GIOACCHINO da Fiore

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOACCHINO da Fiore

Raniero Orioli

Nacque a Celico, presso Cosenza, sesto di otto fratelli, tra il 1130 e il 1135 da Gemma e Mauro, tabellio e forse publicus notarius di Sanzio, arcivescovo di Cosenza.

Le notizie sulla vita di G., soprattutto per il periodo che precede la sua più matura attività, sono scarse e presentano non poche difficoltà. Ragguagli autobiografici sono contenuti all'interno delle sue stesse opere, tuttavia in forma estremamente sintetica e non sempre di facile lettura, tanto che si è spesso equivocato su di una sua possibile origine contadina oppure su di una eventuale ascendenza ebraica. Nel primo caso a indurre in equivoco è lo stesso G., il quale, nel rifiutare strenuamente il ruolo di profeta che già i contemporanei tendevano ad attribuirgli, si autodefinisce, per contrapposizione, "homo agricola a iuventute mea"; mentre su una probabile appartenenza all'ebraismo non poco hanno giocato sia il ruolo che egli fa assumere a tale popolo all'interno del suo sistema esegetico sia un non celato disappunto dei cistercensi nei confronti di G. che essi considerarono, mentre era ancora in vita, un transfuga dell'ordine.

Con cautela vanno inoltre accolte le notizie contenute nelle vite che di G. ci sono pervenute. La più attendibile è senz'altro quella di Luca da Cosenza, dal 1202 arcivescovo di Cosenza e che fu suo scriba nel periodo in cui G. risiedette nell'abbazia di Casamari (1183-85), alla quale si aggiunge un'ulteriore biografia scritta prima del 1209 da un anonimo discepolo: sono quindi opere di uomini che lo conobbero, ma esse ci sono tuttavia pervenute soltanto attraverso rifacimenti e interpolazioni del XVI secolo. Per una loro disanima ed edizione critica, si veda H. Grundmann, Zur Biographie Joachims von F. und Rainers von Ponza, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters, XVI (1960), pp. 528-544.

Avviato alla carriera di funzionario nella Cancelleria di Guglielmo I re di Sicilia, dove acquisì una formazione che si rivelò quanto mai proficua negli anni seguenti nei rapporti con le corti e la Curia, nel 1167 si recò in Terrasanta, da dove ritornò animato dal desiderio di rinunciare a quella carriera che il padre aveva previsto per lui. Dapprima si ritirò presso un monastero greco alle pendici dell'Etna e successivamente fu accolto dall'abbazia cistercense di Sambucina (Cosenza). La scelta eremitico-monastica non si configurò tuttavia quale forma di totale rinuncia a vivere nel mondo. Iniziò infatti in questi anni un'attività di predicatore nella valle del Crati, attività che fu legittimata dalla consacrazione a sacerdote di G. da parte del vescovo di Catanzaro.

La scelta monastica si concretizzò ulteriormente nel 1172, quando venne accolto nel monastero di ispirazione cistercense di S. Maria di Corazzo (Catanzaro), che nel 1177 lo elesse abate. In questa nuova veste G. si trovò impegnato su due fronti: nel dicembre 1179 era a Palermo, alla corte di Guglielmo II, per difendere la proprietà di alcuni terreni rivendicati dal monastero e, nello stesso tempo, si adoperava affinché la piccola comunità cui apparteneva fosse affiliata dall'abbazia cistercense di Sambucina. Il rifiuto oppostogli da questa e, successivamente, dalla stessa Casamari, a motivo della povertà in cui versava Corazzo, non impedì a G. di mantenere costanti rapporti con l'Ordine cistercense. Luca da Cosenza racconta infatti che per un anno e mezzo a partire dal gennaio 1183 G. risiedette a Casamari; un soggiorno che risultò essere, se non il periodo più prolifico, certo quello che informò di sé la sua futura attività.

