MORANDI, Giorgio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MORANDI, Giorgio

Flavio Fergonzi

MORANDI, Giorgio. – Nacque a Bologna il 20 luglio 1890 da Andrea, titolare di una ditta di commercio, e da Maria Maccaferri.

Il padre (1858-1909), rimasto orfano a tre anni di entrambi i genitori, aveva avuto in eredità una fattoria nella campagna emiliana che, per la cattiva amministrazione, decadde rapidamente, lasciandolo senza una solida base patrimoniale. Iniziò a guadagnarsi la vita come contabile, ottenendo poi un impiego presso la succursale bolognese della ditta francese Patault, specializzata nel commercio della canapa e dei prodotti derivati: particolarmente versato nelle corrispondenze commerciali in francese e in inglese, ne divenne cotitolare (1889). Lo stesso anno sposò la diciannovenne Maria Maccaferri (m. 1950), da cui ebbe cinque figli: Giorgio, Giuseppe (1891-1902), Anna (1895- 1989), Dina (1900-77), Maria Teresa (1906- 94). La famiglia si stabilì in un villino nella periferia di Bologna, vivendo inizialmente in una condizione di benessere borghese. Alla morte del padre, la famiglia si trasferì in un più modesto appartamento al centro di Bologna, in via Fondazza 38, casa nella quale Morandi risedette per tutta la vita. Pur nelle peggiorate condizioni economiche, la madre riuscì a far studiare Giorgio e le tre figlie, che divennero maestre elementari, e, per alcuni periodi, insegnarono nelle scuole italiane di Alessandria d’Egitto. La famiglia restò molto unita: Morandi, che non si sposò, convisse fino alla morte con le sorelle anch’esse nubili, in una atmosfera di concorde solidarietà. Il loro stile di vita fu sempre informato a un frugale riserbo, anche quando i quadri di Morandi, diventate prede ambite di mercato, avrebbero consentito agi maggiori. Fino alla tardiva costruzione della casa estiva di Grizzana (1960), Morandi non ebbe mai uno studio vero e proprio: disegnò, dipinse e incise ad acquaforte nella sua camera da letto, un luogo, per i pochi visitatori che vi erano ammessi, ben presto divenuto di culto per la sobrietà del decoro e la rispondenza letterale tra i modelli delle nature morte lì riuniti (ribalte, vasi, scatole, bottiglie) e la loro raffigurazione nelle tele e nelle incisioni.

Morandi frequentò a Bologna le scuole elementari e poi tre anni di scuole commerciali. Manifestando una precoce passione per il disegno e la pittura, dopo un tentativo di impiegarsi nella ditta del padre, si iscrisse nel 1907 all’Accademia di belle arti di Bologna, frequentandone i corsi e diplomandosi in pittura nella sessione autunnale del 1913. La sua carriera di studente si può dividere nettamente in due parti. Dopo gli eccellenti risultati ottenuti a conclusione del corso preparatorio, della durata di un anno (dove conseguì tutti 10 tranne che in storia), venne ammesso direttamente al secondo anno del triennale corso comune, durante il quale ebbe le votazioni migliori tra tutti gli studenti del suo anno e vinse la medaglia della prova di ornato. Dopo aver superato, nell’autunno del 1910, l’esame finale del corso comune si iscrisse al corso speciale di pittura. Alla fine del primo anno (1911) le sue votazioni registrarono un netto calo, a testimonianza di una nascente insofferenza verso il metodo e i valori dell’insegnamento accademico. A opporlo ai suoi professori, il cui gusto era orientato verso il simbolismo e il neorinascimentalismo allora di moda, fu il contatto con la pittura moderna francese, avvenuto prima attraverso gli scritti di Ardengo Soffici su La Voce e il libro Gl’impressionisti francesi di Vittorio Pica (1908), poi attraverso i pochi originali che poté vedere in Italia (alla Biennale di Venezia del 1910 con le mostre retrospettive di Gustave Courbet e di Auguste Renoir; alla Prima Mostra italiana dell’impressionismo di Firenze nel 1910; al padiglione francese della Mostra internazionale di Roma del 1911). In una accademia dominata ancora dalla gerarchia dei generi, Morandi iniziò subito a manifestare una predilezione per i più bassi, il paesaggio e la natura morta (e qualche sporadica incursione nel ritratto e negli studi di nudo), con scelte che corrispondono esattamente

al modello da lui individuato come sicuro riferimento, Paul Cézanne. Alla fine del secondo anno di corso speciale (1912) accettò di iscriversi a un terzo anno supplementare, di fatto per poter accedere al concorso nazionale per insegnanti di disegno alle scuole elementari. Alla fine dell’anno rinviò l’esame finale alla sessione autunnale dove conseguì votazioni nel complesso basse (8 nella copia dal modello, 6 in anatomia e in storia dell’arte) e ottenne il diploma, il 28 settembre 1913, solo in considerazione delle votazioni degli anni precedenti. Nell’estate dello stesso anno la famiglia iniziò a prediligere Grizzana, un borgo sull’Appennino a 38 km da Bologna che fu la prima sede di servizio della sorella maggiore Anna, come luogo di villeggiatura estiva.

Negli anni dell’accademia Morandi si legò agli artisti suoi coetanei dell’ala modernista di Bologna: Osvaldo Licini, Severo Pozzati e Giacomo Vespignani. Attraverso quest’ultimo conobbe, nel 1910, il musicista Francesco Balilla Pratella, che fece della sua casa di Lugo, frequentata dallo stesso Morandi, il centro irradiatore del futurismo emiliano. Morandi assistette alle serate futuriste di Modena e Firenze (1913), e fu presente alla rappresentazione bolognese di Elettricità futurista di Filippo Tommaso Marinetti il 19 gennaio 1914. Il suo interesse per il futurismo si spiega soprattutto come generica protesta antiaccademica e modernista, e solo in seconda istanza come attrazione verso la rivoluzione pittorica di Umberto Boccioni e di Carlo Carrà: del tutto insensibile al rinnovamento dei soggetti voluto dagli artisti futuristi, approfittò delle novità linguistiche delle loro opere per risalire alla pittura francese di discendenza cézanniana e al cubismo.

