GIGANTI

Enciclopedia Italiana (1933)

GIGANTI (Γίγαντες)

Alessandro OLIVIERI
Goffredo BENDINELLI
Bruno Vignola

Sono nati dalla Terra (Γῆ), dal sangue dell'evirato Urano, e formano un popolo selvaggio, criminale, affine però, sebbene più forte, più duraturo, più maestoso, alla stirpe umana e, come questa, mortale. Lanciano blocchi immensi di roccia e sono armati di corazza e lunga lancia (Omero ed Esiodo). Avversarî implacabili degli dei, vennero in lotta con questi; ma la causa principale della Gigantomachia è attribuita alla madre loro, che li generò appunto perché vendicassero la sorte dei Titani precipitati nel Tartaro. La narrazione del contrasto doveva essere riferita copiosamente e largamente nell'epica, in uno o più poemi oggi perduti. La più compiuta narrazione si trova in Apollodoro (I, 6,1), risale a non prima del sec. III a. C., e deriva da un poema alessandrino, che però dovette attingere da fonti più antiche.

Essa tramanda che "i Giganti erano insuperabili per grandezza di corpo e indomabili per forza, terribili all'aspetto; il loro corpo finiva in forma di serpente. Nacquero, secondo alcuni, in Flegra, secondo altri a Pallene, scagliavano pietre e querce al cielo. Fra tutti loro si distinguevano Porfirione e Alcioneo, il quale era immortale finché avesse combattuto nel paese dove era nato. Agli dei era stato profetizzato che nessuno dei Giganti sarebbe perito per mano di loro, se essi non avessero associato al combattimento un mortale. La Terra cercava un'erba magica per preservare i suoi figli, ma Zeus, dopo aver proibito all'Aurora, al Sole e alla Luna di apparire, recise la pianta, che avrebbe potuto compiere il miracolo, e per mezzo di Atena invitò alla lotta Eracle. Questi scagliò prima di tutto un dardo contro Alcioneo, ma il gigante non poteva morire nella terra dov'era nato, onde Atena lo trasse fuori di Pallene, e così egli fu ucciso. Porfirione mosse contro Eracle ed Hera, invaso, per opera di Zeus, di desiderio d'amore per quest'ultima, ma il dio lo fulminò ed Eracle lo uccise saettandolo. Apollo colpì Efialte con una freccia all'occhio sinistro, Eracle al destro; Dioniso uccise col tirso Eurito; Ecate colpì con le faci Clitio e più contribuì a ucciderlo Efesto, rovesciando su di lui masse metalliche roventi. Atena fece precipitare su Encelado che fuggiva la Sicilia; Polibote, inseguito da Poseidone attraverso il mare, giunse a Coo e il dio, spezzata col tridente la parte dell'isola detta Nisiro, la scagliò su di lui; Ermete, con l'elmo di Ade, uccise Ippolito; Artemide Gratione; le Moire Agrio e Toone; gli altri li uccise Zeus col fulmine, e tutti Eracle colpì con frecce".

In questa narrazione si scorgono elementi di varie tradizioni, di cui due principali; nell'una gli dei combattono e vincono i Giganti; nell'altra vincono, ma con l'aiuto di Eracle. Infatti è importante la notizia che gli dei lottarono da principio da soli, infelicemente, prima che Zeus facesse uscire dal suo capo Atena, la quale assicurò la vittoria. Quindi, in realtà, una tradizione doveva escludere l'intervento di Eracle; però la leggenda che l'eroe prendesse parte al combattimento è antica, ché già in Pindaro egli appare alleato degli dei nella lotta.

Nell'altare di Pergamo i Giganti sono numerosi; tre ancora conservano il nome per intero: Ctonofilo, Erisictone, Octaio. Tzetze (Theog.) fissa il loro numero a 100 e di 34 riferisce il nome. Nel catalogo iginiano compaiono come partecipi della lotta anche i Titani e gli Aloadi Oto ed Efialte; i primi perché non di rado i Giganti sono detti Titani. La famosa lotta di Zeuz con Tifone è da principio immaginata nella Gigantomachia, più tardi ne è disgiunta. Oltre le divinità citate, prendono parte al combattimento anche Afrodite ed Eros. Nell'altare pergameno vediamo anche Cibele, il Cabiro, Leto, Asterie, Anfitrite, Nereo, il Tritone, Temi, Enyo, il Sole, la Luna, l'Aurora e molti altri. Altrove è introdotto nella lotta tutto il tiaso bacchico. I Satiri che accompagnano Dioniso spaventano i loro avversarî con i ragli dei loro asini. Iride raccoglie le divinità delle acque; anche i Mani combattono. Il luogo della battaglia è Flegra o Campi Flegrei, già in Pindaro antico nome della penisola macedonica di Pallene, ma i poeti posteriori estendono la regione dal monte Eta della Tessaglia meridionale sul golfo Maliaco al monte Rodope della Tracia, alle fonti dello Strimone e dell'Ebro nel mare Egeo ed anche più oltre. Più tardi, come il duello con Tifone, la Gigantomachia è trasportata nella Campania, nella contrada di Capua e Nola o in quella di Cuma e Pozzuoli. Non mancano altre ubicazioni, ad es. quella di Bathos in Arcadia, presso Trapezunte.