È G. stesso a darcene notizia nella sua Expositio in Apocalypsim, quando narra di due distinte rivelazioni avute nel giorno di Pasqua e, successivamente, in occasione della Pentecoste; rivelazioni grazie alle quali "mi accadde di cogliere con gli occhi della mente qualcosa di una così grande chiarezza d'intelligenza (intelligentiae claritate) a proposito di questo libro dell'Apocalisse e di tutta la concordia dell'Antico e del Nuovo Testamento" (trad. Tagliapietra, 1994, p. 61). Ed è proprio durante la permanenza a Casamari che G. diede inizio alla stesura pressoché contemporanea di tre distinte opere: la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, l'Expositio in Apocalypsim e lo Psalterium decem chordarum.

Il modo di procedere di G. nell'elaborazione delle sue opere rende difficile fissare una loro cronologia certa. Clemente III, con una lettera andata perduta dell'8 giugno 1188, sollecitava G. a proseguire e concludere la stesura dell'Expositio e della Concordia. Nella sua lettera-testamento del 1200 G., nel ribadire l'intenzione di sottoporre ogni suo scritto all'autorità papale, dichiarava che entrambe le opere erano finalmente concluse e nello stesso tempo si apprestava alla stesura del Tractatus super quattuor Evangelia, rimasto incompiuto. Nell'arco dei vent'anni compresi tra il soggiorno a Casamari e la sua morte si registrano "due grandissime opere molto complesse, altre cinque di medie dimensioni e un'intera serie di scritti minori" nonché il Tractatus super quattuor Evangelia, senza escludere, in considerazione che G. quando si trovava a Casamari aveva all'incirca cinquant'anni, "che tra il materiale manoscritto anonimo del XII secolo si possa nascondere un qualche testo uscito dalla penna di Gioacchino durante la prima fase della sua produzione" (Selge, 1990, p. 91). Alla luce della fortuna e dei significati, spesso contraddittori, che nei secoli successivi sono stati attribuiti al pensiero di G., ne consegue come ineludibile la necessità innanzitutto di discernere tra opere autentiche e opere spurie, per poi delle prime determinare con un'approssimazione accettabile sia la datazione, sia un testo critico, tale cioè che risulti purgato da interpolazioni più o meno coeve all'autore. Per quelle spurie invece si presenta un compito più complesso, dal momento che esse, forse ancor più di quelle autentiche, sono all'origine di una distorta risonanza del pensiero gioachimita che ha fatto sì che - come è stato detto - G. sia l'autore italiano su cui più si è scritto dopo Dante Alighieri. Un lavoro di acribia, quindi, che iniziato nella prima metà del Novecento può dirsi concluso, grazie ai contributi di studiosi quali Grundmann, Buonaiuti, Reeves, McGinn e Selge, per citare i più significativi, per quanto attiene la determinazione del canone delle opere di G., nonostante il singolare modus scribendi dell'autore, che sottopose alcune di esse a continui e procrastinanti momenti di scrittura, come testimonia la stessa lettera di papa Clemente III. Ciò spiega il rinnovarsi dell'interesse verso G. e soprattutto l'urgenza ineludibile di approntare un'edizione critica delle sue opere, un'impresa non realizzabile da un solo soggetto (l'esperienza del Grundmann e del Buonaiuti ne sono una riprova), ma che sembra attualmente concretizzarsi grazie allo sforzo congiunto di tre istituzioni: il Centro Internazionale di studi gioachimiti di San Giovanni in Fiore, l'Istituto storico italiano per il Medio Evo di Roma e i Monumenta Germaniae Historica di Monaco di Baviera.

Una delle opere di G. più facilmente databili è il De prophetia ignota, concepita a Veroli nel maggio del 1184, in occasione di una visita dell'abate calabrese a papa Lucio III.

All'origine del lavoro si trova una profezia, altrimenti nota come Sibilla Samia, rinvenuta tra le carte del defunto cardinale Matteo d'Angers, i cui toni drammatici dovevano aver provocato non pochi timori nell'ambiente curiale. Richiesto di fornirne una interpretazione, G., pur disinteressato per principio nei confronti di testi che non fossero scritturistici, applica e essa lo stesso criterio esegetico che utilizza per tali testi, ricorrendo all'analogia tra le sette tribolazioni di cui furono vittime gli Ebrei nel Vecchio Testamento alle altrettante persecuzioni di cui egli vede oggetto la Chiesa. In particolare egli intravede nel conflitto in corso tra Papato e Impero l'approssimarsi della quinta tribolazione e preconizza per il prossimo futuro, in parallelo con la quinta tribolazione veterotestamentaria che si risolse nella cattività babilonese, la necessità per la Chiesa di non opporsi al potere temporale, anzi di subirlo come fatto necessario e necessitato.

