GIOVANNA II d'Angiò, regina di Sicilia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOVANNA II d'Angiò, regina di Sicilia

Alan Ryder

Figlia di Carlo III d'Angiò Durazzo e Margherita di Durazzo (la parente più prossima di Giovanna I regina di Napoli, in quanto figlia di Maria d'Angiò, sorella minore di questa) nacque in Ungheria nel 1371; i suoi genitori si erano sposati a Napoli il 24 genn. 1370, per poi fare ritorno alla corte magiara di Luigi I il Grande, che era intenzionato a fare di Carlo d'Angiò il suo successore.

G. visse in Ungheria sino all'età di cinque anni, allorquando la madre partì, recandola con sé, alla volta di Napoli per salvaguardare le pretese alla successione dei Durazzo. Giunte a destinazione, nel luglio 1376, accolte dal cauto benvenuto della vecchia regina Giovanna I d'Angiò, Margherita diede alla luce un altro figlio, Ladislao. Il Grande Scisma del 1378 portò Carlo e Giovanna I in fazioni papali contrapposte e aprì la strada alla lunga lotta per il trono napoletano tra le forze dei Durazzo, sostenitori del Papato di 0bbedienza romana, da una parte, e degli Angioini, sostenitori del Papato di obbedienza avignonese, dall'altra. Margherita e i suoi figli furono tenuti in pratica ostaggi finché nel giugno 1381 non fuggirono a Morcone (Benevento). Lì attesero le armate durazzesche, che stavano frattanto avanzando; il 2 giugno 1381 Carlo fu infine investito a Roma del Regno di Sicilia da Urbano VI. A settembre, Margherita, divenuta ora regina, e i suoi figli poterono entrare in trionfo nella capitale e prendere residenza a Castelnuovo.

La nuova condizione reale non pose fine agli eventi drammatici che contraddistinsero l'infanzia di Giovanna. Per tre anni le armate di Luigi I d'Angiò, fratello del re di Francia Giovanni II, nominato dalla regina Giovanna I suo erede, minacciarono di detronizzare Carlo III, mentre i piani per assassinare il sovrano e i suoi congiunti gettarono la famiglia reale nel sospetto e nel timore di rappresaglie. La tensione si allentò solo quando Luigi d'Angiò morì inaspettatamente nel settembre 1384. Ma fu un sollievo di breve durata, poiché già un anno più tardi Carlo entrò in contesa con Sigismondo di Lussemburgo per il trono d'Ungheria sul quale sedeva, dopo la morte di Luigi il Grande (settembre 1382), la figlia Maria; e in quel paese fu assassinato nel febbraio 1386.

Margherita, donna di grande forza di volontà e già temprata all'esercizio del potere, dovette difendere come reggente il trono del figlio Ladislao, che aveva in quel momento dieci anni, contro il ritorno dei sostenitori degli Angiò. Inevitabilmente G., ora quindicenne e in età da matrimonio, divenne una pedina nelle lotte di successione dinastica. I Fiorentini la descrissero come "la generosa figliuola di Carlo III, donna bellissima e graziosa" (Faraglia, p. 19), ma non ci è giunto alcun ritratto che possa convalidare la loro diplomatica adulazione, finalizzata a ricomporre la pace attraverso il matrimonio tra G. e il nuovo duca d'Angiò, Luigi II, un fanciullo di dieci anni. Sebbene Margherita avesse dato la sua approvazione, a partire dal gennaio 1387 fu chiaro che i successi che gli Angioini stavano ottenendo avevano dissipato ogni loro propensione al compromesso. A luglio Margherita fu costretta ad abbandonare la capitale e a rifugiarsi a Gaeta, che divenne il quartier generale dei Durazzo lungo tutta la durata della guerra civile. G. trascorse i cinque anni seguenti in circostanze dure e difficili, tra disfatte militari e ristrettezze economiche, finché nell'estate del 1392, quando la peste costrinse la corte a rifugiarsi nel solitario monastero della Ss. Trinità di Cava de' Tirreni, le fortune della guerra cominciarono a volgere a favore dei Durazzo, tanto che gli Angioini mandarono degli emissari per discutere la pace sulla base di una proposta di matrimonio.

