CARDUCCI, Giosuè

Enciclopedia Italiana (1930)

CARDUCCI, Giosuè

Guido Mazzoni

Nato il 27 luglio 1835 a Val di Castello, in quel di Pietrasanta, da Michele, medico di sentimenti liberali, e da Ildegonda Celli, crebbe nella Maremma pisana, a Bolgheri e a Castagneto, educato fortemente alle lettere classiche da suo padre e al patriottismo anche da sua madre. Dal 1849 al 1852 studiò nelle Scuole pie di Firenze, dove principalmente sentì l'efficacia dello scolopio Geremia Barsottini, per il quale tradusse in prosa gran parte delle odi d'Orazio, mentre ne era insieme sospinto verso le liriche del Rossetti e del Prati. Già in lui, giovinetto, si scorgono le tendenze che di grado in grado l'innalzarono a quell'unione della tradizione classicheggiante e del rinnovamento romantico, che è caratteristica della sua arte. Al quale proposito va notato che, anche prima del Barsottini, suo padre stesso nell'insegnargli bene il latino, l'aveva costretto altresì, da manzoniano fervente quale era, a studiare I Promessi Sposi. In un ordine simile di sensazioni, se non contrastanti, diverse, lo mantennero gli amici della sua giovinezza; alcuni, come Giuseppe Chiarini, puristi e devoti al Leopardi e al Giordani; altri, come Enrico Nencioni, prelievi al culto degli stranieri moderni. Si hanno ora a stampa nel vol. Primizie e reliquie i primi effetti di cotesta svariata e intensa preparazione, e non si può non meravigliarsi di trovarvi già, di tanto in tanto, un qualche iniziale accordo fra le due scuole allora in contesa. Dopo aver studiato lettere e filosofia nell'università di Pisa e in quella scuola normale superiore, dal 1853 al 1856, e avervi conseguito la laurea e il diploma di magistero, insegnò nel ginnasio di San Miniato, detto allora al Tedesco; e una delle più vivaci e note sue prose, Le "risorse" di San Miniato, racconta quel vivere d'allora e come là egli ordinò e stampò (con dedica al Leopardi e al Giordani, "grandissimi", egli "piccolissimo") il fascicoletto delle sue Rime, nel 1857. Venuto in un certo sospetto alla polizia, rimase in Firenze, senza uffizî pubblici, dalla fine di quell'anno al 1860; poi insegnò per un anno lettere italiane e classiche nel liceo di Pistoia. Fu Terenzio Mamiani che lo nominò professore di letteratura italiana nell'università di Bologna, dal novembre 1860; cattedra che il C. tenne fino al 1903. Senatore del regno dal 1890, morì a Bologna il 16 febbraio 1907; e vi ebbe solenni onoranze funebri. Vi ha ora anche un degno monumento, opera del Bistolfi, nel giardino della casa dove morì e dove è la biblioteca che da lui vivente acquistò la regina Margherita. Sposò nel 1859 una sua parente, Elvira Menicucci, e ne ebbe un figlio, Dante, morto bambino, e tre figlie, Bice, Laura, Libertà.