Abbandonata l'ipotesi che vuole il De prophetia ignota una sorta di ballon d'essai proposto da Lucio III a G. prima di concedergli la licentia scribendi, appare certo che con quest'opera G. si rivelava abile esegeta, in grado di porsi in singolare assonanza con la linea politica adottata dallo stesso pontefice, alieno da azioni di forza come dimostra il tentativo, sia pur abortito, di pervenire nello stesso anno a un accordo con Federico I Barbarossa. È indubbio che G. con la sua singolare capacità esegetica ottenne un significativo apprezzamento che non venne meno anche quando salì al soglio pontificio Urbano III, la cui politica sembrava indirizzarsi su posizioni ben più intransigenti di quelle del suo predecessore. Infatti, nonostante il mutato clima, Urbano nel 1186 accolse a Verona G. che, lasciata Casamari nel 1185, era ritornato dapprima a Corazzo per poi recarsi l'anno successivo nella città veneta per rendere omaggio al nuovo pontefice; questi, come il suo predecessore, sollecitò G. a continuare nel suo lavoro di esegeta.

Nonostante a Verona si fosse giunti a un accordo di comune lotta contro gli eretici e di indizione di una crociata in Terrasanta, G. dovette chiaramente avvertire che la tregua non avrebbe retto alla distanza, anche perché il matrimonio del figlio del Barbarossa, Enrico, con l'erede di Guglielmo II di Sicilia, Costanza d'Altavilla, alla morte del re avrebbe senz'altro riproposto il conflitto, temporaneamente accantonato, tra il Papato, che rivendicava le proprie prerogative feudali sul Regno siciliano, e le mire espansionistiche della casata sveva. G. non poteva certamente aver previsto quanto sarebbe accaduto di lì a qualche anno; tuttavia la pesante atmosfera di diffidenza avvertita in occasione della sua permanenza a Verona, lo indusse a una sorta di accentuazione delle posizioni già presenti nel De prophetia ignota in merito all'approssimarsi di un periodo di grandi tribolazioni per la Chiesa.

Al suo ritorno G., con alcuni seguaci, tra cui Rainero da Ponza, decise di lasciare Corazzo e si ritirò nell'eremo di Petra Lata. In questo periodo, pur continuando a lavorare alle opere intraprese a Casamari, compose il De vita sancti Benedicti et de officio divino secundum eius doctrinam, opera nella quale l'esaltazione di Benedetto funge da contraltare a un monachesimo che nelle sue forme ormai consolidate G. riteneva inadeguato ad affrontare i turbamenti che si annunciavano per la Cristianità.

Sordo ai richiami che gli giungevano da Corazzo, nel 1188 si recò a Roma dal pontefice Clemente III, il quale da una parte gli rinnovò la stima già accordatagli dai predecessori, dall'altra lo assecondò nelle sue istanze di maggior severità, liberandolo dagli obblighi abbaziali e disponendo affinché Corazzo fosse finalmente affiliato a un'abbazia maggiore, quella cistercense di Fossanova.

Forte di siffatto appoggio G. ritornò in Calabria e sull'altipiano della Sila andò alla ricerca di un luogo idoneo alla comunità che aveva aggregato intorno a sé, primo nucleo di un nuovo ordine che egli intendeva fondare. Grazie alle generose elargizioni di Tancredi d'Altavilla, nel 1190 realizzò questo suo disegno, fondando il monastero di S. Giovanni in Fiore, che divenne la sua sede permanente.

Le cure per il nuovo monastero, significativamente dedicato a s. Giovanni Evangelista, emblema della vita contemplativa, non gli impedirono di continuare a mantenere rapporti con i grandi del tempo. Nel 1191 infatti egli si recò dapprima a Messina e poi alla corte di Enrico VI, impegnato nell'assedio di Napoli, che pur consapevole del giudizio sostanzialmente negativo espresso da G. nei confronti dell'Impero - giudizio rinnovato in un'altra composizione dello stesso anno 1191, l'Intelligentia super calathis -, tuttavia non gli lesinò il suo favore.

