora con le sue artelarie, et ne fonno morti molti"; inoltre aveva mandato gli stradiotti a inseguirli, "per veder di darli qualche speluzata".

La divulgazione dell'alleanza ispano-veneto-pontificia galvanizzò le truppe di S. Marco, e il G. ricevette l'ordine di passare alla controffensiva in Friuli: il 4 novembre era a Sacile, il 9 a Cordenons, dove ricevette "l'obedientia dil forzo di tutta la Patria". Sei giorni dopo era sull'Isonzo, donde - recuperata alla svelta tutta l'antica baldanza - informava il Senato dei suoi imminenti progetti: prendere Cormons, Gorizia e Gradisca. L'impresa si rivelò più ardua del previsto e Cormons cadde solo alla fine del mese, con le truppe venete provate e senza rifornimenti. Vedendo sfumata l'occasione (fu posto l'assedio a Gradisca, ma la cittadina si rivelò "fortissima"), secondo il suo costume il G. se la prese un po' con tutti, cominciando dai subalterni ("vede da quelli capi la Signoria esser assassinata, e atendeno a rapinar né di altro si curano"), per finire con lo stesso governo marciano che a suo dire gli lesinava uomini, viveri e danaro.

Qualche giorno dopo il Senato gli accordava il rimpatrio, in considerazione del logoramento dell'uomo e con l'onorevole pretesto che sin dal 9 nov. 1511 era stato eletto luogotenente a Cipro.

Il G. lasciò Venezia la notte del 21 ag. 1512 e rimase nell'isola tre anni a ritemprare il fisico, lo spirito e forse anche le finanze, dal momento che si trovava ad amministrare il più ricco dei possedimenti veneziani. Né questa è mera illazione: un'inchiesta promossa nell'aprile 1515 dai sindaci inquisitori Giovanni Natale Salamon e Marc'Antonio Calbo, che si trovavano a Cipro per ordine del Senato, rilevava "gran desordene" nella gestione di quella Camera fiscale e denunciava esplicitamente l'operato del luogotenente, il quale seppe parare abilmente il colpo inviando a Venezia ingenti quantitativi di derrate, preziose per sovvenire le truppe: nel giugno 1514, mentre spediva 100.000 moggia di frumento e orzo, sollecitava l'invio di altre navi assicurando che "tutte saranno carge" poiché aveva fatto intensificare le semine; il 16 marzo 1515 scriveva che si mandassero navi "a cargar, perché si averà assa' formenti et orzi in abondantia"; infine, nell'imminenza del rimpatrio, il 26 luglio inviava buona somma di danari, "siché da tutto il Pregadi fo laudato ditto locotenente assai, licet li synici non habbi fato bona relation di lui".

Con queste premesse, il ritorno del G. tra le lagune finì per somigliare a un mezzo trionfo, come dimostra il fatto che il 16 dic. 1515 non esitò ad attaccare i suoi accusatori e che lo stesso Sanuto afferma di aver voluto pubblicamente esprimersi "in suo favor, ex consientiae motu".

L'8 marzo 1516 "acetò alegramente" una nuova nomina a provveditore in campo. Stavolta si giocava la partita decisiva tra il fronte franco-veneto e gli Imperiali, che conservavano Brescia e Verona, vanificando in tal modo la ricomposizione dei domini della Serenissima. Il G. si fermò diverse settimane a Padova sinché, quando il 26 maggio Brescia fu conquistata, ebbe l'ordine di portarsi a Peschiera per unirsi coi suoi reparti alle truppe del Gritti e del visconte di Lautrec, Odet de Foix. Qui però si manifestò subito una disparità di opinioni tra i vincitori, poiché il Lautrec intendeva difendere la Lombardia da una possibile invasione degli Svizzeri, mentre i provveditori veneziani caldeggiavano l'impresa di Verona. Di fatto, i collegati agirono separatamente per qualche tempo. L'estate si preannunciava caldissima e gli Spagnoli e i Tedeschi, rinchiusi a Verona, mancavano di rifornimenti: la tattica - vincente - dei Veneziani fu di evitare un attacco frontale e di prendere la città per inedia. Il G. non aveva l'animo del temporeggiatore e più volte propose di risolvere la partita a modo suo, con un bell'attacco risolutivo; sicché ne nacquero screzi col Gritti e con il visconte di Lautrec, ricomparso sotto Verona in agosto.

