GIOACCHINO NAPOLEONE Murat, re di Napoli

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOACCHINO NAPOLEONE Murat, re di Napoli

Silvio de Majo

Joachim nacque il 25 marzo 1767 a Labastide-Fortunière (ora Labastide Murat) nel Quercy, sesto figlio di Pierre e di Jeanne Loubières, proprietari d'una locanda. Dopo gli studi nel Collegio reale di St-Michel, nel capoluogo regionale di Cahors, nell'estate 1785 i genitori lo inviarono nel seminario dei lazzaristi a Tolosa, dove rimase di malavoglia per circa un anno e mezzo, distinguendosi piuttosto per le letture profane, la passione per il gioco e le avventure galanti. Nel febbraio 1787 si arruolò nel 6° reggimento dei Cacciatori a cavallo delle Ardenne, di stanza a Carcassonne, dove poté mettere a frutto le doti naturali di cavallerizzo e il suo ardimento, anche se per allora solo a livello di addestramento, divenendo in poco tempo maresciallo d'alloggio. Nel 1789 si segnalò nel reggimento, passato nell'estremo Nord della Francia, come vicino alle idee rivoluzionarie; fu tra i protagonisti dell'insubordinazione nei confronti d'un ufficiale, cosicché fu prima arrestato, poi degradato e congedato. Tornato a casa, G. lavorò come garzone in una drogheria e contemporaneamente frequentò gli ambienti giacobini di Cahors; nel luglio 1790 fu designato a rappresentare il suo cantone (Montfaucon) alla grande adunanza di Parigi nel primo anniversario della presa della Bastiglia.

Agli inizi del 1792, sempre su delega del Cantone e con l'appoggio del corregionale J.-B. Cavaignac, membro dell'Assemblea legislativa, entrò nella guardia costituzionale assegnata alla protezione di Luigi XVI dopo il suo tentativo di fuga. Accortosi però dell'orientamento realista di questo corpo, nel marzo, dopo solo tre settimane, rinunciò all'incarico e denunciò una congiura antirivoluzionaria del comandante. Grazie a questa dimostrazione di patriottismo G. poté rientrare nel vecchio reggimento e riprendere l'interrotta carriera militare: nell'aprile fu nominato brigadiere, in maggio maresciallo d'alloggio, poi sottotenente e quindi tenente. Nell'aprile 1793 il suo comandante, J.-F.-J.-B. d'Urre de Molans, promosso generale di brigata, lo nominò suo aiutante di campo e gli conferì i galloni di capitano.

La carriera di G. fu evidentemente favorita dalla guerra che dall'aprile 1792 oppose la Francia alle potenze della prima coalizione, dato che il suo reggimento operò nella zona degli scontri. Dopo essersi difeso dall'accusa di appartenere a una famiglia nobile (i Murat d'Alvernia), nell'aprile 1793, poco dopo la promozione a capitano, fu inserito nel reggimento di irregolari a cavallo di J.-J. Landrieux, divenendone il comandante in seconda col grado di caposquadrone. Con i suoi trecento straccioni, a cui riuscì a dare disciplina e addestramento militare, si batté valorosamente a Pont-à-Marque e contribuì alla conquista di Lilla. Oltre che acceso giacobino, Landrieux era anche un avventuriero corrotto, che per denaro sottraeva alla ghigliottina i nemici della Rivoluzione; G. lo denunciò, facendolo arrestare, ma per gli attacchi dell'avversario e dei suoi amici, che riaprirono la questione delle sue origini nobili, per alcune settimane dovette alterare il proprio cognome, firmandosi Marat. Il 17 maggio 1794 "la lunga e confusa guerra di denuncie e controdenuncie" (Mazzucchelli, p. 25) portò all'arresto anche di G., che fu rinchiuso nel carcere di Amiens; la sua situazione si aggravò qualche mese dopo con il colpo di Stato del 9 termidoro (27 luglio), che segnava la fine della Repubblica giacobina e di Robespierre. Nella mutata situazione politica giocava in modo negativo il provvisorio cambio di cognome, che denotava un acceso giacobinismo, ma infine per l'interessamento di alcuni membri della Convenzione fu scarcerato e reintegrato nel grado.

Nel 1795 alcuni episodi parigini nei quali fu coinvolto ne misero in luce il coraggio e la fedeltà al nuovo governo. Nel maggio, mentre si trovava nei pressi di Parigi, P. Barras lo chiamò a fronteggiare i sanculotti in rivolta, e il suo arrivo fulmineo fu decisivo per il salvataggio della Convenzione. All'inizio di ottobre coadiuvò Napoleone Bonaparte nella repressione della rivolta realista contro la costituzione dell'anno III, che dava grandi poteri al Direttorio; fece giungere in poco tempo alle Tuileries assediate alcuni cannoni, forse impiegati dal generale corso nella giornata del 13 vendemmiaio (5 ottobre). Nel febbraio 1796, per effetto di questa azione e delle sue richieste, G. ebbe la nomina a colonnello e fu destinato all'esercito del Bonaparte per la campagna d'Italia, come aiutante di campo dello stato maggiore.

