Giappone

Dizionario di Storia (2010)

Giappone


Stato asiatico dell’Estremo Oriente.

Le origini

Le prime notizie storiche sul G. si trovano in resoconti cinesi. All’arcipelago accenna l’opera storiografica Han shu nel 1° sec. d.C., mentre la prima descrizione approfondita, sempre di fonte cinese, si trova nella cronaca Wei zhi del 3° sec. d.C. I più antichi testi giapponesi pervenutici sono di molto posteriori: le Memorie degli antichi eventi fu redatta nel 712 e gli Annali del Giappone nel 720. Alla diffusione di una cultura Jomon fece seguito, a partire dal 3° sec. a.C., una popolazione di origine mongolica nota come yayoi, dal nome della ceramica al tornio da essa introdotta nell’arcipelago. In possesso di un’avanzata tecnica di coltivazione irrigua del riso, la popolazione yayoi abitava villaggi formati da case di legno e paglia e utilizzava attrezzi agricoli in pietra o legno con rinforzi di ferro. Verso la metà del 4° sec. d.C. comparvero nella pianura dell’attuale Kinai monumenti funebri consistenti in grandiosi tumuli (kofun) «a buco di serratura». In essi gli archeologi hanno trovato preziose testimonianze della società Kofun. Divisa in tre gruppi, al vertice della società erano gli uji, cioè i grandi gruppi di famiglie con vincoli di sangue, al cui interno emergeva la figura del patriarca che aveva la funzione di capo (uji no kami) e di sommo sacerdote. Questi era il discendente diretto dell’ujigami, antenato e divinità del clan. La classe dominante degli uji si avvaleva dell’operato dei be, lavoratori manuali dediti all’agricoltura, alla produzione artigianale e artistica, e parzialmente liberi. L’ultimo strato della società era formato da un limitato numero di yatsuko, ovvero di schiavi. La fondazione dello Stato Yamato, intorno al 3° sec., avvenne attraverso un processo di assorbimento degli uji più deboli da parte di quelli più potenti, a seguito di scontri armati o di accordi matrimoniali. Venne così lentamente a rafforzarsi l’egemonia del clan Yamato, stirpe regnante sino ai nostri giorni, che riconosceva come propria antenata la dea del Sole, Amaterasu Omikami. Venne organizzata un’assemblea dei capi degli uji, presieduta da un sovrano, e il Paese fu suddiviso in province (kuni). Nel corso del 6° sec. si verificarono importanti mutamenti, determinati dai contatti con il continente. La tradizione fissa nel 552 l’introduzione nell’arcipelago del buddhismo, a opera di bonzi cinesi e coreani. La nuova religione si dimostrò efficace canale di trasmissione della più evoluta cultura cinese: vennero infatti introdotte la scrittura e tecniche agricole e di irrigazione più avanzate. Sul piano religioso sorse, all’interno della classe dominante, un conflitto tra i difensori delle credenze tradizionali dello shinto e i sostenitori del buddhismo. Ebbe così inizio una fase nella quale parte della classe dominante giapponese si adoperò per riforme ispirate alle concezioni etiche e politiche cinesi. Ispiratore del cambiamento fu Shotoku Taishi che tentò, con relativo successo, di affermare l’autorità del clan Yamato sui capi degli uji. Nei suoi disegni, e in quelli dei suoi successori, al discendente della dea Amaterasu si sarebbe dovuta riconoscere la dignità di imperatore e di «figlio del cielo». Il mutamento fu graduale e si compì tra l’inizio del 7° sec. e il 702, anno in cui fu promulgato il Codice Taiho. Le nuove norme stabilivano il principio che le risorse dello Stato, e in particolare le risaie, erano di proprietà dell’imperatore, il quale provvedeva a dividerle equamente fra i suoi sudditi dediti ai lavori manuali secondo un complesso sistema fondato sui catasti e sui censimenti della popolazione. Al di sopra dei contadini vi era la classe aristocratica costituita dalla famiglia imperiale e dai funzionari del nuovo Stato, la cui origine è riconducibile alle stirpi dei capi uji. Gli aristocratici-funzionari erano suddivisi in dodici ranghi che conferivano loro il diritto, ben presto divenuto ereditario, di ricoprire le cariche pubbliche degli otto ministeri. In basso, infine, vi erano i sudditi non liberi.

Figura

La società aristocratica

La necessità di governare il Paese, di provvedere alle periodiche ridistribuzioni della terra, di imporre corvées e di organizzare il flusso della tassazione in natura verso la località di residenza della nuova aristocrazia favorì la formazione di una struttura amministrativa relativamente complessa e contribuì a porre fine all’uso giapponese di abbandonare la capitale dopo la morte del sovrano. Nel 710 capitale dell’impero divenne Nara, quindi (784-794) Nagaoka e, dal 794, Heian (l’attuale Kyoto). Questi spostamenti furono dettati anche dalla necessità di sottrarre gli affari di Stato alla tutela del clero buddhista che, nella seconda metà dell’8° sec., aveva acquisito, oltre a un notevole potere economico, una crescente influenza politica a corte. L’insediamento a Heian e l’istituzione di nuovi organismi amministrativi rafforzarono l’autorità dell’imperatore. Tuttavia, verso la fine del 9° sec., all’interno della corte la famiglia Fujiwara estese il proprio potere a detrimento dell’ascendente politico di altre famiglie aristocratiche e della stirpe imperiale. L’influenza dei Fujiwara fu conseguenza della loro politica matrimoniale e del rafforzamento della loro base economica: spesso diedero in spose al sovrano fanciulle della loro famiglia; poiché il nonno materno era, secondo le consuetudini, il tutore del nipote, esponenti eminenti dei Fujiwara acquisirono così un notevole ascendente sui futuri imperatori. Il passo successivo fu compiuto da Fujiwara Yoshifusa (804-872), che nell’858 impose sul trono il nipote Seiwa, di soli otto anni di età, divenendone il reggente (sessho). L’ulteriore rafforzamento del potere dei Fujiwara presso la corte di Heian è dovuto a Mototsune (836-891), che nell’884 assunse il titolo di kanpaku, cioè di reggente di imperatore adulto. Per circa un secolo l’egemonia dei Fujiwara a corte fu indiscussa. La solidità di tale egemonia si fondava su collaudati organi di gestione dei beni di famiglia: l’ufficio amministrativo (mandokoro), quello degli affari militari (samuraidokoro) e una sorta di corte di giustizia (monchujo). I Fujiwara mantennero il loro potere esercitando l’influenza sull’imperatore e il controllo sulle istituzioni amministrative e di governo. La base economica dei Fujiwara, così come di altre influenti famiglie aristocratiche, era costituita dagli shoen, una forma di proprietà privata sorta all’interno del sistema sancito dal Codice Taiho. Già nel 743 la concezione del patrimonio imperiale costituito da tutte le aree coltivabili venne infranta con la concessione che le terre bonificate non entrassero nel sistema di ridistribuzione, ma rimanessero di proprietà dei contadini. I passi successivi consistettero dapprima nella concessione di esenzioni fiscali a monasteri buddhisti, a santuari shintoisti e a famiglie aristocratiche, e successivamente nel divieto ai funzionari imperiali di esercitare ogni intervento amministrativo e giudiziario negli shoen. In questo modo gli shoen divennero delle enclave al cui interno i compiti di governo erano esercitati dai proprietari in vece dell’amministrazione imperiale. L’uso invalso di inviare i figli cadetti dell’aristocrazia negli shoen in qualità di amministratori, la loro progressiva acquisizione di margini di autonomia gestionale e la perdita di potere da parte delle istituzioni imperiali favorirono la formazione di una classe di guerrieri (bushi) che verso la fine del 12° sec. affermò la propria egemonia. L’ascesa dell’aristocrazia militare si verificò con gradualità. L’atto finale del passaggio da una società aristocratica a un sistema di tipo feudale è costituito dal Genpei senso (1180-85), cioè dalla guerra fra i Minamoto e i Taira, due famiglie di antico lignaggio, che fu l’epilogo di uno scontro di interessi inconciliabili fra l’aristocrazia civile (Kuge) di Heian e l’aristocrazia guerriera che nelle province aveva consolidato la propria base economica. La vittoria della coalizione capeggiata da Minamoto no Yoritomo diede a quest’ultimo la possibilità di instaurare la prima egemonia militare a carattere nazionale, lontano da Heian. Egli consolidò i suoi domini a Kamakura rafforzando la struttura amministrativa della famiglia, modellata sui tre uffici ispirati all’archetipo introdotto secoli prima dai Fujiwara. Inoltre, distribuì ai suoi alleati parte delle proprietà confiscate ai Taira. Infine nel 1192 fu nominato dall’imperatore shogun, venendo così legittimato a dirigere gli affari politici e militari del Paese. I vincoli che Yoritomo istituì con i suoi «uomini della casa» (gokenin) furono a un tempo personali e politici. I gokenin ricevettero proprietà terriere, furono nominati intendenti fiscali o governatori militari da Yoritomo e in cambio gli assicurarono fedeltà e appoggio militare.