Verso la fine del 1913 conobbe ed entrò in familiarità con i fratelli Bacchelli: Mario, poeta e pittore, e Riccardo, letterato e collaboratore della Voce. Attraverso l’interessamento del loro padre, sindaco di Bologna, espose per la prima volta, insieme a Licini, Pozzati, Vespignani e Mario Bacchelli, una selezione di quadri del 1913-14 in una mostra della durata di 24 ore (20-21 marzo 1914) tenuta nella hall del bolognese hotel Baglioni, suscitando, a livello locale, molte perplessità per lo spirito «futurista» dei dipinti e qualche isolato riconoscimento sulla stampa. Nella primavera dello stesso anno, attraverso la mediazione di Pratella, poté inviare tre quadri di natura morta e un disegno alla Esposizione libera futurista internazionale presso la galleria Sprovieri (e per l’occasione fu citato da Marinetti nella conferenza di apertura e su Lacerba del 1° giugno). Un Paesaggio era stato intanto accettato alla seconda edizione della Secessione romana (marzo 1914). Nella stessa primavera, densa di avvenimenti per lui cruciali, Morandi fu a Roma per sostenere con successo l’esame di Stato che lo abilitava all’insegnamento del disegno.

L’opera pittorica di Morandi, catalogata nel 1977 in modo esemplare da Lamberto Vitali, inizia con due Paesaggi del 1911 di esplicito, e per l’Italia inatteso, stilismo cézanniano (Vitali, 1977, nn. 1 s.). È però molto difficile farsi un’idea della produzione pittorica del Morandi degli esordi fino al 1918: il pittore infatti eliminò molti quadri del periodo sia perché insoddisfatto, sia perché, con le loro scelte formali di radicale modernismo, non incontravano il gusto dei contemporanei bolognesi, ed erano di fatto privi di mercato. Le opere del 1911-1913 (nature morte, paesaggi, fiori, un ritratto della sorella) palesano, oltre a una ormai matura assimilazione del linguaggio di Cézanne, una esplicita attenzione all’opera di Henri Rousseau, additata dall’amato Soffici come alternativa alle seduzioni dell’internazionalismo accademico. Va anche rilevata un’embrionale attenzione alle soluzioni del primo cubismo, a lui noto attraverso le poche illustrazioni in bianco e nero che avevano accompagnato un articolo di Henri des Prureaux apparso su La Voce nel 1912. I quadri del 1914, e soprattutto le due Natura morta con lo specchio a dittico (Vitali, 1977, nn. 13, 18) dove la struttura delle cose viene rivelata dal robusto tessuto delle pennellate, rivelano un confronto ormai maturo con la grammatica pittorica di Pablo Picasso e Georges Braque. Nei paesaggi inizia a imporsi la suggestione di El Greco, altro riferimento chiamato in causa in chiave modernista da Soffici, mentre nei tre studi di Nudi dipinti tra 1914 e 1915 (Vitali, 1977, nn. 15, 21s.) Morandi si mostra attento alla koinè internazionalista del genere discesa da Cézanne attraverso André Derain.

Chiamato alle armi nel 1915, fu assegnato, per merito dell’altezza ai suoi tempi inusuale, al II reggimento granatieri di stanza a Parma. Dopo meno di due mesi si ammalò di una grave forma di astenia e, ricoverato al locale ospedale militare, venne rimandato a casa in licenza e in seguito congedato. Nonostante la malferma salute (che ebbe, nell’inverno 1917-1918, una ricaduta) gli anni della guerra furono, a differenza di molti altri artisti della sua generazione, di concentrazione e di ricerca: in quel periodo ebbe l’agio di rielaborare, nella quiete bolognese, le multiformi suggestioni della stagione delle avanguardie con cui era venuto in contatto. Nel dicembre del 1916 conobbe nello studio di Pozzati il giovane Filippo de Pisis, che segnalò il suo nome a Tristan Tzara (S. Zanotto, Filippo de Pisis ogni giorno, Vicenza 1996, pp. 78 s.). L’incontro, nel 1917, con il giovane letterato bolognese Giuseppe Raimondi, conosciuto col tramite di Riccardo Bacchelli, fu un episodio di sicuro rilievo per le relazioni culturali fuori dalla città: attraverso di lui entrò in contatto con Emilio Cecchi, che nel giugno 1918 visitò il suo studio parlandone nei Taccuini (Milano 1976, p. 294) e nelle lettere alla fidanzata. Inoltre, nella rivista diretta da Raimondi, la bolognese La Raccolta, una sua opera venne riprodotta per la prima volta nell’aprile 1918: si tratta di una incisione del 1915 (Cordaro, 1991, n. 1915, 1) con bottiglie e brocca. Nelle pagine della stessa rivista Morandi conobbe, in riproduzione prima che dal vero, le opere metafisiche di Giorgio De Chirico e Carlo Carrà. Nel marzo del 1918, intanto, un articolo monografico di Riccardo Bacchelli sul quotidiano romano Il Tempo segnalava la singolarità di Morandi con una serie di intuizioni critiche destinate a sopravvivere a lungo: il riferimento ai valori della tradizione plastica italiana, specialmente fiorentina; la scelta di un modello inusuale in Italia ma caro ai cubisti francesi come Jean-Baptiste-Siméon Chardin; la particolare tecnica pittorica di rappresentazione degli oggetti nello spazio attraverso varianti tonali di un unico colore.

I quadri sopravvissuti dipinti tra il 1915 e la prima metà del 1918, e, in particolare, le nature morte e i quadri di Fiori dipinti nel 1916 (Vitali, 1977, nn. 26-29), costituiscono una straordinaria eccezione nella pittura italiana coeva. Superando la suggestione pittorica cézanniana e primo cubista, Morandi lavorò sul tema della sintesi formale degli oggetti e della loro riduzione a sagome ritagliate contro lo sfondo secondo un sofisticato processo di astrazione del visibile. Rielaborò, in modo sorprendentemente autonomo, la lezione di Rousseau (nella sospensione della visione), di Henri Matisse (nei colori variati tra l’argenteo, i grigi e i rosa) e del Picasso dei collage cubisti. Inoltre gli intervalli di calcolata armonia geometrica dimostrano la sua attenzione per le riletture in chiave modernista di Giotto e Paolo Uccello compiute da Carrà nei testi pubblicati sulla Voce.