Nella prima campagna napoleonica (marzo 1796 - aprile 1797) poté dimostrare le proprie notevoli doti - grande audacia, immediatezza nelle decisioni, oratoria accesa, ascendente sui soldati - e iniziò a concretare le proprie ambizioni di rapida ascesa ai massimi vertici militari. Diede un importante apporto a due delle quattro vittorie dell'aprile 1796 in Piemonte contro Austriaci e Piemontesi: a Dego e in particolar modo a Mondovì, dove prese il comando della cavalleria dopo la morte del comandante e la guidò vittoriosamente alla carica. Conquistò così la stima del Bonaparte, che lo promosse sul campo generale di brigata e dopo l'armistizio di Cherasco con il Piemonte (28 aprile) lo inviò a Parigi per la ratifica dell'accordo. Tornato in Italia circa un mese dopo, quando tutta la Lombardia, salvo Mantova, era conquistata, G. fu impiegato nelle operazioni come comandante delle avanguardie di cavalleria. Non è noto in quale misura partecipasse alle battaglie di questa fase della campagna: fu però sicuramente tra i protagonisti della vittoria contro gli Austro-Napoletani a Valeggio sul Mincio e Borghetto (30 maggio 1796), nelle battaglie di Bassano del Grappa (8 settembre) e Rivoli (14-15 genn. 1797), in alcuni scontri nella zona di Gorizia (seconda metà di marzo), dove ebbe la meglio con furiose cariche di cavalleria.

Dopo la firma dei preliminari di pace di Leoben (18 apr. 1797) fu a Milano col Bonaparte nel castello di Mombello, dove il generale teneva corte con tutta la famiglia; qui iniziò a corteggiare Carolina, sorella appena quindicenne del futuro imperatore. Nei mesi successivi svolse due importanti missioni politico-militari al comando di colonne dell'esercito. Fu prima in Valtellina, dove in maggio le popolazioni locali si erano ribellate al Cantone svizzero dei Grigioni, a cui erano sottoposte da secoli; grazie alla sua mediazione nell'ottobre la Valtellina fu inclusa nella Repubblica Cisalpina. Nel febbraio 1798 partecipò alla spedizione francese contro lo Stato della Chiesa conquistando Castel Gandolfo e Albano.

Tra il maggio 1798 e l'agosto 1799 G. prese parte alla spedizione in Egitto, ideata dal Bonaparte per sfidare il predominio coloniale dell'Inghilterra in Oriente. L'iniziativa non ebbe un esito felice, ma G. confermò le proprie capacità di comandante impavido e di stratega, all'inizio partecipando attivamente, pur senza un ruolo di comando, alla presa di Alessandria (2 luglio 1798), poi comandando una riserva di 2600 uomini alle battaglie di Chebreis e delle Piramidi e alla presa del Cairo. Suoi interventi furono decisivi nelle vittorie di Kanqah e Salahieh. Nel settembre guidò con successo una spedizione contro i predoni del deserto a Dondah, e un mese dopo conquistò la cittadina costiera di Damanhur con un attacco alla baionetta che guidò personalmente. Nella successiva occupazione francese della Palestina e della Siria (febbraio-maggio 1799) G., al comando di 900 cavalieri, si distinse nella presa di Giaffa (7 marzo) e, in aprile, in altre azioni nella regione. Nel luglio, dopo il ritorno in Egitto, i Francesi dovettero affrontare un massiccio attacco turco ad Abukir, dove un anno prima H. Nelson aveva distrutto gran parte della loro flotta: G. ebbe un ruolo decisivo nella vittoria, riuscendo prima a piazzare le sue truppe, con alcuni cannoni, alle spalle del nemico che assediava la cittadina, provocandogli perdite considerevoli, e poi guidando una carica di 600 cavalli contro l'accampamento turco. Nel duello diretto col comandante nemico riportò una lieve ferita di pistola alla mascella. Per questo comportamento il Bonaparte lo promosse sul campo generale di divisione (25 luglio 1799) e lo incluse nel piccolo seguito che portò con sé dall'Egitto e che lo sostenne nella lotta contro il Direttorio sfociata nel colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre); G. comandò i granatieri che sciolsero l'Assemblea dei cinquecento, consentendo a Napoleone di proclamarsi primo console. Nominato comandante della neoistituita guardia dei consoli, all'inizio del 1800 entrò nella potente famiglia, sposando il 20 gennaio a Mortefontaine con rito civile Carolina Bonaparte (il rito religioso fu celebrato il 7 genn. 1802).