Questi negoziati non ebbero esito. Ladislao, nell'aprile del 1393, propose la sorella con una dote di 300.000 fiorini al marchese di Monferrato, nella speranza che il principe ostacolasse il passaggio dei rinforzi francesi. Tuttavia, le trattative politiche per un matrimonio con G. si fecero ancora più interessanti nella prospettiva di una vittoria dei Durazzo. Nel 1395, una fazione di nobili ungheresi chiese a Firenze di fare da intermediaria per concordare il matrimonio tra la principessa napoletana e il loro re Sigismondo, vedovo, in vista di una pacificazione tra questo e Ladislao. Ma Sigismondo, sospettando un piano segreto dei Durazzo, non proseguì ulteriormente nelle trattative. In seguito si fece avanti Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano, il quale verso la fine del 1396 prospettò un matrimonio del figlio, Giovanni Maria, con Giovanna. In questa occasione fu Firenze a opporsi, preoccupata delle ambizioni dei Visconti. Perciò G. trascorse gli anni della giovinezza nell'ozio, in una corte sempre più licenziosa, mentre il fratello, il nuovo padrone della corte, si faceva intanto uomo.

Una nuova fase si aprì con la vittoria dei Durazzo e la resa di Napoli a Ladislao nel luglio 1399. Subito il giovane re rivolse le sue ambizioni verso l'Ungheria, e a questo scopo stabilì di sposare G. a un esponente della casata degli Asburgo, Guglielmo, duca d'Austria: con i suoi domini che si estendevano sino al Friuli e all'Adriatico, questi sarebbe stato un utile alleato contro Sigismondo. Gli accordi matrimoniali furono conclusi nel dicembre 1399 nel momento in cui la corte, dopo un'assenza di dodici anni, faceva il suo ritorno a Napoli, e in tale occasione Ladislao impose la tassa del maritagium. Tuttavia, invece di inviare la promessa sposa in Austria, il re cominciò a mostrarsi riluttante, anche perché i suoi piani di sposarsi con una principessa cipriota rendevano difficoltoso reperire i 300.000 fiorini promessi per la dote di Giovanna. Nonostante le minacce di Guglielmo di annullare il matrimonio, Ladislao aspettò finché riuscì ad assicurarsi la sposa cipriota con la sua ricca dote, prima di autorizzare la firma del contratto nuziale, che ebbe luogo il 6 giugno 1403. Nel luglio dello stesso anno G. salpò con il fratello da Manfredonia alla volta di Zara, dove Ladislao dette il via alla sua scalata alla corona ungherese con un'incoronazione improvvisata. Sebbene, da parte sua, Guglielmo non si decidesse a intervenire contro Sigismondo, G. fu comunque mandata da lui in settembre. Venezia le tributò gli onori dovuti quando questa passò per la città diretta a Trieste, in territorio austriaco.

Appena tre anni più tardi, il 15 luglio 1406, Guglielmo morì. Non avendo avuto figli che la legassero alla corte degli Asburgo, G. decise di tornare in Italia. Vi fece ritorno all'inizio del 1407. Nei sette anni successivi G., ormai troppo vecchia per attirare altre offerte di matrimonio, non aveva molto altro da fare se non divertirsi alla corte libertina del fratello. Il suo coppiere, Pandolfello Piscopo (noto anche con il nome di Alopo), assunse il ruolo di amante. Tuttavia, gradualmente, in questa esistenza dissipata cominciò a farsi strada l'eventualità che Ladislao non avesse figli e che G., perciò, fosse l'unica erede della linea dei Durazzo. Fu così che un trattato di pace, sottoscritto da Ladislao e da Giovanni XXIII nel giugno del 1412, riconobbe esplicitamente il suo diritto al trono.

Eppure nessuno poteva prevedere la prematura scomparsa di Ladislao, il 6 ag. 1414, che pose questa donna di 43 anni in una posizione per la quale era rimasta completamente impreparata.

