GIUSSANI, Giovan Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GIUSSANI (Giussano), Giovan Pietro

Massimo Ceresa
Franco Pignatti

Nacque a Milano tra il 1548 e il 1552, figlio del senatore Ottone e di Susanna Vegio, figlia dell'archiatra e senatore Scipione.

La coppia ebbe dodici figli, di cui sette maschi: di questi il G. era probabilmente il primo. I fratelli Francesco e Ludovico entrarono (rispettivamente nel 1574 e nel 1582) nel Collegio dei giureconsulti milanesi, che richiedeva come requisiti fondamentali per l'ammissione l'appartenenza a una famiglia di antica nobiltà e di secolare residenza a Milano. Un altro fratello, Giovanni, fu tra i sessanta decurioni; Orazio fu nominato cavaliere di Malta nel 1586. I Giussani abitavano in centro, nella zona di Porta Nuova, nell'attuale via Borgonuovo, di fronte alla chiesa di S. Erasmo, presso l'oratorio detto di S. Maria di Carugate.

Il G. si laureò in filosofia e medicina e fu accolto nel Collegio dei nobili medici il 19 maggio 1572. L'avvenimento centrale della sua vita fu la conoscenza di Carlo Borromeo. A un dato momento, il G. abbandonò lo stato secolare e la professione e il 24 sett. 1580 venne ordinato suddiacono dal Borromeo ("ad titulum patrimonij sui", come specifica il registro delle ordinazioni, a conferma della consistenza del suo patrimonio), diacono il 17 dic. 1580, sacerdote il 18 febbr. 1581. Non risulta che abbia fatto parte degli oblati, l'Ordine fondato dal Borromeo: il suo nome manca negli elenchi della Congregazione, né il G. si presentò mai come tale. In seguito, divenne intimo coadiutore del Borromeo, una sorta di consigliere e segretario, servendolo in vari uffici e funzioni ecclesiastiche fino alla morte del prelato, nel 1584. Tra l'iscrizione al Collegio dei nobili medici e la prima ordinazione del G. intercorrono otto anni, a metà dei quali si verificò la grande peste di Milano, nel corso della quale il Borromeo mostrò grande energia e capacità di intervento: da qualche passo della biografia che il G. scrisse del Borromeo si può presumere che questi si sia servito di lui come medico in questa occasione. Forse fu proprio l'esperienza della peste accanto al Borromeo che spinse il G. ad abbandonare la professione medica e ad abbracciare lo stato ecclesiastico.

Al servizio dell'arcivescovo di Milano il G. dimostrò capacità organizzative e attitudine all'amministrazione. Gli vennero affidate responsabilità di gestione nel Collegio elvetico; negli anni 1588-90 ricoprì la carica di economo dell'arcivescovo Gasparo Visconti; nel 1591 risulta depositario delle entrate nella mensa arcivescovile di Milano.

Il primo scritto del G. che fu pubblicato è del 1593: il Libro delle sette chiese. Nel quale si discutono delle cause di questo santo istituto, e si descrivono le vite de' santi titolati… (Milano, per Pacifico Ponzio). Si tratta di una descrizione degli edifici sacri, oltre a un ragguaglio sulla vita dei santi a cui erano dedicati. Nel 1604 uscì la Instruttione a' padri, per saper ben governare la famiglia loro… (in Milano), nella cui dedica al cardinale Federico Borromeo, Giovan Francesco Besozzi accenna alla fedeltà del G. verso il cardinal Federico, così come era stato prima per lo zio Carlo. La famiglia è per il G. un pretesto per allargare il discorso alla società in generale: il filone centrale che sostiene lo scritto è quello di concepire il ruolo del padre di famiglia come un governo di stampo assolutistico, ma che deve "esercitarsi con amore e piacevolezza verso i sudditi". Nell'opera si manifesta anche la predilezione del G. per la favola di tipo esopico, di cui viene asserita l'eccellenza pedagogica e che troverà espressione nella sua opera novellistica, Il Brancaleone.

