GINETTI, Giovanfrancesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GINETTI, Giovanfrancesco

Stefano Tabacchi

Nacque a Velletri, presso Roma, il 13 dic. 1626, undicesimo dei quattordici figli di Giovanni e di Lorenza Toruzzi.

La famiglia, che apparteneva al patriziato veliterno, era dedita al mestiere delle armi sin dalla fine del Cinquecento; nel Seicento raggiunse una notevole affermazione con lo zio del G., il cardinale Marzio, vicario di Roma e personaggio assai in vista nella cerchia barberiniana.

Dopo avere trascorso a Velletri i primi anni di vita, il G. fu affidato, insieme con i fratelli, a un padre Parisi della Congregazione della dottrina cristiana. Morto il padre ed entrata la madre in convento, il G. si trasferì a Ferrara presso lo zio, cardinale legato della città dalla fine del 1640. Tornato a Roma nel 1643, passò al Collegio romano, studiò legge con Francesco Baranzone, luogotenente del tribunale dell'Auditor Camerae, si laureò inutroque iure e mosse i primi passi nella carriera prelatizia. Divenuto referendario di Segnatura, lo zio gli conferì numerosi benefici ecclesiastici, tra cui diverse abbazie nel Regno di Napoli, e lo associò alla sua attività di vicario, affidandogli la diocesi di Sabina e la sovrintendenza su numerosi monasteri e confraternite. Nel corso del pontificato di Alessandro VII (1655-67) la carriera del G. proseguì senza traumi: ponente di Consulta, votante di Segnatura, candidato alla nunziatura di Torino. Nel 1667 il G. ottenne un chiericato di Camera, importante carica venale.

Anche dopo la morte dello zio Marzio (1671) la sua posizione si rafforzò, grazie all'accorta politica matrimoniale dei suoi fratelli: il maggiore, Marzio, che fu più volte conservatore di Roma, aveva infatti sposato una Girolama de' Cavalieri, di buona famiglia romana, e le sorelle Laura e Caterina avevano sposato rispettivamente Fabio Massimo (1659) e Muzio Mattei (1661), membri di autorevoli famiglie del patriziato romano.

Nel giugno 1673 il G. ottenne la carica di tesoriere generale, altro importante ufficio venale, che consentiva di stabilire solidi legami con importanti centri di potere finanziario e politico. La rinuncia di Innocenzo XI ad assegnare ai suoi consanguinei le cariche militari, tradizionalmente riservate ai nipoti dei pontefici, gli consentì inoltre di cumulare le cariche di castellano di Castel Sant'Angelo (1677) e di commissario della Marina pontificia (1679). Come tesoriere il G. realizzò alcuni lavori pubblici, tra cui il rafforzamento dei porti di Ancona e di Civitavecchia e delle difese sul litorale marchigiano, e fu coinvolto nelle riforme amministrative e fiscali progettate da Innocenzo XI e dal cardinale G.B. De Luca. Partecipò, quindi, alle congregazioni particolari che nel 1677 sancirono l'illegittimità delle esenzioni fiscali godute dai membri della Camera apostolica e che nel 1681 imposero al clero la tassa delle galere.

In queste vicende il G. mantenne sempre una posizione defilata, evitando di essere coinvolto nelle drammatiche fratture che le riforme di Innocenzo XI avevano causato all'interno della Curia, e si dedicò piuttosto a un'opera di mecenatismo artistico. Tra il 1670 e il 1671 Carlo Fontana costruì la cappella Ginetti nella chiesa romana di S. Andrea della Valle, abbellita da importanti sculture di Antonio Raggi (1674-75). Negli stessi anni il G. incaricò Carlo Fontana e Ludovico Gattelli di ristrutturare il palazzo gentilizio di Velletri, mentre il giardino era completato e arricchito da splendidi giochi d'acqua progettati dagli ingegneri Cornelio Meyer e Agostino Martinelli. Questi lavori, la notevole quadreria - che comprendeva una buona scelta di pittura cinque-seicentesca - e le cospicue elargizioni ai pellegrini accorsi per il giubileo del 1675, diedero al G. un'immagine di magnificenza, che bene esprimeva l'ascesa sociale della sua famiglia.

Nominato cardinale il 1° sett. 1681, il G. continuò a rimanere appartato dalle grandi questioni politiche, finché, il 5 giugno 1684, Innocenzo XI gli assegnò l'arcivescovato di Fermo. Raggiunta la sede nel luglio dello stesso anno, il G. dimostrò sincere quanto insospettate preoccupazioni pastorali e indisse la visita della diocesi, che condusse in parte personalmente, in parte attraverso coadiutori. Il principale obiettivo della visita era il rafforzamento della presenza pastorale nelle aree rurali dell'ampia diocesi, e fu perseguito riaffermando l'obbligo di residenza dei parroci, creando scuole di catechismo, potenziando la rete confraternale e regolamentando la gestione dei Monti di pietà.

L'episcopato del G. a Fermo fu caratterizzato soprattutto da un'intensa attività edilizia. Il restauro di numerose chiese rurali e di alcune chiese cittadine, la costruzione di ponti sui fiumi Ete e Tenna, la ristrutturazione del palazzo arcivescovile e la riorganizzazione della mensa e dell'archivio rappresentarono le principali manifestazioni della sua "pietà barocca", priva di slanci, ma capace di puntuali interventi organizzativi, che in questo caso erano motivati anche dagli ampi poteri temporali conservati dagli arcivescovi di Fermo.

Il periodo dell'arcivescovado sembra tuttavia segnare una riduzione delle prospettive e dei contatti del G., pur rimanendo egli in corrispondenza con personaggi di rilievo, come l'erudito Giustino Ciampini e Cristina di Svezia, e dedicandosi ad attività degne di attenzione come la riorganizzazione a Fermo della locale Accademia degli Erranti.

Nei conclavi del 1689 e del 1691 fu più volte ventilata la candidatura del G.; era sostenuto dalla Francia, ma gli nocque l'opposizione degli "zelanti", che lo consideravano incapace di perseguire una chiara affermazione della centralità del magistero papale. Proprio durante il lungo conclave del 1691, il G. si ammalò di colera e morì a Roma il 18 sett. 1691.

Negli ultimi anni i suoi rapporti con i fratelli erano peggiorati, in particolare con Giampaolo, anch'egli prelato di Curia, forse a causa della sempre più concreta possibilità di estinzione della famiglia, che infatti, pochi anni dopo la morte del G., si estingueva nei Lancellotti. Nel corso dell'Ottocento, in seguito a complesse vicende ereditarie, il palazzo e l'archivio di famiglia pervennero ai Caracciolo di Avellino, ma nel corso della seconda guerra mondiale l'edificio fu distrutto dai bombardamenti e l'archivio bruciato o trafugato dalle truppe tedesche.

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