La sua vita privata ebbe dolori, crucci, passioni; ma non tali da estrinsecarsi in casi che importi riferire, poiché negli stessi accenti dell'arte essa si offre ai lettori con tutto ciò che occorre a intenderla. Fu uomo semplice, leale, d'ottima generosità; pronto a scattare in primi impeti, talvolta eccessivi; pronto a ricredersi, a scusarsi, a dimenticare. Preferì a ogni agio, a ogni mollezza, la quiete (e alla campagna aspirava, senza mai goderla); e ad ogni lusso, il procurarsi libri; cosi che si formò una raccolta, dati i mezzi di cui disponeva, ricchissima. Indefesso nello studio, trascurò a lungo ogni esercizio fisico; solo nella maturità, per consiglio dei medici, si esercitò moderatamente in luoghi montani, e però amò e cantò le Alpi; mentre gli uffici a lui affidati dal Ministero dell'istruzione gli offersero occasione di conoscere l'Italia e di ammirarne nelle diverse regioni il paesaggio. Le arti figurative e plastiche, per gustar le quali gli mancava la necessaria preparazione, non l'attrassero più in là di ciò che fosse un elemento necessario della storia civile e politica. La musica, che confessava essere disposto ad amare perfino più della poesia, non fu da lui coltivata né con studî né con frequenti audizioni; non di meno Riccardo Wagner, per la stupenda sonorità e per la fantasmagoria scenica, lo fece suo. Conobbe bene il latino, non fu digiuno del greco; acquistò piena la pratica del francese letterario; assai innanzi giunse nel capire i poeti tedeschi; poi s'adoperò molto per capire ugualmente gl'Inglesi. L'incarico delle lingue e letterature neolatine, tenuto per molti anni, gli fu incentivo a imparare il provenzale e lo spagnolo; e se non diventò mai un maestro di quella materia così come era dell'italiana, converrà rammentarsi lo stato generale di tali studî, allora, tra noi. Osservazioni giuste, del resto, non mancano nei suoi scritti in proposito, né pagine belle; oltre di che furono parecchi i valenti discepoli che approfittarono, pure in ciò, dei suoi avviamenti e del suo appassionato magistero.

Fervido di passione patriottica e d'amore per l'Italia, il C. ebbe parte cospicua come propagatore del cosiddetto irredentismo. Fu uno dei fondatori della società nazionale Dante Alighieri, destinata a ravvivare e a diffondere la lingua d' Italia e a mantenerla nelle terre ancora soggette agli stranieri.

La sua tendenza democratico-radicale, per la quale sofferse alcun poco, più che persecuzioni, sospetti (una punizione inflittagli dal Consiglio superiore dell'istruzione pubblica non ebbe seguito), si venne a mano a mano temperando, in relazione col moto di tutta la parte garibaldina e mazziniana cui egli aveva, innanzi, caldamente consentito; e così nella parte ultima della vita poté di nuovo accordare il sentimento suo proprio con la politica praticata dai governanti, quando oramai, dopo la salita al potere della Sinistra nel 1876, la monarchia era stata accettata da uomini non sospetti di non amare la libertà e di non aspirare al compimento dell'unità nazionale, quali Francesco Crispi e Benedetto Cairoli. Sciocca favola corse che il mutamento del C. avesse origine dall'ammirazione personale per la regina Margherita di Savoia: certo è che ella e Umberto seppero meglio assicurarsi il consenso che già alla monarchia avevan dato i più fra i superstiti della rivoluzione nazionale. Fattosi superiore alle parti, egli poté più volte, ma specialmente nel mirabile discorso in morte di Garibaldi, spontaneamente e degnamente parlare come interprete diretto, sicuro, fervido, della coscienza italiana, dinnanzi ai mali del presente, dinnanzi ai beni augurati nell'avvenire.

