CARACCIOLO, Gianni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 19 (1976)

CARACCIOLO, Gianni (Sergianni)

Franca Petrucci

Nacque a Napoli molto probabilmente nel 1372 da Francesco detto Poeta, cavaliere aurato e ciambellano di Ladislao d'Angiò-Durazzo, del ramo dei Caracciolo Pisquizi, e da Isabella Sardo, la cui famiglia era iscritta nel "sedile" di Capuana. Grazie alla posizione del padre e alla protezione dello zio Tirello Caracciolo, il quale divenne arcivescovo di Cosenza nel 1381, il C. crebbe alla corte di Ladislao, quasi suo coetaneo. Mentre taluni affermano che il C. compì studi giuridici, egli, dedito più alle armi che ai libri, non sembra dovesse il titolo di ser, derivante semplicemente da sere o messere, al fatto di aver conseguito la qualifica di notaio.

Nel settembre del 1390 il C. divenne ciambellano di Ladislao, che nello stesso giorno gli assegnò una pensione annua in cambio della restituzione da parte sua di alcune case, che, confiscate in un primo tempo a Caterina di San Raniero, dovevano ritornare per volontà dello stesso sovrano all'antica proprietaria. Nel dicembre dell'anno successivo fu nominato giustiziere per la Calabria.

Nella primavera del 1405 mentre Ladislao, che aveva organizzato una spedizione contro Raimondo del Balzo Orsini, era all'assedio di Taranto, fronteggiato dalla vedova del principe, morto improvvisamente nel febbraio, le virtù guerriere di ser Gianni ebbero occasione di risplendere, in una cornice per di più squisitamente cavalleresca. Un barone del campo nemico infatti, Lodovico Maramonte, signore di Campi, lanciò una sfida ai cavalieri dell'esercito regio. Ottenuto il permesso del re, il C. accolse l'invito alla singolar tenzone ed affrontato lo sfidante lo disarcionò e lo ridusse alla propria mercè, concedendogli infine la vita. Sei anni più tardi il C. si trovò a sostenere un ben altro tipo di combattimento. Il 19 maggio 1411, infatti, Ladislao subì a Roccasecca la netta sconfitta che parve aprire al pretendente angioino, Luigi II, le porte del Regno. Armato cavaliere, il C. durante la battaglia indossò abiti ed insegne simili a quelle del re, affinché i nemici che avessero voluto catturare il sovrano rimanessero ingannati. Secondo alcuni in quella occasione egli fu fatto prigioniero.

Si svolgeva intanto la vicenda storica di Ladislao, che si avviava precipitosamente ed inaspettatamente al termine. Nel 1414 il re, di nuovo in guerra contro Giovanni XXIII, che, costretto più che convinto dall'imperatore Sigismondo, aveva pochi mesi prima annunciato la convocazione del concilio a Costanza, avanzava, dopo aver occupato ancora una volta Roma, verso Bologna, dove si era rifugiato il papa, quando, a seguito delle sollecitazioni di Venezia e di Firenze, il 22 giugno nel territorio di Assisi firmava i capitoli di pace, con i quali si impegnava a non aggredire la città felsinea. Alla solenne stipulazione della tregua intervenne, fra gli altri numerosi gentiluomini, anche il Caracciolo. Immediatamente dopo egli fu impegnato contro il senese Bertoldo Orsini ed i figli, che si erano dimostrati ostili al re di Napoli. Questi, però, ammalatosi improvvisamente, riprese la via del ritorno, e, diretto a Napoli, dove sarebbe morto il 6 agosto, lasciò il C. a Todi come governatore regio.

Il C. tornò a Napoli nell'ottobre, mentre Giovanna II, successa al fratello, si accingeva, guidata dalle ragioni di Stato, a prendere per marito Giacomo de la Marche. Dopo il matrimonio la regina, nel settembre del 1415, si associò nel potere il dispotico marito; il C. si mantenne con molta prudenza estraneo ai partiti che si andavano formando pro e contro il Borbone e quando un anno circa dopo le nozze, Giovanna II, con l'aiuto di Annechino Mormile e di Ottino Caracciolo, si liberò della pesante tutela dello sposo, il C., nel clima di restaurazione degli antichi amici della sovrana e di indulgenza per coloro che si erano mostrati infidi, fu chiamato a corte dalla regina, che pare avesse già avuto "amorose prattiche" col nobile napoletano.

