DELLA PORTA, Giovambattista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 37 (1989)

DELLA PORTA, Giovambattista

Raffaella Zaccaria
G. Romei

Incerti sono il luogo e la data di nascita: nacque forse a Napoli (ma secondo altri a Vico Equense), intorno al 1535, se si dà fede alla dichiarazione autografa del D. presentata all'atto della sua ammissione all'Accademia dei Lincei nel 1610, nella quale affermava di essere allora nel settantacinquesimo anno di età.

Il padre del D., Nardo o Leonardo di Antonio apparteneva a una nobile e facoltosa famiglia napoletana, poi decaduta per aver partecipato insieme ai Sanseverino, principi di Salerno, alla congiura contro il viceré don Pietro di Toledo nel 1552.La madre del D., di origine calabrese, apparteneva alla famiglia Spadafora, ed era sorella del celebre Adriano Guglielmo Spadafora, studioso di antichità, nominato conservatore all'Archivio di Napoli nel 1536. Il D. era il secondo di quattro fratelli, Giovanvincenzo, Ferrante (che morì giovane) e una ragazza, di cui non si conosce il nome, che sposò un membro della famiglia De Gennaro.

Scarse sono le notizie relative all'infanzia e alla giovinezza del D., cosi come quelle riguardanti i suoi studi e la sua formazione culturale. Probabilmente ebbe come maestri lo zio materno e il fratello Giovanvincenzo, anch'egli cultore di antichità e studioso di filosofia naturale, ed entrambi i fratelli furono comunque in contatto con il medico e filosofo Antonio Pisano e con il naturalista calabrese Domenico Pizimenti. Il D. si dedicò ben presto agli studi filosofici e alle scienze naturali, per le quali aveva manifestato sin da giovane una spiccata tendenza, tanto che nel 1558 pubblicò a Napoli la sua prima opera di carattere scientifico, la Magia naturalis, dedicata al re Filippo II, scritta forse su sollecitazione dell'editore Matteo Cancer, e con cui si proponeva di dimostrare la validità della magia come strumento di conoscenza delle cause dei fenomeni naturali. Tuttavia, non soddisfatto di questo lavoro, il D. decise di approfondire la propria conoscenza ed esperienza nel campo della fenomenologia naturale; a tale scopo, in questi anni, promosse la fondazione di una accademia, chiamata dei Secreti, con la quale intendeva riunire i più famosi filosofi e scienziati del tempo perché si dedicassero interamente allo studio delle cause dei fenomeni naturali. L'accesso all'accademia - la cui sede fu posta nel palazzo napoletano del D. - era riservato solo a chi avesse offerto un valido contributo alla conoscenza o spiegazione di un avvenimento naturale fino ad allora rimasto occulto o ignoto.

Dal 1558 in poi, per un periodo di circa vent'anni, il D. effettuò numerosi viaggi in Italia e in Europa, affrontando spesso fatiche e disagi soprattutto per le scarse disponibilità economiche, allo scopo di allargare il proprio orizzonte culturale, frequentando le biblioteche più importanti, entrando in contatto con gli studiosi più insigni del tempo, ricercando e acquistando libri rari e preziosi. In varie opere egli fa menzione dei suoi viaggi, ma in particolare nelle Villae, dove descrive, fra l'altro, i luoghi visitati, quali la Calabria, le Puglie, la Lombardia, Venezia, la Francia e la Spagna. In Spagna fu ricevuto alla corte di Filippo II, al quale presentò una copia della Magia naturalis e il testo di un'altra sua opera, il De furtivis literarum notis vulgo de Ziferis, stampata a Napoli nel 1563 e dedicata a Giovanni Soto, segretario napoletano dello stesso Filippo II. Nel 1566 il D. pubblicò a Napoli l'Arte del ricordare, traduzionevolgare di una sua opera latina, l'Arsr eminiscendi, che nel testo originario sarebbe uscita solo nel 1602. La fama da lui raggiunta gli procurò, sul finire del 1579, l'invito del cardinale Luigi d'Este a recarsi a Roma per continuare al suo servizio le ricerche scientifiche. La richiesta del cardinale, dovuta anche alla sollecitazione del suo medico personale Teodosio Panizza, grande ammiratore del D., fu da questo accettata con entusiasmo. Tale circostanza farebbe pensare che si fosse allora ormai positivamente risolto a suo favore un procedimento del S. Uffizio - del quale non rimangono testimonianze e atti diretti, se non una citazione in un elenco di processi compilato nel 1580 dal notaio Joele per il vicario dell'arcivescovo di Napoli -, avviato forse nel 1574, per iniziativa del cardinale di Pisa, Scipione Rebiba, che, scrivendo all'arcivescovo di Napoli, Mario Carafa, chiedeva l'incarcerazione a Roma del D. per "cose concernenti la fede".

Nel gennaio del 1580 il D. partì per Roma, dove venne ospitato nel palazzo dello stesso cardinale d'Este. Dal nutrito carteggio che ebbe con il cardinale veniamo a conoscenza della sua attività in questo periodo; su incarico del protettore, il 1° ott. 1580, si recò infatti a Venezia per soprintendere alla costruzione di uno specchio parabolico e di un modello di occhiaie. Durante la sua permanenza a Venezia entrò in contatto con Paolo Sarpi, con il quale rimase legato per il comune interesse per gli studi scientifici. Successivamente si recò a Ferrara per raggiungere il cardinale; qui il 2 febbr. 1581 - spinto forse dalla necessità di danaro - incaricò Pietro Burghetti di vendere una parte del suo palazzo avito. A Napoli il D. tornò il 22 apr. 1582, e per commissione del cardinale d'Este si dedicò alle ricerche sulla pietra filosofale. Il cardinale infine, desideroso di seguire da vicino gli sviluppi dei suoi studi su questo argomento, lo invitò a raggiungerlo nuovamente a Roma; il D. tuttavia rifiutò cortesemente, adducendo la causa che il caldo avrebbe nociuto al suo stato di salute (la loro corrispondenza manca da quest'anno fino al 1586, anche se certamente i loro rapporti continuarono).

Nel 1583 il D. pubblicò a Napoli un breve trattato di agricoltura, il Pomarium e l'anno seguente un'analoga operetta dal titolo Ulivetum; sempre nel 1584 terminò di scrivere il De humana physiognomonia, che verrà pubblicato solo nel 1586 a causa del ritardo del permesso di stampa da parte dell'autorità ecclesiastica. Nel 1585 il papa Sisto V emanò una bolla contro coloro che praticavano arti magiche, che colpì anche il Della Porta. È quasi certo infatti che questi, nella prima metà del 1586, a causa di una denuncia anonima, fu sottoposto a una inchiesta da parte del tribunale dell'Inquisizione di Napoli, insieme al letterato Luigi Tansillo. Il risultato del processo subito dal D. fu che gli venne intimato di astenersi da "giudicii astronomici", ma l'effetto che questo episodio ebbe su di lui è riscontrabile in una lettera inviata al cardinale d'Este il 27 giugno 1586, dove egli, parlando dei suoi studi, manifesta uno stato d'animo particolarmente amareggiato e deluso. Nell'autunno del 1586 tornò comunque a Roma presso il cardinale d'Este, che però morì l'anno dopo. Rientrato nuovamente a Napoli, pubblicò nel 1588 la Phytognomonica e una sua traduzione latina del primo libro dell'Almagesto di Tolomeo. L'anno successivo uscì la seconda edizione della Magia naturalis, in venti libri, alla cui stesura il D. aveva lavorato per circa trent'anni, e che divenne ben presto famosa ottenendo una rapida diffusione in Italia e in Europa.

Parallelamente all'impegno scientifico e all'attività sperimentale, il D. coltivò sin da giovane anche un'inclinazione letteraria, dedicandosi alla composizione di diverse opere teatrali, che in un primo tempo fece rappresentare solo per il proprio piacere e per quello dei suoi amici. In seguito, più per sollecitazione di alcuni editori che per interesse personale, acconsentì a pubblicare alcuni di questi testi teatrali - che continuò a considerare sempre "scherzi della sua fanciullezza" -, divenendo ben presto un apprezzato autore anche in questo campo. La sua prima opera teatrale ad essere pubblicata per le insistenze dell'editore Pompeo Barbarito, fu, nel 1589, la commedia Olimpia, che era già stata rappresentata qualche anno prima alla presenza del viceré di Napoli don Juan de Zuñiga, conte di Miranda.