La prima età feudale

L’istituzione del bakufu (governo dello shogun) di Kamakura fu il risultato di un lento processo di infeudamento che si era sviluppato all’interno del sistema degli shoen, formatisi nelle pieghe normative del Codice Taiho. La storiografia suddivide l’età feudale del G. in tre fasi. Nella prima, che si protrae fino al 1333 (periodo di Kamakura), si individua un sostanziale equilibrio fra la corte di Kyoto (come ormai era chiamata Heian) e il potere dell’aristocrazia militare (bushi); nella seconda (fino al 1573) la corte imperiale fu privata di gran parte delle proprietà e dei poteri politici; la determinazione della terza fase appare più problematica. Infatti, da un lato, le istituzioni persero molte connotazioni tipiche della feudalità, dando vita a una sorta di feudalesimo centralizzato e, dall’altro, all’interno dell’economia e della società si svilupparono rapporti di tipo pre- o paleocapitalistico. L’insediamento del bakufu a Kamakura sottolinea la volontà dei bushi di sottrarsi all’ingerenza della corte imperiale; questa, tuttavia, conservò una notevole influenza sulle istituzioni, in particolare dopo la morte di Yoritomo (1199), che lasciò due eredi non in grado di svolgere un’effettiva opera di governo. Pertanto il suocero di Yoritomo, Hojo Tokimasa, assunse la carica di shikken e svolse la funzione di reggente dello shogun, ruolo che gli Hojo mantennero fino al crollo del regime di Kamakura (1333). La reggenza degli Hojo durò oltre un secolo, nel corso del quale il governo fu energico e stabile. Nel 1232 fu promulgato un regolamento, noto come Codice Joei, in cui si fissavano i diritti e i doveri dei proprietari degli shoen, dei bushi, degli intendenti fiscali e dei governatori militari, con l’intento di adeguare le norme dell’antico Codice Taiho ai mutati rapporti economico-sociali. Dopo aver respinto due tentativi del mongolo Qubilay, fondatore della dinastia imperiale cinese degli Yuan, di invadere il G. (1274 e 1281), soprattutto grazie ai kamikaze («venti divini»), i tifoni che decimarono le flotte nemiche, gli Hojo dovettero affrontare endemiche tensioni interne. Queste sfociarono in un tentativo di restaurazione del pieno potere imperiale da parte del sovrano Go Daigo che, sebbene fallito, provocò la fine politica della famiglia Hojo (1333).

La seconda fase del feudalesimo

Nel tormentato periodo che seguì, contrassegnato fino al 1392 dall’esistenza di due corti, quella del Nord e quella del Sud, governate da un imperatore del ramo principale e da uno del ramo cadetto in aperto contrasto fra di loro, emerse la figura di Ashikaga Takauji, che conservò il titolo di shogun dal 1338 al 1358 per trasmetterlo poi ai suoi discendenti. Durante lo shogunato degli Ashikaga iniziarono a espandersi i commerci interno e internazionale. Sorsero i primi centri mercantili e alcune città portuali avviarono rapporti con l’impero cinese, in concorrenza con il contrabbando dei pirati giapponesi (wako). La floridezza dei commerci fu minacciata dalla guerra dell’era Onin (1467-77). I governatori militari, vassalli dello shogun, che fino ad allora avevano governato su mandato del loro signore e appoggiandosi alle residue istituzioni imperiali, si trasformarono in autorità locali, note con il termine di daimyo («feudatario»); scomparvero gli shoen e ovunque la proprietà fondiaria assunse la forma di feudo. Il secolo che intercorre fra la guerra Onin e la caduta degli Ashikaga (1573) è noto come periodo degli «Stati belligeranti» in quanto il Paese fu percorso da continue lotte interfeudali alle quali il bakufu non riuscì a porre freno. Negli anni finali dell’ormai debole egemonia degli Ashikaga si affacciarono sulle coste del G. i missionari portoghesi, fra i quali Francesco Saverio e Gaspar Videla, e, sulla loro scia, mercanti che oltre a oggetti di lusso introdussero in G. le armi da fuoco. Alla situazione di lotte interfeudali endemiche posero termine i tre «unificatori» del G.: Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu. Essi non compirono soltanto azioni militari, ma introdussero importanti novità istituzionali e politiche. Nobunaga eliminò il potere politico buddhista distruggendo i templi del Monte Hiei, intorno a Kyoto, trucidando migliaia di monaci (1571), e pose fine al bakufu degli Ashikaga (1573); disarmò i contadini e formò grandi eserciti permanenti di stanza in città fortificate, favorendo l’abbandono delle campagne da parte dei bushi. L’opera di Nobunaga, costretto al suicidio da un traditore nel 1582, fu ripresa e consolidata da Hideyoshi. Questi, avvalendosi della nomina a kanpaku e in qualità di capo di un’unica lega di daimyo a lui legati da vincoli di vassallaggio (e dunque prima personalità politica del G.), impose al Paese riunificato una struttura di governo decentrata. All’interno Hideyoshi pose le basi della successiva divisione in classi della popolazione: lanciata la «caccia alle spade», nel corso della quale la popolazione urbana e rurale fu disarmata (1588), emanò un editto che vietava ai bushi di risiedere nelle campagne e di cambiare signore e vincolava i contadini alla terra. Hideyoshi perseguì inoltre l’obiettivo di conquistare la Cina. A tal fine organizzò due spedizioni per invadere la Corea, che non ebbero successo. La seconda campagna si interruppe alla sua morte (1598).