Verso la fine del 1605 il G. fu incaricato dalla Congregazione degli oblati e dal cardinale Cesare Baronio di comporre una vita di Carlo Borromeo e si mise subito al lavoro. Il fatto che l'incarico venisse dato a lui e non ad altri indica una consuetudine con il Borromeo e il possesso di un'ampia informazione su di lui, che forse nessun altro aveva. Il quinquennio che seguì fu caratterizzato da una fervida operosità, per la quale, forse, la composizione parallela di un testo letterario come il Brancaleone servì come distrazione; furono anni segnati anche da lutti familiari: la morte dei fratelli Ludovico (1607) e Francesco (1608). A conferma della fiducia che il cardinale Federico Borromeo ebbe nel G., giunse la nomina al Collegio dei conservatori della Biblioteca Ambrosiana, come uno dei tre rappresentanti del clero cittadino, carica che il G. conservò a lungo. La seduta inaugurale del Collegio ebbe luogo il 7 sett. 1610.

Nel 1610 il G. pubblicò, in sincronia con la canonizzazione, la Vita di s. Carlo Borromeo (Roma); l'autografo è nella Biblioteca Ambrosiana (F.185 inf.).

Nella dedica del volume a Paolo V da parte della Congregazione degli oblati di S. Ambrogio, fondata dal Borromeo, si dice che il G. fu incaricato dalla Congregazione di compilare il volume perché era stato intimo del santo e suo collaboratore nel governo della diocesi di Milano. Nella prefazione ai lettori, il G. stesso precisa di aver conosciuto s. Carlo fin da ragazzo, quando tornò da Roma per guidare la diocesi di Milano (quindi la conoscenza del Borromeo risalirebbe al 1560, cioè vent'anni prima dell'ordinazione suddiaconale), e di averlo poi seguito, in "lunga, et intima servitù", fino alla morte. Il G. aggiunge che s. Carlo lo mise spesso a parte dei gravi problemi del governo della diocesi e che, oltre alla Congregazione degli oblati, molti altri lo avevano spinto a scrivere questa biografia; in particolare dal cardinale Cesare Baronio ricevette anche alcuni consigli su come impostare lo scritto. Prosegue dicendo che, a differenza delle molte biografie del santo già uscite, la sua intendeva rispettare maggiormente l'ordine cronologico degli avvenimenti, che mancava nelle altre. Inoltre, sempre su consiglio del cardinal Baronio, il G. riporta di aver tradotto dal latino in volgare lettere e brevi pontifici, affinché lo scritto fosse comprensibile a tutti.

La Vita di s. Carlo Borromeo ebbe una fortuna notevole, ma fu subito bersaglio di critiche molto aspre; non piacque a Carlo Bascapè, vescovo di Novara e intimo del santo, autore anch'egli di una biografia pubblicata nel 1592, il quale, in lettere del 27 giugno 1611 a Lelio Guidiccioni e del 3 sett. 1611 al suo ex vicario generale Girolamo Settala, manifestò la sua delusione e giudicò la biografia giussaniana mal scritta, imprecisa e mal documentata, imputando all'autore soprattutto la mancanza di modestia nell'affrontare un lavoro del genere senza consultarsi con storici più affermati. Il G. si difese energicamente dalle critiche, in lettere al cardinale Federico Borromeo (9 genn. 1611) e a monsignor Aurelio Grattarola (20 ag. 1611) imputò errori agli stampatori e a interventi altrui sfuggiti al suo controllo. Nonostante le critiche, l'opera fu ristampata e riproposta più volte: a Brescia nel 1612 "nuovamente dall'istesso autore revista et purgata d'alcuni errori che sono nell'editione romana"; nel 1618 fu tradotta in tedesco da Ippolito Guarinoni (In memoria aeterna erit iustus. Praelaten cron. Lebens und der gewaltigen Thaten des hl. Borromaei, Freyburg); uscì poi a Roma nel 1679, a cura di Pietro Martire Merizola; a Milano, nel 1751, nella traduzione latina di Bartolomeo De Rossi e con le annotazioni di Baldassarre Oltrocchi, entrambi oblati di S. Carlo; a Monza nel 1856 e infine, in versione inglese, a Londra nel 1884. Ma, probabilmente, l'asprezza delle discussioni sull'opera, di cui il carattere suscettibile e risentito del G., quale si manifesta in alcuni passi delle lettere, dovette soffrire parecchio, lo decisero per una vita ritirata e per un trasferimento definitivo a Monza.