Verso la metà del 1918 iniziò un ciclo di Nature morte che si possono mettere in relazione con opere di poco precedenti di Carrà e De Chirico. Questa fase della sua produzione, che comprende 19 quadri (Vitali, 1977, nn. 35-48) è abitualmente, anche se impropriamente, nota come metafisica: la tipica attrezzeria metafisica (manichini, squadre, solidi geometrici) compare infatti solo in alcune di queste opere, accomunate piuttosto da una enigmatica poesia spaziale e da una tecnica pittorica nuova, dalla materia compatta e dalle stesure uniformi.

Il 1919 è la data del decisivo ingresso di Morandi nella vita culturale italiana. Una sua natura morta del 1918 venne riprodotta sul numero primaverile della rivista Valori plastici, accompagnata da un testo di Raffaello Franchi. Nell’agosto del 1919 il suo studio venne visitato da Carrà che segnalò il pittore all’attenzione di Soffici. Mario Broglio, direttore di Valori plastici e titolare della omonima società di promozione artistica, visitò il suo studio nel novembre e nel dicembre ritornò a Bologna dove acquistò 15 quadri dal 1911 al 1919 (attribuendo loro un valore unitario variabile da 250 a 675 lire) e legò a sé il pittore con un contratto di esclusiva, con pagamenti mensili a fronte di consegna di opere. I termini di questo contratto furono rinnovati nel 1921; per i pagamenti si affiancarono a Broglio due suoi cofinanziatori, FlaminioMartellotti e Mario Girardon; ma, a partire dal 1923, termini di consegna delle opere e liquidazione delle rate si fecero irregolari e il contratto fu risolto nel 1928, con la cessione definitiva a Broglio di 33 quadri e 7 acquarelli, liquidati a Morandi al prezzo di 350 lire l’uno (Fergonzi, 2004, pp. 490-515). Broglio si impegnò inizialmente a sostenere Morandi, sia dedicandogli le riproduzioni di un numero di Valori plastici, uscito alla fine del 1919, sia legandolo all’attività espositiva del gruppo: quadri morandiani vennero così inviati alla Mostra itinerante della giovane arte italiana in Germania del 1921 (nella quale si registrò la vendita di una natura morta) e alla mostra della Primaverile fiorentina (aprile-luglio 1922), occasione nella quale Morandi venne presentato in catalogo da uno scritto di De Chirico che lo accomunava al movimento di riscoperta della «metafisica degli oggetti più comuni » e lo diceva in continuità con la tradizione disegnativa dell’arte italiana «in quello che essa contiene di più scheletricamente bello» (G. De Chirico, Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica, autobiografia 1911-1943, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Torino 1985, p. 236).

Nel biennio metafisico si distinguono nettamente le nature morte del 1918, dalle più radicali provocazioni prospettiche e debitrici della suggestione degli ardui polimaterici di Picasso del 1913 (Fossati, 1995, pp. 142-167), da quelle del 1919, dove la pittura è più spessa e compatta, e la composizione palesa il ritorno alla grammatica compositiva di Cézanne. La prima Natura morta dipinta nel 1920 (Vitali, 1977, n. 51) fa da sutura alle opere degli anni successivi: in questo quadro cruciale Morandi rivela una nuova attenzione percettiva al dato naturale e una materia chiara e opaca, memore dell’affresco tre e quattrocentesco. La visita, alla XII Biennale di Venezia del 1920, di una importante mostra retrospettiva di Cézanne coincise con l’approdo a una pittura più naturalista: abbandonati i complicati teoremi spaziali della metafisica, Morandi iniziò a dipingere nature morte caratterizzate da gamme cromatiche più ricche e da un chiaroscuro più modulato; e paesaggi di una respirante sensibilità atmosferica.

La chiusura, nel 1922, della rivista Valori plastici, il crescente disinteresse, a partire dalla fine del 1923, nei confronti della sua produzione da parte di Broglio e dei suoi cofinanziatori e, infine, l’imporsi in Italia, con la Biennale del 1924, di una pittura di figura ambiziosamente classicista fecero avvertire a Morandi, in termini molto crudi, l’isolamento dal mondo artistico italiano. Questo isolamento ebbe ovvie conseguenze economiche con la riduzione dei suoi proventi a quelli di insegnante di disegno nelle scuole elementari in disagiati paesini del Modenese. In quegli anni difficili Morandi si dedicò con crescente passione all’incisione ad acquaforte, da lui praticata fin dal 1912, di fatto rivoluzionando la stagnante tradizione italiana della stampa di invenzione: il recupero della tecnica a tratto incrociato dei Carracci andò di pari passo con sofisticate, e ardite, ricerche chiaroscurali miranti a restituire, nel bianco e nero della stampa, il ricchissimo tessuto tonale della sua pittura. Più volte, anzi, l’incisione venne da lui intesa come momento precedente alla pittura: quest’ultima ne fu debitrice, particolarmente verso la fine degli anni Venti, quando alcune soluzioni di controluce e di sovraesposizione luminosa si spiegano solo in relazione a incisioni già eseguite.

La sua opera incisoria, tirata sempre in un numero limitato di stampe (fino a un numero massimo di 75 esemplari) fu sostenuta con sistematicità dal periodico di fascismo strapaesano Il Selvaggio diretto da Mino Maccari; non solo la rivista pubblicò molte acqueforti morandiane (24 dal 1926 al 1938), ma il nome di Morandi fu tra quelli di punta nelle esposizioni organizzate dal periodico: la mostra inaugurale (febbraio 1927) della ‘Stanza del Selvaggio’, la galleria aperta da Maccari a Firenze (in questa occasione Morandi conobbe Giuseppe Bottai, che gli comprò due fogli), e la II Esposizione (aprile 1927). Il successo del Morandi incisore fu sancito con l’invito a presentare una serie di acqueforti alla XVI Biennale di Venezia (1928): in quella occasione i fogli in vendita furono acquistati dall’élite culturale e politica del fascismo e da alcune istituzioni museali (le Gallerie di Roma, Piacenza e Vienna).