Il feudalesimo centralizzato

Nel 1600 il potere passò nelle mani di Tokugawa Ieyasu che, dopo aver sconfitto a Sekigahara una coalizione avversa, confiscò i possedimenti di circa 90 daimyo. Tali acquisizioni gli consentirono di incrementare le rendite della famiglia, di premiare i daimyo a lui fedeli e di rinsaldare così i legami di tipo feudale con i suoi vassalli. Assunto il titolo di shogun (1603) e fissata la propria capitale a Edo (l’attuale Tokyo), Ieyasu pose mano a una profonda riorganizzazione istituzionale, dando vita al cosiddetto sistema baku-han, in cui si realizzava la coesistenza di un’autorità a carattere nazionale (il bakufu) con autorità territoriali rappresentate dai quasi 300 daimyo, proprietari dei loro han («feudi»). Ieyasu fece dell’etica sociale neoconfuciana la solida base del potere dei Tokugawa, che avrebbero governato l’impero fino al 1868. I rapporti sociali e politici si fondavano sulle cinque «grandi relazioni» e sulle virtù affermate dal confucianesimo, all’interno delle quali primeggiavano la relazione fra signore e suddito e le virtù della lealtà e obbedienza e della pietà filiale. Su questi principi si fondava la gerarchia sociale che, oltre agli hinin (i «non uomini», discriminati socialmente in quanto erano criminali o svolgevano mestieri «impuri»), postulava l’esistenza di quattro classi: i mercanti, gli artigiani, i contadini e, al vertice, i kuge («nobili») e i buke («guerrieri»). La classe dominante era costituita dai sanke (le «tre famiglie» Tokugawa), dai daimyo e dai samurai. Accanto a essi vi erano l’imperatore e la sua corte di kuge, i quali non esercitavano alcun potere politico effettivo. I contadini costituivano l’asse portante della società e dell’economia mentre i mercanti, secondo la tradizione confuciana, erano appena tollerati in quanto classe non produttiva, dedita al semplice trasferimento di merci prodotte dal lavoro altrui. Dal punto di vista istituzionale, lo shogun non era altri che il daimyo più potente, il cui governo si fondava su una complessa gerarchia di vincoli feudali. I suoi possedimenti ammontavano a 6,8 milioni di koku di riso (1 koku = 150 kg ca.), mentre il daimyo più ricco controllava un feudo di poco superiore al milione e le proprietà complessive della corte imperiale di Kyoto erano di appena 187.000 koku. I daimyo governavano i feudi con l’ausilio dei loro dipendenti, cioè dei samurai che, nei due secoli e mezzo di egemonia dei Tokugawa, si trasformarono in amministratori. I daimyo dovettero sottostare al sankin kotai (sistema delle residenze alternate), che li costrinse a vivere per lunghi periodi a Edo e, quando si recavano nei loro feudi, a lasciare in ostaggio presso lo shogun i loro familiari. I samurai fin dai tempi di Toyotomi Hideyoshi vivevano in città, mentre i mercanti dovevano risiedere e operare in appositi quartieri urbani loro destinati. Nei rapporti con l’esterno dal 1641, dopo alcune persecuzioni di cristiani, i Tokugawa misero in atto la politica del sakoku («Paese chiuso»). Tale scelta fu determinata da esigenze di carattere politico e sociale. Da un lato, infatti, lo shogun era preoccupato per la possibilità che i daimyo, del G. meridionale potessero procurarsi, tramite i mercanti occidentali, armi da fuoco. Dall’altro, il postulato cristiano dell’uguaglianza fra gli uomini minacciava i fondamenti della religiosità shintoista e buddhista, nonché dell’etica confuciana, che esigeva l’obbedienza dell’inferiore non ad altri che al superiore e il mantenimento della rigida gerarchia sociale. Tutti gli stranieri furono espulsi dal G., a eccezione degli olandesi, confinati nell’isolotto artificiale di Deshima, nella Baia di Nagasaki. Il commercio estero fu limitato a poche navi all’anno e pertanto non si rivelò incisivo per lo sviluppo del mercato. L’economia e le finanze pubbliche si reggevano sulle rendite fondiarie. Ogni han era valutato in koku di riso o prodotti equivalenti. Metà della potenziale produzione spettava al daimyo, che ripartiva il suo diritto di esazione fiscale fra le singole comunità di villaggio. Queste provvedevano ai versamenti delle tasse al daimyo e alla preventiva loro allocazione alle singole famiglie. Le comunità rurali erano governate da istituzioni locali, tra le quali il capo del villaggio e l’assemblea degli anziani, sorvegliate dagli intendenti fiscali del bakufu. All’interno delle comunità vigeva il principio della corresponsabilità, garantito dai goningumi, gruppi di cinque famiglie che rispondevano in solido dei reati commessi dai loro membri. Nonostante il disprezzo per i mercanti, i guerrieri – ai quali era vietato commerciare – dovettero ricorrere con sempre maggior frequenza ai loro servigi. Questa situazione favorì l’arricchimento di alcuni grandi mercanti che, operando su licenza dello shogun o dei loro daimyo, traevano i maggiori guadagni dalla commercializzazione del riso e degli altri prodotti dei feudi. Nel corso del Settecento, lo sviluppo dei commerci sfociò nella formazione di un mercato nazionale con due poli forti: Edo e l’area di Osaka. Fra Settecento e Ottocento, lo sviluppo del mercato consentì l’affinamento delle tecniche commerciali e la creazione di corporazioni mercantili. All’arricchimento dei mercanti corrisposero difficili condizioni economiche dei daimyo, sempre più pressati dalle esigenze di bilancio e costretti a ricorrere a prestiti elargiti dai mercanti stessi. Tuttavia, questa situazione non diede maggior potere politico né migliore status sociale ai mercanti, spesso vessati da leggi suntuarie, dalla requisizione di beni e dall’abbattimento dei prestiti. Nel corso del Settecento mutarono anche le condizioni nelle campagne. In alcune aree del Paese, l’introduzione di nuove tecnologie (fertilizzanti marini, strumenti di lavoro) favorì l’incremento della produttività e, nel tempo, gli investimenti da parte dei contadini ricchi in attività legate all’agricoltura. In quelle zone venne così a delinearsi una differenziazione tra pochi contadini ricchi, una massa di contadini a reddito medio (che nei tempi morti consentiti dalla risicoltura vendevano il loro lavoro ai possessori delle nuove attività preindustriali), e pochi contadini poveri. Gli elementi fin qui ricordati, accanto ad altri quali la formazione di una cultura propria dei mercanti e artigiani grandi e piccoli e dei contadini ricchi, che contribuì ad alfabetizzare milioni di persone (in aggiunta ai guerrieri acculturati), la crescita del numero dei «samurai senza padrone» a seguito delle difficoltà dei daimyo a pagare loro gli stipendi, le passività dei bilanci dei feudi, costituirono le precondizioni endogene che favorirono la transizione del G. dal feudalesimo al capitalismo.