Le altre pubblicazioni del G., uscite quasi tutte tra il 1593 e il 1609, sono da iscrivere nel tentativo di coinvolgimento delle classi nobiliari in favore di una vasta devozione popolare, tratto caratteristico dell'azione di s. Carlo, che il G. aveva fatto suo. Si tratta di scritti agiografici, di due biografie di vescovi, di opere devote e d'istruzione religiosa. Nel 1609 pubblicò a Milano, la Lettera ad una persona nobile per animarla al perseverare nell'insegnare la dottrina cristiana, testo funzionale all'istituzione delle scuole della dottrina cristiana, volute da s. Carlo. Nel 1611 dette alle stampe a Como, la Vita dell'illustrissimo e reverendissimo monsignor Filippo Archinto arcivescovo di Milano. Nella prefazione al lettore il G. si dice carico d'anni (ne aveva in realtà una sessantina) e travagliato da varie e frequenti infermità. L'opera è percorsa da quell'interesse vivissimo per il mondo delle legazioni e dei maneggi diplomatici che il G. mostra, trasposto nella favola, pure nel Brancaleone: l'Archinto, nativo di Milano, fu ambasciatore della rappresentanza civica milanese a Bologna, per l'incoronazione di Carlo V nel 1530; nel 1535 fu da quest'ultimo incaricato di missioni diplomatiche presso Paolo III; fu anche nunzio apostolico a Venezia. Come il G. in occasione della Vita di s. Carlo, incontrò difficoltà con i suoi concittadini, soprattutto nella curia milanese che gli fu avversa.

Dopo questa prova letteraria il G., forse perché infermo o perché ancora esacerbato dalle molte critiche piovutegli addosso per la Vita di s. Carlo, non pubblicò praticamente più, se si esclude la Istoria della vita del glorioso s. Gioseffo (Milano 1616). Ancora l'Alzato pubblicò, nel 1624, un'opera postuma del G., la Risposta a sei quesiti sottili intorno al ss. sacrificio della messa. Al G. alcune fonti attribuiscono anche dieci libri di una Politica cristiana, a stampa, che però non è rintracciabile.

Ritiratosi in solitudine volontaria in una sua villa presso Monza, il G. vi morì nel 1623 e fu sepolto in questa città nella chiesa di S. Maria delle Grazie, dei minori osservanti. Una lapide eretta dal nipote protofisico Giovan Battista Giussani fu abbattuta in seguito ai lavori di ristrutturazione iniziati nel 1632 e sostituita da un'altra, apposta nel 1676 dal pronipote Giovanni.

