SARDINI, Giovan Battista Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 90 (2017)

SARDINI, Giovan Battista Domenico. –

Renzo Sabbatini

Figlio di Jacopo di Lorenzo e di Chiara di Orazio Buiamonti, nacque a Lucca il 3 agosto 1689 nella parrocchia di S. Agostino. Ebbe due fratelli: Lorenzo, morto nel 1712 all’età di 28 anni, e Lodovico, morto nel 1770, e due sorelle, Chiara Teresa e Maria Serafina, entrambe suore.

Il padre Jacopo (o Giacomo, 1633-1711), vedendo la sua casa «nell’ultima decadenza» – come si esprimeva nelle sue Memorie Giacomo di Giovan Battista – aveva deciso di «tentare la fortuna in Polonia», dove si trattenne con notevole successo dal 1660 al 1682. Il matrimonio con la giovanissima Chiara Buiamonti fu celebrato poco dopo il rientro a Lucca (Mazzei, 1983, pp. 118, 144 s.).

Uomo di notevole peso politico, Giovan Battista sedette frequentemente in Consiglio generale, partecipò attivamente ai lavori dell’Offizio sopra le differenze dei confini (un piccolo ministero degli Esteri), ricoprì più volte la carica di anziano a partire dal 1715 e tre volte quella di gonfaloniere; ma il contributo più cospicuo alla cosa pubblica è rappresentato dalla sua più che trentennale attività diplomatica: dal 1724 al 1761 fu inviato alle corti di Firenze, Modena, Parma, Torino, Genova e risiedette per cinque anni a Madrid e per nove a Vienna. Sardini è stato una delle figure più rappresentative della diplomazia lucchese.

Nelle Memorie il figlio lo descrive come «alto di statura e ben proporzionato [...] uno de più begl’uomini della sua età» (Archivio di Stato di Lucca, Archivio Sardini, 129, p. 77). Del suo corso di studi non abbiamo notizia, ma come avvenne per il quasi coetaneo (e dalla carriera diplomatica analoga) Carlo Mansi, anche la formazione di Sardini come futuro diplomatico dovette molto al viaggio d’istruzione del 1720 in Francia, Fiandra, Olanda e Germania (non invece Londra, come aveva ipotizzato), dal quale – scrive ancora il figlio – «ricavò utili ammaestramenti, una abilissima destrezza nei politici affari, e molte ragguardevoli aderenze per le disinvolte maniere, colle quali guadagnava tutti gl’animi a suo favore» (pp. 74 s.). Di carattere estremamente meticoloso, secondo un’abitudine che mantenne per l’intera vita, del viaggio compilò un diario che presenta qualche elemento di interesse (ibid., Archivio Cenami, II, 31).

Il suo esordio – finora ignorato – nell’ambito della politica estera avvenne nell’ottobre del 1722 nel ruolo di ‘trattenitore’ dell’inviato cesareo Antonio de Ilderis per qualche giorno a Lucca: su incarico pubblico (e con un piccolo assegnamento), ma a titolo privato, Sardini doveva ‘servire’ il ministro imperiale organizzandogli un piacevole soggiorno (pranzi, giochi, visita alle ville); doveva evitare di affrontare con lui ‘pubblici affari’, ma nel contempo fornirgli le informazioni politiche indicate nell’istruzione consegnatagli dagli Anziani. Certo un incarico non di primaria importanza, ma assai delicato e non riservato a chi è a inizio carriera; lo stesso Sardini lo espletò anche come ultima missione, alla vigilia della morte. Nel caso specifico, c’erano almeno due temi politici delicati: la troppo calorosa accoglienza della Repubblica al pretendente James Francis Edward Stuart e il possibile acquisto lucchese del Principato di Massa. La relazione (ibid., Anziani al tempo della libertà, 614, 1) rivela un Sardini abile e attento, già perfettamente calato nei panni del diplomatico.