La rivoluzione dall’alto

Il dissolvimento del regime dei Tokugawa e il passaggio a un’organizzazione economico-sociale borghese furono determinati anche da cause esterne. A conclusione della prima guerra dell’oppio (1842), era iniziata la penetrazione occidentale in Cina e il G., situato sulle rotte marittime che conducono dalla California all’Asia, costituiva un’utile base di approdo per le navi statunitensi. Fu il commodoro M. Perry che, giunto nella Baia di Uraga nel 1853, costrinse il G. ad aprirsi al commercio internazionale, imponendo nel 1854 il primo di una serie di trattati ineguali con le maggiori potenze occidentali. A tale pressione esterna corrispose all’interno del G. l’ascesa di un partito favorevole ai rapporti con gli occidentali, che dopo alcuni anni di incertezza prevalse sui fautori dell’isolamento. La coalizione vincente, costituita da samurai di rango medio-superiore e finanziata dai grandi mercanti, nel dic. 1867 sconfisse l’esercito dello shogun, ne confiscò le proprietà, decretò la fine del bakufu Tokugawa e avviò un processo riformatore in nome del giovane imperatore Mutsuhito. Questi, noto con il nome della sua era di regno (1868-1912), Meiji, divenne il simbolo dell’unità e dell’indipendenza della nazione e in suo nome furono introdotti mutamenti radicali. L’oligarchia Meiji (i samurai appartenenti a quei feudi che avevano abbattuto il bakufu) perseguì l’obiettivo di salvaguardare l’indipendenza del G. con un preciso programma: trasformare l’economia e istituire un esercito moderno, in grado di competere con quelli occidentali. Lo scopo venne raggiunto in un ventennio attraverso cambiamenti introdotti dall’alto che rivoluzionarono l’organizzazione economico-sociale e le istituzioni dello Stato. In campo sociale furono aboliti i privilegi della classe dei guerrieri e le limitazioni alla mobilità sociale. In economia il nuovo Stato stimolò lo sviluppo industriale con finanziamenti ai privati e con la creazione di industrie modello. La riforma più incisiva riguardò le campagne: la terra fu distribuita in proprietà a coloro che erano in grado di dimostrarne il possesso e l’antica tassa sulla produzione fu sostituita da un’imposta sul valore delle proprietà. I nuovi dirigenti non trascurarono il settore dell’istruzione, in ciò favoriti dall’esistenza, già nel regime Tokugawa, di circa 12.000 scuole e dalla presenza di oltre un milione e mezzo di samurai acculturati, parte dei quali divennero i nuovi insegnanti. La scuola primaria fu subito obbligatoria e nel corso di un ventennio il sistema scolastico, comprendente i cicli elementare, medio, inferiore e superiore, e universitario, fu completato. All’alfabetizzazione contribuì anche l’esercito, formato ora da soldati di leva armati modernamente. Queste trasformazioni suscitarono una serie di reazioni, in genere di segno conservatore. In molti villaggi i contadini diedero vita a rivolte contro le innovazioni, quali l’introduzione del calendario gregoriano o l’istituzione dell’obbligo scolastico e della tassazione sulla proprietà. Il rischio maggiore che il governo dovette affrontare fu costituito dalla rivolta degli ex samurai guidati da Saigo Takamori che il nuovo esercito di coscritti soffocò nel 1877. A favore dell’oligarchia Meiji giocò invece il rapido processo di nazionalizzazione del popolo giapponese, agevolato dal ricorso a stereotipi collettivi: l’identificazione fra nazione e razza, la riproposizione della figura dell’imperatore quale «discendente di un’ininterrotta linea divina» e sovrano del «Paese degli dei», la priorità della difesa del G. e del superamento dei trattati ineguali per raggiungere la pari dignità con le potenze occidentali. Il cammino della trasformazione si completò in economia nel 1881-85, periodo in cui le industrie moderne di proprietà dello Stato furono vendute a prezzi esigui a uomini d’affari «politicamente protetti», eredi di quei mercanti Tokugawa che avevano contribuito con i loro finanziamenti alla vittoria dei samurai filoimperiali, ma che erano stati nell’ombra nei primi anni dell’industrializzazione. Con questa decisione, il governo Meiji pose le basi dello sviluppo dei futuri zaibatsu, concentrazioni di capitale finanziario, industriale e commerciale a controllo familiare che sarebbero diventate i colossi dell’economia giapponese. In campo sociale, alcuni valori dell’etica confuciana (lealtà e obbedienza, pietà filiale, armonia sociale) furono mantenuti quali punti di riferimento delle attività umane. Essi vennero ribaditi dall’Editto imperiale sull’educazione (1890), ma soprattutto con una capillare organizzazione del consenso attuata attraverso i contenuti dei programmi scolastici e il controllo sui mezzi di comunicazione. In campo istituzionale il primo governo su modello occidentale fu varato nel 1881, mentre la Costituzione dell’impero giapponese venne promulgata nel 1889. La legge fondamentale dello Stato non fu il risultato di un’elaborazione assembleare, ma del lavoro di una commissione presieduta dall’oligarca Ito Hirobumi e fu «donata» dall’imperatore ai suoi sudditi. Il potere supremo spettava al sovrano, la cui persona era definita «sacra e inviolabile». Suo era il comando delle forze armate; inoltre i ministri rispondevano della loro azione di governo all’imperatore e non al Parlamento. Questo era costituito da due camere: quella dei Nobili (composta in parte da membri di diritto e in parte da membri di nomina imperiale) e quella dei Deputati, eletta con sistema censitario (nelle elezioni del 1890 poté votare appena l’1% della popolazione).