La sua ascesa ai massimi vertici militari si profilava ormai inarrestabile, anche se la sua ambizione non fu mai del tutto appagata. Nell'aprile 1800, in vista d'una seconda campagna d'Italia, fu nominato luogotenente generale e comandante della cavalleria di 6000 effettivi. Ancora una volta la sua partecipazione fu incisiva: il 27 maggio occupò Vercelli e il 29 Novara; il 2 giugno precedette di qualche ora il primo console a Milano; il 14 comandò la cavalleria nella battaglia di Marengo, vinta dai Francesi con forze assai inferiori proprio grazie al valore e agli assalti delle sue truppe. Dopo alcuni mesi di pausa, trascorsi tra la bella vita di Parigi e le esercitazioni militari, G. partecipò alla seconda fase della campagna (conclusa dalla pace di Lunéville del 9 febbr. 1801), in appoggio all'armata comandata da G.-M.-A. Brune. A metà gennaio marciò contro i Napoletani nello Stato pontificio (Ancona) e in Toscana, arrivando a Foligno. Firmato un armistizio con Napoli (febbraio 1801), uscì dallo Stato pontificio, ponendo il proprio quartier generale a Firenze, nel palazzo Corsini, dove nel maggio lo raggiunse la moglie con il primo figlio Achille, nato nel gennaio.

Nominato generale in capo delle armate francesi in Italia si recò in visita a Napoli, dove fu ricevuto con tutti gli onori da Ferdinando IV (agosto 1801); nello stesso periodo spostò il quartier generale a Milano, dove appoggiò la rinascita della Repubblica Cisalpina, divenuta poi nella Consulta di Lione (gennaio 1802) Repubblica Italiana, sotto la presidenza del Bonaparte. Fu questo un momento particolarmente felice per la famiglia di G., che accumulò fortune e acquistò palazzi e grandi tenute a Parigi e nella provincia francese. Dopo la nascita della seconda figlia Letizia (aprile 1802), due brevi viaggi a Roma e Napoli (maggio) e quattro mesi trascorsi a Parigi, dal settembre 1802 all'agosto 1803 fu di nuovo a Milano, dove ebbe contrasti col vicepresidente della Repubblica Italiana, F. Melzi d'Eril, e altri repubblicani milanesi; tentò di causare una frattura tra la neonata Repubblica e la Francia, ma il Bonaparte gli impose di riconciliarsi: il Melzi fece quindi da padrino al suo terzo figlio, Luciano, nato il 16 maggio 1803.

Tornato in Francia, nell'ottobre venne eletto deputato del collegio elettorale del Lot, a cui apparteneva il suo paese natale. All'inizio del 1804 divenne governatore di Parigi, comandante della prima divisione e della guardia nazionale. Come governatore della capitale ebbe, suo malgrado, un ruolo di primo piano nella condanna a morte (marzo 1804) del duca L.-A.-H. d'Enghien, rapito in Germania per dare un ammonimento al risorgente partito borbonico. Intanto nel maggio Napoleone diveniva imperatore e G., come tutti i suoi fidi e parenti, poté accedere alle maggiori cariche militari, a titoli e ai cospicui appannaggi collegati: fu maresciallo, comandante della dodicesima coorte, grande ammiraglio, principe dell'Impero. Nel marzo 1805 gli nacque la quarta e ultima figlia, Elisa. Nell'autunno del 1805, all'esplodere d'un nuovo conflitto con Austria e Russia, G. svolse un'importante e rapida missione esplorativa in Germania (fine agosto - inizio settembre 1805) per studiare la configurazione dei territori e accertarsi della fedeltà del grande elettore di Baviera, Massimiliano. Comandò poi una forza di cavalleria, chiamata impropriamente Riserva, di ben 14.000 effettivi, e in molte fasi della guerra tutta l'avanguardia della Grande Armata, e anche corpi di artiglieria e fanteria. Nell'avanzata in Austria fu protagonista, facendo migliaia di prigionieri e precedendo Napoleone ovunque (anche a Vienna il 13 novembre); ma nell'inseguire il nemico fu talvolta incauto, attirandosi duri rimproveri dell'imperatore (anche quando concesse una tregua ai Russi in ritirata). Comunque il suo apporto fu decisivo nelle battaglie di Wertingen e Haslach (8 e 15 ottobre) e in quella finale di Austerlitz (2 dicembre), dove comandò l'intera ala sinistra dello schieramento francese. L'irruenza e la temerarietà delle cariche della sua cavalleria, sebbene frutto di sostanziale improvvisazione, furono sempre coronate da successo e gli procurarono fama di combattente in tutta Europa.