A codesto uffizio lo facevano adatto le qualità divergenti che aveva nel suo stesso spirito, e quindi nell'eloquenza e nell'arte; ora di sarcastico flagellatore e ammonitore, ora di animoso esaltatore. La satira dei Giambi ed Epodi, da un lato, la lirica delle odi per Garibaldi, per Roma, per l'Italia, dall'altro, concordavano, non più divergenti ma alterne, così nella sua prosa come nella sua poesia; del quale accordo il citato discorso su Garibaldi è documento insigne. Più che Orazio, agirono su lui, per tali battaglie e per tali glorificazioni, gli esempî di Victor Hugo, che fortemente sentì, pur riuscendo a mantenersi classicamente italiano. E anche, in alcuni casi, su lui agì, non meno con le prose che coi versi, Arrigo Heine; da cui in versi e in prose tradusse bene. Il C. si lagnava talvolta, che la cattedra avesse nociuto a lui poeta: intendeva rammaricarsi dell'avere ceduto troppo alle ispirazioni che gli venivano dai libri, invece di concedersi più agl'incentivi e ai suggerimenti della natura e della vita attuale. In questo senso non è da disconoscere che quel suo rammarico aveva un certo fondamento; se perfino nei primordî ragazzeschi, cantando l'Elvira sua, quella che sperava sposare e che sposò, rammentava in versi, più relativamente dotti che ingenuamente appassionati, le Elvire già cantate da altri verseggiatori!, e se da ultimo, alcune delle grandi odi peccano nell'indulgere, contro la fluida e calda vena, agli ostacoli di una erudizione geografica, etnica, storica. Ma, ad ogni modo, la sua arte riflessa, elaborata, limata, ottenne gli effetti migliori nella trasformazione lirica di concetti e fatti desunti, già nei primi anni e durante tutta la vita, da un'interminabile serie di letture classiche, italiane, straniere. Or appunto la passione patriottica, onde egli era tratto a rappresentare per sé stesso e per gli altri le immagini del paesaggio e della storia d'Italia, dalle origini alle ultime vicende del Risorgimento, vivificava una tanta congerie; e le dobbiamo il meglio dell'arte carducciana. Ché, salvo nei pochi componimenti di affetti amorosi o familiari o umani di cui si farà cenno, si può dire che egli sia stato essenzialmente il poeta della patria ridesta e volonterosa di riaffermarsi come libera e possente nazione.

Sebbene per qualche anno piegasse verso il socialismo, tale filantropia universale mise presto da parte per darsi tutto o alle idee repubblicane, o quindi alle monarchiche, in servizio della grandezza nazionale. A questa idealità subordinò le vagheggiate speranze di un avvenire universalmente pacifico; a questa subordinò le aspirazioni religiose, fino al segno che, dopo aver celebrato Satana come simbolo del progresso umano, esaltò, con apparente contraddizione ma con sostanziale coerenza, il Dio delle patrie e, naturalmente, Dio supremo vindice dell'indipendenza e libertà d' Italia; onde la teoria, non sua, bensì da lui accettata e propugnata, della nemesi storica, cioè della fatale punizione che colpisce, prima o poi, o essi stessi i violatori dei diritti umani e nazionali, o i loro discendenti anche se non colpevoli. In questa teoria trovò quasi tutto ciò che gli occorreva per coordinare reminiscenze e fantasmi, come "vate d' Italia", e per essa riuscì a creare attinenze con la sua lirica d' intenzione apertamente patriottica, anche quando l'argomento delle poesie non era tale, nella prima apparenza, da rientrare nel cerchio di codesta intenzione. Alludiamo al Çaira, che in una serie di altorilievi in sonetto mostra le conseguenze della monarchia assoluta ricadere su Luigi XVI e su Maria Antonietta, e celebra la resistenza del popolo francese contro l'invasione straniera nel 1792; all'ode alcaica Per la morte di Eugenio Napoleone, che mostra le conseguenze dei colpi di stato di Napoleone I e di Napoleone III ricadere sul re di Roma e sul giovane Eugenio Napoleone ucciso dagli Zulù; all'ode saffica Miramar, che mostra, con la fucilazione di Massimiliano imperatore del Messico e la pazzia di Carlotta sua moglie, la conseguenza delle atroci conquistspagnole del sec. XVI, e dell'imposizione di quel sovrano a un popolo libero dell'America.