Il Giappone grande potenza

Consolidato il sistema capitalistico, la classe dirigente giapponese avviò un processo di espansione. Nel 1894-95 il G. sconfisse il declinante impero cinese (➔ cino-giapponese, prima guerra); con il Trattato di Shimoneseki ottenne Taiwan, il riconoscimento dei propri interessi in Corea (fino ad allora Stato tributario della Cina) e una forte indennità di guerra che gli avrebbe consentito di adottare il gold standard (1897) e, di conseguenza, di rafforzare la propria moneta. Dopo aver partecipato alla spedizione in Cina per la repressione della rivolta dei Boxers (1898-1900), nel 1902 siglò un trattato di amicizia con la Gran Bretagna. Il riconoscimento dell’allora maggiore potenza mondiale permise al G. di affrontare nel 1904-05 una guerra vittoriosa con un comune avversario nell’area del Pacifico, la Russia. Sconfitta la flotta zarista nella battaglia di Tsushima e conquistata la piazzaforte di Port Arthur nella penisola cinese del Liaodong, il G. con il Trattato di Portsmouth ottenne anche la metà meridionale dell’Isola di Sachalin e la cessione della ferrovia sud-manciuriana. Creata una società a controllo pubblico, il governo giapponese ne fece lo strumento di penetrazione degli investimenti in quella regione, mentre nel 1910 avrebbe annesso la Corea. Nel 1914-18 il G., grazie alla penetrazione nei mercati asiatici e alle forniture agli alleati dell’Intesa, quadruplicò la produzione industriale e le esportazioni e fu in grado di costruire una flotta transoceanica. In Asia tentò, con la presentazione delle «ventun richieste» al governo di Yuan Shikai, di imporre la propria egemonia alla Cina repubblicana (1915), dopo che l’esercito giapponese aveva occupato la concessione tedesca dello Shandong e, nel Pacifico, le altre colonie della Germania. Benché appartenente alla coalizione dei vincitori, il G. non trasse dalla Conferenza di Versailles i vantaggi sperati. La disputa per lo Shandong con la Cina, anch’essa alleata dell’Intesa, fu rinviata ad accordi separati; USA e Australia si opposero alla richiesta, avanzata dal governo di Tokyo, di una dichiarazione della Società delle nazioni che sancisse il principio dell’uguaglianza delle razze; unico risultato tangibile fu l’affidamento del mandato di tipo C sulle isole ex tedesche del Pacifico. Il sostanziale insuccesso riportato a Versailles alimentò il malcontento dei nazionalisti, che già dopo la pace del 1905 con la Russia avevano aspramente protestato contro i presunti torti subiti dal Giappone. Dal canto loro, i circoli dirigenti guardavano con preoccupazione al contenimento dell’espansionismo giapponese posto in atto dalle altre potenze. I timori di Tokyo si rivelarono fondati e nel 1922, alla Conferenza di Washington, le potenze occidentali imposero al G. limitazioni al suo tonnellaggio militare. Sul piano interno, lo sviluppo economico durante la Prima guerra mondiale aveva avviato profonde trasformazioni nella società. In particolare, la crescita del settore metalmeccanico modificò la composizione della classe operaia, fino ad allora prevalentemente tessile; la creazione di nuove industrie favorì l’inurbamento; il minor controllo sui lavoratori, conseguente alle esigenze di incrementare la produzione, consentì, subito dopo il conflitto, la fondazione delle prime organizzazioni politiche e sindacali del proletariato; i ceti medi urbani si volsero a istanze liberali. Tuttavia, si trattò di una breve parentesi. La classe dirigente, preoccupata dall’allentamento dei controlli all’interno e dall’evoluzione della situazione internazionale (vittoria della Rivoluzione sovietica in Russia, movimento del 4 maggio in funzione antigiapponese e fondazione del Partito comunista in Cina), ben presto fece ricorso a misure repressive.

Il regime militarista

Nel 1925 il Parlamento concesse il suffragio universale maschile, ma nel contempo approvò la Chian ijiho, legge per il mantenimento dell’ordine pubblico a forte contenuto liberticida. Oltre a ribadire le limitazioni ai diritti civili, questa legge faceva della difesa del kokutai («sistema nazionale»), termine vago e ambiguo che si prestava a ogni interpretazione repressiva, il fondamento dell’attività politica. Sulla base della Chian ijiho vennero prima perseguiti gli studenti marxisti (1925), poi i militanti e i dirigenti del Partito comunista (1928) e infine, negli anni Trenta, esponenti liberali del mondo della cultura. Sul trono imperiale, alla morte del grande Meiji (1912) era succeduto il figlio Yoshihito, noto con il nome dell’era di regno Taisho, malato e surrogato nel 1921 dalla reggenza del figlio Hirohito che, alla morte del padre (1926), divenne imperatore. La prima parte, fino al 1945, del regno di Hirohito (era Showa) vide l’affermazione di un blocco di potere formato dalla burocrazia civile e militare, dagli zaibatsu e dalla corte imperiale; questo blocco approfittò delle tensioni sociali – provocate, da un lato, dalle rivendicazioni di operai e contadini che lanciarono manifestazioni e scioperi e, dall’altro, da reiterati attentati e complotti condotti da elementi reazionari, in gran parte appartenenti ai gradi intermedi dell’esercito – per imporre un regime totalitario che pose fine agli antagonismi sociali. Il tennosei fashizumu («fascismo del sistema imperiale»), affermatosi negli anni delle ripetute crisi economiche successive alla Prima guerra mondiale e della Grande depressione, si caratterizza rispetto ai casi italiano e tedesco per l’assenza del partito unico e del dittatore. Il ruolo del dittatore fu però surrogato dal carisma dell’imperatore, a nome del quale il blocco di potere asseriva di agire. Inoltre, la burocrazia civile seppe in G. svolgere quel doppio compito di organizzazione del consenso e di controllo della politica che in Italia e Germania era attribuito al Partito fascista e a quello nazista. Se la Chian ijiho accentuò la violenza politica contro gli oppositori del tennosei, la burocrazia civile, in proprio o con la collaborazione dei militari, diede vita a efficienti strumenti di organizzazione del consenso. Tali furono l’Associazione imperiale dei riservisti (che svolse un’efficace azione di propaganda sia all’interno delle comunità rurali contro le associazioni locali dei fittavoli, sia sul piano nazionale contro gli oppositori liberali del regime perseguitati negli anni Trenta) e la sua propaggine giovanile, seinendan. Né minor incidenza ebbero i funzionari superiori del ministero dell’Interno nel dare corpo alla scelta del primo ministro, principe Konoe Fumimaro, di creare nel 1940 un simulacro di partito unico, la Taisei yokusankai (Associazione per il sostegno della direzione imperiale). Al consolidamento del regime fascista fece riscontro una più accentuata spinta imperialista. Nel 1931 il G. invase la Manciuria e vi istituì il regime fantoccio del Manchukuo, guidato da Pu Yi, ultimo imperatore cinese, che ancora fanciullo era fuggito da Pechino all’atto della proclamazione della Repubblica. Nel 1937 l’esercito giapponese invase la Cina e nel 1940 occupò il Vietnam meridionale. All’espansione giapponese tentarono di porre un freno gli USA che proclamarono l’embargo economico, a esclusione dei prodotti petroliferi. La risposta di Tokyo si sostanziò nell’attacco alla base navale di Pearl Harbor senza che fosse notificata a Washington la dichiarazione di guerra (7 dic. 1941). Dopo gli iniziali successi (occupazione delle Indie olandesi, delle Filippine e della Birmania) le sorti del conflitto volsero a sfavore del G.: il 15 ag. 1945, dopo la dichiarazione di guerra dell’URSS (8 agosto) e i bombardamenti atomici statunitensi (➔ bomba atomica) di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto), il governo imperiale accettava la resa.