A questo periodo risale un importante incontro con Tommaso Campanella, che si era recato a Napoli nel 1590. Con lui il D. ebbe numerosi incontri vertenti principalmente su temi di carattere filosofico-scientifico, che sfociarono anche in una pubblica disputa sul significato del concetto di magia.

Nel 1591, sempre per l'intervento del Barbarito, uscì a Napoli un'altra opera teatrale del D., la tragicommedia Penelope, che, come la prima, fu assai apprezzata, tanto che, l'anno seguente, vinte ormai tutte le perplessità, il D. permise la pubblicazione a Venezia di un'altra commedia dal titolo la Fantesca.

Nel 1592 venne edita a Francoforte l'enciclopedia rustica Villae, in dodici libri, lavoro che il D. aveva terminato da tempo e per il quale aveva ottenuto il permesso di stampa già dieci anni prima dall'imperatore Rodolfo II.

Il 9 apr. 1592, il tribunale dell'Inquisizione di Venezia, con l'approvazione del governo veneto, gli proibì di pubblicare la versione volgare della Fisionomia umana, imponendogli di chiedere, anche per il futuro, il permesso di stampa al tribunale del S. Uffizio di Roma. Lo stesso divieto di pubblicare la Fisionomia umana senza il consenso del S. Uffizio venne ingiunto, l'11 aprile successivo, al libraio veneziano Barezzo Barezzi, che avrebbe dovuto stampare l'opera del D. nel testo volgare. Ciò era dovuto all'inasprimento della politica ecclesiastica che attraverso la censura mirava ad impedire il diffondersi di idee contrarie alla fede e alla morale cattolica; un mese dopo questo provvedimento, Giordano Bruno veniva imprigionato a Venezia. Tornato a Napoli nell'aprile del 1592, il D. ricevette un "preceptum" arcivescovile, in seguito al quale il 5 maggio successivo dovette presentarsi all'arcivescovo di Napoli, Annibale Di Capua. Da un documento redatto dal notaio della Curia, Giovanni Camillo Prezioso, e riguardante il contraddittorio tra il D. e l'arcivescovo, sappiamo che al filosofo fu rinnovato il divieto di stampare anche a Napoli qualsiasi opera che non avesse ottenuto il consenso della censura romana. Il D. si piegò alla volontà del S. Uffizio, con una dichiarazione di obbedienza alle disposizioni, senza però rinunciare a una difesa, e ricordando, fra l'altro, come la Fisionomia umana,già stampata nel testo latino a Napoli nel 1586, fosse stata a suo tempo letta ed approvata dal teologo e revisore regio Tommaso Di Capua. Ciononostante i rapporti con il S. Uffizio non migliorano, tanto che, l'anno seguente, il 6 marzo 1593, il D. subì un'altra intimazione riguardante ancora il divieto di stampare presso il Barezzi la Fisionomia umana nel testo volgare. Comunque, nel 1593, con il permesso del S. Uffizio, egli pubblicò il trattato De refractione, dedicato al figlio dell'amico e maestro Antonio Pisano, Ottavio, in segno di gratitudine per la memoria del padre.

Nel 1596 venne stampata a Bergamo un'altra commedia del D. intitolata la Trappolaria. Nel 1598 uscì a Napoli sotto lo pseudonimo di Giovanni de Rosa, Della fisonomia dello huomo, la versione volgare della De humana physiognomonia, l'opera che era stata oggetto della censura degli inquisitori veneti. Seguono alcuni anni di silenzio, in cui il D. non pubblicò altri scritti, forse toccato dagli avvenimenti tragici che coinvolsero il Bruno e il Campanella, l'uno condannato a morte e giustiziato a Roma, l'altro imprigionato e torturato.

Nella primavera del 1601 il D. si recò probabilmente a Venezia, dove furono pubblicate altre due commedie dal titolo I due fratelli rivali e la Cintia, ma nello stesso anno lo ritroviamo a Napoli dove ricevette l'omaggio del francese Nicolas Claude Fabrice de Peiresc, giovane letterato di nobile famiglia, amico del fratello Giovanvincenzo, del quale condivideva l'interesse per lo studio delle antichità.

Nel 1602 il D. pubblicò a Napoli la versione latina dell'Ars reminiscendi e i Pneumaticorum libri tres. Quibus accesserunt curvilineorum elementorum libri duo, opera che fu in seguito rielaborata e distinta in due parti, una, in volgare, curata da Juan Escrivano, che prenderà il titolo I tre libri de' Spiritali e sarà pubblicata nel 1606, l'altra, in latino, intitolata Elementorum curvilineorum libri tres, che uscirà nel 1608. L'ultima delle fisionomie scritte dal D., la Coelestis physiognomoniae libri sex, venne pubblicata nel 1603 e dedicata al protonotario apostolico e nunzio del re di Polonia e di Svezia a Napoli Giannandrea Prochnic.

Nel 1604 il D. ricevette la visita di Federico Cesi, con cui era stato in corrispondenza sin dall'anno precedente, quando cioè il giovane principe aveva fondato a Roma con un gruppo di amici l'Accademia dei Lincei. A causa dell'opposizione del padre l'iniziativa del Cesi poco dopo fallì, ed egli per la delusione decise di partire per Napoli, dove entrò a far parte del circolo culturale che faceva capo al D., tra i cui componenti vi erano gli amici e colleghi Ferrante Imperato, Bartolomeo Maranta, Donato Altimaro, Fabio Colonna, tutti uniti dalla comune passione per la filosofia e la ricerca naturalistica. Il D. rimase colpito dalla cultura del Cesi e dal suo amore per le scienze e maturò ben presto per lui una profonda amicizia, dal giovane sinceramente ricambiata. Per il Cesi il D. compose un compendio riguardante la storia e la genealogia della sua famiglia, che non venne mai stampato; l'argomento fu ripreso nella dedica al Cesi di un'altra opera del D., il De distillatione, pubblicata nel 1608, ma alla cui stesura egli aveva atteso sin dal 1604. Sempre nel 1604 fu pubblicata a Napoli un'altra commedia, dal titolo la Sorella;nel 1606 uscirono contemporaneamente a Venezia l'Astrologo, la Turca e la Carbonaria e nel 1607 fu stampato a Viterbo il Moro. Nel 1606 era nel frattempo morto il fratello Giovanvincenzo, autore anch'egli di diverse opere - che non volle mai pubblicare - e che oltre ad essere maestro, fu anche prezioso collaboratore del Della Porta.

Nel 1608 uscì a Napoli un breve trattato del D., il De munitione, che non ebbe molta fortuna; contemporaneamente apparve a Roma il già ricordato De distillatione, che ottenne invece un grande successo di pubblico. Nel 1609 furono stampate rispettivamente a Napoli e a Roma altre due commedie del D., la Furiosa e la Chiappinaria. In questo periodo ebbe inizio anche la questione tra il D. e Galileo per il riconoscimento della paternità dell'invenzione del cannocchiale. In una lettera indirizzata al Cesi il D. sosteneva infatti che la realizzazione dello strumento era opera sua e per dimostrarlo ne descriveva le fasi di costruzione e il funzionamento. In seguito, nonostante che egli avesse deciso di ritirarsi dalle polemiche al riguardo, riconoscendo a Galileo il merito di aver perfezionato il cannocchiale, Keplero assunse invece le sue difese e gli attribuì la paternità dell'invenzione. Anche l'Accademia dei Lincei, ricostituitasi nel 1610 ad opera del Cesì, riconobbe ufficialmente al D. l'invenzione del cannocchiale e gli affidò la direzione del futuro Linceo napoletano, che tuttavia non sarebbe mai stato costituito. Nel 1610 apparve a Roma il De aeris transmutationibus, l'ultima opera scientifica del D. stampata mentre era ancora in vita, dedicata anch'essa al Cesi.

Il D. fu anche tra i fondatori dell'Accademia degli Oziosi, costituita nel 1611 a Napoli sotto il patrocinio del futuro cardinale Francesco Maria Brancaccio, con lo scopo di promuovere lo sviluppo delle lettere e delle scienze, e in cui furono rappresentate privatamente - secondo il costume del tempo - diverse opere teatrali del Della Porta. L'impegno scientifico continuò in questo periodo in una duplice direzione: da una parte decise infatti di scrivere un trattato sul telescopio - non si sa se per contrastare la teoria di Keplero o perché non conosceva i relativi studi di quest'ultimo - dall'altra tornò nuovamente ad interessarsi delle ricerche sulla pietra filosofale. Nel frattempo aveva anche concepito l'idea di comporre un'altra opera a carattere enciclopedico, la Taumatologia,di cui aveva steso l'indice per sottoporlo alla censura romana, la quale tuttavia non gli concesse mai il permesso di stampa. Il D., nonostante che fosse stanco e malato, continuò i suoi studi sul cannocchiale e in particolare sul modo di costruire specchi e lenti paraboliche, di cui informò anche Galileo.