Della guerra, conclusa con la frantumazione dell'esercito russo e l'occupazione del territorio austriaco da parte di Napoleone, beneficiarono anche i familiari: G., che avrebbe preferito divenire viceré del neocostituito Regno d'Italia, fu messo a capo (15 marzo 1806) del Granducato di Berg e Clèves, sul Reno, un nuovo Stato di notevole importanza strategica perché confinante col pericoloso nemico prussiano, e quindi avamposto dell'Impero napoleonico. G. lo governò per lo più da Parigi o dai campi di battaglia (vi fu solo nel marzo-aprile e nell'agosto-settembre del 1806); inizialmente intraprese l'occupazione di territori confinanti, che Napoleone riprovò perché poteva compromettere i non facili rapporti con la Prussia; dovette quindi ritirarsi. Quando però, nell'autunno del 1806, la guerra con la Prussia e la Russia fu inevitabile, G. vi ebbe ancora un ruolo importante, dal primo scontro di Schleiz alla battaglia decisiva di Jena (9 e 14 ottobre). Diresse imponenti azioni della cavalleria e l'inseguimento senza tregua del nemico in ritirata, prese migliaia di prigionieri e occupò quasi senza resistenza molte città, entrando per primo a Berlino il 22 ottobre. Dopo la capitolazione della Prussia (7 novembre) rimaneva però ancora l'avversario russo, e la guerra passò in Polonia, dove la popolazione accolse i Francesi come liberatori. Particolarmente entusiastica, a fine novembre, fu l'accoglienza fatta a G. a Varsavia, che lo fece aspirare in segreto a divenire re d'una Polonia tornata libera. Nel febbraio 1807 egli fu ancora decisivo per le sorti francesi nella giornata di Eylau. Riprese le ostilità, dopo alcuni mesi, nel giugno, venne la vittoria di Betnen, dove ancora l'apporto della cavalleria fu decisivo, seguita dall'inseguimento del nemico fino a Tilsit. Se le trattative di pace non portarono a G. il trono di Polonia, ottenne però un cospicuo ingrandimento del suo Granducato (gennaio 1808).

Nel febbraio fu nominato luogotenente dell'imperatore in Spagna, col compito d'imporre pacificamente la volontà francese in una realtà resa problematica dalla debolezza del re Carlo IV e dallo strapotere del favorito Manuel de Godoy principe della Pace. G. era in Spagna da poche settimane quando il re fece arrestare il Godoy e abdicò suo malgrado a favore del figlio Ferdinando. Egli convinse allora padre e figlio a rimettersi all'arbitrato di Napoleone e li indusse a recarsi a Baiona (aprile); quando a Madrid scoppiò una sanguinosa rivolta popolare (2 maggio) G. "la represse con la spietata durezza di cui tramandò la memoria il Goya" (Scirocco): i morti spagnoli furono quasi 2000. Nello stesso giorno Napoleone, all'oscuro dei fatti madrileni, destinava al Regno spagnolo il fratello Giuseppe, sostituendolo a Napoli con G., che così ottenne finalmente un trono, anche se non quello spagnolo, come desiderava, anche a causa della repressione dell'insurrezione madrilena. Dopo una lunga malattia, e una vana resistenza passiva agli ordini imperiali, il 28 giugno G. lasciò Madrid.

Il 15 luglio il trattato di Baiona lo designò formalmente re di Napoli (o, più esattamente, re delle Due Sicilie) col nome di Gioacchino-Napoleone, indicando come suo eventuale successore, prima dei figli, la moglie Carolina, dalla quale così veniva fatto discendere il suo titolo. A fine agosto partì per Napoli, dove giunse il 6 settembre ricevendo grandi accoglienze popolari; circa venti giorni dopo lo raggiunsero Carolina e il resto della famiglia. Prese subito provvedimenti per aumentare la sua popolarità e attenuare i contrasti interni: amnistie di disertori, soppressione di commissioni militari, grazia per condannati a morte, restituzione di beni ai parenti degli emigrati, libertà di pesca alle popolazioni della costa, pagamento delle pensioni militari. Molti di questi provvedimenti non piacquero a Napoleone, che li riteneva antifrancesi, così come non gli piacque il tentativo di togliere dal nuovo codice civile, che doveva entrare in vigore a Napoli il 1° genn. 1809, l'articolo sul divorzio. Da allora i rapporti tra i due cognati furono tesi, condizionando l'opera di governo di G. e le vicende interne del Regno. In varie occasioni G. mirò a comportarsi in modo autonomo in politica interna ed estera, mentre Napoleone cercò di subordinare al proprio volere e agli interessi dell'Impero, e segnatamente della Francia, le decisioni del cognato, considerando il Regno di Napoli una colonia e il suo sovrano anzitutto un suddito francese, ingranaggio di un meccanismo che gli aveva consentito di accedere al trono e gli permetteva di conservarlo. Anche i tentativi di G. d'ingrandire i propri possedimenti, e in particolar modo di conquistare la Sicilia, non furono graditi da Napoleone che, a ragione, reputava insufficienti le forze del cognato. Difficili furono spesso anche i rapporti di G. con la moglie, della quale non sopportava le ingerenze nelle questioni politiche, anche se talvolta la sua mediazione presso il fratello gli fu utile e, secondo qualche autore, gli conservò il trono in momenti critici.