L'attribuzione al G. della raccolta di novelle Il Brancaleone, uscita a stampa a Milano nel 1610 (la dedica dello stampatore reca la data 24 febbr. 1610), sotto lo pseudonimo di Latrobio, è stata fino ai nostri giorni obliterata dal nome del letterato milanese Antonio Giorgio Besozzi: la restituzione all'autore si deve a R. Bragantini (Favole…, 1992; Il Brancaleone, ed. critica, Roma 1998). L'edizione milanese - manifestamente una stampa in economia - è corredata da una premessa Alli benigni lettori del sacerdote milanese Girolamo Trivulzio. Questi spiega di essersi imbattuto nell'opera riordinando gli scritti di "monsignore mio" (ed. 1998, p. 6) e di averla data alle stampe, "per beneficio de gl'altri" (ibid.), su concessione dello stesso prelato, "se bene il soggetto del quale si tratta in essa pare che sia una vanità" (ibid.). Come "persona catolica e devota, del che ne possono far fede molti altri che vivono ancora" (ibid.), il Trivulzio presenta l'autore, Latrobio, che dunque sarebbe altra persona che l'anonimo monsignore presso il quale egli aveva funzioni di fiduciario. L'erudizione sette-ottocentesca, occupandosi del Brancaleone, assunse un atteggiamento rinunciatario rispetto al problema attributivo, attestandosi acriticamente, a partire dal Quadrio, sull'assegnazione al Besozzi, priva di solidi motivi, senza preoccuparsi di accertare le ragioni e le circostanze che giustificherebbero la scrittura del Brancaleone nell'opera del Besozzi, cultore prevalentemente di studi storici e autore di pochi scritti di materia agiografica e morale, poco incline per sua stessa ammissione alle evasioni letterarie (Bragantini ha scoperto un inventario di libri a lui appartenuti, che consente una ricostruzione più precisa della sua cultura, cfr. ed. 1998, pp. XXI-XXIX).

La restituzione del Brancaleone al G. ha il suo primo fondamento documentario nella testimonianza del Picinelli, riportata dal Corte e dall'Argelati, che attribuisce a lui, sia pure in via dubitativa, l'opera. Oltre a trovare conferma nei diversi passi del Brancaleone che dimostrano una cultura medica, quale era in possesso del G., corroborano l'ipotesi di identificare in lui sia Latrobio sia l'anonimo monsignore, presso il quale l'opera sarebbe giaciuta inedita fino all'intervento del Trivulzio, i legami che intercorsero tra il G. e quest'ultimo almeno a partire dal settembre 1609, fino, con certezza, al 1616, ma verosimilmente fino alla morte del Giussani. In questi anni il Trivulzio fu al suo fianco con funzioni forse di segretario e fu lui ad avviare alla tipografia diversi scritti del G. (cfr. ed. 1998, pp. XLII-XLIV): allo stampatore del Brancaleone, G.B. Alzato, il G. ricorse in varie occasioni e il Trivulzio vi stampò, di suo, la relazione di un Panegirico di monsignor Pietro Giussani delle lodi di s. Carlo Borromeo (1615).

L'occultamento è dunque scelta programmatica dell'autore del Brancaleone: lo palesa il nome fittizio, che è propriamente un crittonimo, derivato dal greco λαθϱατοϚ βιόω "vivo nascosto" (per cui si può evocare una serie di sentenze latine e cristiane: dal λάθε βιώσαϚ epicureo a Ovidio, Tristia, III, 4, 25; Orazio, Epistulae, I, 17, 10). Il dato non va tuttavia enfatizzato nel senso di una dimidiazione del personaggio tra il severo biografo borromeano e scrittore devozionale da una parte e dall'altra il letterato piacevole, vulnerato dalle Muse. Il Brancaleone è pur sempre un'opera morale ed edificante, nata nell'alveo della cultura borromeana, ma l'accoglienza della Vita di s. Carlo e la difesa in cui fu costretto a impegnarsi il G. testimoniano a quali critiche avrebbe offerto il fianco un'escursione letteraria come quella rappresentata dal novelliere. In questa cautela nel pubblicizzare un prodotto dilettantesco, che non trovava una collocazione nella letteratura devozionale e apologetica in cui s'inquadra il resto della produzione del G., vanno ricercate pertanto le ragioni della cortina che egli volle stendere intorno alla paternità del libro. La preoccupazione per i morsi dei detrattori (il G. si concede il gioco paretimologico tra Latrobio e "latrare", ed. 1998, p. 19) occupa l'intera seconda parte del Proemio, nella quale il G. difende la scelta di dare voci e ragionamenti umani ad animali, schierando autorità bibliche (Salomone, Proverbi, 6) e letterarie (la zooepica greco-latina) e, infine, rivendicando una consistenza sapienziale alla favola, la sua funzione di "coperta" (ibid., p. 23) di insegnamenti morali e filosofici, particolarmente di filosofia morale. L'ambito in cui si muove l'isolata prova narrativa del G. viene del resto esibito nel frontespizio con il sottotitolo "Istoria piacevole et morale, dalla quale può ciascuno avere utilissimi documenti per governo di se stesso e d'altri", ripreso nelle quattro edizioni che l'opera conobbe lungo il secolo: Venezia, 1617; Milano e Pavia 1621; Bologna 1636; Milano 1682 (anzi, ampliato in "Overo l'idea della prudenza, favola morale e politica nella quale … s'ammaestra lo 'ntelletto e si porge diletto al senso di ciascuno" nelle edizioni 1617 e 1636).