La crudeltà del fratello, feroce verso i nemici e prodigo verso i sudditi fedeli, gli aveva procurato la sottomissione del popolo; mentre le sue mire territoriali, vanificate in Ungheria, avevano potuto prosperare nel caos in cui versava l'Italia centrale. La stabilità del trono, sia in patria sia all'estero, dipendeva in ultima analisi dalle qualità essenzialmente maschili di un re guerriero. Una volta che una tale personalità venne meno, si disintegrò con essa anche il potere militare che sosteneva lo Stato, senza lasciare alcuna efficace alternativa nelle mani della nuova regnante. G. ereditò un corpo di consiglieri abituati ad assecondare la volontà di un autocrate, mentre lei stessa non poteva fare conto su persone fidate con l'esperienza necessaria. La nomina del Piscopo all'ufficio di gran camerlengo, avvenuta subito dopo la sua salita al trono, illustra molto chiaramente la natura del suo dilemma.

G. e i suoi consiglieri compresero bene che non si potevano permettere di perseverare nella politica che aveva contraddistinto il regno di Ladislao; si rendeva necessario, perciò, ricomporre i conflitti con le potenze che egli aveva sfidato. Fra i primi a subire le conseguenze di tale cambiamento fu Ladislao stesso, o meglio il suo corpo, per il quale la regina volle una cerimonia funebre ridotta al minimo, come si addiceva a una persona morta in contrasto con la Chiesa. Il primo a beneficiare della nuova situazione fu invece il condottiero Paolo Orsini, che Ladislao le aveva ingiunto di mettere a morte per tradimento. Anche i suoi sudditi furono inizialmente avvantaggiati da questa nuova situazione: a essi fu promesso un alleggerimento del carico fiscale, nonostante il deficit cronico nelle entrate dello Stato e la mancanza immediata del denaro necessario per pagare le forze rimaste a Roma e in Umbria.

Tra le preoccupazioni principali di G. vi era la necessità di ottenere il riconoscimento papale del suo titolo. Nel giro di due settimane i suoi emissari partirono alla volta di Bologna per incontrare Giovanni XXIII, facendo tappa a Firenze per rassicurare la Repubblica del favore della nuova regnante di Napoli. Altrove G. poteva contare su ben pochi amici. Sigismondo, da sempre nemico dei Durazzo, nel 1410 era diventato imperatore del Sacro Romano Impero e teneva nelle sue mani il futuro della Chiesa al concilio di Costanza; la Francia, inoltre, cercò subito di fare valere le pretese angioine su Napoli, pretese che Giovanni XXIII era incline ad appoggiare contro quella che ai suoi occhi era ormai solo una dinastia che lo aveva umiliato, tenendolo per la maggior parte del suo pontificato lontano da Roma, e che deteneva tuttora posizioni chiave nel Patrimonio. Firenze tuttavia riuscì a persuadere il pontefice a mandare una missione esplorativa a Napoli, accompagnata dai propri rappresentanti. G. rispose con entusiasmo, noleggiando delle galee per il trasferimento dell'ambasceria, anche se affidò poi le negoziazioni ai suoi favoriti, il Piscopo e il conte di Troia. In seguito dovette approvare lei stessa una misura piuttosto rischiosa, finalizzata a compiacere il pontefice, quale l'arresto del condottiero Muzio Attendolo Sforza, capo delle armate durazzesche nell'Italia centrale, poiché si opponeva al ritiro delle sue truppe dai territori papali.

Tutto ciò sortì però un modesto effetto. I Fiorentini rimasero insoddisfatti delle riparazioni per le perdite subite dai loro mercanti al tempo di Ladislao. G. li licenziò con questo sconsolato commiato: "Io veggo bene che i vostri signori non si fidano di me, ma se ne fideranno più di qui ad un anno, quando mi avranno provata" (Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, p. 279). Dal pontefice, che tuttora si rivolgeva a lei come duchessa d'Austria, riuscì a strappare una tregua di due mesi e mezzo. Frattanto aveva provocato la collera dei capitani dello Sforza e non era riuscita a mettere un freno alle propensioni anarchiche dei potenti del suo Regno. Il duca di Sessa, i conti di Celano, Fondi, Altavilla e Tagliacozzo e la città dell'Aquila la osteggiarono tutti; Giulio Cesare Di Capua poteva impunemente fare scorrerie nella campagna circostante la capitale. La maggior parte di essi giustificava la ribellione come lealtà verso la causa di Luigi II d'Angiò che essi reclamavano al trono di Napoli. Il Piscopo riuscì in breve a persuadere la sua amante che solo lo Sforza poteva salvarla; in questo modo nel marzo 1415 fu raggiunto un accordo: in cambio del suo rilascio e di generose remunerazioni lo Sforza avrebbe sedato i ribelli. In autunno li aveva già ridotti all'obbedienza guadagnandosi la carica di connestabile.