G. compì un primo tentativo d'espansione poche settimane dopo l'arrivo a Napoli, ai primi dell'ottobre 1808, quando 2000 uomini al comando del generale J.-M. Lamarque presero Capri, prevalendo in circa dieci giorni di combattimenti sulla guarnigione inglese. Il successivo momento di tensione militare, nel giugno 1809, fu dovuto all'attacco della flotta anglo-sicula nel golfo di Napoli. Per la sua consistenza la flotta tenne in ambasce per alcuni giorni G., Carolina e il governo, ma si risolse nella sola presa di Procida e Ischia e in incursioni in Basilicata, Puglia e soprattutto Calabria, da cui però le forze anglo-siciliane presto desistettero, anche per la notizia della vittoria di Napoleone a Wagram contro l'Austria. Rimaneva il problema del brigantaggio, che sopravviveva nelle province anche come residuo dell'opposizione popolare alla conquista francese, in corso dal 1806. G. attuò una politica di dura repressione: prima (1809) con la confisca dei beni degli emigrati delle province dove operavano le bande, con commissioni militari, compensi ai pentiti, taglie e arresti dei familiari; poi, dopo una ripresa del fenomeno (primavera 1810), dando pieni poteri al generale Ch.-A. Manhès, che attuò una repressione durissima e sistematica. Nell'estate del 1810 G. tentò la conquista della Sicilia, con scarso supporto da parte di Napoleone, che vi vedeva solo un mezzo per impegnare gli Inglesi e distoglierli da altri fronti. Lo sbarco, il 16-17 settembre, fu compiuto solo da un contingente di 2000 soldati napoletani, perché il generale P. Grenier, ligio agli ordini dell'imperatore, si rifiutò di aggiungere le proprie forze. G. dovette quindi rinunciare, lasciando a Messina centinaia di morti e prigionieri.

Prima della spedizione in Sicilia aveva cercato di riavvicinarsi a Napoleone durante due soggiorni a Parigi: dal dicembre 1809 al gennaio 1810, in occasione del divorzio dell'imperatore, e nel marzo-aprile 1810, in occasione della celebrazione del secondo matrimonio del Bonaparte con Maria Luisa d'Austria. Ma al riavvicinamento ostò l'opposizione di G. a quest'ultima, nipote di Maria Carolina e quindi possibile tramite d'un accordo per un ritorno dei Borbone sul trono di Napoli.

Frattanto nel febbraio 1809 G. aveva costituito un nuovo governo con collaboratori per lo più napoletani (tra i quali F. Ricciardi alla Giustizia e G. Zurlo agli Interni). Valendosi della loro alacre attività e appoggiandone le intelligenti iniziative egli compì un vasto e organico tessuto di riforme. Da un lato realizzò le innovazioni auspicate e in qualche modo avviate dagli illuministi napoletani nel Settecento e dallo Zurlo tra 1799 e 1805; dall'altro adottò istituti e leggi rivoluzionari e napoleonici, che completavano la demolizione dell'antico regime e la ristrutturazione dello Stato. Il processo fu irreversibile, tanto che dopo il loro ritorno i Borbone confermarono pressoché tutte le riforme realizzate nel breve regno di G. e il nuovo assetto dell'amministrazione civile, finanziaria e giudiziaria. In molti casi egli e il governo realizzarono le riforme concepite da Giuseppe Bonaparte, che per la brevità del regno e le non facili condizioni in cui aveva operato erano rimaste al livello delle intenzioni. Se G. non attuò la costituzione concessa dal predecessore dopo la partenza da Napoli, applicò la legge sull'abolizione della feudalità emessa da Giuseppe nell'agosto 1806, che segnava la fine della giurisdizione baronale, dei diritti proibitivi e delle prestazioni personali, nonché la cessione d'una parte delle terre feudali dietro indennizzo, e la trasformazione dell'altra in proprietà di tipo borghese.

Per risolvere il conseguente ampio contenzioso tra le Comunità e i baroni diede nuovo slancio alla Commissione feudale, creata nel novembre 1807 ma fin allora solo nominale, che lavorò con grande alacrità fino al suo scioglimento, nell'agosto 1810. Il governo iniziò anche a ripartire l'enorme patrimonio demaniale nato dalla legge del 1806 e dal massiccio incameramento dei beni ecclesiastici. In campo giudiziario furono riformati tribunali e magistrature, e resi operanti i nuovi codici francesi, che Giuseppe aveva già disposto di introdurre. Nel 1809 i vecchi giudici borbonici, per lo più coinvolti nelle persecuzioni del 1799 oppure impreparati e corrotti, furono sostituiti da "una magistratura colta, zelante, alacre" (Valente); nelle province furono creati tribunali civili e penali di prima istanza. Il 1° genn. 1809 entrarono in funzione il codice civile (in una traduzione voluta da G., diversa da quella fatta fare dal predecessore) e un nuovo codice di commercio; nel 1812 un nuovo codice penale e uno di procedura criminale.

Nella pubblica amministrazione il governo realizzò e sostenne la nuova organizzazione centrale e periferica disegnata da Giuseppe Bonaparte. Il ministero dell'Interno svolse un ruolo di primaria importanza, anche per i costanti contatti con gli organi periferici attraverso le intendenze. Fittissimi, in particolare, i rapporti con i Consigli provinciali e distrettuali, espressione della nuova borghesia agraria, spesso colta e vivace; convocati per la prima volta, informarono governo e sovrano sullo stato delle province e avanzarono proposte. Nei Comuni un decreto del 1808 precisò le mansioni dei decurioni e sindaci, pure istituiti da Giuseppe, e nell'amministrazione locale ordine, correttezza e chiarezza nei bilanci iniziarono a subentrare alla confusione e commistione con il potere giudiziario.