Per esprimere – come d’uso – le condoglianze per la morte di Cosimo III e, assieme, le felicitazioni per il successore Gian Gastone, Lucca non ritenne sufficiente la presenza dell’ambasciatore ordinario residente e così nell’aprile-maggio del 1724 inviò a Firenze Sardini, alla prima missione importante, con il carattere di ambasciatore straordinario (ibid., 633, pp. 740-744 e 877-894). Più lungo e impegnativo si presentò l’impegno successivo, presso la corte di Modena dal luglio del 1728 all’agosto del 1729, per «l’aggiustamento delle pendenze giurisdizionali» riguardo a San Pellegrino, sul confine appenninico dei due Stati, dove erano una chiesa e un ospedale, e alla strada e al fiume di Castiglione. Erano pendenze annose, in qualche caso secolari; Sardini – lo avvisarono le istruzioni – si sarebbe anche potuto valere dell’aiuto del lucchese Girolamo Lucchesini, al servizio del duca Rinaldo (pp. 751-759). L’ampia e dettagliatissima relazione, al termine dell’«arduo disgustoso trattato» con un principe dall’«indole troppo delicata», doveva registrare la conclusione infruttuosa («restò amichevolmente rotto il trattato»). Risultarono tuttavia del tutto confermate le qualità diplomatiche di Sardini, che chiudeva la relazione – secondo il modello veneziano, adottato dai governanti lucchesi a partire dal 1581 – con lo stato della corte di Modena, descritto con acume (pp. 909-1020).

La missione alla corte di Parma per congratulare il giovane Carlo di Borbone, indicato dalle potenze europee come successore dei Farnese, si svolse dal 25 novembre al 26 dicembre 1732, anche se la relazione reca la data del 1° maggio 1733 (ibid., 634, pp. 73-91). L’istruzione ebbe una gestazione più complessa del solito, con un rinvio dagli Anziani all’Offizio sopra le differenze e anche a una commissione ad hoc. Vi erano questioni di etichetta (non ancora concordata con la Spagna), poi il titolo di gran principe di Toscana che si voleva evitare, e ancora il precedente delle difficoltà poste dal padre Salvatore Maria Ascanio nel primo incontro dell’inviato lucchese Carlo Mansi con il principe appena sbarcato a Livorno e, infine, l’abboccamento dell’ambasciatore della Repubblica a Firenze con il conte di Santo Stefano, che aveva assicurato per Parma un «trattamento pubblico», mentre l’istruzione definitiva sceglieva un’udienza di carattere privato (ibid., 633, pp. 774-791). E, in effetti, tutte queste difficoltà si presentarono a Sardini: il conte di Montalegre, che fungeva da segretario di Stato di don Carlo, si mostrò irremovibile a proposito del titolario, tanto da spingerlo a ritirarsi dalla corte prima della risposta alle credenziali (ibid., 634, pp. 73-91).

Il gesto, peraltro previsto dall’istruzione ricevuta, rischiò di creare un incidente diplomatico perché accompagnato – è la versione che Montalegre presentò a Mansi, che aveva rimpiazzato Sardini a Parma – da «qualche espressione che pareva volesse inferire che la monarchia di Spagna, non possedendo più stati in Italia, doveva avere qualche maggiore considerazione per li principi della medesima provincia» (ibid., Offizio sopra le differenze dei confini, 213). Il problema era che lo stesso giorno della lettera di Mansi, il 1° dicembre 1733, il Consiglio generale approvava le istruzioni per la lunga missione di Sardini a Madrid come inviato straordinario nella fase di turbolenze della guerra di successione polacca (ibid., Anziani al tempo della libertà, 634, pp. 15-22). L’intercessione di Santo Stefano indusse però Montalegre a rassicurare il rappresentante lucchese che «la corte di Spagna non era intesa dell’espressioni un po’ troppo forti che il fervore del discorso ed il genio di ben servire la Republica avevano obbligato il signor Sardini ad usare, e che però poteva sicuramente partire per la sua commissione» (ibid., Offizio sopra le differenze dei confini, 213, responsiva 13 dicembre 1733).