Il critico e il prosatore. - Per consiglio di Pietro Thouar, fino dal 1855, il C. pubblicò un'antologia, L'Arpa del Popolo, distinta per sentimento e concetti, con note; la quale, dato che il compilatore toccava appena i venti anni, è un documento d'alto valore. Poco dopo, nel 1858, cominciò, per l'editore Barbèra, la serie dei volumetti nella collezione Diamante (Alfieri, Tassoni, Parini, Monti, Lorenzo de' Medici, Giusti, Rosa, Rossetti, Cino da Pistoia e altri trecentisti, A. Marchetti, Menzini, ecc.), alcuni dei quali con bellissime introduzioni: citeremo, ad es., le due ai Poeti erotici e ai Lirici del Settecento. Più importante lavoro è quello del commento a Le Stanze, l'Orfeo e le Rime di Angelo Poliziano, edito dal Barbèra nel 1863; modellato su l'Andrea Chenier di Becq de Fouquières, ma con dottrina e assennatezza singolari, e spesso, in quel tema difflcile, con risultati di gran valore, e sempre, dinnanzi a quel testo, con finissimo gusto d'arte. Tale produzione, non mai intermessa, gli fece dare altresì le Rime di M. Frescobaldi; e la raccolta, che fu per i tempi esemplare, di Cantilene e Ballate, Strambotti e Madrigali dei sec. XIII e XIV (Pisa 1871); e il primo volume della poesia barbara, cioè dei componimenti in versi e strofe imitate dai classici latini (1881); e Lettere disperse e inedite di P. Metastasio; Scritti letterari e artistici di Alberto Mario; Scritti politici di lui stesso; Cacce in rima dei secoli XIV e XV; poi da ultimo, Primavera e fiore della lirica italiana (Firenze 1903), e Antica lirica italiana (Firenze 1907), che ha innanzi una breve prosa, scritta da G. Mazzoni, e dal maestro firmata sul letto di morte. A questo modo il gran lavoratore chiuse con una raccolta di liriche quella carriera che con una raccolta di liriche aveva cominciato mezzo secolo prima. Né in ciò appare tutta l'opera sua di editore e illustratore di testi; con Severino Ferrari, suo caro discepolo, diede Le Rime del Petrarca (Firenze 1899) largamente commentate (da sé solo ne aveva dato innanzi, nel 1876, un bel saggio); col Ferrari stesso diede Odi di S. Del Bene; e con altri diede altro che qui sarebbe superfluo rammentare. Ma apparirebbe censurabile omissione quella delle Letture del Risorgimento Italiano (Bologna 1896-1897) e delle Letture italiane scelte a uso delle scuole secondarie (Bologna 1883 segg.) insieme con Ugo Brilli, anch'esso un suo caro discepolo. E giova rammentare altresì l'avviato epistolario del Guerrazzi.

Oltre di che non trascurò, sia come membro del Consiglio superiore dell'istruzione, sia come segretario della regia deputazione di storia patria in Bologna, sia come partecipe a innumerevoli commissioni e uffizî governativi, provinciali, comunali, di dar la penna sua a relazioni e carteggi. Di che aveva tutte le ragioni a dolersi; ma un profondo sentimento del proprio dovere, e la naturale cordialità verso quanti gli fossero devoti o gli dessero nel genio, lo rendevano non restio a tali ingrate faccende e scritture.

Di prose critiche, nelle quali fu sempre un artista cosciente e scrupoloso anche per lo stile, e spesso fu tale altresì per l'intenzione verso effetti di eloquenza oratoria o poetica, diede varî volumi, raccogliendo solitamente scritti pubblicati in periodici e opuscoli: Discorsi letterari e storici; Studi letterari; Studi, saggi e discorsi; Poesia e storia; Confessioni e battaglie; Ceneri e faville, ecc., i quali egli medesimo ordinò nelle Opere (Bologna, Zanichelli, dal 1889 al 1909, in venti volumi; gli ultimi uscirono postumi). Non si può attribuirgli per la critica la stessa importanza che per la prosa d' arte e per la poesia. Talvolta si attenne troppo alle osservazioni di predecessori, facendole sue proprie soltanto con la splendida esposizione; talaltra, pur essendo un ricercatore paziente e instancabile, non approfondì l'argomento; in genere, mentre aveva sani criterî, non se ne rese abbastanza quel conto filosofico che l'avrebbe fatto più sicuro e più franco. Ma, oltre la squisita sensibilità e maestria per gli effetti della lingua e della tecnica artistica, conviene riconoscere che vide bene e delineò nette alcune figure e alcune produzioni letterarie, dai primi secoli al suo; e spesso riuscì, con serietà dot. trinale, eloquentissimo. I volumi sul Parini, sul Leopardi, i discorsi su Dante, sul Petrarca, sul Boccaccio, alcuni articoli di critica letteraria su materia recente, conservano un alto valore anche per chi li stimi, nei loro giudizî, ormai più o meno invecchiati. Il complesso resta efficacemente espressivo per la rappresentazione della storia della nostra letteratura quale appariva a un grande scrittore che era insieme un caldo patriota, durante l'età che maturò e attuò la costituzione politica dell'Italia nuova.