A partire dal 1926, per un anno, grazie all’interessamento di Leo Longanesi e Camillo Pellizzi, e con la probabile mediazione, presso il ministero della Pubblica Istruzione, di Ernesto Codignola, Morandi fu nominato ispettore locale per il disegno nelle scuole elementari delle provincie di Modena e Reggio Emilia. Nell’anno scolastico 1929-1930 poté sostituire, per l’insegnamento di pittura di figura, il professor Giovanni Romagnoli presso il liceo artistico di Bologna. Il fronte creato tra Maccari, Longanesi e il segretario del sindacato degli artisti fascisti, il romano Cipriano Efisio Oppo, consentì, con l’aiuto di Bottai, di far ottenere a Morandi la cattedra di incisione per chiara fama nel gennaio 1930. Questa nomina fu accolta come una vittoria di Strapaese, che aveva imposto un nome (e i valori) del più puro fascismo delle origini contro le resistenze del mondo accademico.

Il riapprodo del Morandi pittore sulla scena artistica nazionale era però, a questa data, già avvenuto con i tre invii (una Natura morta, un Paesaggio e un Autoritratto) alla I Mostra del Novecento italiano a Milano del gennaio 1926: l’acquisto della Natura morta da parte di Mussolini ebbe il significato di affermare il valore ideologico di un fascismo originario, rurale, lontano dalle mode care a Margherita Sarfatti, organizzatrice della mostra. I quadri di Morandi esposti a Milano risvegliarono un certo interesse intorno al suo nome. Nello stesso anno l’editore Giovanni Scheiwiller mise in contatto l’artista con il direttore della Galleria d’arte moderna di Zurigo per la cessione di un’incisione; poi, nel 1929, con il direttore della Galleria d’arte moderna di Mosca, cui fece da tramite nel 1930 per la vendita di una Natura morta. Nel 1929 una Natura morta (Vitali, 1977, n. 128) esposta alla II Mostra del Novecento italiano venne comprata dal primo collezionista privato milanese, il sarto Alberto Faccincani. Alla Biennale di Venezia del 1930, la prima in cui Morandi fu invitato come pittore, una Natura morta (Vitali, 1977, n. 146) fu acquistata, su probabile suggerimento di Carrà, dalla Galleria d’arte moderna di Milano per la cifra di 2200 lire, in forte anticipo sul resto degli altri musei italiani: quadri di Morandi entrarono infatti solo nel 1935 alla Galleria comunale d’arte moderna di Roma; nel 1939 alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma e alla Galleria civica d’arte moderna di Torino, mentre né Firenze, né Venezia né, tanto meno, Bologna, avrebbero avuto nelle loro raccolte pubbliche un Morandi prima del secondo dopoguerra.

Alla I Quadriennale Romana del 1931, la prima esposizione nella quale fu presente con un incarico ufficiale (era membro della giuria di accettazione delle opere), Morandi inviò tre nature morte caratterizzate da una ardita regia compositiva e da contrasti luminosi estremi (Vitali, 1977, nn. 147, 148 e 157): esse furono oggetto di invelenite prese di distanza da parte dell’ambiente artistico di Bologna e il pittore e critico di riferimento della città, Nino Bertocchi, ne denunciò la «grassa, oleosa, pasticciata materia pittorica» e gli squilibri tonali (Alla Prima Quadriennale. Gli Emiliani, in L’Italia letteraria, 15 febbraio 1931, p. 3). Due di esse, però, furono comprate al prezzo unitario di 3500 lire da Soffici, con un gesto che legittimò presso un pubblico dai gusti più tradizionali la grandezza di una pittura dai connotati stilistici visionari ed espressionistici.

Nel 1928 Morandi consegnò alla rivista di fascismo oltranzista bolognese L’Assalto, sotto forma di breve autobiografia, una delle sue rare dichiarazioni di poetica. Reso omaggio al fascismo come rinnovatore dell’atmosfera artistica italiana, indicò in Firenze il suo luogo d’elezione per la presenza di una tradizione pittorica di severa costruzione plastica (Giotto e Masaccio) e di un dibattito intellettuale cui si sentiva legato; e additò in una linea francese di naturalismo ottocentesco (estesa da Camille Corot a Courbet a Cézanne) il suo riferimento privilegiato per la pittura moderna (Autobiografie di scrittori e di artisti del tempo fascista, in L’Assalto, 18 febbraio 1928, p. 3). I testi critici su Morandi che seguirono questa dichiarazione di poetica sembrarono non prestarvi attenzione: si imposero, piuttosto, le interpretazioni che videro in lui un campione di quieta semplicità provinciale, nella sua variante specificamente bolognese (Maccari, 1928; Longanesi, 1928); e quelle che videro in Morandi un esempio di continuazione con la grande tradizione italiana, capace di sublimare l’osservazione della realtà in ordine classico (Soffici, 1932, pp. I-VIII).

Negli anni Venti si affiancarono alla natura morta, e in percentuale sempre crescente, paesaggi, quadri di fiori e, anche se in misura minore, ritratti e autoritratti. Il ritorno a questi generi già prediletti negli anni giovanili consentì a Morandi di sperimentare possibilità stilistiche diverse: le dislocazioni spaziali si fecero più sfumate, le percezioni più instabili e dal rigore della regia spaziale l’attenzione venne spostata sul tono, la gamma coloristica, il tocco della pennellata. Il decennio rappresentò per Morandi una svolta importante in termini di riferimenti visivi. Per il paesaggio egli scoprì, in riproduzione e in originale alla III Biennale romana, la pittura di Corot e con essa si misurò a lungo. Nei quadri di fiori recuperò il ricordo dei raffinati impasti della pittura di Renoir. Nelle nature morte affiancò alla lezione di Cézanne, per poi sostituirla, quella di Chardin: esse assomigliarono sempre più a costruzioni di oggetti stabili come una architettura, dipinte però con una pittura di carattere contrario, caratterizzata dal trepidante tocco di pennello e dal soffuso chiaroscuro. Con la fine degli anni Venti le nature morte evolsero nella direzione di quadri volutamente ineleganti, dimessi nei contenuti, ricchi di materia.