La trasformazione democratica

Nel corso del 1944, dopo che le battaglie delle Isole Midway e di Guadalcanal avevano volto le sorti del conflitto a favore degli alleati, il governo statunitense iniziò a elaborare, con la consulenza di esperti del G., una linea politica per l’occupazione. Furono così individuati gli obiettivi della smilitarizzazione e della trasformazione democratica che il Comando supremo delle potenze alleate avrebbe fatto propri nel sett. 1945. I vincitori formarono la Commissione per l’Estremo Oriente, che avrebbe dovuto vigilare sull’applicazione del programma di demilitarizzazione e di democratizzazione del G. e dare le opportune direttive al generale D.A. MacArthur, massimo responsabile del Comando. Tuttavia le istruzioni impartite a MacArthur da Washington precisavano che egli dipendeva direttamente dal presidente H. Truman; di conseguenza, nella pratica, la politica di occupazione sarebbe stata determinata esclusivamente dagli USA e il regime di occupazione avrebbe sempre rifiutato qualsiasi ingerenza sovietica. Tale atteggiamento era determinato dalla scelta operata da Truman di contenere in Asia l’influenza dell’URSS, il cui esercito si era attestato, secondo gli accordi, al 38° parallelo in Corea. Il Comando, costituito da un imponente numero di militari, era suddiviso in sezioni, responsabili dell’applicazione delle misure elaborate a Wash­ington, e si avvaleva per l’opera di governo e di amministrazione di politici e funzionari civili giapponesi. Sulla base di direttive emanate da MacArthur, furono avviati lo smantellamento dell’apparato bellico e la trasformazione democratica del Paese; tuttavia l’azione del Comando scontò alcuni gravi limiti. Da un lato, la necessità di ricorrere all’operato dei politici e dei burocrati giapponesi finì col lasciare a essi grandi margini di mediazione e di manovra fra le direttive e la loro applicazione. Dall’altro, un’interpretazione del fascismo come fenomeno prettamente ideologico impedì al governo statunitense di cogliere l’intreccio fra potentati economici, burocrazia, comandi militari e corte imperiale che aveva dato vita al blocco di potere su cui si era retto il regime del tennosei fashizumu. L’azione del Comando, quindi, finì per favorire il ricompattamento della classe dirigente e l’emergere di rilevanti elementi di continuità. Il suo primo atto di rilievo politico fu l’emanazione della Carta dei diritti civili, con la quale si affermarono per la prima volta in G. i fondamenti stessi della vita democratica. A seguito degli ordini di MacArthur, furono liberati i prigionieri politici, ricostituiti partiti e sindacati, esteso il diritto di voto alle donne, eletta un’Assemblea costituente che nel 1946 approvò una Costituzione (entrata in vigore nel 1947) ispirata da Washington; fu inoltre avviata l’epurazione degli elementi compromessi con il passato regime e tentato lo scioglimento degli zaibatsu. Ma l’azione di freno dei responsabili giapponesi si esplicò proprio in quest’ultima vicenda. Se nell’apr. 1946 le holding che avrebbero dovuto essere smantellate erano 83, nel dic. 1949, dopo interminabili trattative fra governo giapponese e Comando di occupazione e numerose revisioni delle leggi antitrust, soltanto 19 grandi concentrazioni furono sciolte e sottratte al totale controllo delle maggiori famiglie zaibatsu. Tuttavia, il provvedimento non toccò le grandi banche (le maggiori delle quali erano di proprietà zaibatsu), consentendo così il mantenimento di connessioni fra le società appartenenti alle holding disciolte. Nacquero in tal modo i nuovi gruppi di affari, noti oggi come keiretsu. Questo atteggiamento di «difesa attiva» ebbe successo anche nella complessa questione delle epurazioni. Inizialmente, gli epurati furono individuati attraverso la compilazione di questionari e il loro numero superava le 200.000 unità. Tuttavia, il 90% era costituito da militari, mentre assai pochi furono i civili colpiti dal provvedimento. Inoltre, le commissioni di revisione insediate dal primo ministro S. Yoshida operarono numerose riabilitazioni, asserendo che non erano punibili coloro che per il loro ruolo istituzionale avevano necessariamente dovuto sostenere il passato regime. Nella stessa logica si inserì la difesa dell’operato dell’imperatore, con la motivazione che il suo ruolo trascendente la politica gli aveva impedito qualsiasi intervento in occasione delle decisioni emerse all’interno del blocco di potere. Per tale ragione Hirohito non fu chiamato a rispondere di fronte al Tribunale di Tokyo che processò i criminali di guerra, condannandone sette alla pena di morte; Hirohito mantenne pertanto il titolo imperiale fino alla morte nel 1989, quando gli successe il figlio Akihito (era Heisei). La difesa dell’imperatore e di innumerevoli sostenitori attivi del sistema imperiale prebellico si inseriva nel disegno conservatore di mantenimento, ai livelli massimi consentiti, del controllo capillare sulla società; tale controllo ora non era più imposto con la