Il Proemio del G. si apre con una perorazione della prudenza e della memoria intessuta di materiali ciceroniani (mediati dai Politicorum sive civilis doctrinae libri sex di Giusto Lipsio, sicura fonte del Brancaleone, dall'edizione italiana, Roma 1604) e di altri autori classici e umanistici (Tacito, Ovidio, Laerzio, Antonio Beccadelli il Panormita), ma anche di materiali aneddotici antichi, filtrati dalla tradizione cinquecentesca, e di adagi popolari, gli uni e gli altri abbastanza caratteristici della scrittura del Giussani. Per mezzo della storia si ha notizia delle cose umane e perciò essa è madre della prudenza, ma la lettura della storia non può essere disgiunta dal giudizio e dall'uso, dall'unione dei quali si genera la perfetta prudenza. Tuttavia, poiché pochissimi sono quelli che hanno occasione d'essere adoperati in negozi e sperimentati nelle faccende del mondo, spesso la prudenza può essere acquisita dalla sola lettura della storia, che giova sia ai principi, sia ai privati, in ogni professione civile, militare, familiare. "Istoria" è, in effetti, il termine che il G. applica al suo Brancaleone (a IX, 20 e XXVII, 1, giustapposto a "cantafavola": "Da questa istoria, se bene ella pare una cantafavola", p. 197).

Il Brancaleone si iscrive nella fiorente tradizione esopica, consistendo nella storia dell'educazione sociale e politica dell'omonimo asino, che si dipana dalla nascita fino alla morte violenta e accidentale per mano umana, senza caricarsi dei significati allegorici o iniziatici che prestigiosi precedenti letterari avrebbero autorizzato, ma che la poetica controriformistica della "moralità esplicata" tendeva a escludere (il nome stesso viene assunto dall'animale solo al cap. XXXVI, 42, per avere sottomesso fortunosamente il leone, giocando sul significato di "brancare": "abbrancare", "catturare"). Nel disporre la materia narrativa (suddivisa in "capitoli", in tutto 39), il G. rinuncia alla costruzione di una cornice e opta, talora mediante la tecnica dell'inclusione, per l'addizione sul tronco della vicenda principale di episodi novellistici affidati a narratori di secondo grado (la madre dell'asino, alcuni operai, l'ortolano, un asino anziano). Una cesura vistosa è rappresentata dal cap. XXVII, Al lettore, nel quale il G. interrompe la narrazione per tesaurizzare gli insegnamenti del racconto narrato dall'asino anziano nei capitoli XX-XXVI. Questi rappresentano una polarizzazione importante dell'opera - la sottolinea anche l'Alciato nella dedicatoria -, rispetto ai capitoli precedenti, nei quali prevale un timbro più francamente ameno e faceto con i racconti dell'ortolano e degli operai. Ora le circostanze narrate vertono sui temi della radunanza di un consiglio degli asini per decidere le misure per difendersi dagli uomini, la designazione di un'ambasceria a Giove, l'istituzione di un utopico stato asinino. Oltre a queste principali circostanze politiche, che riguardano nodi tematici centrali nella contemporanea riflessione sullo Stato, anche negli altri capitoli il G. concentra una serie di esempi e di insegnamenti che toccano, sotto le spoglie della favola, temi quali la vanità dell'astronomia, la giustizia, la clemenza, i doveri dei principi, la perfezione dell'agire divino, la legge di natura e quella dell'opinione, i pericoli dell'agone politico, l'arte della dissimulazione: tutti argomenti che, con la rappresentazione sincera se non talora cruda di una realtà in cui dominano contrasti, guerre, povertà e prevaricazioni, lasciano intravedere un'implicita critica dello status quo, forse interpretabile anche in chiave blandamente antispagnola.

