Vico, Giovambattista

Enciclopedia Dantesca (1970)

Vico, Giovambattista

Mario Fubini

, La critica dantesca del V. si può per certi rispetti ricondurre al movimento arcadico, di cui egli pure fu partecipe, di restaurazione della tradizione letteraria, che ripropose in funzione antibarocca alla considerazione dei lettori e dei critici poeti del passato, i cinquecentisti anzitutto e il Petrarca, ma anche, se pur più di rado, D., che una parte così notevole ha nella Ragion poetica del Gravina (1708). Ma tutta vichiana è la coscienza del contrasto fra il gusto del tempo e quell'eccelsa e ardua poesia: ne è documento, e questo è il suo primo punto fermo, quanto si legge nella lettera a Gherardo Degli Angioli sull'amore per D. di quel giovane amico, segno sicuro di vocazione poetica: " Voi con un gusto austero, innanzi gli anni, gustate di quel divino poeta, che alle fantasie dilicate d'oggidì sembra incolto e ruvido anzi che no, e agli orecchi ammorbiditi da musiche effeminate suona una soventi fiate insoave e bene spesso dispiacente armonia ": parole che valgono come definizione del gusto non soltanto dei tempi suoi ma di quasi tutto il secolo, e insieme di quella grande poesia, a cui il suo animo era volto.

Era al fondo di quella simpatia la congenialità con l'autore della Commedia, " ce Dante ", dirà il Michelet, " avec lequel il avait lui-méme tant de rapports par son caractère mélancolique et ardent " (di " colerico ingegno " come di " melanconico umore " egli stesso parlò discorrendo di sé medesimo come di D.); ed era l'ideale di una poesia sublime per originalità, ignara di modelli e di regole, perché anteriore a ogni regola, ogni modello, conforme a un motivo che affiora di tempo in tempo dal seno stesso della poetica classicistica e in contrasto con essa, ma antico e vigoroso nella sua mente di arcade e di umanista nonostante l'Arcadia e l'umanesimo, come ci attesta una pagina singolare del De nostri temporis studiorum ratione (1709) e assai meglio poi (1720), in forma definitiva, il passo del Diritto universale (De constantia philologiae, XIII 21), là dove, a conclusione del discorso su Omero, è appunto fatto il nome di D.: " Eodem prorsus fato quo Dantes Aligerius in summa italorum barbarie, sine ullo exemplo proposito, ex sese primum natus, ex sese quoque poeta factus absolutissimus ".

Ma col Diritto universale e poi con la Scienza nuova quel che era sentimento, spunto d'idea, si chiarisce, approfondisce, sistema entro una nuova concezione della poesia e della storia, per la contrapposizione così risoluta fra fantasia e ragione, fra età di passioni prepotenti e di robusta e sensuosa immaginazione, naturalmente poetiche, ed età della mente tutta spiegata in cui la potenza della fantasia è fatalmente sminuita o attutita per l'intrusione di elementi intellettualistici. La poesia anteriore alle regole e ai modelli non è più un ideale o un'aspirazione bensì una realtà storica, non più un concetto puramente negativo (poesia " ignara " di regole e modelli), bensì una complessa realtà, un mondo sociale, religioso, politico, intellettuale tutto improntato dello spirito poetico, di cui sono documento e monumento i più alti poemi dell'umanità. Tali i poemi omerici, che hanno nella costruzione vichiana un'importanza essenziale e forniscono in gran copia i colori all'illustrazione delle età eroiche o poetiche o barbariche: ma accanto a Omero si presenta al Vico D., quasi il nuovo Omero, il toscano Omero, l'Omero della barbarie ritornata, che viene pur esso a confermargli la teoria sua dei ricorsi, ed entra perciò come personaggio della sua storia, mitologica e paradigmatica, la storia ideale eterna del corso che fanno le nazioni.