La scelta di S. Giovanni in Fiore non poteva giungere gradita all'Ordine cistercense; ne è prova l'incontro, divenuto leggendario, che nel 1190 ci sarebbe stato tra G. e Riccardo Cuor di Leone, re d'Inghilterra, in procinto di imbarcarsi per la crociata. In tale occasione G. avrebbe spiegato al monarca inglese il significato del drago a sette teste dell'Apocalisse, preconizzando a un tempo l'avvento dell'Anticristo nella figura di un pontefice. A rendere fortemente sospetta l'attendibilità di siffatto incontro concorrono sia la costante cura di G. di sottomettere ogni suo scritto all'approvazione pontificia sia il fatto che a narrarcelo siano tre cronisti inglesi - Benedetto di Peterborough, Ruggero di Haveden e Rodolfo di Coggeshall - significativamente cistercensi, come cistercense era quel Goffredo d'Auxerre, già segretario di Bernardo di Chiaravalle, cui si deve la leggenda dell'origine ebraica di Gioacchino.

L'ordine tuttavia aveva già provato a reagire in maniera più diretta nei confronti di G. e Rainero da Ponza intimando loro, nel capitolo generale del settembre 1192, di rientrare a Corazzo entro un anno, pena la qualifica di fugitivi. Ma la scelta di G. era ormai definitiva, forte anche della benevolenza che negli anni immediatamente successivi gli dimostrarono sia Enrico VI, sia Costanza d'Altavilla, che lo volle il venerdì santo del 1196 quale suo confessore a Palermo e che col marito garantì con munifiche donazioni la sopravvivenza di S. Giovanni in Fiore, sia il pontefice Celestino III, che il 25 agosto dello stesso anno approvò la regola della nuova comunità monastica. Un favore che venne ulteriormente confermato dalla stessa autorità religiosa ordinaria: nel 1201 infatti l'arcivescovo di Cosenza Andrea donò a G. una chiesa vicino a Canale (Pietrafitta, presso Cosenza), dove l'abate diede inizio alla costruzione dell'eremo di S. Martino in Giove.

Mentre sovrintendeva ai lavori, la morte lo colse il 30 marzo 1202 e il suo corpo fu successivamente traslato in S. Giovanni in Fiore.

La scomparsa di G. non segnò tuttavia la fine della sua influenza nel pensiero occidentale, anche se rimase vittima di un paradosso che lo volle "profeta" nonostante egli avesse costantemente rifiutato per sé siffatto appellativo. Non v'è dubbio che la sicurezza esegetica dimostrata nel "rileggere" la storia, unita tuttavia a una sorta di indeterminatezza nel presagire i possibili sviluppi futuri, abbiano giocato a favore di coloro che presunsero di determinare ciò che G., in piena coerenza col proprio pensiero, aveva volutamente lasciato nebuloso. D'altra parte, in alcune circostanze il suo comportamento sembrò legittimare effettivamente la nomea di profeta. Basti pensare all'invito che egli fece a Enrico VI, durante l'assedio di Napoli del 1191, a non infierire sulla popolazione perché comunque il Regno di Sicilia sarebbe entrato in suo possesso senza colpo ferire, il che puntualmente si avverò. Enrico, memore e riconoscente, non cessò di gratificare G. e volle proporsi quale protettore del nuovo Ordine florense. Ma se questo può in qualche modo dare ragione di una distorsione del pensiero gioachimita presso i suoi contemporanei, resta comunque prioritaria la necessità di ritornare sulle sue opere per comprenderne il reale portato, sia per ciò che di veramente innovativo - o, più correttamente, di singolare - contengono rispetto all'imperante clima culturale del tempo, sia per ciò che invece appare per certi versi conforme a una tradizione che sa più di recupero di antichi stilemi.