La rinuncia a una precisa architettura a favore del rigoglio della materia morale o di una franca e diretta concretezza nel narrare costituiscono il merito principale del Brancaleone, per il quale anche l'ascrizione alla tradizione esopiana e il richiamo alla produzione novellistica del secolo XVI restano un inquadramento piuttosto generico (così per Le piacevoli notti di G. Straparola e per La prima veste dei discorsi degli animali di A. Firenzuola), nonostante i legami intertestuali che è possibile rintracciare. Il G. spazia inoltre con una certa avvertita scaltrezza nel panorama della pubblicistica cinquecentesca di materia memorialistica, faceta, apoftegmatica, paremiologica, compilativa di vario genere, disponibile a una ricettazione duttile e varia. Nell'utilizzare questi precedenti, il Brancaleone sembra riservare più di una sorpresa, anche se va tenuto presente che si tratta quasi sempre di materiale adespoto, che si sottrae all'identificazione di fonti certe. Per esempio, nel capitolo XXVIII il Di Francia (II, p. 130) segnalava l'utilizzo della quinta novella dei Vari componimenti (Venezia, G. Giolito, 1552) di uno scrittore compromesso con gli ambienti dell'evangelismo italiano del Cinquecento come O. Lando, mentre Bragantini (p. 184) rileva la presenza del tema nella letteratura fisiologica cinque-secentesca; il capitolo IX, 2 ha come fonte le Ore di ricreazione di Lodovico Guicciardini, utilizzate nell'edizione piratesca di F. Sansovino (Detti e fatti piacevoli e gravi…, Venezia 1565, più volte ristampata). Nel Proemio (pp. 20 s.) si legge un elenco di elogi paradossali che corrisponde, senza gli errori che il G. vi infila, a quello dato da Erasmo da Rotterdam nella dedica dell'Encomium morias e la prima novella del capitolo XII ha un precedente nel colloquium erasmiano Convivum fabulosum.

Fonti e Bibl.: G. Borsieri, Il supplimento della nobiltà di Milano, Milano 1619, p. 36; F. Picinelli, Ateneo dei letterati milanesi, Milano 1670, pp. 321 s.; B. Corte, Notizie istoriche intorno a' medici scrittori milanesi, Milano 1718, pp. 131-133; F. Argelati, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, I, 2, Mediolani 1745, coll. 693-696; F.S. Quadrio, Della storia, e della ragione d'ogni poesia, VI, Bologna 1752, p. 399; L. Di Francia, Novellistica, II, Milano 1925, pp. 126-130; G. Casati, Il primo biografo di s. Carlo, in Echi di s. Carlo Borromeo, VI (1° sett. 1937), pp. 188-193; R. Ceserani, Besozzi, Antonio Giorgio, in Diz. biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, pp. 671 s.; C. Marcora, La storiografia dal 1584 al 1789, in S. Carlo e il suo tempo. Atti del Convegno internazionale nel IV centenario della morte, Milano… 1984, I, Roma 1986, pp. 37-75; R. Bragantini, Favole della politica: il "Brancaleone" riattribuito, in Rivista di letteratura italiana, X (1992), pp. 137-171; C. Marcora, Il Collegio dei dottori e la Congregazione dei conservatori, in Storia dell'Ambrosiana. Il Seicento, Milano 1992, pp. 194 s.; I. Chiesa, Vita di Carlo Bascapè, barnabita e vescovo di Novara (1550-1615), a cura di S. Pagano, Firenze 1993, pp. 551-553.

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