Qui è la forza, qui il limite della critica vichiana, che non tanto ha di mira la Commedia nei suoi peculiari caratteri, quanto quel che essa avrebbe in comune coi poemi omerici. Ne viene da una parte per quell'accostamento illuminata di vivida luce l'opera di D. contrapposta non soltanto alla poesia raziocinante e cantabile del Settecento, ma alla poesia umanistica in genere e alla raffinata epopea virgiliana, così che ne è messa in forte rilievo l'ispirazione ‛ eroica ', la possente passionalità, la ‛ corpulenza ' delle immagini; mentre dall'altra per quell'idea generica della poesia primitiva è trascurato quel che è proprio della Commedia (ma non era questo il fine della critica vichiana), ed è accentuata all'estremo la barbarie dell'età che fu di D. (" Egli nacque Dante in seno alla fiera e feroce barbarie d'Italia... "), - benché già nella seconda Scienza nuova il giudizio risulti temperato dall'ammissione di una gradualità nella barbarie o eroismo, e l'affermazione sia così corretta: " Nella ritornata barbarie d'Italia, nel fin della quale provenne Dante " - né già rafforzata bensì forzata l'intuizione geniale dell'affinità delle due poesie con analogie piuttosto ingegnose che rispondenti a verità. Ma merito precipuo dell'interpretazione vichiana è l'aver riportato D. nella storia, e sia pure in una storia mitica, e, particolareggiando, nella storia di quella " repubblica tempestosissima " che era stata la sua città: non più sarebbe venuto fatto al V. di deplorare, come prima e poi critici e letterati, le contese di parte e il mancato ozio concesso a D. dalla travagliata politica del tempo, ché anzi da essa egli sentì derivare l'ispirazione prima del " carme / ch'allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco ". E degno di ricordo, più di altre pretese analogie, è quel che si dice nella seconda Scienza nuova sull'assunto di D. di " sporre in comparsa i fatti dei trapassati ", non già inventando personaggi poetici ma traendoli dalla storia vivi e reali, non diversamente dagli autori della commedia attica antica, oltreché da Omero, al pari di tutti i poeti primitivi, poeta-storico della sua età.

Soprattutto importante perché in contrasto con l'esaltazione di D. poeta filosofo, maestro di sapienza, grande per la dottrina che si dispiega nel suo poema, l'insistenza sulla grandezza della poesia della Commedia, tutta senso, corposità, passione, che nulla ha a che fare con la dottrina dantesca: per cui egli non esita ad affermare che D. " se non avesse saputo affatto né della scolastica né di latino, sarebbe riuscito più gran poeta, e forse la toscana favella arebbe avuto da contrapporlo ad Omero che la latina non ebbe " (Scienza nuova prima, III XXVII). Un paradosso evidentemente, che il V. lasciò cadere nella Scienza nuova seconda, per quel che aveva di eccessivo e per adeguare del tutto all'omerica l'ammirata poesia dantesca, ma importante per la stessa intrinseca contradizione che rivela nel concetto da cui muove, e che induce a procedere oltre per correggere, integrare. Se facile oggi per noi è riconoscere come la stessa poesia di D. sarebbe inconcepibile senza quella scolastica e quel latino, era in quel paradosso e in tutta la critica vichiana la premessa del discorso che si sarebbe svolto in avvenire sulla Commedia, sul rapporto nel poema fra poesia e cultura.

Sarebbe stato compito dei posteri intendere nella sua idealità il concetto di poesia primitiva, dissociando poesia e barbarie: da parte sua il V., dopo la prima Scienza nuova (1725) e la lettera al Degli Angioli, che scritta nello stesso anno ne è quasi il corollario dantesco, mentre attendeva alle annotazioni e aggiunte per la nuova edizione della Scienza nuova (1730), sentì il bisogno di tornare ancora su D. stendendo nel 1729 una prefazione, non poi stampata, al commento del padre Pompeo Venturi - fortunatissimo commento, che attesta dopo il lungo silenzio del Seicento la ripresa degli studi danteschi. Quella prefazione, pubblicata soltanto nel 1818 col titolo di Giudizio intorno a Dante, è delle sue pagine dantesche forse la più felice didascalicamente, per la distinzione dei tre " riguardi " per cui si deve leggere la Commedia, come " storia de' tempi barbari d'Italia ", come " fonte di bellissimi parlari toscani ", come grande opera poetica.

Vi si riafferma, secondo i principi della Scienza nuova, che " il primo o tra' primi degl'istorici italiani egli si fu il nostro Dante ", con la deduzione dell'opportunità di tralasciare, come aveva fatto quel commentatore, " ogni morale e molto più ogni altra scienziata allegoria ", in quanto " le allegorie di tal poema non sono più di quelle riflessioni che dee far da sé stesso il leggitore d'istoria ". Quanto alla lingua, abbandonata la concezione di Omero, che avrebbe raccolto tutti i parlari della Grecia, per la dissoluzione della sua persona nel mito del popolo greco poetante, e di conseguenza quest'altra analogia con D., il V. viene a riconoscere che la lingua della Commedia è essenzialmente quella parlata allora a Firenze, dovendo essere comuni all'idioma fiorentino e ad altri idiomi italiani molti vocaboli, divenuti poi peculiari ad altre parti d'Italia, e che perciò era necessario uno studio sistematico della lingua dei tempi di D., per il quale molto poteva giovare la testimonianza " degli ordini bassi della città " e dei " contadini ", più fedeli conservatori delle tradizioni linguistiche.