L'assedio, con i veronesi ormai alla fame, andò per le lunghe tra mille difficoltà, poiché entrambi gli avversari erano esauriti e Venezia non riusciva più a pagare le truppe e a mantenerne la disciplina; così passarono l'autunno e l'inverno fra scaramucce, tentativi di sortita degli Imperiali e blocco dei rifornimenti da parte dei Veneziani. Con il nuovo anno la questione fu risolta con un espediente compromissorio messo in opera dal plenipotenziario imperiale, Bernardo Cles vescovo di Trento, e il 16 genn. 1517 il G. poteva entrare trionfalmente in città, insieme con il Gritti e il Lautrec.

I due cognati rimasero qualche settimana a Verona, per provvedere alle necessità più urgenti e porre in atto le prime e le più dure epurazioni, onde consolidare il dominio marciano su una popolazione rimasta per diversi anni sotto lo straniero. Su consiglio del Gritti che, tornato a Venezia il 16 marzo, lodò "sommamente" il G., quest'ultimo si fermò ancora a Verona con poteri straordinari, al fine di riattivare la macchina amministrativa e rafforzare le strutture militari. Verso la nobiltà locale, dichiaratamente filoimperiale, usò il pugno di ferro; quanto alle difese, memore dei trascorsi trevigiani, abbatté interi borghi fuori le mura per lo spazio di un miglio, onde prevenire eventuali aggressioni: su tale "guasto" (come si chiamava) si sarebbe più tardi innestata la possente cinta muraria di Michele Sanmicheli.

Solo dopo l'arrivo dei nuovi rettori, il podestà Alvise Contarini e il capitano Daniele Renier, il G. poté rientrare a Venezia, dove l'11 ag. 1517 lesse una lunga relazione su quanto da lui operato.

Ormai era però un uomo finito: dopo aver mancato l'elezione a savio del Consiglio e consigliere ducale tra l'ottobre e il dicembre, si ammalò senza più riprendersi. Morì a Venezia il 6 luglio 1518.

Dopo un lungo silenzio, Sanuto tornò a occuparsi di lui, in quella data, per l'ultima volta: "Morite questa sera a ore […] sier Zuan Paulo Gradenigo nominato assà in le scriture. Fo valente provedador di campo, qual e fuora e dentro à auto grandissime dignità".

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, p. 72; Avogaria di Comun, Balla d'oro, reg. 164, c. 176v; Segretario alle Voci, Misti, regg. 6, cc. 30r, 73r, 106v, 130r, 149v; 9, cc. 12r, 13v, 25v, 27r; Elezioni in Senato, reg. A, cc. 70v-71r, 72r, 75r; Capi del Consiglio dei dieci, Dispacci (lettere) dei rettori e pubblici rappresentanti, bb. 275, nn. 75-77 (Cattaro, 1500-01); 169, n. 14 (Udine, 1501); 121, nn. 8-9 (Rovigo, 1503); 66 (Crema, 1504), n. 13; 19, nn. 66-67 (Brescia, 1507); 134, nn. 114-115, 117 (Treviso, 1511); 288, nn. 86-91, 93-114, 117-119, 124-150 e alcune altre non numerate (Cipro, 1513-15); 192, n. 53 (Verona, 1517); Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 2329: V. Molin, Storia delle famiglie venete patrizie…, c. 37v; 3245/3: F. Cremense [da Crema], Oppugnatio Germanica civitatis Foroiulii anni MDIX, cc. n.n.; M. Sanuto, I diarii, I-XXV, XXIX, XXXIV, XXXIX, Venezia 1879-94, ad ind.; P. Bembo, Historiae Venetae, in Degl'istorici delle cose veneziane…, II, Venezia 1718, pp. 128 s., 136 s., 320 s., 327, 357 s., 423, 427, 442 s., 445, 447, 450; P. Paruta, Historia vinetiana, ibid., III, 1, ibid. 1718, pp. 245, 263; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, II, Venezia 1827, p. 298; III, ibid. 1830, p. 376; V, ibid. 1842, p. 365; A. Santalena, Veneti e imperiali. Treviso al tempo della Lega di Cambray, Venezia 1896, pp. 266 ss., 271 s., 274, 287, 293 s., 298, 302, 304 ss., 310 s., 314 s., 325 ss., 369; F. Seneca, Venezia e papa Giulio II, Padova 1962, p. 58; A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, pp. 210 s., 260; L. Vecchiato, La vita politica economica e amministrativa a Verona durante la dominazione veneziana (1405-1797), in Verona e il suo territorio, V, 1, Verona 1995, p. 30; E. Crouzet-Pavan, La maturazione dello spazio urbano, in Storia di Venezia, V, Il Rinascimento. Società ed economia, a cura di A. Tenenti - U. Tucci, Roma 1996, pp. 20 s.

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