coercizione, ma attuato con un costante richiamo al «benessere comune», raggiungibile soltanto con grandi sacrifici volti al rafforzamento dell’economia. Gli obiettivi delle forze conservatrici giapponesi, a partire dal 1948, furono assecondati dalla «inversione di rotta» nella politica di occupazione attuata dagli Stati Uniti. A tale scelta concorsero vari fattori: la necessità di stabilizzare l’economia giapponese, di attenuare la conflittualità sociale e di frenare l’ascesa politica dei socialisti, che furono alla testa di un governo di coalizione nel 1947-48. Né minor peso ebbero i mutamenti internazionali: a determinare l’«inversione di rotta» concorse l’acquisita certezza della vittoria dei comunisti di Mao Zedong sui nazionalisti di Jiang Jieshi in Cina. Il G., da nemico sconfitto, ma sulla via della democratizzazione, diveniva il principale alleato degli USA nell’area del Pacifico. In questo quadro si collocarono le decisioni in campo economico, dalla riforma agraria, che cancellò la grande proprietà, all’avvio del piano di ricostruzione e alla fissazione del rapporto di cambio del dollaro con lo yen. Contemporaneamente, nella sfera politica, si dispiegò con maggiore determinazione l’intervento del Comando di occupazione in appoggio alle forze conservatrici (in particolare, nel 1950 furono espulsi dagli uffici pubblici e dalle università tutti gli iscritti al Partito comunista e fu vietata la diffusione della stampa comunista). Dopo la firma del Trattato di pace di San Francisco (nov. 1951), non sottoscritto da URSS, Cina e India, il G. riconquistò la piena indipendenza (apr. 1952). Il primo ministro liberale Yoshida fu il principale artefice della ricostruzione economica fondata sui principi di un rigoroso protezionismo; questa fu portata a termine nel 1956, quando la produzione raggiunse i livelli massimi del periodo prebellico. Da allora l’economia ha mantenuto tassi di sviluppo assai elevati, consentendo al G. di divenire la seconda potenza economica mondiale. Gli incrementi produttivi raggiunti sono dovuti a vari fattori: una oculata e persistente politica di investimenti nella ricerca; l’ampliamento costante del mercato interno; la finalizzazione degli investimenti a profitti non immediati; l’adesione dei lavoratori agli obiettivi di crescita economica, sia della loro impresa sia del Paese; la garanzia dell’impiego a vita per i dipendenti delle grandi imprese; la perequazione salariale di operai, impiegati e dirigenti all’interno delle imprese. Nel secondo dopoguerra la vita politica è stata lungamente dominata, salvo la breve parentesi del 1947-48, da liberali e democratici, che nel 1955 diedero vita al Partito liberaldemocratico (PLD). La carica di presidente del Partito, consentendo la automatica elezione a primo ministro, divenne il posto chiave per l’esercizio del potere. Dopo il declino politico di Yoshida, al potere fino al 1954, tale carica venne ricoperta tra gli altri da N. Kishi (condannato al carcere dal tribunale di Tokyo per crimini di guerra, ma riabilitato nel 1952) nel 1957-60, E. Sato (1964-72), K. Tanaka (1972-74), Y. Nakasone (1982-87), N. Takeshita (1987-89), T. Kaifu (1989-91), K. Miyazawa (1991-93). Singolare fu la vicenda politica di Tanaka. Costretto a dimettersi a seguito dello scandalo Lockheed, fu rieletto deputato indipendente nel suo collegio elettorale e, pur non essendo più iscritto al PLD, fino al 1985 mantenne saldamente il controllo della sua fazione, determinando alleanze e influenzando l’ascesa politica dei presidenti del partito. La stabilità della maggioranza liberaldemocratica fu favorita dal sistema elettorale maggioritario e dalla sovrarappresentazione delle campagne (prevalentemente conservatrici) nella distribuzione dei seggi. Il potere esecutivo venne espresso da governi forti, egemonizzati al loro interno da alcuni ministeri chiave, quali quello delle Finanze e quello dell’Industria e del commercio internazionale. I principali partiti di opposizione furono quello socialista, il Komeito (legato alla setta buddhista Soka gakkai), il Partito comunista e quello socialdemocratico. Gli elettori rinnovarono a lungo la loro fiducia al PLD, nonostante gli scandali che ne coinvolsero con sempre maggior frequenza dirigenti di rilievo, anche quando il governo compì scelte politiche in contrasto con la volontà della maggioranza della popolazione. Valga per tutti il caso delle spese militari, aumentate negli anni Ottanta fino a superare l’1% del prodotto nazionale lordo. L’art. 9 della Costituzione bandisce il ricorso alla guerra e vieta la ricostituzione delle forze armate, ma tale norma, voluta nel 1946 dagli USA, fu aggirata nel 1950 con la creazione di una Forza di difesa nazionale formata da circa 200.000 volontari e divisa in tre corpi modernamente armati: aviazione, marina, forze di terra. L’aumento delle spese militari provocò una crescente indignazione, ma non un immediato dissenso elettorale nei confronti del PLD, che mantenne la guida del governo fino al 1993.