Gli anni Trenta furono per Morandi il periodo della stabile consacrazione nelle gerarchie dell’arte italiana. Il decennio, per il pittore, fu privo di decisivi eventi biografici: insegnò incisione all’Accademia di Bologna (con lezioni collocate il venerdì e il sabato mattina, in modo che non interferissero troppo con il suo mestiere di pittore); traslocò, nella stessa casa di via Fondazza, in un appartamento più grande, con uso di giardino privato; tenne un’intensa attività espositiva, con i quadri e le incisioni che toccarono importanti sedi internazionali, in manifestazioni ufficiali del governo italiano (la mostra del Jeu de Paume a Parigi nel 1935; la Golden Gate International Exposition di San Francisco nel 1939) e in tre edizioni del premio Carnegie a Pittsburgh (1929, 1933 e 1936, grazie all’intercessione del veneziano Ilario Neri, uno dei suoi primi raccoglitori).

Il decennio fu caratterizzato da due fondamentali circostanze che si intrecciarono tra di loro. La prima è l’attenzione dimostrata a Morandi dal più intelligente e vitale collezionismo d’arte moderna, fuori dalla cerchia dei pochi amici, artisti letterati o politici. L’impulso decisivo per questa nuova fortuna collezionistica venne dato dall’interesse manifestato dai milanesi e dai lombardi. Il pittore Giuseppe Cesetti iniziò ad acquistare, nei primi anni Trenta, quadri di Morandi che costituirono il cuore del nucleo collezionistico del gallerista Carlo Cardazzo, il quale riuscì a imporre il nome dell’artista a Venezia. Negli stessi anni iniziarono a interessarsi a Morandi un agiato mercante di spezie e raffinato critico militante, Lamberto Vitali (che si legò a lui con una quarantennale amicizia) e un atipico e intelligente collezionista bresciano, l’avvocato Pietro Feroldi, che riunì una straordinaria selezione di una ventina di quadri ceduti nel 1949 a Gianni Mattioli. Al 1934 risalgono i primi contatti tra Morandi e la galleria del Milione (M. e il suo tempo, 1985, p. 33), di proprietà dei fratelli Ghiringhelli, che organizzarono una personale milanese dell’artista di cui non è rimasta documentazione. Nei secondi anni Trenta il gallerista Vittorio Barbaroux, gli avvocati Rino Valdameri e Adriano Pallini, l’industriale del caffè Emilio Jesi, l’ingegnere Antonio Boschi, il principe Alfonso Orombelli acquistarono importanti selezioni di quadri morandiani, mossi da una spinta che univa da un lato il riconoscimento della qualità del pittore e dall’altro la speculazione mercantile su un nome il cui valore sembrava destinato ad aumentare col tempo. Ai milanesi si affiancarono il genovese Alberto Della Ragione, i romani Anna Letizia Pecci Blunt, proprietaria della galleria della Cometa (che, nel 1936, lanciò il nome di Morandi negli Stati Uniti con la succursale di New York della sua galleria), Pietro Rollino, la principessa Margherita Caetani di Sermoneta. A dare una scossa ai prezzi fu il rientro sul mercato dei quadri della Società Valori plastici che erano stati di Broglio e di Martellotti, subito tesaurizzati da Valdameri, Barbaroux, Della Ragione e rivenduti spesso rapidamente con valutazioni che raggiunsero le diverse decine di migliaia di lire, quando Morandi continuava a vendere le sue tele a meno di 1000 lire l’una.

La seconda circostanza fu la nuova stagione di fortuna critica di Morandi. Essa ebbe avvio quando, nella prolusione all’anno accademico 1934-1935 dell’Università di Bologna, Roberto Longhi concluse l’importante rassegna dedicata a sei secoli di arte bolognese osservando come Morandi, «uno dei migliori pittori viventi d’Italia», si fosse inserito nella tradizione più alta del locale naturalismo (da Vitale da Bologna ad Annibale Carracci a Daniele Crespi) «con una lentezza meditata, con una affettuosa studiosità » tale da ricordare quella di un «nuovo incamminato » (Longhi, 1935, p. 135). L’accenno giunse particolarmente inatteso nell’ambiente bolognese (dove il pittore era per lo più considerato un epigono di un locale Ottocento minore, o una vittima delle mode moderniste) e collocò Morandi in prima fila del dibattito culturale italiano. Il decennio si chiuse con la decisiva analisi purovisibilista dedicata da Cesare Brandi a tre decenni di pittura e incisione morandiana, pubblicata nel 1939 per Le Arti: Brandi riconobbe il ruolo decisivo della stagione metafisica di Morandi, con il suo «ritrovamento dell’oggetto» e la progressiva conquista, negli anni Venti e Trenta, del tono come «colore di posizione» (Brandi, 1939, pp. 245-255).

In occasione della III Quadriennale di Roma del 1939 fu assegnata a Morandi, grazie all’interessamento di Longanesi e di Oppo, una sala intera per una retrospettiva: la mostra (di 42 quadri, 12 acqueforti e due disegni che ripercorrevano la sua attività a partire dal 1913) ebbe un notevole successo, fu accompagnata da una serrata discussione (con punte, anche, aspramente polemiche negli scritti di un rivale incisore come Luigi Bartolini e di un gerarca oltranzisticamente antimodernista come Roberto Farinacci) e fece vincere all’artista il secondo premio per la pittura. Morandi, il quale aveva fino ad allora rifiutato offerte di mostre personali, selezionò con estrema attenzione un percorso che si incentrava sui capolavori del secondo decennio e riservò una particolare attenzione alla fase più romanticamente scomposta dei primi anni Venti, la meno nota al pubblico. La sala romana del 1939 di Morandi colpì specialmente i più giovani pittori italiani, che nei quadri del 1916-1919 riscoprivano un pittore capace di misurarsi coraggiosamente con l’avanguardia internazionale, da Derain a Rousseau a Picasso; inoltre la selezione di paesaggi e nature morte dai formati ridotti e dai soggetti insignificanti (oggetti quotidiani, vedute inamene) apparve loro provocatoria anche da un punto di vista politico, specialmente in concomitanza con i coevi espliciti appelli all’illustrazione pittorica di temi fascisti.

