Giasone

Enciclopedia Dantesca (1970)

Giasone (Iasón, Gesona, Gesone)

Giorgio Padoan
Luigi Vanossi

Mitico eroe greco, figlio di Esone re di Iolco; fu educato da Chirone. Lo zio Pelia, che aveva usurpato il trono al fratello, timoroso che G. potesse rivendicarlo a sé, gl'impose d'impossessarsi del vello d'oro che Frisso aveva lasciato nella Colchide.

Poiché l'impresa appariva disperata, Pelia pensava in tal modo di sbarazzarsi del nipote: il Colco infatti era terra quanto mai misteriosa e lontana (alcuni studiosi vi ravvisano l'attuale Crimea); e si sapeva che il vello era gelosamente custodito dal re Eete e guardato da un drago. G. fece approntare per l'impresa una lunga nave, la prima che avesse mai solcato flutti, e riunì una schiera di prodi, che dalla nave Argo presero il nome di Argonauti (v.). La prima tappa fu all'isola di Lemno; qui la giovinetta regina Ipsipile (D. usa la forma Isifile) - nota alla mitografia anche per essere la sola tra le donne di Lemno a venir meno al tremendo patto di uccidere tutti i loro maschi per punirne l'infedeltà, e avere invece sottratto alla morte il padre Toante - s'innamorò di G., il quale si trattenne presso di lei vari mesi; l'eroe finì tuttavia con l'abbandonarla, mentre era gravida (ne nacquero due bimbi, Toante ed Euneo), per riprendere l'impresa del vello. Giunto alfine al Colco, G. riuscì a ottenere l'amore di Medea, figlia del re Eete e di Ecate, la quale non era ignara di arti magiche. Medea, in preda alla passione amorosa e illusa dalla promessa di nozze, gli prestò aiuto decisivo nel superare la difficilissima prova richiesta da Eete in cambio del vello: G. avrebbe dovuto aggiogare due terribili tori dalle corna di ferro, dagli zoccoli di bronzo e dalle narici spiranti fuoco, per arare un campo seminandovi denti di drago. L'eroe vi riuscì, grazie a erbe incantate dategli da Medea. Dai denti seminati sorsero però immediatamente guerrieri armati; ma G., secondo il suggerimento di Medea, lanciò tra loro una pesante pietra, e quei guerrieri, voltisi l'uno contro l'altro, si ammazzarono vicendevolmente. Benché la prova fosse stata superata, Eete, rifiutandosi di mantenere la promessa, non consegnò il vello d'oro al vincitore; e per impadronirsene G., ancora una volta ricorrendo alle arti magiche di Medea, addormentò con erbe soporifere l'orrendo drago, ponendosi quindi in salvo, con Medea e gli altri eroi, invano inseguiti dai soldati di Eete, sulla nave che prontamente salpò per il ritorno glorioso. A Iolco Medea continuò a servirsi della magia, e ringiovanì il suocero Esone; e, dando poi a intendere di voler operare il medesimo prodigio con Pelia, lo fece tagliare a pezzi dalle figlie. In seguito a ciò, G. e Medea furono costretti a fuggire a Corinto; dove G. ripudiò Medea per sposare Creusa (secondo altri, Glauce), figlia del re di quella città. Allora Medea, presa da furore, fece morire Creusa e uccise i propri figli sotto gli occhi di G., fuggendo quindi ad Atene (dove avrebbe sposato il re Egeo). Il mito fu tra i più famosi, sia per l'affascinante impresa degli Argonauti sia per la violenta passione di Medea; e ne trattarono numerosi scrittori, poeti e tragediografi.

Tra gli autori noti a D. che parlano di Giasone vanno ricordati - più che Seneca, la cui tragedia Medea non pare aver lasciato traccia (se pure la lesse) nella fantasia dell'Alighieri - soprattutto Ovidio e Stazio. Ovidio dedica un lungo episodio delle Metamorfosi all'impresa degli Argonauti, tratteggiando particolarmente la forte passione di Medea, nel suo sorgere allorché vide per la prima volta l'eroe greco e poi nel suo ardere violento tanto da indurla a tradire il padre e ad abbandonare la patria, e le prove superate da G. con l'aiuto delle arti magiche in cui ella era maestra (Metam. VII 1-424); mentre della volubilità dell'eroe, che illuse Ipsipile e Medea per poi abbandonarle entrambe, parlano due epistole delle Heroides. La figura quanto mai patetica della giovinetta lemnea è ricordata da Stazio in Theb. V 403-485.