Come annota nel suo Diario (ibid., Archivio Sardini, 87), partito da Lucca il 26 dicembre 1733 – dopo essere passato da Parma, dove raccolse il beneplacito di don Carlo e di Montalegre – Sardini si imbarcò da Genova il 21 febbraio 1734 e giunse a Madrid il 26 marzo. Da qui ripartì il 4 gennaio 1738 e, dopo aver fatto tappa alle corti di Torino, Parma, Modena e Firenze, rientrò in patria il 16 aprile. Nel corso della lunga missione, che copre l’intero arco della guerra di successione polacca, riuscì a far valere le ragioni di neutralità della Repubblica, che subiva richieste di armamenti da parte sia imperiale sia spagnola; contribuì a risolvere le conseguenze internazionali di una banale lite tra nobildonne ai Bagni di Lucca (centro informale di attività diplomatica); fu coinvolto nella lite giurisdizionale tra il governo e i francescani lucchesi nel corso della congregazione che si teneva a Valladolid (Ciancaglini, 2001). L’apprezzamento della corte, dove godeva della protezione del ministro Patiño (Giuseppe Patino), gli fruttò il titolo di marchese legato al «diploma di Castiglia» e l’onore della consegna, con cerimonia speciale, del consueto ritratto del re con brillanti. Il Diario lo rivela anche amico dell’architetto Filippo Juvarra e collezionista di quadri e ceramiche (che dovette vendere alla partenza, anche per l’infedeltà del segretario Antonio Fascetti). Una missione di successo, dunque, nella quale non era mancato – fatto tutt’altro che insolito nelle lunghe permanenze all’estero dei diplomatici – un momento di cedimento, nel 1735: una serie di malattie mal curate, la scarsità dell’appannaggio, la tranquillità perduta lo avevano spinto a chiedere l’immediato rimpatrio, peraltro negato dai governanti lucchesi (in quegli stessi anni era stato negato il rientro all’anziano inviato a Vienna, Giovanni Carlo Vanni, morto in servizio; Sabbatini, 2006, pp. 217 s.). Da segnalare, nella sua relazione di fine missione, la lucidità con la quale Sardini tratteggiava le figure di Filippo V e di Elisabetta Farnese (Archivio di Stato di Lucca, Anziani al tempo della libertà, 634, pp. 185-188).

Dopo qualche anno trascorso in patria, nel febbraio del 1745 fu chiamato a svolgere una delicata missione a Torino (ibid., pp. 259 s.), nel quadro di un’azione diplomatica a vasto raggio (Roma, Vienna, Madrid) che la Repubblica mise in campo per dimostrare la propria neutralità nelle ultime fasi della guerra di successione austriaca e per chiarire le circostanze dello svaligiamento del corriere spagnolo avvenuto nei pressi – ma non nel territorio – della piccola enclave lucchese di Montignoso (Sabbatini, 2006, pp. 255-259). Grazie all’amicizia con Carlo Vincenzo Ferrero marchese di Ormea (che morì proprio durante la permanenza a corte di Sardini), l’azione diplomatica riscosse pieno successo, anche se si dovette protrarre per un intero anno. Sulla via del ritorno, l’ambasciatore passò da Milano a omaggiare don Filippo di Borbone (che aveva avuto occasione di conoscere nella missione spagnola) e vi si trovò proprio nel giorno in cui, il 19 aprile, le truppe gallo-ispane la abbandonavano ed entravano in città quelle austriache. In fretta riuscì a partire senza danno e a giungere a Lucca il 24 aprile 1746.

Anche in questa relazione finale, Sardini dedica qualche interessante pagina ai profili del re Carlo Emanuele III e dell’erede Vittorio Amedeo. Nel ricordare la missione presso i Savoia, il figlio Giacomo nelle Memorie si soffermava sulla speciale religiosità e devozione del padre raccontando un quasi-miracolo «onde a Torino veniva dal popolo chiamato il Santo» (Archivio di Stato di Lucca, Archivio Sardini, 129, pp. 75 s.).

La missione che svolse a Genova dall’ottobre del 1747 al marzo dell’anno successivo fu particolarmente difficile: alcune barche «coralline» battenti bandiera genovese erano state abbordate e distrutte dalle navi inglesi che avevano fatto del braccio di mare di fronte a Viareggio una loro base per impedire il rifornimento della città di Genova, e il capitano della lucchese Viareggio venne accusato di connivenza. Il grave fatto aveva coinvolto francesi e spagnoli, al momento protettori di Genova: lettere di fuoco avevano inviato a Lucca il doge e i consoli di Francia, Bartolet, e di Spagna, Odoardo de Silva, di stanza a Livorno. Sardini cercò di sottrarsi, anche perché stava per sposarsi, ma dovette accettare e partì il 19 ottobre. Dalla lunga relazione, sottoscritta il 1° aprile 1748 (ibid., Anziani al tempo della libertà, 634, pp. 421-494), emerge un Sardini davvero abile a guadagnarsi consensi e amicizie anche di personaggi decisamente prevenuti, come il generale francese Armand de Richelieu. Non è senza ragione che il figlio Giacomo per elogiare le sue qualità diplomatiche faccia proprio riferimento all’impegno di Genova, chiuso con un successo pieno.