Nel 1612 apparve a Ronciglione un'altra commedia del D., la Tabernaria, mentre l'anno precedente era stata forse pubblicata a Napoli una tragedia d'argomento sacro, intitolata Georgio. Nel 1613 il D. fu onorato con una medaglia dei Lincei consegnatagli da Francesco Stelluti, recatosi a Napoli per acquistare la sede del futuro Linceo; lo Stelluti cercò anche di convincere il D. a destinare nel testamento la sua ricca e preziosa biblioteca all'Accademia dei Lincei. Nel 1614 uscirono a Napoli la commedia Duo fratelli simili e la tragedia Ulisse, mentre altre opere teatrali del D. resteranno inedite.

Il 4 febbr. 1615 il D., dopo una breve malattia, morì a Napoli nella casa della figlia Cinzia (sappiamo infatti che si era sposato, anche se non si conosce il nome della moglie e la data del matrimonio). Nel testamento indicò come eredi delle sue sostanze e della sua biblioteca la figlia con il marito Alfonso Di Costanzo e i loro figli Filesio, Eugenio e Leandro. Venne sepolto a Napoli nella cappella di famiglia, fatta costruire dal padre Leonardo nella chiesa di S. Lorenzo. Federico Cesi avrebbe dovuto comporre l'elogio accademico, che però rimase incompiuto, forse per le preoccupazioni dell'amico di allontanare dal D. il sospetto di eresia.

È indubbio che il D. occupa una posizione di grande rilievo nella storia della scienza del Rinascimento e che di notevole importanza sono stati i suoi contributi nel campo dell'indagine naturalistica, come in quello dell'ottica e della fisica. Ebbe una fama piuttosto ampia fra i suoi contemporanei; ma a una revisione critica della sua opera appare ancora troppo legato agli schemi e alla tradizione scientifica del passato, soprattutto se paragonato a scienziati a lui contemporanei come Galileo, Keplero, Gilbert, e altri studiosi dei fenomeni scientifici e naturali con i quali lo stesso D. fu in contattà, Basterebbe ricordare, per ciò che riguarda i limiti del suo pensiero, la sua convinzione sulla compatibilità tra scienza e magia. Non ebbe infatti una chiara coscienza del significato della ricerca sperimentale e del rapporto tra questa e l'indagine scientifica, ma rimase ancorato a una immagine della scienza ancora prettamente cinquecentesca, attirandosi le critiche financo di alcuni suoi contemporanei, che consideravano la sua opera troppo farraginosa, imprecisa e viziata dal tentativo di accostarsi ad un pubblico più ampio e non solamente limitato al mondo accademico. Ciò non toglie che la vastissima produzione scientifica del D. rimanga a testimonianza di una interpretazione arcaica della scienza, ma storicamente non priva di interesse.

I settori verso cui rivolse la sua attenzione furono molteplici: scienza e magia, ottica e fisica, fisionomia, agricoltura, e altri di diverso argomento. Per quanto riguarda il rapporto tra scienza e magia occorre rilevare che esso costituisce il motivo costante della sua ricerca e del suo studio, tale da influenzare il contenuto di quasi tutta la sua produzione scientifica. Il D. cerca di rivalutare il significato della magia, non più intesa come potere occulto, di natura demoniaca, secondo l'interpretazione medioevale, bensì come capacità di riprodurre le cause dei fenomeni naturali, la cui conoscenza è il presupposto per ogni indagine scientifica. La magia naturale diventa così, secondo il D., la "naturalis philosophiae consummatio", cioè la più alta forma di conoscenza umana dei principi della natura, di cui non si debbono tuttavia oltrepassare i limiti, mentre il mago è colui che a questa conoscenza congiunge la facoltà di riprodurre artificialmente i fenomeni osservati. Queste tesi furono esposte dal D. già nel 1558, nella prima edizione della Magia naturalis sive de miraculis rerum naturalium. L'opera è costituita da quattro libri, il primo dei quali tratta dei principî dell'ordine naturale, che il D. individua - seguendo la lezione empedoclea -nella simpatia e antipatia esistente tra i corpi; nel secondo libro sono enumerati i fenomeni fisici che non sono riconducibili alle categorie della scienza, il terzo libro riguarda i processi chimici; appare nel complesso poco solida, perché il D. si basa per lo più su notizie di seconda mano, riferendo esperimenti effettuati da altri scienziati, e che egli non si curò di verificare, intento solo ad offrire il maggior numero di testimonianze sulla spiegazione di fenomeni naturali rimasti fino ad allora sconosciuti.

Conscio egli stesso dei suoi limiti, si accinse poco dopo a lavorare su una seconda edizione della Magia naturalis, che, come si è detto, fu completata solo nel 1589, dopo quasi trent'anni dalla prima. La nuova Magia naturalis, composta da venti libri, era stata da lui annunciata al cardinale d'Este, con una lettera del 27 giugno 1586, con il titolo di Magnalia naturae, e lo stesso autore l'aveva in un primo momento chiamata Enciclopedia, per allontanare da sé qualsiasi sospetto di eresia. Probabilmente, in seguito, il D. decise di uscire allo scoperto, affrontando direttamente le polemiche che esistevano sul suo conto. Nella prefazione dell'opera, infatti, attacca per la prima volta quanti gli attribuivano poteri demoniaci e lo accusavano di effettuare pratiche magiche, rivolgendosi in particolare, pur senza nominarlo, verso il principale dei suoi detrattori, Jean Bodin, che nella sua De magorum daemonomania, pubblicata a Parigi nel 1581, lo aveva accusato di essere un "mago venefico". La difesa del D. si sviluppa sulla linea già tracciata in precedenza: infatti, per la spiegazione dei fenomeni naturali, egli chiama in causa la sola conoscenza scientifica, ma il suo sforzo consiste principalmente nell'elevare sullo stesso piano della scienza la tradizione magica, in quanto la conoscenza delle leggi naturali è sempre congiunta con la capacità di operare del mago.

Le principali materie trattate dal D. nella grande Magia naturalis sono innanzitutto, nel primo libro, le cause delle cose. In un posto di rilievo egli pone l'ottica, considerata a quel tempo una scienza di grande importanza, sulla quale aveva effettuato numerosi studi e ricerche, e a cui dedicò tutto il XVII libro dell'opera. Di notevole interesse è anche il contenuto del VII libro che tratta del magnetismo in maniera del tutto nuova: il D. cerca infatti di interpretare su base scientifica i fenomeni di attrazione magnetica. Gli altri argomenti da lui affrontati in quest'opera, che può essere considerata una grande enciclopedia del sapere, riguardano in generale la botanica e la zoologia, la fisica e la chimica, con specifica attenzione allo studio sulla trasmutazione dei metalli, sulla iatrochimica e sulla distillazione.

Il D. concepì anche una terza edizione della Magia naturalis, che intitolò Taumatologia, con lo scopo di raccogliere e di spiegare tutti i segreti della natura di cui era venuto a conoscenza durante la sua vita dedicata interamente allo studio e alla sperimentazione scientifica. L'idea di questa nuova opera fu concepita probabilmente dopo la visita di Cristiano Harmio nel 1604, che gli portò una lettera dell'imperatore Rodolfo II, in cui questi, nell'esprimere tutta la sua ammirazione per lo scienziato, lo pregava di inviare alla corte di Praga un suo allievo perché lo mettesse al corrente degli studi sulla pietra filosofale. Il D. rispose inviando all'imperatore alcuni suoi scritti e contemporaneamente progettò di redigere un'altra enciclopedia a carattere scientifico, che contenesse però materie nuove, mai trattate in precedenza, tali da aprire la strada a nuove e interessanti ricerche nei più occulti misteri della natura. La Taumatologia doveva essere dedicata a Rodolfo II, in segno di stima e di rispetto per l'interesse che egli nutriva verso la scienza e le arti sperimentali; successivamente, nel 1611, il D. decise di dedicarla al cardinale Federico Borromeo, forse per ottenere più facilmente la licenza di stampa. Anche il Cesi sollecitò il permesso di pubblicazione al S. Uffizio a Roma, avendo avuto dal D. un indice dell'opera, che ne esponeva punto per punto ogni argomento, con il permesso di modificarne anche qualche parte se ciò avesse contribuito a facilitare il giudizio dei censori romani. Nel 1613 il D. ebbe tuttavia il responso definitivo che gli negava la pubblicazione dell'opera, che rimase così incompiuta.