G. stesso riconduce alle due visioni del 1183 il momento informante di tutta la sua produzione letteraria relativa al mistero della Trinità. Dalla meditazione sui Salmi, in un momento di grave sconforto e dubbio, nasce "quell'intuizione geometrica del rapporto di unità della sostanza e della trinità delle persone", grazie alla quale G. perviene alla "nuova percezione dell'unità della sostanza o essenza divina, che non esiste separata per sé ma nella triade delle persone, eterna ed al tempo stesso storica" (Selge, 1991, p. 91). La Trinità nella sua unità e nella distinzione delle tre persone viene colta come operante nella storia e informante di sé le varie età storiche, secondo un piano di geometrie parallele che consente di "leggere" le vicende dell'età cristiana, l'età del Figlio, passata e presente, in costante parallelismo con quella del popolo ebraico del Vecchio Testamento, l'età del Padre. Ed è in siffatta corrispondenza che G. viene a legittimare l'avvento di una terza età, quella dello Spirito Santo, intuibile, per il parallelismo supposto, nei suoi possibili contenuti. Operando in siffatta maniera G. rompe con gli schemi della teologia e della escatologia agostiniane che imperavano al momento, secondo le quali dopo la venuta di Cristo il mondo ormai senescente era di fatto proiettato verso la futura fine dei tempi, per inserire invece, prima delle tribolazioni e dell'avvento dell'Anticristo quali preannunciate nell'Apocalisse, un periodo - mai da G. determinato né nel suo inizio né nella sua durata - in cui sarà reso possibile da una parte il conseguimento della pienezza della storia (plenitudo historiae), dall'altra la piena comprensione delle Sacre Scritture o, meglio, del mistero della Trinità che attraverso la Bibbia si è manifestata e inverata nella storia. L'intuizione o illuminazione di cui G. dice di essere stato oggetto a Casamari - ma potrebbe risultare un tòpos fuorviante e riduttivo darne una lettura prettamente letterale - consiste non nel rifiuto dei tradizionali strumenti esegetici, ma nell'acquisizione di quella che egli chiama intelligentia (o intellectus) spiritalis (o spiritualis) che consente di cogliere la pienezza del significato delle Sacre Scritture. G. non rigetta le interpretazioni letterali, allegoriche, anagogiche, morali, proprie della tradizionale esegesi cristiana, anzi se ne avvale a sua volta con piena padronanza. Tuttavia le ritiene se non inadeguate certo insufficienti: altrettanti momenti o gradi di conoscenza che tuttavia non esauriscono e non possono esaurire la conoscenza. Esse costituiscono una sorta di progressioni ascendenti verso quell'intellectus che sarà invece patrimonio informante dell'età dello Spirito. Tale intellectus o intelligentia non è mai inteso come puro strumento conoscitivo, ma come "condizione" (status), cioè come patrimonio informante di sé un'intera età, che, a sua volta, per le analogie e i parallelismi con le età che la precedono, sarà caratterizzata da resistenze, persecuzioni e lotta da parte del Nemico, sempre pronto a frapporre ostacoli al raggiungimento da parte dei fedeli di siffatta intelligentia spiritalis.

Si muovono e sono riconducibili a siffatta "lettura" del testo biblico quasi tutte le opere di G., soprattutto di quelle considerate maggiori, quali l'Expositio in Apocalypsim, la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, lo Psalterium decem chordarum, il Tractatus super quattuor Evangelia ma anche le minori quali l'Adversus Iudaeos e il De ultimis tribulationibus.

La Concordia… è il primo lavoro della trilogia dedicata al mistero trinitario; consta di cinque libri di cui i primi quattro sono una sorta di introduzione alla teoria esegetica di G., mentre il quinto è un commentario sui libri storici del Vecchio Testamento. G. vi ripercorre la generalis historia del racconto biblico a partire dai patriarchi fino alla cattività babilonese per concludere drammaticamente, rilevando la connessione e specularità della vicenda ebraica con la realtà contemporanea.