Prima cura del C. fu di liberare il campo dal rivale Urbano Origlia, adoprandosi con la regina, perché lo inviasse a Costanza, ove sedeva il concilio. Egli assunse così il ruolo, si direbbe, quasi ufficiale di favorito della sovrana, ottenendo l'effettivo potere di amministrare la cosa pubblica, di tiranneggiare il Consiglio regio, di favorire alcuni e di angariare altri, di servire da tramite fra la regina e i sudditi. Giovanna II del resto si mostrava soddisfatta della situazione e avallava con la sua legittima autorità tutto ciò che il C. intraprendeva.

Non altrettanto contenti erano i baroni napoletani, in specie quelli che sostenevano la candidatura di Luigi II d'Angiò quale erede della sovrana, i quali sapevano di non aver dalla loro parte il potente favorito. Essi si organizzarono in una vasta congiura, scoperta però e rapidamente soffocata nel corso del 1417. Fra la fine di quell'anno e l'inizio del successivo il C. ottenne il titolo di gran siniscalco del Regno, carica riesumata ad personam dalla sovrana. Sempre agli inizi del 1418 il C. ricevette dalla regina un altro importantissimo, anche se indiretto, beneficio. Il 19 gennaio infatti Giovanna II confermò la decisione di una commissione di giuristi, che proclamava legittima nella legge franca la successione nei diritti feudali della figlia del defunto, piuttosto che dei fratelli di esso. Questa legge favoriva la moglie del gran siniscalco in una questione testamentaria che si trascinava già da tempo.

Il C. aveva sposato Caterina Filangieri, figlia di Iacopo Nicola, conte di Avellino, alla quale, dopo le nozze, erano morti ben quattro fratelli. Ella, secondo il diritto longobardo, che negava il passaggio dell'eredità feudale alla linea femminile non sarebbe dovuta succedere al padre. La nuova prammatica, che si disse filingeria, privò il fratello di Iacopo Nicola della contea, di cui invece fu investito il Caracciolo. Di qui il fondatissimo sospetto che la nuova legge obbedisse a ben altre ragioni che a quelle giuridiche. Del consiglio dei dottori che avevano approvato la sopraddetta prammatica aveva fatto parte il gran cancelliere del Regno, Marino Boffa, il quale o perché in questa occasione era stato contrario a scegliere la soluzione favorevole al C. o perché era un consigliere autorevole della regina, che il favorito voleva invece docile soltanto ai suoi consigli, non godeva del favore del gran siniscalco, che in breve gli fece perdere la carica e lo allontanò da Napoli.

Uno solo degli antichi consiglieri era rimasto nella preminente posizione che la caduta di Giacomo de la Marche gli aveva restituito, il condottiero Muzio Attendolo Sforza, gran connestabile del Regno, il quale, prudentemente allontanato dal C. in un primo tempo e inviato in aiuto del pontefice contro Braccio da Montone, era nel novembre del 1417 tornato a Napoli. Inevitabilmente la lotta per il primato mise il C. contro di lui. Il contrasto, tuttavia, non arrivò dapprima allo scontro aperto e sembrò anzi superato quando nel 1418 si concluse il matrimonio fra Marino, fratello del gran siniscalco, e Chiara, sorella di Foschino Attendolo. Subito dopo il C. provvide a che lo Sforza partisse con le sue truppe da Napoli, inviandolo a comporre con le armi una controversia sorta fra Leonetto e Tommaso Sanseverino per il possesso di Caiazzo (Caserta) e a soffocare una rivolta contadina serpeggiante in Basilicata. Durante l'assenza del rivale dalla capitale il C. cercò di rafforzare la sua posizione. A questo scopo fece liberare dalla prigionia Iacopo Caldora e Perdicasso Barrile. Inoltre strinse con gli Orsini accordi e parentadi, promettendo la sorella Isabella, con una cospicua dote, in moglie a Raimondo Orsini, conte di Nola (26 sett. 1418), e adoperandosi perché il prefetto di Roma, Francesco Orsini, assumesse il comando militare di Napoli.

Dall'altra parte lo Sforza, composta in breve e senza dover ricorrere alle armi la questione fra i due Sanseverino e stretta un'alleanza politica con Francesco Mormile, si diresse verso Napoli con intenzioni ostili, ormai deciso a ribellarsi anche all'autorità regia, poiché questa si identificava con il prepotere del Caracciolo. Si era quindi giunti allo scontro diretto fra i due rivali. Nel settembre del 1418 il condottiero subiva a Napoli la rotta detta della Correie, ma, riparava al rovescio militare stringendosi con gli Origlia e i Filangieri, strenui nemici del gran siniscalco; tornava così quasi immediatamente in una minacciosa posizione di forza. Furono allora i cittadini napoletani che si fecero promotori di pace, alla quale si giunse il 20 ottobre, quando ad Acerra, in nome della regina, si firmarono i capitoli della tregua. Con essa lo Sforza otteneva il risarcimento dei danni, i Napoletani di essere ammessi a far parte del Consiglio regio, il de la Marche di riacquistare la libertà.