Le nature morte degli anni Trenta si distinguono per una rinnovata monumentalità. Il pittore avvicina lo sguardo alla ribalta, annullando la linea dell’orizzonte e facendo assumere agli oggetti forme e dimensioni spesso inquietanti. I volumi non sono, di norma, suggeriti attraverso le risorse del chiaroscuro. L’illusione di profondità e l’emersione dei piani sono ottenuti attraverso la giustapposizione di zone uniformemente colorate che, come in una tarsia prospettica o una ‘pittura di luce’ del Quattrocento, si saldano tra loro lungo i contorni ed emergono uniformi sulla superficie del quadro: solo le differenti qualità di tono fanno intuire la loro reciproca collocazione nello spazio. La stesura dei piani cromatici non segue, inoltre, l’ordine tradizionale (partire dallo sfondo per concludersi col primo piano) ma uno inverso, con lo sfondo dipinto alla fine: Morandi aumenta in questo modo il carattere di sospesa atemporalità della natura morta. Solo verso il 1938, in una serie di opere presentate alla Quadriennale del 1939, ricominciò a dare rilievo ai volumi degli oggetti attraverso forti stacchi di colore, rosso o turchino.

I paesaggi degli anni Trenta portano alla massima radicalizzazione il processo di visione astratta: i tagli compositivi si fanno molto arditi e le poche presenze (alberi e case, mai esseri viventi) si riducono a macchie campite di una pennellata matericamente ricca e risentita nel tratto.

Morandi visse gli anni della seconda guerra mondiale con angoscia e spaesamento. Di idee politiche moderate e liberali, lesse la guerra (e specialmente gli avvenimenti della guerra civile) come una dolorosa incrinatura della stabilità del mondo e un salto nella barbarie. In concomitanza con la diminuzione della sua visibilità pubblica crebbe la sua importanza come riferimento culturale e iniziò a essere considerato il maggiore artista italiano da un gruppo di intellettuali (Brandi, Longhi, Giulio Carlo Argan) vicini al ministro Bottai e da questo protetti: nel suo cruciale scritto Fronte dell’arte del 1941 lo stesso Bottai lo indicò come il più significativo esempio dell’arte del ventennio fascista per la sua capacità di ristabilire il «peso del fattore etico nel fatto artistico» (Bottai, 1941, p. 156). Negli stessi anni la sua opera venne ricercata con sempre maggiore attenzione dal collezionismo e una sua Natura morta del 1928 (Vitali, 1977, n. 133) della raccolta Vallecchi ottenne il primo premio nella Mostra delle Collezioni d’arte contemporanea di Cortina d’Ampezzo nel 1941.

Durante la guerra Morandi prese a frequentare personaggi legati all’antifascismo di area fiorentino-emiliana. A causa dei suoi rapporti di consuetudine con Cesare Gnudi e soprattutto con Carlo Ludovico Ragghianti, da lui conosciuto nel 1935 (e che nel 1939 aveva trasferito a Bologna il centro operativo di Giustizia e Libertà) fu arrestato il 23 maggio 1943 e detenuto per una settimana nel carcere bolognese di S. Giovanni in Monte, per poi essere rilasciato grazie all’intervento di Longhi e Maccari. Dal giugno del 1943 al settembre del 1944, allo scopo di sfuggire ai bombardamenti alleati su Bologna, visse quasi costantemente a Grizzana, dipingendo isolato, dedicandosi al paesaggio (per poter lavorare all’aperto fu costretto a chiedere un permesso speciale all’autorità di occupazione germanica), raggiunto dalle notizie dei tragici avvenimenti italiani e raramente visitato da pochi amici tra i quali Longhi, Francesco Arcangeli, Alberto Graziani, Giuliano Briganti. Nell’autunno del 1944 rientrò precipitosamente a Bologna per l’avanzare del fronte, il divampare della lotta sulla linea gotica e l’occupazione, da parte delle truppe tedesche, della casa affittata da lui e dalle sorelle a Grizzana.

Alla fine della guerra poté, in forza della poetica antieroica delle sue nature morte e dei suoi paesaggi, essere considerato immune dalle contiguità col fascismo. A differenza di altri artisti avvenne infatti senza problemi la revisione della sua posizione di professore presso l’Accademia di Bologna, ottenuta senza concorso e perciò passibile di annullamento da parte della preposta Commissione alleata (nonostante l’artista vivesse con una certa preoccupazione questo passaggio, come è documentato nelle lettere a Francesco Paolo Ingrao); venne inoltre chiamato a far parte della commissione della prima Biennale di Venezia dell’Italia liberata, quella del 1948. Proprio il rifiuto di ogni compromesso fu interpretato, nella critica postbellica (Gnudi, Giuseppe Marchiori, Arcangeli, Alessandro Parronchi), come un’attiva resistenza contro il vacuo neoumanesimo dell’arte dell’era mussoliniana: l’isolamento di Morandi apparve così come l’unica via possibile, per un artista italiano, di dialogare con la linea più alta e libera della coeva cultura europea. Questo tema fu per la prima volta proposto in un intenso contributo di Longhi, che, ad apertura di una monografica morandiana tenuta nel 1945 alla galleria del Fiore, ravvisò nella poetica di scavo interiore dell’artista una precisa corrispondenza con quella della Recherche proustiana (Catalogo della Mostra di dipinti di G. M., 1945, pp. n.n.)