L'Expositio in Apocalypsim è invece dedicata alla persona del Figlio, così come la Concordia lo era al Padre, e consta di otto libri più un ulteriore liber introductorius. È forse l'opera che ha maggiormente segnato la "fortuna" di G. e che risulta strettamente correlata ad altre opere minori che le sono preparatorie o corollario. L'Apocalisse viene interpretata come una visione che suddivide la storia della Chiesa in sette periodi, così come sette sono le parti che la compongono, cui si aggiunge un'ottava parte "che corrisponde alla glorificazione metastorica della Gerusalemme Celeste" (Tagliapietra, 1994, p. 80). Ma soprattutto ciò che più di innovativo presenta quest'opera è l'aver inteso l'Apocalisse non come espressione profetica del momento finale della storia umana, ma come "racconto" della storia passata, presente e futura della Chiesa, tale da far apparire il corpus letterario di G. non solo "un unico e vasto commento alla Scrittura, bensì anche una imponente teologia della storia paragonabile come portata e come sistematicità al De civitate Dei di Agostino" (McGinn, 1985, pp. 171 s.).

Conclude la trilogia dedicata alla Trinità lo Psalterium decem chordarum, incentrato sulla figura dello Spirito Santo. Il titolo deriva dallo strumento biblico - a dodici corde - di forma triangolare in cui il vertice del triangolo isoscele è occupato dal Padre mentre i due lati uguali sono la rappresentazione del Figlio e dello Spirito Santo. È G. stesso a fornircene la chiave di lettura: "Quest'opera è divisa in tre libri perché tre sono le persone della divinità, in cui risiede la bellezza della nostra fede […] vale a dire, il primo libro, in cui tratto dello strumento musicale che, con grande proprietà simbolica, si attribuisce al Padre, da cui tutto proviene. Il secondo in cui si tratta del numero dei Salmi della sapienza divina per cui tutto passa. Il terzo in cui si tratta del ritmo del canto dei Salmi e dell'istruzione dei cantanti per la stessa sacra unzione, in cui tutto risiede e che - quando v'è la gioia interiore e l'esultanza del Sommo Dio - riempie di sacri doni coloro che rende lieti e gioiosi" (Tagliapietra, 1994, pp. 84 s. dell'introduzione).

Incompiuto invece è rimasto il Tractatus super quattuor Evangelia. Redatta tra il 1200 e il 1202, quest'opera è considerata la più radicale di G. proprio perché in essa viene portato alle estreme conseguenze il sistema esegetico gioachiniano. I quattro Vangeli sono infatti considerati in stretta connessione tra loro e in aperta concordanza, anche quando sembrano contraddirsi. Ma soprattutto il vero tema del trattato sono le storie intrecciate degli Ebrei, Greci e Latini, tre popoli che G. confida possano ricongiungersi nella comune fede, nonché la contrapposizione tra la vita monastica e la vita del clero secolare, riservando alla prima il compito di guidare la Cristianità a quella pienezza di vita che sarà il traguardo ultimo dell'età dello Spirito.

Una valenza a sé stante caratterizza infine il Liber figurarum, che, anche se non totalmente ascrivibile a G., fu senz'altro da lui ispirato nello scriptorium di S. Giovanni in Fiore. Quest'opera si rivela particolarmente significativa non tanto o non solo per il contenuto, quanto per la sua stessa natura di tentativo di esprimere iconograficamente concetti, simbologie e allegorie presenti nelle opere più propriamente letterarie, che - è opportuno ricordarlo - non si prestano a una facile lettura. Il tentativo di rappresentare graficamente ciò che ha acquisito con l'esegesi, induce e un tempo G. a meglio o più compiutamente caratterizzare quanto elaborato e nello stesso tempo a rivederne, esplicitarne e definirne nella costrizione della tavola i contenuti stessi. Questo fa sì che a sua volta la lettura ne risulti più complessa e controversa di quanto sarebbe lecito attendersi da una serie di immagini; così come la complessità e cripticità di alcuni passi se non legittimano, certo giustificano non tanto le divergenze che permangono tra i moderni lettori quanto piuttosto il fraintendimento che spesso si è avuto del pensiero gioachimita e, paradossalmente, la indubbia, anche se contraddittoria, "fortuna" del pensiero di Gioacchino.