Nella maggiore e più cospicua parte delle sue manifestazioni, l'arte greca, naturalmente refrattaria alle concezioni plastiche mostruose, dovette rinunziare a conferire ai Giganti una loro personalità, inconfondibile con quella degli dei. La statura superiore all'ordinaria è infatti un carattere comune a dei e a Giganti, e non basta, sui monumenti figurati, a distinguere esattamente gli uni dagli altri. Per cui l'artista, quando può, li indica con espresse denominazioni.

Trattandosi di personaggi mitici di grande audacia e aggressività, al punto di sfidare lo sdegno degli dei, l'arte greca arcaica (almeno sino alla fine del sec. VI a. C.), in tutte le scene di gigantomachia raffigura i Giganti semplicemente in veste di uomini di guerra dalla pesante armatura, cioè di opliti: così sopra un'anfora a figure nere del museo del Louvre, nella quale tuttavia gli stessi dei partecipano dell'identico armamento guerresco. Tali direttive sono comuni alle opere affini della scultura greca arcaica (gruppo di Atena ed Encelado nel frontone dello Hekatompedon sull'Acropoli di Atene; frontone del Tesoro dei Megaresi a Olimpia; fregio ionico del Tesoro degli Cnidî a Delfi, metope di templi di Selinunte). Soltanto Zeus, sopra una pittura vascolare arcaica, è rappresentato combattente contro un essere mostruoso, che ha la parte superiore del corpo umana, le gambe serpentiformi, e ali alle spalle: è Tifeo, il più terribile dei terribili figli della Terra.

I maestri più rappresentativi della pittura greca nella seconda metà del sec. V a. C., quasi certamente sotto l'influsso di Polignoto, riescono a rinnovare, con gli schemi figurativi di tutti gli altri soggetti tradizionali, anche la Gigantomachia. Talvolta ancora i Giganti appariscono rappresentati in costume guerresco (come nella coppa attica di Aristofane ed Erghino nell'Antiquarium di Berlino). Essi però si distinguono ordinariamente per il loro aspetto di uomini, anzi spesso di giovani imberbi, aitanti e muscolosi, dal corpo completamente nudo, con la semplice difesa di una pelle ferina avvolta intorno al braccio, nell'atto d'impugnare armi primitive, e cioè massi rocciosi e fiaccole incendiarie: così in un frammento di vaso attico del museo di Napoli, e nella grande anfora di Milo del museo del Louvre. Tale rammodernata iconografia, probabilmente comune a tutta l'arte greca del sec. IV a. C., si modifica profondamente all'inizio dell'età ellenistica. Non è da escludere però che la trasformazione fosse già avvenuta poco prima del sec. III, non sappiamo per opera di quale artista. Nella Gigantomachia famosa, svolta come un grande fregio continuo intorno al podio del monumentale altare di Zeus in Pergamo (dei primi del sec. II a. C.), le figure dei Giganti in lotta con gli dei risultano modellate secondo uno schema non nuovo, ma che tale sembrava perché certo caduto da secoli in disuso. Ciascuna figura di Gigante combattente apparisce cioè come quella di un mostro con la parte superiore del corpo umano e le gambe serpentiformi svolte in spire sinuose, che terminano con le teste dalle fauci aperte. Più di uno di cotesti Giganti è inoltre provveduto di ali dietro il dorso, nel medesimo schema del citato Tifeo in lotta con Zeus. Tra i due schemi artistici figurativi, quello del sec. VI e quello del II a. C., intercede però la medesima profonda differenza che si riscontra, nelle anatomie e nella tecnica in genere, fra l'arte greca arcaica e l'arte ellenistica.

Il tipo del gigante a gambe serpentiformi, o del Tifone, come si usa chiamarlo, s'incontra in Italia per la prima volta nella pittura di una tomba etrusca, detta appunto del Tifone, a Tarquinia: esso vi appare ripetuto due volte sopra un pilastro centrale, in funzione di Cariatide. Poiché la tomba non può essere anteriore al sec. III a. C., e il tipo iconografico è certamente ricavato dall'arte greca, se ne deve concludere che assai prima degli scultori dell'altare pergameno, altri artisti greci avevano già creato ed erano riusciti a imporre anche in Italia il nuovo tipo, ottenuto da una dotta e sapiente riesumazione di forme plastiche arcaiche.

Gli scultori di Pergamo impongono poi definitivamente il tipo iconografico a tutta la restante arte greca del periodo ellenistico, e all'arte romana. Giganti a gambe serpentiformi sono scolpiti in un fregio di fontana proveniente da Afrodisia di Caria, come su sarcofagi romani, per lo più del sec. II d. C.: talora rappresentati unitamente agli di, discesi sulla terra per combattere con essi, talora soli, concepiti in combattimento con esseri immaginati al di fuori e più in alto del campo scolpito.