Rientrato in patria, poteva dunque organizzare, nello stesso 1748, le proprie nozze. La sposa era Isabella Maria Caterina di Domenico Sardini, una lontana parente, appena diciottenne; ne nacquero Chiara (7 maggio 1749), destinata al monastero di clausura, e, nel 1750, Giacomo, la figura culturalmente più importante della famiglia (v. la voce in questo Dizionario). Neppure in questi primi due anni di matrimonio mancarono gli incarichi diplomatici: a Modena nell’agosto-settembre del 1750; come ‘trattenitore’ dello stesso duca, venuto a Lucca nell’ottobre. Era invece riuscito a farsi sostituire come inviato a Firenze nel dicembre del 1749.

La missione più lunga, più faticosa, più dolorosa e che lo vide progressivamente sempre più stanco e demotivato fu quella di Vienna (Lazzareschi, 1918; Sabbatini, 2006). Per la capitale dell’Impero il sessantaduenne Sardini partì il 9 marzo 1751: lasciava a Lucca i due figli piccolissimi, portava invece con sé – unica eccezione nella secolare attività diplomatica della Repubblica – la moglie Isabella poco più che ventenne. Con loro viaggiavano quattro domestici e una serie di casse con i più svariati equipaggiamenti, dal letto da campo a barili d’olio, dagli abiti al cioccolato e ai cedrini, dall’argenteria al vino e ai limoncelli sotto spirito. A Vienna giunsero il 5 aprile. Rapidamente la giovane moglie seppe attirarsi le simpatie delle dame di corte, di Maria Teresa e dello stesso imperatore, e la vita scorreva tra una cerimonia e una festa in una Vienna da poco riemersa dalla guerra di successione e non ancora presaga dell’imminente guerra dei Sette anni. A rompere questo incantesimo, che a Sardini – eccessivamente parsimonioso – procurava soltanto preoccupazioni finanziarie, giunsero le «febbri miliarie maligne» che in poche settimane, il 2 dicembre 1753, condussero a morte la ventitreenne Isabella. Giovan Battista trovò conforto nella propria fermissima fede, ma i cinque anni che ancora doveva passare a Vienna gli si presentarono in una luce ben diversa.

Le annotazioni del diario e le lettere private inviate al fratello rappresentano una fonte importante per la ricostruzione di aspetti della vita quotidiana (prezzi del mercato, elenchi di mobili e argenti), così come dell’attività teatrale e musicale a corte nella fase in cui, accanto all’opera italiana attorno alla figura di Pietro Metastasio, si diffondeva la commedia francese e cominciava ad affermarsi il genere tedesco, popolareggiante, non gradito a Maria Teresa e, in seguito, molto amato da Giuseppe II.

Sul piano dell’attività diplomatica in senso stretto, Sardini si trovò a vivere le prime fasi della guerra dei Sette anni e fu lucido analista degli scontri ministeriali che portarono all’alleanza con la Francia, delineando la differente caratura politica di Maria Teresa e di Francesco I. Per la Repubblica di Lucca, fu impegnato in lunghe e poco concludenti vertenze con il Granducato di Toscana a proposito di una strada di confine e del regime delle acque tra il lago di Bientina e il mare con il sostegno tecnico di Ruggero Giuseppe Boscovich (che si rivelò anche abile diplomatico; Sabbatini, 2012). Un particolare rapporto stabilì con il ministro dei Savoia, Luigi Malabaila di Canale (Sabbatini, 2012, pp. 167-181), che in molte occasioni gli fornì assistenza intrecciando anche un carteggio diretto con il governo lucchese. Interessante, perché esemplare di una dialettica frequente tra le figure della diplomazia, il suo strisciante scontro con il segretario sacerdote Cesare Benedetto Pierotti, a Vienna dal 1730 al servizio dei predecessori Vanni e Mansi. Era facile per l’ambasciatore stigmatizzare l’eccessivo amore per il lusso del segretario, ma forse non aveva del tutto torto quest’ultimo a denunciare ai governanti lucchesi una certa inerzia, quasi uno stato di depressione e la mancanza di liberalità del diplomatico, che aveva ridotto oltre misura l’attività di rappresentanza (ricevimenti, pranzi ufficiali) per la sua taccagneria (Archivio di Stato di Lucca, Offizio sopra le differenze dei confini, 137, 138, 139; Sabbatini, in Sulla diplomazia in età moderna, 2011, p. 116). Sardini lasciò Vienna il 14 febbraio 1759 portando con sé i ritratti, suo e della moglie, opera del pittore di corte Martin van Meytens.