Il vero sconfitto era ser Gianni. Egli infatti doveva essere allontanato da Castelnuovo, anche se, persino durante le trattative di accordo, aveva continuato a procacciare benefici a sé e ai suoi fautori, assegnando cariche, allacciando parentadi, consenziente la regina, che gli concesse, inoltre, nell'ottobre Torre del Greco in pegno di un prestito di 2.000 ducati, dopo aver acquistato per lui, nel marzo, Cerignola e Orta (Foggia). Costretto, secondo gli accordi di Acerra, a sgomberare il campo, il C. poté ottemperare a questa decisione senza che la sua partenza apparisse come un forzato allontanamento. Il 13 nov. 1418 egli salpò da Procida, dove si era ritirato, su due galee con un largo seguito di gentiluomini e di famigli per andare a consegnare Ostia, Civitavecchia e Castel S. Angelo all'autorità ecclesiastica, secondo l'accordo precedentemente intervenuto fra la regina e Ottone Colonna, salito al soglio pontificio nel novembre dell'anno precedente col nome di Martino V, il quale, in cambio della concessione dell'investitura del Regno, aveva ottenuto da Giovanna II la restituzione dei suddetti castelli e la promessa dell'invio di Muzio Attendolo Sforza in suo aiuto, perché egli potesse rientrare a Roma. Il C., assolto al suo compito e licenziato con benevolenza dal papa, che andò ad ossequiare a Mantova, si diresse a Gaeta ed ivi giunto rimase ad aspettare il momento a lui favorevole per il ritorno a Napoli.

Fuggito da questa città, nel maggio del 1419, Giacomo di Borbone, che aveva goduto per pochi mesi di una libertà troppo infida e oppressiva, e partito poco dopo con l'esercito lo Sforza, dopo aver ricevuto in ostaggio due figli del C, per affrontare secondo i desideri del papa Braccio da Montone, il gran siniscalco, contrariamente a quanto stabilito nei patti di Acerra, rientrò a Napoli, riprendendo il suo antico posto accanto alla regina. Questa, che aveva ottenuto dal papa l'investitura nel novembre precedente, il 28 ott. 1419 fu solennemente incoronata alla presenza di un gran numero di baroni, fra i quali il C. e lo Sforza, il quale vedeva allora annullati i suoi sforzi volti a scalzare il rivale dalla sua posizione di potere.

L'incoronazione non costituì, come sarebbe stato logico supporre, un rafforzamento del potere regio, perché la politica di Giovanna, affiancata dal C., riuscì, anche per il mancato pagamento del censo, a inimicarsi Martino V, che il 4 dic. 1419 investì Luigi III d'Angiò della successione del Regno; a perdere la collaborazione dello Sforza, che nel gennaio del 1420 fu assoldato dal papa; a provocare una pericolosa coalizione degli oppositori del C., che si schierarono in favore dell'Angiò. Questi, appoggiato validamente dall'interno e sostenuto dal papa, si accingeva a compiere una spedizione per conquistare il Regno. Fu allora che Giovanna II ed il C. aderirono all'idea di Malizia Carafa di opporre all'Angiò ed ai suoi partigiani Alfonso d'Aragona. Quando, dopo l'accettazione di questo, il 7 sett. 1420, la regina stipulò l'atto di adozione, oltre agli ambasciatori aragonesi, fra molti baroni era naturalmente presente il C., che il 25 aprile aveva ottenuto Ischia in pegno di 3.000 ducati. Mentre nel Regno divampava la guerra e Braccio da Montone, assoldato dall'Aragonese, si opponeva allo Sforza, capitano dell'Angiò, nel giugno del 1421, giunse finalmente ad Ischia Alfonso d'Aragona ed il C. fu inviato dalla sovrana a rendergli omaggio.