Degli undici libri previsti, che dovevano trattare quasi tutti argomenti già affrontati in opere precedenti, il D. scrisse solo il quarto, il quinto e il sesto libro. Di questi solo gli ultimi due presentano un contenuto nuovo, in quanto riguardano la magia in senso stretto, cioè la criptologia e il potere magico dei numeri, vista tuttavia dal D. sempre in funzione della scienza, quale suo necessario completamento. Il quarto libro della Taumatologia, intitolato Liber medicus (pubblicato insieme all'indice dell'opera da G. Paparelli nel 1956), propone tutta una serie di rimedi, costituiti in gran parte da medicinali basati su sostanze organiche contro le più disparate malattie. Il quinto libro, intitolato Criptologia (conservato manoscritto), tratta invece della magia cerimoniale, cioè di quella pratica che per conoscere ed operare fa ricorso al potere dei demoni, chiamati dal mago con un particolare rituale. Condannata dall'autorità religiosa e dai maggiori filosofi del tempo, la funzione della magia cerimoniale, secondo il D., e proprio quella di servirsi di un potere soprannaturale per introdurci nel campo dei fenomeni inesplicati e inesplicabili, la conoscenza dei quali deve per forza avvenire attraverso un intervento diabolico, non essendo possibile arrivare ad essi con una comprensione razionale. Il sesto libro, infine, intitolato De mirabili numerorum potestate, rimasto anch'esso manoscritto, tratta della magia dei numeri, che il D. chiama aritmantia, intendendo con ciò non lo studio del numero impiegato in aritmetica o nelle operazioni pratiche, bensi l'analisi delle qualità e delle virtù magiche dei numeri e di come queste si manifestano nelle diverse discipline quali l'architettura, l'agricoltura, la musica, l'ottica, l'astronomia.

Assai importanti sono gli studi del D. sull'ottica, che egli tratta principalmente nel quarto libro della prima edizione della Magia naturalis e che, rielaborato, divenne il XVII libro della grande Magia naturalis,nel De refractione e nel De telescopio. Quest'ultimo, rimasto incompiuto per la sua morte, fu riscoperto nel 1930 e pubblicato nel 1962 a cura di V. Ronchi e M. A. Naldoni. Le conoscenze scientifiche del D. nel campo dell'ottica si basavano soprattutto sui commenti aristotelici, fra cui egli utilizzò in particolare quello dei Metheororum libri edito da Simone Porzio nel 1563, e sugli esperimenti di Agrippa e Cardano sulla camera oscura. Oltre a ciò, il soggiorno a Venezia gli dette la possibilità di osservare le tecniche artigianali impiegate nella costruzione di strumenti ottici, quali uno specchio concavo e un paio di occhiali, e lui stesso effettuò diversi esperimenti in questo senso raggiungendo importanti risultati scientifici, sia sul piano teorico, sia su quello sperimentale. Il merito maggiore del D. è senz'altro quello di aver posto l'ottica nell'ambito delle scienze matematiche, conferendole una netta superiorità nel campo della conoscenza rispetto alle altre discipline che invece non fanno ricorso alla discorsività matematica; egli contribuì inoltre, rispetto alla tradizione medioevale, a rinnovare il settore di indagine dell'ottica, spostando l'attenzione sullo studio degli effetti visivi artificiali. Il libro XVII delle seconda edizione della Magia naturalis è interamente dedicato dal D. agli esperimenti per la costruzione di apparecchi ottici; vi sono esposti infatti i diversi tipi di specchi e di lenti con cui si possono realizzare strumenti come il microscopio, la camera oscura e il cannocchiale.

Al telescopio il D. dedicò un piccolo trattato a parte, dal titolo De telescopio, in cui descrive le fasi di costruzione dello strumento, soffermandosi particolareggiatamente sulle sue caratteristiche tecniche. Con quest'opera si proponeva soprattutto lo scopo di convincere il mondo accademico che egli era stato il primo a realizzare il cannocchiale e a servirsene rispetto agli olandesi e allo stesso Galileo. Le sue ragioni - come già si è accennato - corrispondevano a verità: infatti prima ancora di essere venuto a conoscenza degli studi di Galileo al riguardo, in una lettera al Cesi del 1609, aveva riferito ampiamente le fasi di costruzione del cannocchiale e il suo funzionamento. Mancò però al D. la percezione del corretto uso del nuovo apparecchio e delle novità che la sua invenzione implicava, merito che, alla fine, lo stesso D. riconobbe a Galileo.

Nel trattato De refractione, pubblicato nel 1593, l'attenzione del D. è rivolta soprattutto alla formulazione di una teoria delle lenti attraverso l'impiego dell'analisi matematica e della costruzione geometrica. Partendo infatti dai suoi esperimenti di ottica, egli cerca di darne una interpretazione qualitativa allo scopo di arrivare a dedurre le relative formulazioni matematiche. Il tentativo non ebbe successo per l'errata impostazione di partenza - cosa che costituisce poi il limite di gran parte della sua elaborazione scientifica - dovuta alla incapacità di stabilire un contatto tra la ricerca sperimentale e la costruzione teorica. L'applicazione dell'analisi qualitativa, fondata per lo più su intuizioni o accostamenti tra fenomeni e situazioni simili tra loro, alle conoscenze tecniche in suo possesso, gli impedì di arrivare al ragionamento matematico. In questo il D. seguì la tradizione accademica del tempo, condizionata ancora dai modelli della scienza aristotelica.

A loro volta gli scritti sul magnetismo, al cui studio il D. venne iniziato dal Sarpi, sono concentrati soprattutto nel libro VII della seconda edizione della Magia naturalis e nel trattato De calamita rimasto manoscritto e inedito. Il contributo del D. allo studio e alla comprensione dei fenomeni magnetici è senza dubbio molto importante, in quanto egli fu il primo che sottopose a un esame critico la tradizione scientifica al riguardo, vagliandola sistematicamente attraverso il ricorso al metodo sperimentale. Tuttavia, mentre da una parte cercò di trovare una nuova spiegazione del magnetismo, respingendo quelle affermazioni empiriche di cui aveva provato l'infondatezza, dall'altra non rifuggì dalla tentazione di riferire nei suoi scritti tutta una serie di conoscenze fantastiche sui poteri della calamita. L'opera del D. fu aspramente criticata da William Gilbert, autore del De magnete, pubblicato a Londra nel 1600, il quale gli negava il primato scientifico in questo campo e gli contestava tutte le contraddizioni in cui era caduto. Il D. tuttavia, consapevole della originalità e validità della sue cognizioni e dei suoi studi sui fenomeni magnetici, respinse le osservazioni mossegli dal Gilbert, accusandolo anche di plagio. In effetti, il Gilber stesso ammise nei suoi scritti di aver utilizzato le teorie del D. al riguardo, riconoscendogli, sia pure implicitamente, quella priorità che anche la storiografia scientifica posteriore gli avrebbe attribuito.

Più propriamente di carattere fisico sono i Pneumaticorum libri tres. Quibus accesserunt curvilineorum elementorum libri duo, nei quali il D. sviluppa le tradizionali conoscenze sull'aria convalidandole con nuove e interessanti esperienze empiriche in rapporto agli altri elementi e alle loro trasformazioni, come ad esempio l'acqua e il vapore. Il De pneumaticis fu poi tradotto in volgare da Juan Escrivano e apparve a Napoli nel 1606 sotto il titolo I tre libri de' Spiritali. Questa traduzione ebbe un'ampia diffusione e posele teorie del D., soprattutto nel modo "d'inalzar aque per forza dell'aria", in notevole anticipo rispetto alle teorie sulle forze motrici diffuse nel 1615 da Salomon de Caus. Lo stesso D. ampliò a sua volta una parte del De pneumaticis,pubblicandola a Roma nel 1610,con il titolo di Elementorum curvilineorum libri tres; visi tratta di problemi attinenti più specificatamente alla geometria e alle figure geometriche. Il D., fra l'altro, tenta di dare una dimostrazione della quadratura del cerchio.