L’ultima missione, nel giugno-luglio del 1761, lo vide a Modena a porgere le condoglianze per la morte del duca Francesco III (Archivio di Stato di Lucca, Anziani al tempo della libertà, 634, pp. 600-603; 614, n. 1). Agli inizi di novembre, gravemente ammalato, dettò un codicillo con le ultime volontà (ma volendo morire ab intestato): tutore unico dei giovanissimi figli Chiara e Giacomo lasciava il fratello Lodovico, che già aveva fatto «verso di loro da un vero ed affezionato padre» (ibid., Archivio notarile, Testamenti, 450, ser Giovanni Carlo Pauletti, 2 nov. 1761, cc. 1518v-1521). Non vi sono notizie patrimoniali, se non il ricordo delle rendite sul debito pubblico di Torino, Parigi e Vienna. Nel testamento di Lodovico, morto il 4 luglio 1770, si stabilì la dote per Chiara, 10.000 scudi in caso di matrimonio e una quota adeguata se, come le zie, si fosse fatta suora; erede universale era Giacomo al quale non mancava di ricordare, sull’esempio del religiosissimo padre, di «amare Iddio, servire Iddio, non offendere Iddio» (ibid., 489, ser Federigo Bonifazio Buzzaccarini, 4 luglio 1770, n. 112).

Morì a Lucca il 3 novembre 1761.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Lucca, Anziani al tempo della libertà, 614, 633, 634; Archivio Cenami, II, 31: Carte Sardini e Vivaldi; Archivio notarile, Testamenti, 450, 489; Archivio Sardini, 87-96, 129: G. Sardini, Memorie della famiglia Sardini; Offizio sopra le differenze dei confini, 137, 138, 139, 213; accanto ai fondi archivistici pubblici, la messe di documentazione (appunti di viaggio, diari di missioni, raccolta di corrispondenza) conservata nell’archivio gentilizio presso l’Archivio di Stato di Lucca può consentire di ricostruirne l’attività anche dal punto di vista della vita privata.

E. Lazzareschi, Un ambasciatore lucchese a Vienna, G.B.D. S. 1751-1759, Lucca 1918; D. Corsi, Archivio Sardini [Introduzione], in Inventario Archivio di Stato in Lucca, VI, Archivi gentilizi, Lucca 1961, pp. 503-513 (in partic. pp. 509 s.); A. Ruata, Luigi Malabaila di Canale. Riflessi della cultura illuministica in un diplomatico piemontese, Torino 1968; R. Mazzei, Traffici e uomini d’affari italiani in Polonia nel Seicento, Milano 1983, pp. 144 s.; E. Ciancaglini, G.B.D. S.: inviato straordinario alla corte di Spagna (1733-1738), in Rivista di archeologia, storia e costume, XXIX (2001), 3-4, pp. 63-112; R. Sabbatini, L’occhio dell’ambasciatore. L’Europa delle guerre di successione nell’autobiografia dell’inviato lucchese a Vienna, Milano 2006, pp. 82-84, 161-163, 167-169, 223-228; Elisabetta Farnese principessa di Parma e regina di Spagna, a cura di G. Fragnito, Roma 2009 (in partic. R. Sabbatini, Elisabetta, la successione Farnese e le ‘turbolenze dell’Italia’ nelle relazioni dei diplomatici lucchesi, pp. 245-266); Sulla diplomazia in età moderna. Politica, economia, religione, a cura di R. Sabbatini - P. Volpini, Milano 2011 (in partic. R. Sabbatini, La diplomazia come strumento di autoconservazione: considerazioni sulla politica estera della Repubblica di Lucca, pp. 101-123; M. Giuli, Al servizio della Repubblica. Un approccio prosopografico alla politica estera lucchese, pp. 125-148); R. Sabbatini, Le Mura e l’Europa. Aspetti della politica estera della Repubblica di Lucca (500-1799), Milano 2012, pp. 157-182.

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