L'8 luglio il re entrò solennemente a Napoli, e, testimone fra gli altri il gran siniscalco, confermò insieme con la regina i patti dell'adozione. Quando, addivenute le parti contendenti alla fine del 1421 rapidamente e quasi inaspettatamente ad un accordo, soprattutto grazie all'intervento degli oratori fiorentini, Michele Castellani e Rinaldo degli Albizzi, e partito Luigi III per Roma, Alfonso cominciò ad esercitare pienamente quel potere che il C. gli aveva fatto offrire solo per continuare ad esercitare il suo, il gran siniscalco venne perdendo la sua influenza, non tanto sulla regina a sua volta esautorata, quanto in tutti i centri decisionali ed esecutivi. Prese così inevitabilmente forma il contrasto fra la regina, sempre affiancata dal C., ed il figlio adottivo. Contrasto che covò sordamente fino alla primavera del 1421 quando la sovrana, in opposizione ai suoi sentimenti e alla situazione che la vedeva persino non alloggiare, insieme col C., sotto lo stesso tetto di Alfonso, e il C. recarsi dal re munito di salvacondotto, conferì ancora maggiore autorità all'Aragonese con un diploma, di cui il gran siniscalco fu uno dei testimoni.

Nell'ultima decade di maggio il re credette di potersi liberare dell'invadente gran siniscalco e, recatosi questo in Castelnuovo per abboccarsi con lui, lo fece imprigionare, tentando subito dopo di impadronirsi di Castelcapuano, dove alloggiava la regina. Questa, sventata la minaccia e chiesto e ottenuto l'aiuto dello Sforza, che a Napoli, in località Casanova, batté le truppe di Alfonso, si rifugiò in Aversa, dopo che l'esercito aragonese, ricevuti rinforzi dal mare, aveva nel giugno messo a sacco Napoli. Da Aversa ella condusse le pratiche per il riscatto del C. e ottenne la sua liberazione, scambiandolo con dodici baroni aragonesi fatti prigionieri dagli Sforzeschi nella battaglia di Casanova, dei quali ella pagò il riscatto.

Il tentativo di Alfonso di privare il C. della libertà e del potere lo aveva portato alla rottura anche formale della concordia con la regina, la quale revocò la sua adozione il 1º luglio 1423, adottando in sua vece il 14 sett. dello stesso anno Luigi III d'Angiò, tutti i partigiani del quale, considerati fino ad allora ribelli, furono perdonati e reintegrati. Il C., d'altra parte, assisteva sì alla sconfitta dell'Aragonese, che lasciò Napoli a metà ottobre, ma doveva subire il ritorno in auge di quei personaggi che, in nome dell'Angiò, si erano schierati contro di lui e in opposizione ai quali la regina, dietro sua istigazione e col suo consenso, aveva provocato le pretese sul Regno di un altro principe straniero. Tuttavia il C. rimase ascoltato consigliere accanto alla sovrana e nel luglio del 1424 si distinse nella difesa di Napoli contro le truppe sbarcate dalle galere catalane, che, venute per soccorrere don Pedro, che ancora teneva i castelli di Napoli, furono costrette a riprendere il mare, conducendo con loro lo stesso infante. Il 12 marzo 1425 ad Aversa la regina creò il C. duca di Venosa. Il 5 aprile egli fu fra i testimoni dell'atto di stipulazione della lega di mutua assistenza che Giovanna II concluse con Filippo Maria Visconti. Il 2 luglio ottenne in pegno la città di Capua. Il 22 ottobre gli fu conferito il titolo di gran connestabile, con una pensione annua di 500 ducati.

Il C. era ormai padrone assoluto del Regno, favorito in ciò dalla morte dello Sforza, avvenuta nel gennaio del 1424, e dalla mitezza di Luigi III, che quasi relegato viveva ad Aversa insieme con la regina. Né egli usava il suo potere con discrezione, né con avvedimento, circondandosi di armati pagati dall'erario, inimicandosi una parte sempre maggiore della nobiltà napoletana, conducendo, rispetto al papa e agli altri Stati, una politica neghittosa, che precipitava il Regno sempre più nell'anarchia, nel pericolo, nell'indigenza, non occupandosi, con estrema miopia, che del suo immediato vantaggio personale. Diffusasi la voce dell'intenzione del papa di concedere il trono di Napoli ad Antonio Colonna, la regina tornò nella capitale nell'ottobre del 1427, seguita da Luigi III. Il C., che alla fine del 1426 aveva acquistato la contea di Sant'Angelo dei Lombardi (Avellino), immediatamente fece sì che il principe si allontanasse da Napoli e lo indusse a partire nello stesso mese per la Calabria.