E per il metodo della trattazione ha il dovuto risalto in queste pagine la considerazione della Commedia come opera di poesia, indipendentemente dal suo valore di monumento storico e linguistico: " Il terzo riguardo perché è Dante da leggersi è per contemplarvi un raro essemplo di sublime poeta ". " Ma questa, egli prosegue, è la natura della sublime poesia, ch'ella non si fa apprender per alcun'arte ", e rifacendosi all'autore del Sublime viene sulla sua scorta a definire il carattere della poesia dantesca e dell'intima eticità che le è propria e che è il fonte della sua sublimità, compendiandola in questi punti: " Altezza d'animo, che non curi altro che gloria ed immortalità, onde disprezzi e tenga a vile tutte quelle cose che ammiransi dagli uomini avari, ambiziosi, molli, dilicati e di femmineschi costumi " e " animo informato di virtù pubbliche e grandi, e sopra tutto di magnanimità e di giustizia " - che è il passo in cui il V. meglio mostra di sentire e intendere l'individualità di Dante. Ma a quella sublimità han conferito pure, egli ripete, riprendendo l'antico concetto, così come lo era venuto temperando (v. sopra), le qualità del tempo in cui D. ha avuto la ventura di nascere, il " tempo della spirante barbarie d'Italia ", uno di quei tempi in cui si producono le maggiori opere d'ingegno, come accade nei terreni vergini che nel rigoglio delle loro forze danno i migliori frutti, e poi " stanchi di essere tuttavia più e più coltivati gli danno pochi sciapiti e piccioli ". Di qui la perfezione delle opere di quei tempi remoti, che " le belle opere d'ingegno de' nostri tempi coltissimi " non potranno mai superare e neppure raggiungere. Così con una spiegazione naturalistica egli dà voce ancora una volta alla nostalgia per la " grande ", la " vera " poesia, che appartiene soltanto al passato.

Nel corso del secolo quella nostalgia andrà facendosi sempre più fortemente sentire in contrasto col razionalismo dominante e di tempo in tempo riecheggeranno in queste voci anche motivi vichiani, non sempre discernibili da quelli genericamente preromantici. Una eco della critica dantesca del V. è nell'Epistola in versi sciolti di Agostino Paradisi, in risposta alle censure bettinelliane: " Te dato a noi nei ferrei tempi Omero, / te per via dura condottier felice, / devoti o Dante veneriam "; e forse nel capitolo su D. del Prospetto del Parnaso italiano (1806) di Francesco Torti, in cui si legge fra l'altro: " Il suo poema consiste meno nella visione teologica dei tre regni dell'altra vita che nel quadro morale e politico del suo tempo... Si direbbe che il poema di Dante non è che la storia domestica de' suoi cittadini e de' suoi nazionali ". Ma chi ha consapevolmente ripreso e sviluppato la concezione del poeta primitivo e le idee del V. su D. è Ugo Foscolo, dagli accenni della Chioma di Berenice (1803) all'articolo della " Edinburgh Review " del 1819 e al Discorso sul testo del poema di Dante (1825), che attestano la fecondità dei concetti vichiani.

Ma dopo il Foscolo la critica dantesca si alimenta nell'età romantica da tante altre fonti che difficile riesce discernervi l'apporto specifico del V., divenute ormai di comune possesso le sue idee sì da presentarsi come luoghi comuni: tale la diade Omero-Dante, contro la quale, appunto perché abusata, protestava nella sua Storia P. Emiliani-Giudici. Anche C. Fauriel ebbe a fare riserve sulla primitività del tempo di D., ma pur accolse l'idea di una dualità di elementi nella Commedia, di una ‛ lotta ' fra la nativa poesia e la dottrina dantesca, che sarà pure un motivo della critica del De Sanctis. Di questi critici e di quelli più recenti il V. ci appare un precedente remoto: anche del Croce, il quale pure additò nella Poesia di Dante il V. come iniziatore della moderna critica dantesca.

Bibl. - B. Croce, Bibliografia vichiana, accresciuta e rielaborata da F. Nicolini, Napoli 1947-48, voll. 2; B. Croce, La filosofia di G. B. V., Bari 1911, 233-235 e passim; ID., La poesia di Dante, ibid. 1921, 173-180; ID., Il giudizio su Dante e V. e il commento del Venturi, rist. in Conversazioni critiche, s. 3, ibid. 1932, 315-319; M. Fubini, Il mito della poesia primitiva e la critica dantesca di G. B. V., rist. in Stile e umanità di G. B. V., 2a ediz., Milano-Napoli 1965, 147-174 (1a ediz., Bari 1946); G. B. Vico, Autobiografia, ecc., a c. di M. Fubini, Torino 1965 (1a ediz. 1947), 127-148; M. Fubini, Dante e l'età del razionalismo, in " Terzo programma " IV (1965) 175-183; A. Vallone, La critica dantesca nel Settecento, Firenze 1961; G. Paparelli, Dante e V., nel vol. miscell. Dante e l'Italia meridionale, Firenze 1966, 377-387.

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