Anche in campo fiscale e finanziario vi furono cambiamenti profondi. Per estinguere il debito pubblico, enorme in epoca borbonica e cresciuto nel breve regno di Giuseppe, G. - seguendo un piano dello Zurlo - ridusse l'interesse dal 5 al 3% e operò una massiccia vendita dei beni degli enti ecclesiastici soppressi. Il 1° marzo 1813 fu raggiunto il pareggio del bilancio. G. accrebbe l'innovativa tassa fondiaria istituita dal cognato, ma ridusse la patente su industria e commercio per favorirne la crescita e, per meglio applicare l'imposta fondiaria, il 26 ag. 1809 istituì un nuovo catasto (completato al termine del suo regno). Nel 1810 fu istituita l'imposta personale, che esentava gli indigenti, e si ebbe un nuovo ordine nelle compravendite immobiliari con l'istituzione della tassa di registro e della conservatoria delle ipoteche.

Quanto alle opere pubbliche furono realizzate o iniziate strade in quasi tutte le province, costruiti ponti, effettuati numerosi lavori di arginatura e bonifica idraulica (Fondi, Castel Volturno, Vallo di Diano, Manfredonia), istituiti ospedali e cimiteri extraurbani, illuminate le maggiori città. In questo ebbero un ruolo centrale il corpo degli ingegneri di ponti e strade, istituito tra 1808 e 1809, e l'Amministrazione generale delle acque e foreste, che ebbe proprie guardie in tutto il paese. A Napoli furono create, ampliate o migliorate piazze e strade, bonificato il litorale di Coroglio, costruito il ponte della Sanità (intitolato a Napoleone). Nell'edilizia vanno ricordati il grande porticato del foro Gioacchino (poi piazza del Plebiscito), l'osservatorio astronomico e l'orto botanico.

G. promosse particolarmente le misure per favorire l'agricoltura e le manifatture. Nel 1809 fu approvata la legge organica sulle dogane e sui dazi che, estesa coraggiosamente anche al commercio con la Francia, destò le ire di Napoleone. In seguito furono soppresse le dogane interne e fu molto ridotto il diritto di cabotaggio; le manifatture furono incoraggiate con le esposizioni annuali di Napoli (a partire dal 1809), con inviti a imprenditori e tecnici stranieri, promuovendo la coltivazione del cotone e l'allevamento delle pecore da lana dette merinos. Notevole fu lo sforzo di conoscenza delle condizioni economiche del paese, anche con rilevazioni statistiche su molti aspetti della produzione e del mercato. Per incoraggiare il commercio, duramente colpito dal blocco continentale, G. sperò che Napoleone consentisse i traffici con paesi neutrali, ma accordi con gli Stati Uniti d'America (1809-10) non furono ratificati dall'imperatore.

Col Bonaparte lo scontro politico divenne frequente, anche perché l'aspirazione all'autonomia di G. era incoraggiata da A. Maghella, ministro di Polizia dal 1810, che progettava un'Italia unita sotto un unico re: un progetto in armonia con la sua ambizione, e che si riaffaccerà in modo pressante pochi anni dopo. Nel 1811, durante un lungo soggiorno a Parigi (aprile-maggio) in occasione della nascita del re di Roma, i due cognati si riavvicinarono: è probabile che l'imperatore, credendo già inevitabile una guerra contro la Russia, ritenesse importante l'avere con sé un comandante del valore di Gioacchino. Tuttavia, appena rientrato a Napoli, questi lo sfidò di nuovo con un decreto che imponeva agli stranieri con impieghi civili nel Regno di chiedere la cittadinanza. La reazione dei francesi fu immediata: molti preferirono dimettersi dalle cariche, e G. dovette accettare un'ordinanza di Napoleone che dava ai cittadini francesi la cittadinanza del Regno di Napoli, e revocare il decreto appena un mese dopo l'emissione. Alla fine dell'aprile 1812 lasciò Napoli per partecipare alla campagna di Russia. A maggio gli fu dato il comando d'una cavalleria anche più numerosa di quella delle campagne del 1805-07 (ben 40.000 cavalli); ancora una volta la sua temerarietà diede ottimi risultati, ma commise un grave errore d'impostazione facendo avanzare le sue forze in colonna, ciò che rese difficile la trasmissione degli ordini e rallentò il cammino. I continui, estemporanei attacchi della cavalleria cosacca (con successive veloci ritirate) logorarono questo importante corpo della Grande Armata. Come sempre spettò a G. di avanzare per primo e pungolare o inseguire il nemico; a fine luglio la sua cavalleria conseguì una importante vittoria a Ostrovno, a metà agosto entrò in Smolensk, fu tra i principali protagonisti della vittoria incompleta sulla Moscova a Borodino (inizio settembre), e il 14 settembre entrò per primo in una Mosca in fiamme e abbandonata dagli abitanti. Fu in prima fila anche nella disastrosa ritirata nell'inverno russo, ma ormai il suo ruolo attivo era esaurito ed egli era preoccupato per i problemi che potevano subentrare a Napoli. Così non gradì il comando generale conferitogli da Napoleone quando si affrettò a raggiungere Parigi (dicembre), e poche settimane dopo affidò a sua volta il comando al principe Eugenio Beauharnais.