Mentre il C. si era ormai trasformato per la regina da amante beneficato indespota inflessibile, due uomini venivano assumendo sempre maggior importanza nel Regno: Iacopo Caldora, che dopo la poco bellicosa guerra di Bologna (1429), era stato creato duca di Bari, e Giovanni Antonio del Balzo Orsini, principe di Taranto, il più potente signore dello Stato. Secondo il suo metodo, non potendo né allontanarli. né sopraffarli, il C. cercò di attirarli nella cerchia dei suoi amici, imparentandosi con loro. Dette allora in isposa la figlia Isabella al figlio del Caldora, Antonio, nel 1428, e uno o due anni più tardi, l'altra figlia, Giovannella, a Gabriele Orsini, fratello del principe.

Nel 1430 il gran siniscalco intraprese segreti passi diplomatici con Alfonso di Aragona per indurlo a ritornare a Napoli e a impadronirsi del Regno. Che cosa si ripromettesse il C. dal ritorno del re di Aragona, con il quale aveva avuto rapporti tanto burrascosi, non si sa; ma forse si sentiva ormai, ad onta delle 500 lance e del 300 fanti che aveva alle sue dipendenze, materialmente circondato di nemici. Egli promise al re di mettergli a disposizione tremila cavalli e altrettanti fanti se avesse tentato l'impresa e Alfonso, sollecitato anche dal principe di Taranto, gli aveva inviato, il suo segretario Pino Gassino e aveva cominciato a preparare l'armata, quando il 19 febbr. 1431 sopravvenne la morte di Martino V, che, provocando l'invio degli aiuti napoletani al nuovo papa, Eugenio IV, e la ribellione dei Colonna, che si appellarono ad Alfonso, bloccò le trattative. Il C. pensò comunque di trarre vantaggio dalla situazione e cercò di ottenere per il figlio il principato di Salerno, che, detenuto fino ad allora da Antonio Colonna, era stato restituito al demanio regio. Ma questa volta la sovrana non acconsentì, ed è fama che l'ira del C. al diniego lo portò a colpire la regina. Vero o no questo episodio, è certo che i rapporti tra Giovanna II e il suo favorito erano ormai caratterizzati dalla diffidenza reciproca. Per tenerla lontana da Napoli, dove egli faceva e disfaceva, il gran siniscalco la condusse così ad Aversa, ove la tenne dal giugno del 1431 al gennaio dell'anno successivo, quando la portò per un mese a Pozzuoli.

Ma le angherie cui sottoponeva la sovrana facevano sì che egli non avesse più alcuno schermo all'invidia, all'odio, al risentimento dei suoi avversari. E mentre niente si era potuto contro il C. protetto dalla regina, fu facile invece perderlo quando Covella Ruffo, duchessa di Sessa, Marino Boffa, Ottino Caracciolo e altri ottennero il consenso di Giovanna II per catturarlo. Erano state celebrate, il 17 ag. 1432, secondo la politica del C., le nozze fra il figlio di questo, Troiano, creato poco prima duca di Melfi, e Maria, figlia di Iacopo Caldora. Due giorni dopo, mentre ancora si protraevano i festeggiamenti, tre congiurati, Francesco Cimino, Pietro Palagano e Leonardo Bruni, detto Squatra - rimasti Marino Boffa ed Ottino Caracciolo nel cortile - bussarono agli appartamenti del C. in Castelcapuano e ottennero che fosse loro aperto, sostenendo che la regina era stata colta da malore. Raggiunto rapidamente il gran siniscalco, che aveva appena cominciato a calzarsi, lo uccisero, prevenendo così un possibile ripensamento della regina. Furono quindi indotti con lo stesso stratagemma gli amici e i parenti del C. ad andare al castello, dove furono a mano a mano disarmati e imprigionati. Solo la sera del 20 i frati di S. Giovanni a Carbonara ottennero di poter prelevare il cadavere del gran siniscalco e di seppellirlo senza cerimonie nel loro monastero, nella cappella che egli aveva fondato nel 1427, dove il figlio Troiano, non prima del 1441, dopo aver riottenuto la contea di Avellino e il ducato di Melfi, gli eresse quel monumento che ancora oggi si può ammirare.

La regina non si pentì del gesto compiuto, anzi giustificò se stessa e i congiurati, che ottennero ricompense e favori, condannando con un diploma dello stesso agosto e con una lettera del dicembre la memoria di ser Gianni.

Oltre ai già nominati Troiano, Isabella e Giovannella, il C. ebbe un altro figlio, morto in tenera età, e altre tre figlie, Margherita, che sposò Bernardo Zurlo, conte di Nocera e di Montoro, Antonietta, moglie di Baldassarrc Caetani, e Giulia.

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