Il poeta. - Tutte le Poesie raccolse egli stesso in un volume, diStinguendone le parti in Iuvenilia, Levia gravia, e, dopo l'Inno a Satana come intermezzo, Giambi ed Epodi, Intermezzo, Rime nuove, Odi barbare, Versioni, Rime e ritmi, la prima parte della Canzone di Legnano e un'Appendice. Vi sono alcuni componimenti che, o per sospiri e spasimi di passione amorosa, o per affetti familiari, o per sensazioni di paesaggio e di vita personale, meritano di essere considerati a sé (siano almeno rammentati Il bove, ch'è un sonetto famoso, le Primavere elleniche, quasi un preludio alle Odi barbare, Idillio maremmano, Davanti San Guido, All'Aurora, Alla stazione, Elegia del Monte Spluga); tuttavia la grandezza del poeta ha per fondamento i componimenti nei quali meglio seppe, dal 1859 in poi, cantare le glorie, le sciagure, le speranze della patria. Infatti la passione animatrice della sua poesia fu quasi sempre il patriottismo italiano, ora garibaldino, ora mazziniano e da ultimo, dominante la Sinistra parlamentare, democratico e liberale monarchico.

Accettando da tutta la tradizione i metri della poesia italiana; rinnovando genialmente i tentativi che dal Quattrocento s'erano fatti per acquisire alla poesia italiana i metri greco-latini quali ritmicamente ("barbaricamente", donde il titolo delle Odi barbare) sogliono sonare agli orecchi mal preparati e incapaci di percepire la lunghezza o brevità delle sillabe; introducendo nella lingua, trattata con perizia di toscano e di profondo conoscitore d'antichi testi, peregrinità di parole e di costrutti, d'arcaismi e di latinismi, e sempre felicemente armonizzando le forme metriche e stilistiche col sentimento e col fantasma, egli fu il poeta della patria, dotto e pure largamente caro ai lettori anche non addestrati. Il suo calore, anche se talvolta tenda e non riesca a investire e animare troppo vaste materie storiche, riuscì comunicativo. Si sentì, attraverso inevitabilì dubbî e i soliti contrasti, come quell'arte fosse generosa, degna, alta; si sentì come di tratto in tratto ne sorgesse il capolavoro. Naturalmente anche dopo le polemiche, dal C. superate, dei cosiddetti manzoniani e dopo il solenne riconoscimento della sua poesia, non mancarono, né mancano avversarî dell'arte di lui. Al. cuni dei quali hanno ragione nel mettere in luce quanto la lirica carducciana ha in sé di caduco e d'impari per quel suo carattere riflesso che già s'è notato. Ma codesto non fa che egli non abbia storicamente un'alta importanza e, quel che più conta, che non possegga, spesso in modo palese, le qualità del grande e vero poeta.