Tornato a Napoli (febbraio 1813), G. intensificò le trattative segrete con l'Austria iniziate da suoi emissari nel dicembre precedente, volte ad assicurargli il trono napoletano anche nel caso d'un crollo della potenza napoleonica. Importanti furono in tal senso l'invio a Vienna di G. Spinelli, principe di Cariati (aprile), e nuovi contatti con il partito italiano che progettava l'unificazione della penisola. A fine aprile avviò anche trattative segrete con il comandante inglese in Sicilia, lord W. Bentinck, che però non gli assicurò la conservazione del trono, come faceva l'Austria, limitandosi a promettere un equivalente. Nonostante queste trattative e i non buoni rapporti epistolari con Napoleone, pieno di rancore per il suo comportamento alla fine della campagna di Russia e subodorante gli accordi segreti, G. non riuscì a fare una chiara scelta di campo, e rispose alla chiamata del cognato per la nuova guerra contro Austria, Prussia e Russia (oltre alla Svezia di Bernadotte). Ancora una volta assunse il comando della riserva della cavalleria, nonché di tutta l'ala destra dell'Armata. Il 26 e 27 agosto nella battaglia di Dresda contribuì alla vittoria con le solite veementi cariche. Tuttavia durante la guerra riprese le trattative segrete con l'Austria; il Metternich promise di lasciarlo sul trono di Napoli se avesse abbandonato Napoleone, ma G. esitò a passare al nemico prima di una battaglia. Se il tradimento politico era quasi compiuto, quello militare, pur ipotizzato da alcuni storici, non pare avvenisse, e G. s'impegnò con la consueta energia in alcuni scontri precedenti alla disastrosa battaglia di Lipsia, dove il suo ruolo fu secondario perché vi predominò lo scontro delle fanterie e delle artiglierie.

Dopo la sconfitta (18 ottobre), temendo per la situazione del Regno, chiese con insistenza e ottenne dal cognato di tornare subito a Napoli, promettendo anche di appoggiare con un forte esercito il principe Eugenio sul fronte italiano. A Napoli, tuttavia, dimostrò subito una nuova autonomia da Napoleone: uscì dal blocco continentale (novembre); avviò le sue truppe verso Roma, Ancona e la Toscana (occupate nel dicembre), accoltovi con sospetto dalle forze francesi, che non sapevano se avrebbero dovuto combatterlo; all'inizio del 1814 stipulò un accordo pubblico con l'Austria (Convenzione di Napoli dell'11 gennaio), impegnandosi a entrare in guerra contro la Francia in cambio del mantenimento del trono e di futuri ingrandimenti territoriali nei domini pontifici; infine il 26 gennaio stipulò un armistizio con l'Inghilterra, reso pubblico il 3 febbraio.

Frattanto aveva raggiunto le sue truppe (fine gennaio) a Roma e poi ad Ancona, col proposito appena celato di unificare sotto di sè l'Italia fino al Po. Tuttavia non osò arrivare subito allo scontro con gli Italo-Francesi del principe Eugenio: sia perché temeva che l'Austria, a seguito d'un intervento diplomatico inglese, non rispettasse l'accordo, sia perché restio a combattere i connazionali, sia infine perché incerto sugli esiti della guerra sugli altri fronti e quindi sulla fine di Napoleone. Attaccò decisamente solo ad aprile, dopo la notizia della capitolazione di Parigi, attirandosi le critiche delle potenze vincitrici, in particolare della Russia. L'abdicazione di Napoleone, che mise fine alla guerra in Italia, obbligò G. a ritirarsi nel Regno e a restituire gran parte dei territori occupati: Lazio e Umbria al papa, Toscana all'antico granduca. A Napoli G. passò mesi di grande incertezza, mentre i Borbone reinsediati a Parigi e Madrid reclamavano la restaurazione del congiunto Ferdinando IV a Napoli. Ebbe comunque un po' di respiro perché nei primi mesi del congresso di Vienna (iniziato nel settembre 1814) il problema napoletano, su iniziativa austriaca, fu rimandato. Tuttavia all'inizio del 1815 le richieste francesi divennero pressanti e in G. si fece strada la consapevolezza che solo un ritorno al potere di Napoleone in Francia (della cui eventualità era stato messo al corrente in trattative segrete con l'Elba nel febbraio) poteva conservargli il trono. Pertanto a metà marzo, avuta notizia del successo dell'iniziativa napoleonica, contro il parere contrario della moglie decise di muoversi contro gli Austriaci. La sua però voleva essere un'iniziativa autonoma, tendente a liberare la penisola italiana dal dominio austriaco, non un semplice appoggio alla guerra del cognato. Perciò il 30 marzo, pochi giorni dopo l'inizio delle ostilità, emanò da Rimini un proclama in cui inneggiava alla libertà e all'indipendenza dell'Italia e prometteva una costituzione; ma il proclama, considerato in seguito il punto di partenza del Risorgimento italiano, non ebbe sul momento molte adesioni. L'iniziativa militare di G., il cui esercito era poco numeroso e poco motivato, non ebbe successo: dopo scontri perdenti e una precipitosa ritirata, il 3 maggio arrivò la sconfitta decisiva a Tolentino. Riuscì comunque a raggiungere precipitosamente il Regno: il 17 maggio era a Napoli e il 19, lasciati la moglie e i figli, fuggì via mare senza un'organizzazione adeguata, pochi giorni prima dell'arrivo delle truppe austriache. Per sfuggire alla flotta inglese dovette sbarcare a Ischia e poté raggiungere la Francia (Cannes) il 25, solo perché raccolto da una nave munita di salvacondotto inglese per il trasporto di ufficiali francesi. Napoleone però si rifiutò di accoglierlo nel suo esercito, imputandogli oltre ai tradimenti precedenti l'imperizia e la precipitazione nella recente campagna d'Italia, che avrebbe dovuto tenere impegnate per più tempo le truppe austriache. Dopo Waterloo (18 giugno) G. si rifiutò di abdicare, come gli chiedevano Inglesi e Austriaci in cambio d'un rifugio sicuro; frattanto montava la reazione filoborbonica, ed egli dovette quasi vivere alla macchia nella Francia meridionale. Alla fine di agosto riuscì a imbarcarsi con pochissimi compagni per la Corsica, dove riunì alcune centinaia di bonapartisti e patrioti con i quali il 28 settembre, respinte le offerte di Metternich di ricongiungersi alla famiglia e ritirarsi a vita privata, s'imbarcò su sei grosse barche per un estremo tentativo di riconquista del Regno di Napoli. Si trattava di un progetto di ben difficile realizzazione, divenuto praticamente impossibile quando le altre imbarcazioni abbandonarono, per tradimento o per le condizioni del mare, quella in cui era Gioacchino. Questi, sbarcato a Pizzo Calabro il 7 ottobre con solo una trentina di uomini, fu attaccato e catturato da gendarmi e contadini.