Il Giappone tra la fine del 20° e gli inizi del 21° secolo

Nel luglio 1993, indebolito dall’aggravarsi della questione morale e dallo scontro al proprio interno sull’abolizione o meno dell’art. 9 della Costituzione, il PLD subì un forte ridimensionamento nelle elezioni anticipate per la Camera dei rappresentanti. Il Nuovo partito giapponese (NPG), il Partito del rinnovamento e il Partito della nuova iniziativa (formati fra il 1992 e il 1993 in seguito a diverse scissioni dal PLD), ottennero in tutto 103 seggi ed entrarono, insieme al Partito socialista, a quello socialdemocratico e al Komeito, nel governo costituito (ag. 1993) dal leader del NPG, M. Hosokawa. Osteggiato fortemente dalla potente burocrazia, contraria alla sua politica volta a limitarne le prerogative, Hosokawa avviò la riforma del sistema elettorale ma, accusato di illeciti finanziari, fu costretto alle dimissioni (apr. 1994). Il successivo gabinetto di T. Hata, esponente di punta del Partito del rinnovamento, durò appena due mesi, e fu sostituito (luglio) da un nuovo governo guidato da T. Murayama, leader del Partito socialdemocratico, nel quale entrarono i liberaldemocratici ed esponenti del Partito della nuova iniziativa. Il nuovo primo ministro riuscì a far approvare dalle due Camere, nel novembre 1994, la riforma elettorale che prevedeva la riduzione dei membri della Camera dei rappresentanti da 511 a 500, l’introduzione del sistema proporzionale per il 40% dei deputati, la ridistribuzione dei collegi elettorali per ridimensionare l’incidenza del voto delle aree rurali, tradizionalmente conservatrici, e la limitazione del finanziamento privato ai partiti. Tale successo, tuttavia, non consolidò l’esecutivo, costretto a fronteggiare un’opposizione sempre più compatta dopo la costituzione, nel dicembre 1994, per iniziativa del Partito del rinnovamento, del Partito della nuova frontiera, nel quale confluirono ben nove formazioni politiche tra cui il Komeito. Gli attacchi politici e la difficoltà nel gestire le situazioni di emergenza, verificatesi nel paese dopo il gravissimo terremoto di Kobe nel gennaio 1995 (che provocò circa 5500 morti) e l’attentato terroristico al gas nervino del marzo 1995 (attuato nella metropolitana di Tokyo e attribuito alla setta religiosa Aum Shinrikyo), nel quale restarono ferite più di 5000 persone e 12 persero la vita, portarono infine alla caduta del governo di Murayama (genn. 1996); al suo posto venne nominato primo ministro il leader liberaldemocratico R. Hashimoto. Questi pose tra gli obiettivi prioritari del suo governo il risanamento del settore finanziario, l’allargamento della domanda interna e un maggiore controllo del potere politico sulla burocrazia ministeriale, screditata da una serie di scandali. Nell’ottobre 1996 si svolsero le prime elezioni della Camera dei rappresentanti secondo la nuova legge elettorale. I liberaldemocratici conquistarono la maggioranza dei seggi (239), seguiti dal Partito della nuova frontiera (156) e dal Partito democratico (52), costituito un mese prima delle elezioni da alcuni ex esponenti del PLD. Fortemente ridimensionato risultò il Partito socialdemocratico (15 seggi), penalizzato dalla coalizione con i conservatori, mentre si rafforzò il Partito comunista (26 seggi). Riconfermato nella carica di primo ministro, Hashimoto proseguì la politica di riforme economiche e nell’aprile 1997 riuscì a ottenere l’appoggio del Partito della nuova frontiera per far approvare dalle due camere una legge che riduceva la presenza militare statunitense nel Paese. L’acuirsi della crisi finanziaria e l’emergere di nuovi gravi episodi di corruzione minarono tuttavia la stabilità dell’esecutivo, mentre cresceva il disagio economico e sociale dei ceti medi e operai, penalizzati dai tagli alla spesa pubblica e dalla crescita del tasso di disoccupazione. Il riesplodere dei contrasti all’interno delle forze di opposizione, culminato nel dicembre 1997 nello scioglimento del Partito della nuova frontiera, permise tuttavia ai liberaldemocratici di rimanere al governo, nonostante i deludenti risultati del PLD nelle elezioni per il rinnovo parziale della Camera dei consiglieri (luglio 1998). Hashimoto fu costretto a dimettersi e fu sostituito da K. Obuchi, anch’egli liberaldemocratico. Questi, posta fine all’alleanza con i socialdemocratici, accentuò gradualmente la connotazione conservatrice del suo gabinetto, alleandosi nel gennaio 1999 con il Partito liberale (nato nel 1997 dalla scissione del Partito della nuova frontiera) e nel luglio 1999 con il Nuovo partito del governo pulito (nuova denominazione del Partito del governo pulito). Il governo varò ulteriori riforme finanziarie e misure di incentivazione alle imprese e ai lavori pubblici, e riuscì a far approvare (febbr. 2000) una modifica alla legge elettorale che prevedeva una riduzione del numero dei seggi attribuiti con il sistema proporzionale (da 200 a 180) nella Camera dei rappresentanti. Dopo l’incidente alla centrale nucleare di Tokaimura (sett. 1999), che risvegliò nell’opinione pubblica il ricordo del dramma bellico, venne bloccata (genn. 2000) la costruzione di nuovi impianti all’uranio, ripresa tuttavia nel maggio 2001. Nei mesi seguenti la situazione politica rimase incerta e contraddittoria, soprattutto dopo l’uscita dei liberali dalla maggioranza e la morte di Obuchi (apr. 2000). L’incarico di primo ministro fu assunto da Y. Mori, liberaldemocratico, che indisse a giugno nuove elezioni per il rinnovo della Camera dei rappresentanti. Il Partito liberaldemocratico subì una lieve flessione (233 seggi), mentre crebbero i consensi del Partito democratico (127), che divenne il principale partito di opposizione; i socialdemocratici conquistarono 19 seggi, il Partito comunista 20 e il Partito liberale 22. Mori mantenne la guida dell’esecutivo e formò un governo di coalizione con il Nuovo partito del governo pulito (31 seggi) e con il Nuovo partito conservatore (7 seggi), nato in aprile dalla scissione del Partito liberale. Il perdurare delle difficoltà economiche e il coinvolgimento del primo ministro in una serie di scandali determinarono nell’aprile 2001 la crisi del governo Mori che, costretto a dimettersi, fu sostituito da J. Koizumi, anch’egli liberaldemocratico. Koizumi si rivelò un leader di tipo nuovo, in grado di stabilire un rapporto più diretto con i cittadini e indicare obiettivi chiari a una nazione in fase di stagnazione economica. I successi nel promuovere un nuovo periodo di sviluppo, il cui rovescio della medaglia furono i tagli allo Stato sociale, la crescente flessibilità del mercato del lavoro e la crisi dei settori meno produttivi, gli consentirono di vincere le elezioni anticipate del 2003 e del 2005. Dopo il ritiro dalla politica di Koizumi (2006) gli subentrò alla guida del governo e del Partito liberaldemocratico S. Abe, che confermò gli obiettivi di politica economica ed estera del suo predecessore, ma si dimise nel 2007, dopo la sconfitta del Partito nelle elezioni legislative. Meno di un anno durò l’esecutivo del suo successore Y. Fukuda, dimissionario nel 2008 a causa dell’aggravarsi della crisi economica. Gli subentrò l’ex ministro degli Esteri T. Aso, ma le elezioni anticipate del 2009 decretarono la sconfitta dei liberaldemocratici, passati nella Camera bassa da 300 a 119 deputati, e la vittoria del Partito democratico di Y. Hatoyama, che è divenuto primo ministro di un governo di coalizione formato, oltre che dal suo partito, da quello socialdemocratico e dal Nuovo partito popolare. Nel giugno 2010 Hatoyama si è dimesso a seguito dell’impossibilità di rispettare gli impegni presi in campagna elettorale relativamente alla chiusura della base statunitense a Okinawa; lo ha sostituito, come primo ministro e presidente del Partito democratico, N. Kan. Sul piano internazionale, nel 1992 per la prima volta dal 1945 fu consentito l’invio di forze giapponesi all’estero per operazioni di mantenimento della pace nell’ambito ONU. Gli anni successivi videro uno sviluppo della presenza del G. nei contesti di crisi internazionali: nel settembre 2001, il G. si schierò con la coalizione guidata dagli Stati Uniti a sostegno dell’intervento armato contro l’Afghanistan; nella guerra contro l’Iraq fu inviato (2004-06) un contingente con scopi di peace-keeping. Dagli anni Novanta il G. ha intensificato i rapporti con i Paesi dell’area asiatica e in particolare con la Cina e la Corea del Sud, con le quali sono stati firmati trattati economici e commerciali. Sono migliorati anche i rapporti con la Russia, e nel 1998 è stato stipulato un accordo per incrementare la cooperazione economica e giungere a una soluzione della controversia riguardante alcune isole al confine tra i due Stati. Problematiche rimangono invece le relazioni con la Corea del Nord, anche a causa della sua sperimentazione di missili e armi nucleari.

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