Poiché G. aveva già superato l'età in cui poteva ancora avere figli, ed era priva di un erede, l'interesse dei suoi sudditi e delle potenze coinvolte si era rapidamente rivolto alla questione di un matrimonio che potesse determinare la successione. Alcune delle voci che giravano a Napoli nel dicembre del 1414 sostenevano che fosse lo stesso Sforza ad aspirare alla sua mano, mentre secondo altre il papa aveva in progetto di darla in sposa a Luigi d'Angiò. Solo il suo Consiglio sapeva che la scelta era già stata fatta. L'avversione nei confronti del nemico di sempre e le divisioni interne esclusero che la scelta cadesse sull'Angiò. Ella si rivolse invece a una potenza rivale in tempi più lontani, l'Aragona, che aveva frattanto ristabilito il controllo sulla Sicilia, e che, sotto la nuova dinastia dei Trastamara, poteva assicurarle un sostegno militare e navale. All'inizio di ottobre del 1414 i rappresentanti di G. si recarono a sistemare la questione con Ferdinando I d'Aragona, che accolse con entusiasmo la proposta. Un contratto fu sottoscritto a Valenza il 4 genn. 1415, in cui si conveniva che il secondo figlio del re, Giovanni, raggiungesse con forze consistenti Napoli per la fine di febbraio diventando marito di G. e suo erede. Non è possibile stabilire quanto G. avrebbe persistito di sua volontà nel progetto di un matrimonio-farsa con un giovane di soli sedici anni. Comunque furono i suoi consiglieri che si opposero con forza alla richiesta che Giovanni fosse incoronato e regnasse congiuntamente con G., rifiutandosi di ratificare il contratto.

Venne invece proposto un marito che non avrebbe danneggiato nessuno: Giacomo di Borbone, conte della Marche, quarantacinquenne e imparentato alla lontana con la famiglia reale francese. Egli non avrebbe dovuto assumere il titolo reale, in modo da lasciare aperta la questione della successione al beneplacito delle fazioni interne, del Papato e degli Angiò. Ma coloro che avevano orchestrato questa manovra così ingenua sottovalutarono la perfidia dei loro stessi connazionali: la fazione angioina della nobiltà si affrettò ad acclamare Giacomo re di Napoli appena fu sbarcato a Manfredonia. Bastò un semplice tranello per fare prigioniero lo Sforza a Benevento con il risultato che, quando Giacomo e i suoi sodali raggiunsero Napoli il 15 ag. 1415, G. si ritrovò completamente indifesa. Ancora prima del loro arrivo, il castellano di Castelnuovo l'aveva già tradita: irrompendo nella sua camera da letto e ignorando le grida di protesta, riuscì a catturare Pandolfello e lo gettò nelle segrete. A G. non rimaneva altra scelta se non quella di ordinare un'entrata solenne per il conte e disporre che il matrimonio fosse celebrato immediatamente dall'arcivescovo, fino all'umiliazione finale di proclamare Giacomo sovrano e coregnante. Le fu negato anche il conforto della compagnia: Giacomo non provava alcuna attrazione fisica per questa donna ormai vecchia ("senio confecta, flatus oleret": Faraglia, p. 59) e i suoi sostenitori volevano che non fosse di ostacolo alle loro mire. Il suo isolamento fu reso completo dall'uccisione di Pandolfello, decapitato a sua insaputa per colpe che confessò sotto tortura. Lo Sforza, imprigionato in Castel dell'Ovo, sopravvisse poiché seppe resistere alla tortura, e la fiera lealtà dei suoi capitani indusse i suoi aguzzini a una certa cautela. G. viveva sotto stretta sorveglianza, disprezzata dal marito e nell'impossibilità di comunicare con i suoi amici e consiglieri.