Nel De aeris transmutationibus, pubblicato a Roma nel 1610, il D. tratta dei fenomeni atmosferici, minuziosamente spiegati anche attraverso un'attenta indagine dei mutamenti meteorologici naturali. In modo speciale egli effettua delle originali osservazioni sul rapporto esistente tra le varie fasi della luna e il movimento delle maree.

Particolare importanza, nella vasta ed eterogenea produzione del D., hanno le fisionomie: la De humana physiognomonia,la Phytognomonica,le Coelestis physiognomoniae e la Chirofisionomia. La prima di queste opere, la De humana physiognomonia, in quattro libri, fu pubblicata a Napoli nel 1586. Di questo scritto il D., sotto lo psuedonimo di Giovanni de Rosa, pubblicò sempre a Napoli nel 1698 la traduzione volgare, intitolata Della fisonomia dello huomo; una stesura più ampia in sei libri venne edita a Napoli nel 1610. L'opera consiste in uno studio dei diversi caratteri umani effettuato attraverso l'analisi dei tratti somatici. Il D. si discosta, infatti, dai canoni tradizionali della disciplina fisiognomica, sviluppando una teoria sulla perfetta corrispondenza tra interiorità e forma esterna. Occorre tuttavia rilevare che il D. è consapevole che non si può arrivare ad una certezza in questo caso, dal momento che l'equilibrio della natura viene alterato o modificato dal comportamento umano.

Nella seconda opera, intitolata anche Fisionomia dell'herbe, in otto libri, si estende l'analisi effettuata sulla fisionomia umana al mondo della natura, e più precisamente alle tre branche in cui essa si divide: minerale, vegetale e animale. Di queste egli cerca di cogliere e di analizzare le caratteristiche peculiari, le proprietà e le virtù nascoste, per scoprire i meccanismi che regolano l'intero ciclo vivente.

Le Coelestis physiognomoniae, stampate a Napoli in sei libri nel 1603 (anche se è certo che vi fu una edizione precedente, sempre a Napoli, nel 1601), possono essere considerate quasi un trattato diastrologia. Infatti, nonostante che il D. dichiari, nella prefazione dell'opera, che il suo scopo è quello di dimostrare l'inutilità di questa scienza, in realtà egli confuta solo apparentemente la pratica astrologica e con il pretesto di offrire una reinterpretazione della materia, vi inserisce una serie di estratti e di citazioni tratte da testi astrologici altrimenti vietati. Secondo il D. il destino dell'uomo non è sottoposto all'influsso dei pianeti, ma è determinato dagli elementi e dagli umori di cui è composto il corpo umano. La previsione astrologica quindi viene effettuata attraverso l'esame delle peculiarità dei corpi, anche se poi sono gli aspetti celesti a rivelare le strutture elementari che influiscono sulla vita umana.

L'ultima delle fisionomie, la Chirofisionomia, non poté essere pubblicata quando il D. era ancora in vita per il divieto della censura, nonostante che egli avesse scritto al Cesi, il 28 ag. 1609, di attenderne con ansia il permesso di stampa. In quest'opera espone nuovamente il metodo per cogliere attraverso lo studio dei caratteri umani - in questo caso la mano - il destino dell'individuo.

L'opera che riassume in un certo senso tutte le cognizioni e gli studi del D. sul mondo della natura, è un'enciclopedia rustica intitolata Villae, composta da dodici libri, dove sono riunite tutte le conoscenze ricavate dalle letture, dai viaggi e dalla personale pratica in campo agricolo. Il D. vi narra inoltre i viaggi compiuti in Italia e in Europa, descrivendo i luoghi visitati, dei quali colse le peculiarità del paesaggio naturale. Di particolare interesse sono anche le notizie sulle diverse pratiche di agricoltura che ebbe modo di osservare nei paesi visitati, così come preziosi sono anche gli studi sulle diverse specie di piante, erbe e frutta incontrate e sui sistemi per coltivarle, interessanti sono, infine, anche le indicazioni che il D. fornisce sulle derivazioni latine delle voci dialettali usate per indicare le varietà dei prodotti agricoli. Nelle Villae furono inseriti anche due piccoli trattati di agricoltura, il Pomarium e l'Ulivetum, pubblicati a Napoli nel 1583 e nel 1584, che formano rispettivamente il quinto e il sesto libro di questa enciclopedia. L'interesse del D. per il mondo della natura non fu un esercizio erudito, poiché egli stesso praticava l'agricoltura con passione sui terreni adiacenti alla sua villa di campagna, situata nel villaggio delle Due Porte, dove si ritirava d'estate per sfuggire al caldo e per ritrovare un po' di quiete.

Accanto alle numerose opere del D. fin qui illustrate, e che rappresentano sicuramente il contributo maggiore e più significativo da lui dato all'indagine scientifico-sperimentale e filosofica, si aggiunge un più limitato, ma non per questo meno interessante gruppo di scritti minori, rivolti a settori di studio diversi da quelli costantemente seguiti. Va ricordato, in primo luogo, il De furtivis litterarum notis vulgo de ziferis, in quattro libri, pubblicato a Napoli nel 1563. Si tratta di un manuale di criptologia, in cui il D. espone i meccanismi per interpretare i cifrari più complessi, indicandone le chiavi di lettura. Non è, senza dubbio, un'opera di grande valore, ma, oltre che costare all'autore un notevole sforzo di realizzazione, gli dette anche soddisfazioni pratiche: per altro riuscì a decifrare, per conto di alcuni amici, alcune lettere in codice contenenti minacce e pericoli per la loro vita.

Un altro di questi scritti minori è l'Ars reminiscendi, che trattava dell'arte mnemonica e di come essa possa essere acquisita e sviluppata.

Il D. anche in questa occasione si pone a metà strada fra trattazione scientifica e suggestioni magiche, al punto che resta insoluto il problema centrale esposto nel libro, relativo cioè all'origine naturale e artificiale della memoria.

Vicina, in un certo senso, agli interessi alchimistici del D. è il De distillatione, un opuscolo sull'arte distillatoria, di cui il D., nel proemio dedicato al Cesi, tesse un caldo elogio, ricordando che ad essa si applicarono anche molti sovrani, fra cui sono citati i granduchi di Toscana, Cosimo, Francesco e Ferdinando de' Medici. Secondo l'autore l'arte distillatoria, seguendo l'opera della natura, coghe le virtù e le proprietà nelle cose per ottenere prodotti di grande utilità, soprattutto nel campo della medicina e della cosmesi.

Di tutt'altro genere è il De munitione, in tre libri, dedicato all'architettura militare. Il D. sostiene, fra l'altro, che, in seguito all'invenzione e all'impiego della polvere da sparo, anche le fortificazioni militari dovevano essere opportunamente rinnovate e adeguate alle, nuove prospettive belliche.

Opere: Non è possibile dare qui riferimenti bibliografici sulle varie opere del D., molte delle quali ristampate più volte, in luoghi e da editori diversi, nel corso dei secc. XVI-XVII. Si dà perciò l'indicazione della sola prima edizione delle singole opere, rinviando per più ampie notizie a: G. Gabrieli, Bibliografia lincea, I,G. D., in Rend. della R. Acc. naz. dei Lincei, classe di sc. mor., stor. e filol., VIII (1932), pp.214 ss. (che fa anche una precisa rassegna sui manoscritti), e a L. Muraro, G. D., Milano 1978, pp. 213 ss.