Ciò cui si era, per tanta parte dell'Ottocento, mirato dai migliori, ammiratori del Foscolo e del Leopardi, e insieme del Manzoni, e volenterosi di restare italiani davvero, mentre anche volevano servirsi degli esempî stranieri più belli; il consertamento cioè dell'antico col moderno in una tempra d'arte capace di rendere intiera l'anima della nazione che, nel nome di Roma antica, tende a fare un'Italia nuova, fu conseguito dal C. Egli riunì, nella classicità, la tradizione classicheggiante e il rinnovamento romantico, talché poté, accanto alle Odi barbare, produrre il frammento epico, in strofe di endecasillabi sciolti, La canzone di Legnano, e la romanza in novenarî rimati, Jaufré Rudel. In lui il classicismo non era artificio, maniera; era la forma stessa del suo spirito fatto di vigore, di schiettezza, di dignità nell'amore, nell'odio, nello sdegno; era culto dell'espressione precisa ed elegante, in contrasto con la trascuratezza dei romantici nostri, per dimostrare che l'arte non è soltanto ispirazione, ma anche cultura, studio, meditazione. La figura e l'opera del C., qualunque possa esserne in alcun rispetto e sotto alcun aspetto il giudizio dei posteri, resteranno capitali nella storia letteraria dell'Ottocento; non solo come documento dei tempi, ma anche come espressione d' arte. Se anche parte della sua produzione sia destinata a non essere più che un tema di studio ai critici, molte pagine di prosa eloquente e molte poesie di lirica concitata o elegante resteranno sempre fra le più elette e vive della nostra letteratura.

Bibl.: G. Chiarini, Memorie della vita di G. C., Firenze 1907 (2ª ed. che giunge sino alla morte del C.); A. Meozzi, Carducci, Firenze 1921; E. Palmieri, G. Carducci, Firenze 1926; A. Jeanroy, G. C., l'homme et le poète, Parigi 1911; B. Pinchetti, La lirica italiana dal Carducci al D'Annunzio, Bologna 1928; A. Ricolfi, G. C. e il Romanticismo, Genova 1914; V. Schilirò, Il Romanticismo e gli Amici pedanti, Bronte 1912; G. Papini, L'uomo Carducci, Bologna 1918; E. Jallonghi, La religiosità del Carducci, Città di Castello 1909; V. Schilirò, La credenza carducciana e suo valore, Bronte 1912; E. Romagnoli, Polemica carducciana, Firenze 1911; P. Tommasini-Mattiucci, Il pensiero di C. Cattaneo e di G. Mazzini nelle poesie di G. Carducci, Città di Castello 1909; G. Fatini, La prima giovinezza di G. C., Città di Castello 1914; F. Trabaudi Foscarini, Della critica letteraria di G. C., Bologna 1910; G. Maugain, G. C. et la France, Parigi 1914; A. Lumbroso, Miscellanea carducciana, con prefazione di B. Croce, Bologna 1911; B. Croce, La letteratura della nuova Italia, Bari 1921-22; G. Mazzoni, G. C., in Glorie e Memorie, Firenze 1905, e Elogio di G. C., Firenze 1908; G. Albini e A. Sorbelli hanno dato Primizie e reliquie delle carte inedite di G. C., Bologna 1928; G. Rossi, Indice delle opere di G. C., Bologna 1928; D. Petrini, Poesia e poetica carducciana, Roma 1927; A. Galletti, G. C., Bologna 1928 (già innanzi Lirica e storia nell'opera di due poeti G. C. e G. Pascoli, Bologna 1914); A. D'Ancona, G. C., commemorazione tenuta a Roma in Campidoglio il 19 aprile 1907, Milano 1907; F. Torraca, G. C. commemorato, Napoli 1907; F. C. Pellegrini, in Giornale storico della letteratura italiana, LXXXV (1925), p. 336 segg., importante per le relazioni del C. con G. Chiarini, e per altro; molti scritti di varî e bibliografia in Giosue Carducci, fascicolo speciale della Rivista d'Italia, Roma 1901; si troveranno ritratti, facsimili e notizie importanti nell'Albo carducciano, Bologna 1908. Traduzioni di poesie del C. si hanno in tutte le lingue europee. Delle lettere, spesso molto belle, si hanno due volumi, Bologna 1911, 1913; e Da un carteggio inedito di G. C., Bologna 1907.

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