D. pone G. tra i seduttori, nella prima bolgia dell'ottavo cerchio (If XVIII 83-96), fors'anche per influsso della fama di fraudolenza che allora gravava sui Greci ma soprattutto per suggestione del passo staziano (ben presente al poeta, che lo cita in Cv III XI 16): mentre infatti Medea è appena nominata (v., per contro, Fiore CLXI 6-14 e CXC 5-8), domina l'episodio la figura delicata e triste di Ipsipile, che si lasciò ingannare con segni e con parole ornate: e tanto più grave appare dunque la frode di cui la fanciulla fu vittima. E tuttavia notevole come in quella schiera di frustati G. conservi una sua dignità e mostri ancora, nonostante tutto, aspetto reale. Il poeta non dimentica ciò che l'eroe seppe operare per cuore e per senno, e perciò, accanto alla condanna piena, totale, dichiarata, non tace quanto di lodevole e di ammirabile fu in quel grande. Nella terza cantica D. nomina ancora l'eroe, per lo stupore che prese gli Argonauti quando lo videro arare (Pd II 16-18): ed è un implicito alludere alla sua mirabile vittoria sui tori di Colco; mentre la navigazione degli Argonauti è celebrata in un verso che è meritamente tra i più famosi e belli della Commedia (Pd XXXIII 96).

Il personaggio di G. occupa un posto rilevante anche nel Fiore dove viene citato tre volte, la prima come protagonista dell'impresa degli Argonauti (Se Mastro Argus che fece la nave, / in che Giason andò per lo tosone..., VIII 2; cfr. Pd II 16-18 e XXXIII 94-96), le altre due (entrambe nel discorso della Vecchia) come il seduttore di Medea: Or che fece Gesona de Medea ? / Che, per gl'incantamenti che sapea, / Ella 'L Seppe di morte guarentire, / e poi sì la lasciò, quel disleale (CLXI 6, per cui cfr. Roman De La Rose 13229 Ss. " Que Refist Jasons De Medee, / Qui si vilment refu boulee... "); Medea, in cui fu tanta sapienza, / non gotte far che Gesone tenesse / per arte nulla ch'ella gli facesse, sì che 'nver lei tornasse la sua 'ntenza (CXC 6; cfr. Roman de la Rose 14404-05 " Onques ne pot tenir Medee / Jasons pour nul enchantement ").

È forse possibile che l'episodio di If XVIII contenga un riferimento tipologico interno all'opera giovanile. Il ricordo del Fiore appare del resto esplicito nelle parole che formulano la condanna di G.: Ivi con segni e con parole ornate / Isifile ingannò, la giovinetta / che prima avea tutte l'altre ingannate (If XVIII 91-93), dove sono riecheggiati analoghi giochi del poemetto, come: Molti buon' uomini i' ho già 'ngannati, / quand'i' gli tenni ne' mie' lacci presi: / ma prima fu"ngannata tanti mesi / che' più de' mie' sollazzi eran passati (CXLIX 1-4) o: La giomenta / che tu ti sai, mi credette ingannare; / ingannar mi credette, i' l'ho 'ngannata! (CLXXIX 7-9), di cui esse sembrano presentare la conversione penale (cfr. anche la voce Fiore).

Quanto alla veste fonetica del nome, il manoscritto del Fiore presenta notevoli oscillazioni, parzialmente livellate dal Parodi. In VIII 2 appare la forma regolare Giason; in CXC 6 appare invece quella Giesono, con metaplasmo di declinazione, la quale sarà da mantenere, non essendo abbastanza motivata la correzione Gesone dell'editore (cfr. nello stesso sonetto CXC, al v. 3, Dida per Dido); infine in CLXI 6 il codice reca l'insolita forma Giesonaio, a proposito della quale il Parodi, in maniera non del tutto persuasiva, commenta: " forse Giesona fu inteso Gesona', come genna', per ‛ gennaio ', e quindi completato " (preferibile forse, anche qui, Giesono). Nelle due ultime forme, la presenza di -e per -a nella sillaba iniziale potrebbe essere dovuta a incrocio paretimologico con Gieso (Fiore XXXIX 4, LIV 5, ecc.).

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