Magiae naturalis sive de miraculis rerum naturalium libri IV, Neapoli 1558, con successive edizioni; in traduzione volgare, forse dello stesso D., fu stampata per la prima volta a Venezia nel 1560, De furtivis literarum notis vulgo de ziferis libri IIII, Neapoli 1563, con successive edizioni; L'arte del ricordare,Napoli 1566, tradotta in volgare da M. D. Falcone. L'originale latino sarà stampato, con il titolo di Ars reminiscendi, a Napoli nel 1602. Suae Villae Pomarium, Neapoli 1583; Suae Villae Olivetum, Neapoli 1584; De humana psysiognomonia libri IIII, Vici Aequensis 1586, con succ. edizioni; in traduzione volgare dello stesso D., sotto lo pseudonimo di Giovanni de Rosa, fu stampata, per la prima volta, a Napoli nel 1588, con il titolo Della fisonomia dello huomo libri quattro. Il D. vi aggiunse in seguito altri due libri e l'intero testo fu pubblicato a Napoli nel 1610; Phytognomonica octo libri contenta, Neapoli 1588, con succ. edizioni; Magiae naturalis libri XX, Neapoli 1589, con succ. edizioni; in traduzione volgare fu stampata per la prima volta a Napoli nel 1611. Villae..., libri XII, Francofurti 1592; De refractione optices parte libri novem, Neapoli 1593; Pneumaticorum libri tres. Quibus accesserunt curvilineorum elementorum libri duo, Neapoli 1601; Coelestis physiognomoniae libri sex, Neapoli 1603 (l'opera fu sicuramente stampata in precedenza a Napoli nel 1601), con succ. edizioni. Traduzione latina del primo librodell'Almagesto di Tolomeo pubblicata a Napoli nel 1588, di cui esiste copianell'edizione seg.: Claudi Ptolomei magnae constructionis liber primus. Cum Theonis Alexandrini commentariis, I. Baptista Porta Neap. interprete, Neapoli 1605; De distillatione libri IX, Romae 1608, con successiveedizioni; De munitione libri III, Neapoli 1608; Elementorum curvilineorum libri tres. In quibus altera geometriae parte restituta agitur de circuli quadratura, Romae 1610 (in appendice è pubblicato un elenco di opere stampate e da stampare del D.); De aeris transmutationibus libri IV, Romae 1610, con successive edizioni. Furono pubblicate postume le seguenti opere: Della Chirofisonomia, overo di quella parte della humana fisonomia che si appartiente alla mano, in due libri,tradotti e pubblicati a cura di P. Sarnelli, Napoli 1677; Indice della Taumatologia e Liber medicus, pubbl. a cura di G. Paparelli a Firenze nel 1956; De telescopio, pubbl. a cura di V.Ronchi e M. A. Naldoni a Firenze nel 1962. Sono rimaste inedite le seguenti opere del D. conservare nel ms. H.169 dell'Ecole de médicine di Montpellier: De mirabili numerorum potestate; Della calamita; Naturalis Chironomia (che corrisponde forse alla Chirofisonomia pubbl. a cura del Sarnelli nel 1677); Criptologia (quest'ultima opera è conservata anche nel ms. IX dell'Archivio Linceo).

Fonti e Bibl.: Documenti sparsi sulla vita del D. sono reperibili in Arch. di Stato di Venezia, Santo Uffizio, Processi, busta 69; Arch. di Stato di Modena, Carteggio del card. Luigi d'Este; Napoli, Arch. storico diocesano, Sant'Uffizio 235b, anno 1593; Ibid., Carteggio del cardinale A. di Capua; Arch. di Stato di Firenze, Guardaroba mediceo 399, cc. 24r, 27v, 287r; I. Imperialis Musaeum historicum et physicum, Venetiis 1640, pp. 122 ss.; L. Crasso, Elogii d'huomini letterati, I, Venezia 1666, pp. 170-174; P. Sarnelli, Vita di G. B. D., Napoli 1677; J. F. Niceron, Mémoires pour servir à l'histoire des hommes illustres, Paris 1729-1745, XLIII, pp. 30-54; J. Priestley, The history and present state of dicovering relating to vision, light and colours, I, London 1772, pp. 34-43; J. E. Montucla, Histoire des mathématiques, I, Paris 1799-1802, pp. 698-700; L. Duchesne, Notice histor. sur la vie et les ouvrages de J. B. Porta gentilhomme napolitain, Paris a. IX (1800-1801); G. 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La produzione drammaturgica del D. comprende le quattordici commedie e le tre tragedie di cui è pervenuto il testo, per lo più in edizione a stampa. Ma non basta tanta mole a rendere esatta idea di una delle scritture più turgide del nostro secondo Cinquecento se non si tiene conto delle attribuzioni, inverificabili ma non per questo da ritenersi erronee, di altre commedie (Notte, Fallito, Strega, Alchimista, secondo B. Chioccarelli, De illustribus scriptoribus Regni Neapolitani, Napoli 1780; Spagnuolo, Negromante, Pedante, secondo P. Barbarito nella dedica alla Penelope, Napoli 1601; Intrighi, secondo P. Sarnelli nella premessa alla Chirofisonomia, Napoli 1677, Bufalaria secondo B. Zannetti in appendice a Elementorum curvilineorum libri tres, Roma 1610) e tragedie (S. Dorotea, S. Eufemia, Theophila).

La stessa personalità del D., scienziato di tutte le scienze e attore di tutti i teatri, sembra autorizzare un allargamento del suo repertorio verso i confini di un'autentica "enciclopedia dello spettacolo", che inventaria e assembla con disinvoltura i temi plautini e terenziani, i frutti della stagione d'oro della novellistica e del teatro rinascimentale, le modalità della cultura orale e popolare partenopea, gli esiti preshakespeariani nel romanzesco e nel favoloso, gli stilemi di quel che sarà il drame larmoyant, e soprattutto l'essenziale lezione di dinamismo scenico e di tecnica dell'attore fornita dalla commedia dell'arte.

Alcuni studiosi, pazientemente sbrogliando l'intricata matassa, hanno tentato analisi di singole commedie o di gruppi di esse accomunate dal prevalere di questo o quell'elemento compositivo. Ma l'idea del teatro dellaportiano si coglie comunque nell'intreccio di tutti quei fili, assunti in parità di dignità culturale in un meccanismo che, costruito per "scherzo" o svago o precetto penitenziale, in ogni caso poggia sulle solide basi di un'esperienza che, di "giovanile", come protesta l'autore, non ha certo l'età, ma soprattutto l'impronta. Se di gioco si tratta, come il D. ribadisce nel prologo di più di una commedia e i suoi editori ripetono nelle prefazioni alle stampe, è certo gioco "di una vita che si chiude", come finemente notato da Apollonio, gioco di un pensiero maturo, ormai in grado di rappresentare figurativamente i fantasmi partoriti da "studi più gravi" (si vedano i prologhi della Carbonaria, Venezia 1601, e del Duo fratelli rivali, ibid. 1601).

Del resto, se fu rappresentata tra il 1586 e il 1589 alla presenza del viceré di Napoli don Juan de Zuñiga conte di Miranda, "con superbo apparato, da virtuosissimi giovani" come si legge nella dedica di P. Barbarito a don Giulio Gesualdo, e dunque fu composta qualche anno prima della stampa napoletana del 1589 per i tipi del Dalviati, l'Olimpia, la prima commedia edita del D., si colloca nel pieno della sua attività scientifica e della sua esperienza intellettuale. Va quindi interpretata in relazione agli esordi del D. commediografò la metafora, proposta dal prologo, della commedia come "vergine ... vergognosetta": ché, anzi, l'interesse del D. per l'arte della rappresentazione non è dato improvviso e frutto di una forzata pausa meditativa, esercizio distraente da pericolose pratiche scientifiche. Infatti, il Barbarito nella dedica all'Olimpia è già in grado di citare quel De arte componendi comoedias, trattatello perduto di poetica teatrgle, che R. Zannetti ricorda in traduzione italiana insieme ad una versione plautina nei due elenchi che compilò delle opere scientifiche e teatrali del D. (in Elementorum, cit., e in un foglio volante datato 10 sett. 1611, ora in G. Libri, cit., IV, pp. 339-406). Non solo, già nell'Arte del ricordare, edita a Napoli nel 1566, il D. offre consigli pratici agli attori sulla recitazione di versi e prosa: ma soprattutto individua nel gesto un ausilio mnemonico di grande efficacia ("Qual'è quella pittura figurata in un decente gesto, quantunque taccia, che non paia che raggioni, e esprimi i suoi concetti più che la voce viva?", cap. XX, in P. Gherardini).

La reale portata dell'interesse del D. per l'arte rappresentativa, piuttosto che in queste sparse notazioni presenti nelle sue opere, va indagata, all'interno della sua concezione scientifica, "corne motivo di unificazione della straripante ricchezza di interessi di questo scrittore"; come "tensione a direzione unica che avviva le figure mostruose dell'uomo-pecora, dell'uomo-becco, dell'uomo-toro, ecc. disegnate con cura meticolosa nei trattati De celeste e De humana physonomia e contemporaneamente rappresentate nelle scene delle commedie mediante estrose analogie zoologiche". Questa indicazione di Sirri Rubes è stata ripresa da P. Gherardini in un denso saggio di fisionomia, settore non secondario dell'attività scientifica del D. e un carattere peculiare del suo teatro, cioè l'estrema tipizzazione dei personaggi, in quella direzione di una preminenza dell'attore indicata dall'Arte.