L'aver da una parte posto la Bibbia in posizione centrale ed esclusiva del proprio lavoro esegetico e nello stesso tempo l'aver rifiutato la visione agostiniana di un mondo avviato alla consunzione, introducendo l'età dello Spirito, ha fatto sì che G. venisse accusato di aver sostanzialmente negato tutta la tradizione cristocentrica, cioè di un Nuovo Testamento che conclude ed esplicita il messaggio insito nel Vecchio, posticipando di fatto a un altro momento la plenitudo historiae. L'aver poi quasi assimilato la storia biblica alla storia dell'agire della Trinità nel temporale in aperta polemica con Pietro Lombardo, da G. accusato di essersi fatto sostenitore di una Quaternità astratta e avulsa dal fatto storico, gli alienarono le simpatie della emergente scolastica, gli attirarono, nel 1215, i fulmini di una condanna della sua teoria trinitaria da parte del IV concilio Lateranense e determinarono la successiva ostilità di un Tommaso d'Aquino.

La supposta negazione del cristocentrismo portò a sua volta, nella seconda metà del XIV secolo, Gerardo da Borgo San Donnino a ipotizzare la necessità di una sorta di ulteriore Testamento, un evangelium aeternum, peculiare dell'età dello Spirito Santo, che egli individuò nelle stesse opere di G. e che gli sarebbe costata la dura condanna e l'allontanamento dall'Ordine francescano.

Infine, il parallelismo tra Antico e Nuovo Testamento associato alla tesi che guida e simbolo della nuova età sarà l'ordomonachorum, o due non meglio precisati ordines, ha portato alcune frange francescane, più o meno ortodosse, ad appropriarsi di siffatto ruolo nonché a far risalire, se non ad attribuire, a G. la credenza che il 1260 sarebbe stato l'anno di inizio della profetizzata età dello Spirito.

Tali processi esegetici, assolutamente estranei a G., sono all'origine di una letteratura più o meno apocalittico-escatologica, che paradossalmente ha decretato la fortuna di un G. che nulla aveva a che vedere con il G. storico. G. è stato infatti spesso citato e a lui hanno detto d'ispirarsi, spesso per ragioni di segno opposto, diverse correnti di pensiero: lo ammirarono George Sand nel racconto Spiridion e William Butler Yeats nelle Tables of law; in tempi più recenti N. Cohn (The pursuit of the millennium, 2a ed., New York 1961, pp. 111-113) lo ha visto ispiratore di Hitler, mentre E. Bloch (Das Prinzip Hoffnung, I-III, Berlin 1954-59), lo considera quasi un Marx prima di Marx.

Opere: Oltre a rinviare alla "voce" Ioachim abbas de Flore, non firmata ma scritta da K.-V. Selge per il Repertorium fontium historiae Medii Aevi, VI, Romae 1990, pp. 261-266, si segnalano qui di seguito le principali edizioni e traduzioni moderne. Tractatus super quattuor evangelia, a cura di E. Buonaiuti, in Fonti per la storia d'Italia [Medioevo], LXVII, Roma 1930; De articulis fidei, a cura dello stesso, in Scritti minori di Gioacchino da Fiore, ibid., LXXVIII, ibid. 1936; C. Baraut, Un tratado inédito de Ioaquín de Flore: De vita sancti Benedicti et de officio divino secundum eius doctrinam, in Analecta sacra Tarraconensia, XXIV (1951), pp. 42-118; B. Hirsch-Reich - M. Reeves, The seven seals in the writings of Joachim of F., with special reference to the tract De septem sigillis, in Recherches de théologie ancienne et médiévale, XXI (1954), pp. 211-247 (edizione del De septem sigillis); Adversus Iudeos, a cura di A. Frugoni, in Fonti per la storia d'Italia [Medioevo], XCV, Roma 1957; B. McGinn, Ioachim and the Sibyl, in Cîteaux. Commentarii Cistercenses, XXIV (1973), pp. 128-138 (edizione del De prophetia ignota); Liber de concordia Novi ac Veteris Testamenti, a cura di E.R. Daniel, Philadelphia 1983; Enchiridion super Apocalypsim, a cura di E.K. Burger, Toronto 1986; P. De Leo, G. da F. Aspetti inediti della vita e delle opere, Soveria Mannelli 1988, con le edizioni dei Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum (pp. 67-123), Intelligentia super calathis (pp. 135-148), Sermo de Maria Magdalena et Maria sorore Lazari (pp. 157-163), Professio fidei (pp. 173-175); L. Tondelli - M. Reeves - B. Hirsch-Reich, Il Libro delle figure dell'abate G. da F., presentazione di R. Rusconi, Torino 1990; K.-V. Selge, De ultimis tribulationibus, in Florensia, VII (1993), pp. 7-35; Sull'Apocalisse, trad. italiana a cura di A. Tagliapietra, Milano 1994; Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum, a cura di G.L. Potestà, in Fonti per la storia dell'Italia medievale, Antiquitates, IV, Roma 1995; M. Kaup, De prophetia ignota. Eine frühe Schrift Joachims von F., in Monumenta Germaniae Historica. Studien und Texte, XIX, Hannoverae 1998 (trad. it. Commento a una profezia ignota, a cura di G.L. Potestà - M. Lanfranchi, Roma 1999); Agli ebrei, trad. it. a cura di M. Iritano, Catanzaro 1998; Trattati sui quattro Vangeli, trad. it. a cura di L. Pellegrini, Roma 1999.