I monumenti di arte classica superstiti, illustrati con scene di gigantomachia, raggiungevano, fino a non molti anni or sono, il numero di 279, comprendendo opere statuarie, rilievi in marmo e in bronzo, pitture vascolari, gemme, monete. Una cifra così elevata e ancora suscettibile di aumento, dimostra la popolarità che le figure dei Giganti mitici ebbero a godere dal principio alla fine dell'età classica.

Nella mitologia germanica i giganti si contrappongono agli elfi e agli dei, e rappresentano la personificazione delle forze elementari nemiche. Demoni del freddo e tenebroso inverno, dei ghiacci eterni, delle tempeste e del mare selvaggio, essi sono senza dubbio figurazioni antichissime presso i Germani.

Il mito nordico li fa più antichi degli stessi dei, ché dal primitivo caos esce, come primo essere vivente, il gigante Ymir (v.), padre di una progenitura di giganti e di dei (v. germanici popoli: Mitologia e religione). Perciò sono immaginati sovente come vecchi di secoli e dotati di una particolare conoscenza degli avvenimenti remoti e dei misteri delle origini. Rappresentati sempre di proporzioni straordinarie, ma ottusi di mente e di animo rude e tracotante, belli talora di aspetto, specie le gigantesse, sono, per eccezione, pacifici e benevoli, sebbene terribili nell'ira; in generale, però, sono maligni, avversi e brutali, e portano in tutto il loro essere un carattere fosco e sovvertitore, una mentalità barbara la quale attenta senza posa all'ordinata civiltà degli dei e degli uomini. Secondo le leggende nordiche che ad essi si riferiscono, e che ebbero origine specialmente in Norvegia, anche i giganti hanno, come gli dei e gli elfi, un loro regno particolare, ma generalmente vivono nell'elemento che personificano, nel mare, nel vento, nelle montagne. Tra i giganti che hanno parte importante nei miti settentrionali, sono, oltre a Ymir, Ägir, Mimir, Hrungnir, Geirröd, Thrym, Thjazi, ecc., e, tra le gigantesse, Gerdr, Hyndla, Gefion, Skadi, e altre. Una loro comune denominazione nordica è thurs, voce connessa col sanscrito turas "forte"; al medesimo concetto di forza è probabilmente da riferire l'origine di altri vocaboli usati a indicare genericamente i giganti, cioè l'ant. ted. risi (neotedesco Riese) e il medio ted. hiune: quest'ultimo non ha alcuna affinità col nome degli Unni (medio ted. Hiune), benché sovente confuso con esso fin dall'antichità. Un'altra denominazione nordica è jρtonn, anglosassone eoton, antico sassone etan, che ha forse parentela con l'antico ted. etan "mangiare", e significherebbe pertanto "vorace". Che tale vocabolo possa avere affinità con la parola Etionas, con cui Tacito (Germ., 46) indica gli esseri semifavolosi, mezzi uomini e mezzi fiere, che abitavano, con gli Hellusii, al di là del confine orientale della Germania, è una fra le mille ipotesi della mitografia germanica.

Benché i giganti, al pari degli elfi, rimontino alla più remota antichità pagana, e nel Settentrione concorrano alla form "azione del primitivo mito divino, poche notizie dirette ne abbiamo dalle fonti precristiane: ricchissime invece sono le tradizioni popolari medievali, specie tirolesi, elaborate in fiabe svariatissime e passate per ultimo in numerosi poemi epici e cavallereschi coi personaggi di Sigenot, Ecke, Fasold, Ebenrot, i dodici giganti della saga nibelungica ecc., e nelle quali è facile riconoscere i resti delle antiche figurazioni. (V. tav. L).

Bibl.: Per i giganti nell'età classica v.: M. Mayer, Giganten und Titanen, Berlino 1887; L. Preller e K. Robert, Griechische Mythologie, I, 4ª ed., Berlino 1887, p. 66 segg.; J. Ilberg ed E. Kuhnert, in Roscher, Lexicon d. gr. u. römischen Mythologie, I, ii, coll. 1639-73; Waser, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., suppl. III, coll. 655-759; G. O. Gruppe, Griech. Mythologie, I, Monaco 1906, coll. 655-759. Per le opere qui citate di arte greca arcaica, v. G. Perrot e Ch. Chipiez, Hist. de l'art dans l'Antiquité, VIII, Parigi 1903; per il vaso frammentario di Napoli v. Jahreshefte d. Österr. Arch. Instituts, X, 1907, figg. a p. 83 segg.; per il vaso di Milo, A. Furtwängler-G. Reichhold, Griech. Vasenmalerei, tavv. 96-97, Monaco 1909; per il fregio dell'ara di Pergamo, v. Altertümer von Pergamon, Berlino 1910, III, ii; per la pittura tarquiniese F. Weege, Etruskische Malerei, Halle 1921, tav. 48. Per i giganti nella mitologia germanica, v. C. Weinhold, Die Riesen des germanischen Mythus, Vienna 1858.

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