La prima Biennale italiana del dopoguerra aprì il padiglione italiano con un’antologica della pittura italiana dal 1910 al 1920 in cui la selezione delle opere di Morandi gli valse il primo premio per un pittore italiano. Ma intorno al magistero formale di Morandi nel mutato panorama culturale e politico della fine della guerra e del dopoguerra si scatenò anche una polemica condotta da critici vicini al Partito comunista italiano che nel rigoroso formalismo dell’artista lessero un atteggiamento di decadentistico disimpegno, e, persino «l’espressione del più composto individualismo accademico» (A. Trombadori, Artisti e critici dopo la liberazione, in Rinascita, gennaio 1945, p. 54).

Dal 1940 al 1945 Morandi dipinse molti paesaggi e tre serie distinte di nature morte. La prima, iniziata nel 1940, ebbe per tema le composizioni di conchiglie: il clima della guerra traspariva nella ossessiva dominante grigiastra dei toni e nella concentrazione su oggetti-relitti privi di vita, scarni e induriti. Nella seconda serie rappresentò stoviglie e vasi in ceramica che esibivano fragilità di materia e preziosità di consuetudini domestiche da salvaguardare negli anni più cupi del conflitto. Nella terza serie continuò a rappresentare gli oggetti più consueti con una cromia cupa, accesa da bagliori rossastri. Le realizzazioni più eccezionali della guerra sono i paesaggi dipinti a Grizzana fino al 1944, dominati da una severa ricerca compositiva che riesce a trasmettere, nella desolazione degli scorci e nella freddezza della gamma cromatica, il senso di angoscia derivato dagli eventi coevi. Nell’immediato dopoguerra Morandi abbandonò completamente il paesaggio, concentrandosi su nature morte dominate da una luce nitida e chiarissima, capace di trasfigurare gli oggetti e ridurli a forme prive di consistenza reale.

La vittoria del primo premio alla Biennale di Venezia del 1948 collocò Morandi, per la prima volta, in un quadro di apprezzamento internazionale. Esso fu ribadito, nel 1949, con la importante selezione di quadri scelti da Alfred Barr jr. e James Thrall Soby per la mostra antologica XXth Century Italian Art al Museum of modern art di New York e dall’acquisto, da parte del Museo, della decisiva Natura morta del 1916 (Vitali, 1977, n. 27 ) che era stata fino ad allora gelosamente posseduta dall’artista. Nelle varie mostre collettive di arte italiana moderna presentate all’estero nel 1950 per cura della Biennale la sua opera venne a rappresentare uno dei rari punti d’incontro dell’arte italiana con le poetiche dell’avanguardia europea, dal postimpressionismo al cubismo e all’astrattismo.

Nel dopoguerra Morandi non volle più tenere mostre personali in Italia. Fu, invece, attivo nel favorire la conoscenza della propria opera all’estero in una serie di importanti mostre personali (tra le maggiori a L’Aia, 1954; a Winterthur, 1956; a New York, 1957; a Ginevra, 1963). Di particolare rilievo furono le due partecipazioni alle Biennali di San Paolo del Brasile del 1953 e del 1957: in quest’ultima occasione, presentato in catalogo da Rodolfo Pallucchini, Morandi vinse il cospicuo gran premio della pittura del valore di 2 milioni di lire. I suoi quadri degli anni Cinquanta furono inoltre presenti alle prime due edizioni di Documenta a Kassel, inseriti nella sezione delle fonti dell’arte del Novecento (1955) e, addirittura (1959), in dialogo con le poetiche dell’informale.

La nuova fama internazionale non provocò mutamenti di sorta nelle abitudini nella vita riservata del pittore che visse sempre nello stesso appartamento di via Fondazza, trascorse le vacanze estive a Levico, in Valsugana, e poi, dal 1958, in una pensione di nuovo a Grizzana, dove, nel 1960, si fece costruire una semplicissima casa. Solo nel 1956 fece domanda per il passaporto, allo scopo di presenziare all’inaugurazione della personale di Winterthur e studiare dal vero, presso la collezione Oskar Reinhart, i quadri di Chardin e di Cézanne lì conservati. Nello stesso 1956 presentò all’Accademia di Bologna la domanda di pensionamento dopo 26 anni di insegnamento presso la cattedra di incisione. La sua attività di incisore, già diradatasi per problemi di vista negli anni Cinquanta, si concluse con una piccola natura morta di tre oggetti nel 1961 (Cordaro, 1991, n. 1961, 1). Vanno segnalate, nei secondi anni Cinquanta, due dichiarazioni di poetica che inserirono Morandi nel dibattito internazionale sull’astrazione pittorica. Nella prima, contenuta in una intervista registrata nel 1955 da Peppino Mangravite e trasmessa nel 1957 dall’emittente radiofonica Voice of America, dichiarò la sua strenua fedeltà al mondo del visibile, in sé astratto perché traducibile soltanto in puri rapporti matematici (G. M. 1890-1964, 2008, pp. 349 s.); nella seconda, rilasciata nel 1958 al critico francese Edouard Roditi, ribadì l’astrattezza assoluta del mondo visivo quale è percepito dall’uomo: «nulla può essere più astratto, più irreale, di quello che effettivamente vediamo » (Roditi, 1960, p. 55).

Anche il collezionismo morandiano assunse una dimensione internazionale e annoverò nomi di grande prestigio come José Luiz Plaza, Curt Valentin, Paul Mellon, Duncan Phillips, Ralph Colin: la pittura di Morandi era avvertita come uno dei vertici del moderno non solo perché esclusivamente concentrata sui problemi della forma, ma perché sembrava visualizzare la solitudine esistenziale dell’uomo del dopoguerra. La presenza e la discussione di un suo quadro in una scena cruciale del film La dolce vita di Federico Fellini (1960) testimonia bene l’interesse particolare dimostrato per i quadri di Morandi dal mondo del cinema, peraltro lontanissimo dalle frequentazioni dell’artista. Il suo mito crebbe presso i nuovi collezionisti italiani anche grazie alla sapiente strategia di mercato della galleria del Milione, esclusivista per l’Italia della sua produzione: l’assenza di ogni programmazione espositiva aumentava l’interesse per i quadri, stimolato dalla loro difficile accessibilità, con il risultato che la domanda superava regolarmente l’offerta. A corroborare il mito Morandi contribuiva l’inattualità di una figura d’artista d’altri tempi: la letteratura giornalistica lo presentava, in pieno boom economico, come indifferente al denaro, alle quotazioni che le sue opere andavano raggiungendo (in un’asta milanese nel 1960 una sua Natura morta del 1946 venne aggiudicata a 3.700.000 lire) e desideroso solo di pace per poter lavorare.