Si segnala infine la recente riproduzione in facsimile del manoscritto 322 della Biblioteca Antoniana di Padova, che, prodotto nello scriptorium florense, contiene la maggior parte delle opere di G.: Scriptorium Ioachim abatis Florensis: opere di Gioacchino da Fiore nel codice 322 della Biblioteca Antoniana di Padova, Bari 1997.

Fonti e Bibl.: Non è possibile presentare una rassegna bibliografica degli autori che hanno dedicato la loro attenzione a G. e ai movimenti che al suo pensiero si sono richiamati nel corso dei secoli XIII-XX. Per quanto riguarda la letteratura storiografica si rinvia alle rassegne di F. Russo, Bibliografia gioachimitica, Firenze 1954; Id., Rass. bibliografica gioachimita (1957-1967), in Cîteaux. Commentarii Cistercenses, XIX (1968), pp. 206-214; V. De Fraja, G. da F.: bibliografia 1969-1988, in Florensia. Bollettino del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, II (1988), pp. 7-59, nonché ai lavori che seguono, che aggiornano le predette rassegne o che rivestono particolare rilevanza per la conoscenza di G.: H. Grundmann, Studien über Joachim von Floris, Leipzig 1927 (trad. it. a cura di G.L. Potestà: Studi su G. da F., Genova 1989); B. Töpfer, Das kommende Reich des Friedens. Zur Entwicklung chiliastischer Zukunftshoffnungen imHochmittelalter, Berlin 1964; M. Reeves, The influence of prophecy in the later Middle Ages. A study in Joachimism, Oxford 1969; M. Reeves - B. Hirsch-Reich, The "Figurae" of Joachim of Fiore. A study in Joachimism, Oxford 1972; M.W. Bloomfield, Recent scholarship on Joachim of F. and his influence, in Prophecy and Millenarism. Essays in honour of Marjorie Reeves, Horlow 1980, pp. 21-52; B. McGinn, Symbolism in the thought of Joachim of F., ibid., pp. 143-164; D.C. West - S. Zindar Swartz, Joachim of Fiore. A study in spiritual perception and history, Bloomington 1983; B. McGinn, The Calabrian abbot. Joachim of F. in the history of Western thought, New York-London 1985; V. De Fraja, Un'antologia gioachimita: il manoscritto 322 della Biblioteca Antoniana di Padova, in Studi medievali, s. 3, XXXII (1991), pp. 231-258; K.-V. Selge, L'origine delle opere di G. da F., in L'attesa delle fine dei tempi nel Medioevo, a cura di O. Capitani - J. Miethke, Bologna 1990, pp. 87-131; R.E. Lerner, Refrigerio dei santi. G. da F. el'escatologia medievale, Roma 1995; H. Grundmann, G. da Fiore. Vita e opere, a cura di G.L. Potestà, Roma 1997 (ripubblica in trad. italiana i saggi Neue Forschungen über Joachim von F., 1950; Zur Biographie Joachims von F. und Rainers von Ponza, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters, 1960; Kirchenfreheit und Kaisermacht um 1190. In der Sicht Joachims von F., ibid., 1963); Medioevo latino, I (1980) e successivi ad indicess.v. Ioachim de Flore.

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