Condannato a morte da una commissione militare nominata da Ferdinando IV, fu fucilato il 13 ott. 1815 nel castello di Pizzo.

Fonti e Bibl.: Per gli Archives Murat, depositati presso gli Archives nationales di Parigi, cfr. Les Archives Murat, Inventaire, Paris 1967. Tra le molte biografie alcune ricostruiscono tutta la vita di G., altre si limitano al periodo napoletano. Molte hanno bibliografie a cui fare riferimento per ulteriori approfondimenti; qui si indicano i soli lavori essenziali. Tra le biografie generali: L.-C.-A.-G. Gallois, Histoire deJoachim M., Paris 1828; M. Mazzucchelli, G. M., Milano 1931; M. Dupont, M., cavalier, maréchal de France, prince et roi, Paris 1934; J. Tulard, J. M., ou l'éveil des nations, Paris 1983; A. Spinosa, Murat. Da stalliere a re di Napoli, Milano 1984. Breve, ma utile e documentata la recente biografia di A. Scirocco, G. M., Napoli 1994. Tra le biografie limitate al solo periodo napoletano: A. Espitalier, Napoléon et le roi M. 1808-15, Paris 1910; G. Doria, M. re di Napoli, Cava dei Tirreni 1966; E. Fiore, Unre al bivio. Il "tradimento" di M., Roma 1972 (solo sugli ultimi tre anni di regno); J.-P. Garnier, G. M. re di Napoli, Napoli 1974. Su questo periodo della vita di G. si veda anche P. Colletta, Storia del Reamedi Napoli, a cura di N. Cortese, Napoli 1957, II, pp. 291-479. Fondamentale per la comprensione delle posizioni di G. nei momenti topici della sua vita è la fittissima corrispondenza, in particolare quella col potente cognato: Lettres et documents pour servir à l'histoire de Joachim M. 1767-1815, a cura di P. Le Breton, I-VIII, Paris 1908-14; utili anche le memorie di L. Murat Rasponi, Souvenirs d'enfance d'une fillede Joachim M., Paris 1929. Sul riformismo napoletano del periodo murattiano si soffermano molti autori, tra cui: G. La Volpe, G. M., re di Napoli: amministrazionee riforme economiche, in Nuova Riv.storica, XIV (1930), pp. 538-559; XV (1931), pp. 124-141; A. Valente, G. M. e l'Italia meridionale, Torino 1965; P. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, IV, Roma 1986, pp. 577-639. Utili, infine, le opere su Napoleone e le sue battaglie: F. Masson, Napoléonet sa famille, I-XIII, Paris 1897-1919, passim; G. Lefebvre, Napoleone, Bari 1960, ad indicem; J. Tulard, Napoleone, Milano 1980, ad indicem; Id., Il grandeimpero, Milano 1984, ad indicem; G.D. Chandler, Lecampagne di Napoleone, I-II, Milano 1997, ad indicem; G. Blond, Vivere e morire per Napoleone. Vita e battaglie della Grande Armata, I-II, Milano 1998, adindicem.

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