Lungi dal fissarsi in una produzione stereotipa, la sua opera nell’ultimo periodo di vita toccò vertici inaspettati. Morandi alternò serie di nature morte (spesso con minime varianti nei quadri all’interno della stessa serie; con decisive differenze, nelle varie serie, per formato della tela, affollamento della ribalta e gamme cromatiche) in cui rimise radicalmente in gioco le leggi del genere. Di volta in volta ridusse gli oggetti rappresentati a pure forme plastiche, li raggruppò secondo schemi architettonici, li dissolse in un pulviscolo atmosferico dominato dal percorso autonomo della pennellata, come nella pittura dell’informale. Negli acquarelli, che realizzò con continuità dopo il 1957, potenziò il bianco del foglio come valore costruttivo, con effetti di una inquietante sospensione emotiva. Nei paesaggi, che riprese a dipingere nel 1954 dopo un intervallo decennale, la visione si fece progressivamente astratta, con un’attenzione sempre maggiore per le ambiguità spaziali.

A partire dagli anni Cinquanta la galleria del Milione promosse la catalogazione dell’opera dell’artista. Nel 1957 Vitali pubblicò, presso l’editore Einaudi, una accurata e sontuosa edizione del suo corpus incisorio. Nel 1964 uscì, per le edizioni della galleria del Milione, un’importante monografia sul Morandi pittore per la quale Morandi scelse le riproduzioni, controllò personalmente la qualità delle tavole a colori e dettò inclusioni ed esclusioni per la antologia della critica. Il testo introduttivo era stato in origine (1959) affidato ad Arcangeli, ma sopravvennero aspri contrasti tra lui e Morandi: il pittore fu irritato dai passi in cui Arcangeli polemizzava contro le idee critiche di Brandi e di Argan o contro la pittura di Picasso; e soprattutto quando proponeva confronti tra Morandi e l’informale europeo e americano. Questi contrasti spinsero il Milione a rivolgersi per questo testo a Vitali. Il lungo saggio di Arcangeli, che faceva di Morandi un protagonista di primo piano della cultura europea, non solo figurativa, del suo secolo, venne pubblicato come libro autonomo subito dopo la morte dell’artista e con le soppressioni da quest’ultimo volute.

Tra i riconoscimenti ottenuti da Morandi nell’ultimo scorcio della vita vanno ricordati il Rubenpreis a Siegen (1962) e l’Archiginnasio d’oro assegnatogli dal Comune di Bologna (1963).

Malato da più di un anno di tumore ai polmoni, morì a Bologna il 18 giugno 1964.

La sua morte fu simbolicamente letta in Italia come la fine di una intera civiltà artistica che aveva posto al centro del proprio interesse la pura ricerca formale. Tra i necrologi si ricorda in particolare quello scritto da Longhi, e trasmesso dalla trasmissione radiofonica L’Approdo, in cui il grande storico dell’arte, coetaneo di Morandi, celebrò la sua «così poetica ricognizione del mondo di natura da non trovar pari nel cinquantennio che gli toccò attraversare », sottolineando la «nemesi capricciosa ma non priva di significato» che aveva fatto coincidere l’uscita di scena dell’artista con l’inaugurazione della Biennale di Venezia del 1964 e la presentazione dei «prodotti della pop-art».

Fonti e Bibl.: Le maggiori raccolte di documentazione archivistica su Morandi sono depositate presso l’Archivio del Museo Morandi (un cui regesto delle lettere ricevute da Morandi e dei libri da lui posseduti è in Museo Morandi. Catalogo generale, Cinisello Balsamo 2004, pp. 48-93) e presso il Centro studi Giorgio Morandi di Bologna. Le lettere di M. sono disseminate in pubblicazioni sparse e alcune cruciali (per es. quelle a Lamberto Vitali e a Gino Ghiringhelli) sono ancora inedite e non consultabili. Un’antologia è in G. Morandi, Lettere, a cura di L. Giudici, Milano 2004. Le lettere a Raimondi sono in G. Raimondi, Anni con G. M., Milano 1970; a Broglio, in La pittura metafisica, a cura di G. Briganti - E. Coen, Vicenza 1979; a Luigi Magnani, in L. Magnani, Il mio M. Un saggio e cinquantotto lettere, Torino 1982; a Soffici, in «A Prato per vedere i Corot». Corrispondenza M.-Soffici per un’antologica di M., a cura di L. Cavallo, Milano 1989; a Brandi (con le lettere di risposta di Brandi a M.), in C. Brandi, M., a cura di M. Pasquali, Roma 1990; a Carlo Alberto Petrucci, in Il carteggio M. - Petrucci, a cura di L. Ficacci, in M. Incisioni. Catalogo generale, cit., 1991, pp. 138-179; a vari corrispondenti dell’ultimo periodo, in M. Pasquali, M. e il mondo dell’arte. Lettere 1950-1964, in M. ultimo. Nature morte 1950-1964, a cura di L. Mattioli Rossi, Milano 1997, pp. 213-228; a Parronchi in 72 missive di G. M. ad Alessandro Parronchi, a cura di A. Parronchi, Firenze 2000; a Ingrao, in M.L. Frongia,M. nella collezione Ingrao. Epistolario M. - Ingrao 1946-1964, Nuoro 2001; a Pallucchini, in M.C. Bandera, M. sceglie M.: corrispondenza con la Biennale 1947-1962, Milano 2001; a Maccari, in Museo Morandi. Catalogo generale, cit., 2004, pp. 87-92; a queste vanno aggiunte quelle pubblicate in M. Pasquali, Prove di un’amicizia vera: nove lettere di G. 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Filippo tommaso marinetti

Carlo ludovico ragghianti