Olimpia, Fantesca, Trappolaria, Cintia e Carbonaria, le prime cinque commedie edite del D., appartengono ad un ambito compositivo legato all'universo del dramma rinascimentale, più caratterizzato cioè in senso classicistico: è nel ricorso al modello collaudato che si legge l'esordio drammaturgico del D., già diversificato però negli esiti di variazione sul comico tipici dell'Arte. Difficile dunque condividere l'opinione di alcuni contemporanei che vedono in quelle commedie un baluardo alle rappresentazioni "zannesche e disoneste che si fanno all'improvviso" (P. Barbarito, dedica alla Penelope), e la tesi proposta di recente di una restaurazione della letteratura nel teatro e viceversa (Sirri Rubes). Si tratta piuttosto di un controllatissimo esercizio stilistico operato dal D. su modi e forme che una tradizione gli offriva nella fissità di un repertorio codificato, e che egli reinventa moltiplicando parossisticamente gli "scherzi", in non oscura coscienza della sovrapposizione di una vita fittizia, comica, a quella vissuta. In questo senso va il risentito programma di impegno sociale del D., sottolineato dal Sirri, da attuarsi per il tramite della resa teatrale di un gusto diffuso.

La "furia sperimentale", rintracciata da G. Innamorati, cancella se mai la "dicibilità" degli intrecci, non la loro rappresentabilità: non a caso un problema di attribuzione al D. grava su alcuni scenari dei comici dell'Arte. Qui meno importa chi li abbia scritti nelle forme idonee alla trasmissione di una trama spettacolare: più pertinente è rilevare che i comici ricorrono anche al repertorio del D., individuando nei suoi procedimenti compositivi lo spazio per un intervento di innesto delle "parti" sulla struttura preesistente, assotigliandone i tradizionali margini discorsivi a favore del dinamismo drammatico. Così nel canovaccio omonimo, segnalato dal Perrucci, della Trappolaria sopravvive il meccanismo scenico della "beffa", scompare invece il gioco psicologico dell'autocompiacimento del servo Trappola, che avvisa le vittime prima di ingannarle, in una ineffabile dialettica di bugie e verità (Tessari).

Dell'Olimpia si conoscono, oltre alla prima, un'edizione Venezia, G. e G. B. Sessa, 1597, e una Siena, alla Loggia del Papa, 1613. Il testo compare nell'unica edizione completa di tutte le commedie del D., quella curata dal Muzio in quattro tomi, Napoli 1776; in quella parziale curata da V. Spampanato in due volumi, Bari 1910-11, che comprendono anche Sorella, Carbonaria, Fantesca, Tabernaria, Cintia, Duo fratelli rivali, Astrologo; in quella curata da Sirri Rubes articolata in un primo volume, Napoli 1978, dedicato alle tragedie, e in un secondo, Napoli 1980, che contiene i testi di Fantesca, Trappolaria, Cintia e Carbonaria. F. Milano identifica nel D. il "gentilhuomo Napolitano" che Fabrizio de Fornaris cita nella dedica dell'Angelica, Parigi, A. L'Angelier, 1585, e che gli avrebbe donato la commedia, calco del resto dell'Olimpia. La circostanza induce a retrodatare la data di composizione della commedia dellaportiana anche rispetto a quella della rappresentazione: ma in realtà è impossibile orientarsi in una cronologia disordinatissima in base a sporadiche, e non sempre attendibili, testimonianze.

La Fantesca, edita a Venezia, presso il Bonfadino, nel 1592, conobbe diverse ristampe; compare anche nelle raccolte curate da A. G. Bragaglia, Roma 1947; da M. Apollonio, Milano 1947; da N. Borsellino, Milano 1967. Analogamente, la Trappolaria, edita a Bergamo per Comin Ventura nel 1596, ebbe diverse ristampe, tra cui quella veneziana dei Sessa del 1597, che comprende anche le due precedenti commedie, e quella ferrarese di V. Boldini del 1615 che dà notizia di una rappresentazione per il carnevale.

La Cintia e la Carbonaria furono edite a Venezia da G. A. Somasco nel 1601 e furono anch'esse ristampate. Va ricordato che nella dedica alla Penelope, datata 10 ag. 1591, il Barbarito già elenca tra le commedie del D. la Fantesca, la Cintia e l'Astrologo, che sarà edita soltanto nel 1606.

Scenari dell'Arte più o meno plausibilmente riconducibili alle trame dellaportiane si rintracciano nelle raccolte di Placido Adriani, Basilio Locatelli, Andrea Perrucci: il problema dell'attribuzione degli scenari della Notte, della Trappolaria, dei Duo fratelli rivali e dei Duo fratelli simili, della Sorella e della Tabernaria, ha appassionato studiosi del calibro di A. Bartoli, B. Croce, V. Rossi.

La Cintia contiene le prime avvisaglie del genere "commedia grave", romanzesca o drammatica, che prevale nella restante produzione del Della Porta. La Clubb rintraccia le ombre sinistre delle sventure con l'Inquisizione nelle complicazioni perigliose del tema comico tradizionale della fortuna nell'Astrologo e nella "gravità" di caratteri e situazioni nei Duo fratelli rivali e, con diverse accentuazioni nella contaminazione classico-novellistico-realistica e patetico-romanzesca, in Sorella, Turca, Moro, Chiappinaria, Furiosa e Duo fratelli simili. L'elemento romanzesco e favoloso presente nei Duo fratelli rivali ha fatto parlare di influenze sullo shakespeariano Much ado about nothing, anche per la comune fonte novellistica (Bandello). D'altra parte, punti di contatto con la coeva esperienza della "commedia grave" sono rintracciabili soprattutto nel Moro, che richiama I torti amorosi del Castelletti. Non si tratta però di mutamenti sostanziali nella tecnica compositiva del D.: piuttosto, questi elementi complicano ulteriormente l'ingegnosa macchina spettacolare e forzano ad esiti di grande pregnanza espressiva il linguaggio dellaportiano.

Il tono medio e colloquiale di una lingua "da conimedia", per sua natura generica e non privilegiata, svincolandosi dall'osservanza dei precedenti classici, diventa nel D., con procedimento crescente, del tutto artificiale e impronunciabile al di fuori di quei palcoscenici invasi, al tramontare del secolo, da uno stuolo di "alchimisti, maghi, matematici, ciarlatani, astrologhi" (Macchia). Il linguaggio del D. non opera più sul reale, nemmeno su quello mimetico della tradizione teatrale rinascimentale, ma punta decisamente all'invenzione e all'evasione, in una progressiva e sorvegliatissima infrazione di ogni convenzione e "decoro" che sovraintendono alla formulazione dell'intreccio comico. Èl'affermazione, anche a livello linguistico, di una poetica dell'estro che in nulla contraddice gli "studi più gravi", anzi da quelli trae perfino certe cadenze figurative, stilistiche e semantiche. La folla dei personaggi, la babele dei lessici, la pirotecnia degli intrecci non si traducono in diversità di caratteri, in pluralità di linguaggi, in complessità di narrazione: ne scaturisce, invece, diversità di rappresentazioni, nella dissoluzione del modello unitario della commedia classica e nell'impossibilità di dare affabilità ai "diversi linguaggi" fuori della scena.

Il teatro è nel D., come già in Bruno, strumento di conoscenza "scientifica": alla cultura ermetico-magica si affianca vincente quella galileiana; al "gran teatro del mondo" del D. succede, anch'esso vincente, l'empirismo di Flaminio Scala e della commedia dell'arte.

Dei Duo fratelli rivali si conosce l'edizione Venezia, G. B. Combi, i 60 1, e una Venezia, Ciotti, 1606: il testo si legge anche nella traduzione inglese di G. L. Clubb. Il prologo costituisce, insieme a quello della Carbonaria, chein pratica è il medesimol il più importante documento della poetica teatrale dei Della Porta. Nonostante la definizione di "scherzi della sua fanciullezza", il prologo difende la pratica delle commedie, ne descrive le parti, definisce la "peripezia" complessa e razionale, rivaluta la lezione drammaturgica di Aristotele; fornisce inoltre notizie sulle rappresentazioni, effettuate per lo più in case private e da dilettanti, ma anche in teatri pubblici e da professionisti.

La Sorella, edita dal Nucci a Napoli nel 1604, fu ristampata e compare anche nella raccolta curata da A. Borlenghi, Milano 1959. Dalla dedica, datata 12 aprile, si ha notizia di una rappresentazione in casa di Francesco Blanco, che volle "onorarla di suntuoso apparato". La Turca fu edita a Venezia, Ciera, nel 1606: nell'atto II, scena VII si accenna ad avvenimenti del 1572, che è il limite cronologico post quem far risalire la composizione dell'opera. L'Astrologo fu edito nello stesso luogo, dallo stesso stampatore, nello stesso anno, benché, come ricordato, dovrebbe essere stato composto entro il 1591: compare anche nella raccolta de Il teatro italiano, Milano 1955. Il Moro fu edito a Viterbo da G. Discepolo nel 1607. La Chiappinaria fu edita a Roma da B. Zannetti nel 1609 e poi a Napoli da Gargano e Nucci nel 1615: nell'atto I, scena I si ricorda Filippo III di Spagna, successore di Filippo II morto nel 1598. B. Zannetti, nella dedica, spiega il significato del comporre commedie e illustra la funzione educativa del teatro specie se l'autore è, come nel caso del D., uomo di "filosofici e sublimi spiriti". La Furiosa, che anch'essa ha un importante prologo, fu edita a Napoli da Carlino e Vitale nello stesso 1609 e riedita, sempre a Napoli, da G.B. Gargano nel 1618. La Tabernaria fuedita a Ronciglione presso Dominici nel 1612: nella dedica, A. Rossetti insiste sulla qualità di pausa evasiva e riflessiva della produzione drammaturgica del D., che attendeva ad essa per lo più in "Estate in una sua amenissima Villa, dove perché egli non sapeva viver nell'otio, si tratteneva spiegando i suoi morali pensieri col rappresentare ne' componimenti Comici, e Tragici l'intricate attioni dell'humana vita". Gli duo fratelli simili furono editi a Napoli per i tipi di G. G. Carlino nel 1614.

La tragicommedia Penelope e le tragedie Georgio e Ulisse ebbero un'unica edizione secentesca e solo recentemente sono state riproposte all'attenzione degli studiosi moderni nella versione curata da Sirri Rubes. La Penelope fu stampata a Napoli dagli eredi di Matteo Cancer nel 1601 con l'importante dedica del Barbarito a Giulio Gesualdo: tra gli altri motivi di interesse, lo scritto ribadisce l'atteggiamento noncurante del D. verso le sue opere drammatiche, che vanno "disperse per le mani d'ogniuno". A tale atteggiamento va in gran parte collegata l'impossibiltà di avanzare ipotesi fondate sulle date di composizione effettiva delle opere del D.: bisogna comunque ricordare che in una lettera del 7 apr. 1580 a Teodosio Panizza il cardinale Luigi d'Este menziona una commedia e una tragicommedia del D. (in G. Campori).

Il prologo della Penelope fornisce un singolare contributo alla polemica sul tragicomico che arroventò il clima letterario italiano di fine Cinquecento: Sirri a ragione ne sottolinea l'interesse per una storia di quella forma drammatica di cui il D. sorprendentemente si arroga la paternità, fatto salvo l'ovvio riferimento all'Amphitruo plautino. Inoltre il D. rifiuta la definizione di genere "misto" e opera uno sdoppiamento fra caratteri tragici della fabula e dell'"apparecchio" e quelli comici della struttura, operato scegliendo "il bello e il buono / de l'una e l'altra". Cancellata di colpo la sperimentazione guariniana, il D. si collega a distanza al Giraldi Cintio, optando per "una forma drammatica semplificata, meravigliosa e dilettosa, di evasione, diretta al pubblico", che combini "l'estro plautino e la pedagogia controriformistica".

Il Georgio fu pubblicato a Napoli da Gargano e Nucci nel 1611, mal curato da Salvatore Scarano, pessimo editore, per stessa ammissione del D., delle sue opere tarde. L'Ulisse fu edito a Napoli da Lazaro Scoriggio nel 1614: una lettera del D. al Cesi del 10 giugno 1612 testimonia la faticosa gestazione e la cura attenta nella documentazione (in G. Gabrieli).

Le preoccupazioni di conformismo all'ortodossia del genere e della religione, puntualmente sottolineate dal Sirri, non rendono completa ragione della volontà, presente nelle due tragedie, di rappresentazione favolosa e romanzesca, che scade a volte nel farsesco, degli exempla religiosi e pagani: ancora una volta, le ragioni dell'estro, sia pure più decisamente spostate verso quelle zone macabre e patetiche peraltro non assenti da certe commedie del D., sembrano prevalere su intenzioni di rivalutazione dei simboli eroici in funzione culturale e morale - ma non per il tramite problematico della catarsi -, come vorrebbe Sirri. Non è soltanto quindi nella tragicommedia ad essere alterato il tracciato fabulistico verso esiti di attesa popolaresca; e in tutte e tre le opere è rilevabile un analogo procedimento, anche a livello lessicale e linguistico, di depotenziamento "di valore allusivo e di risonanza lirica", a favore di una "funzionalità comunicativa" (Sirri). Gli scrupoli moralistici e conservatori si stemperano in un formale ossequio al genere "serio": anzi "grave", per adoperare un termine che riconduce a tendenze tragicomiche il Georgio e l'Ulisse, prove comunque concepite negli stessi anni delle libere, inventive "composizioni sul comico" di tante commedie dellaportiane.

In un panorama di recente arricchitosi di contributi puntuali che rinnovano la conoscenza del repertorio del D. e l'interesse verso un autore ritenuto per lo più "irrapresentabile", resistono in definitiva le indicazioni di lettura, se si vuole attardate, di Croce e Apollonio. Il primo, in Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1933, p. 301, preoccupandosi di escludere l'opera del D. dall'universo della poesia, la relega con formula tanto sbrigativa quanto felice tra le scritture "che interessano piuttosto la storia del teatro" e che vanno quindi valutate "con criteri teatrali". Nella mai abbastanza apprezzata Storia del teatro italiano, Firenze 1940, II, pp. 175-86, Mario Apollonio sottolinea quella "poetica dell'estro" espressa in testi la cui definizione di "scherzi" non appanna la presenza in essi di una cultura rigogliosamente declinante. Tra il sentimento crociano di una vocazione spettacolare eccessiva per un letterato e l'intuizione di Apollonio di un motivo lirico sotteso allo svago di una maturità colma, si svolge l'itinerario della critica sul D. drammaturgo.

Fonti e Bibl.: Di una bibliografia critica cospicua, ma non tutta ugualmente stimolante, si segnalano gli interventi più utili: A. Bartoli, Scenari inediti della commedia dell'Arte, Firenze 1880, p. XXXI, n. 2; M. Scherillo, Gli scenari di G. D., in Riv. minima di scienze, lett. ed arti, XI (1881),5, pp. 321-28; V.Rossi, Una commedia di G. D. e un nuovo scenario, in Rendic. d. Ist. lomb. di scienze e lett.,s. 2, XXIX (1896), pp. 881-95; F. Milano, Le commedie di D., Napoli 1900, pp. 311-4 12; F. Fiorentino, Studi e ritratti della Rinascenza, Bari 1911, pp. 233-340; B. Croce, Saggi sulla lett. ital. del Seicento, Bari 1911, ad Ind.; Id., I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del sec. XVIII, Bari 1947,pp. 43-53;F. Petraccone, La commedia dell'arte, Napoli 1957, pp. 383-89; L.G. Clubb, G. D. dramatist, Princeton 1965 e introd. a G. Della Porta, Gli duo fratelli rivali. The two rival brothers, Berkeley-Los Angeles-London 1980, pp. 140;R. Sirri Rubes, L'attività teatrale di G. D., Napoli 1968, e introd. a G. Della Porta, Teatro, I, Le tragedie, Napoli 1978, pp. 9-29, e II, Le commedie (I gruppo), Napoli 1980, pp. 7-50; R. Tessari, La commedia dell'arte nel Seicento, Firenze 1969, pp. 136-41; P.Gherardini, Problemi critici e metodologici per lo studio del teatro di G. D., in Biblioteca teatrale, I (1971), pp. 137-59; G.Macchia, La caduta della luna, Milano 1973, p. 85;G.Innamorati, I testi letterari per il teatro,in Il teatro del Cinquecento, Firenze 1982, pp. 54 s.

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