Il potere ebbe la meglio sul carattere peraltro arrogante e instabile di Giacomo, che cominciò a distribuire a pioggia ai suoi seguaci francesi cariche, terre e privilegi in modo così vistoso da alienarsi rapidamente l'approvazione di coloro che gli avevano dato il trono. Questi ultimi erano capeggiati dal Di Capua, il quale cercò quindi la vendetta. In un incontro che riuscì ad avere con la regina si offrì di uccidere Giacomo, attendendosi in cambio la sua gratitudine e una ricompensa futura. G., tuttavia, era così impaurita dalla sua condizione di prigioniera e dai tradimenti che aveva dovuto patire che sospettò si trattasse di una trappola e rivelò il nome del cospiratore al marito. L'8 genn. 1416, dopo un processo sommario, il Di Capua e il suo segretario venivano decapitati. Trascorsero molti mesi prima che qualcun altro osasse venire in suo aiuto.

Fu però un periodo sufficiente perché i suoi guardiani allentassero la vigilanza e si facesse particolarmente vivo a Napoli il risentimento contro lo strapotere della fazione francese. La celebrazione di un matrimonio che si tenne nella casa di un mercante fiorentino, Agostino Bonciaini, il 13 sett. 1416, fornì ai nemici di Giacomo l'occasione agognata. Egli si scusò di non potervi prendere parte ma concesse a G. di presenziare. Ella fu accolta per le strade da grida che inneggiavano "Viva la regina" e la sera, al momento di tornare a Castelnuovo, un servo fedele guidò le urla di protesta che scandivano: "Non vogliamo altro re che la regina" (Faraglia, p. 70). Alla fine G. osò chiedere loro aiuto: "Non mi abbandonate, mio marito mi maltratta" (Diurnali del duca di Monteleone, p. 93). Le parole della regina offrirono a Ottino Caracciolo e Annechino Mormile, che avevano architettato il piano, il pretesto di cui avevano bisogno per scortare G. al sicuro nel palazzo dell'arcivescovo. Il giorno seguente G. si trasferì a Castelcapuano, mentre Giacomo, davanti alla rivolta popolare, giudicò prudente ritirarsi a Castel dell'Ovo.

Da questa data in poi la Cancelleria rogò documenti in nome della sola G., che nel mese di ottobre riuscì, dietro pagamento del castellano francese che lo presiedeva, a riottenere Castelnuovo, tornando così a ristabilirsi nella sua consueta residenza. Giacomo tuttavia seppe difendersi con successo e G., sapendo che suo marito poteva ancora servire come catalizzatore del diffuso sentimento di avversione contro i Durazzo, accettò di scendere a patti con lui. Fu stabilito che egli conservasse solo quaranta dei suoi servitori francesi, che liberasse lo Sforza e che rinunciasse al titolo regale; in cambio avrebbe ricevuto una provvisione annuale di 40.000 ducati e tutti gli onori specificati nel contratto matrimoniale. Su questa base il marito umiliato tornò quindi a stabilirsi a Castelnuovo il 20 dic. 1416; qualsiasi possibilità di ristabilire buoni rapporti tra i coniugi era svanita e Giacomo si trovò presto sorvegliato e minacciato con la "prigione più dura" (Faraglia, p. 75). Il suo seguito francese partì rapidamente lasciando libere cariche e onorificenze per coloro che si erano dimostrati leali a G.; lo Sforza e Annechino Mormile raccolsero i frutti migliori di questo cambiamento. Ma vi fu anche la preoccupazione di placare gli antichi nemici: la famiglia Sanseverino riottenne terre che le erano state confiscate da Ladislao, il conte di Matera tornò in libertà dopo dieci anni di prigionia; alla città dell'Aquila fu concesso di demolire il proprio castello. Tornarono a corte antichi favoriti, come molti presunti amanti di G.; tra questi vi era innanzitutto Gianni Caracciolo (noto anche con l'appellativo di ser Gianni): proveniente da una ramo minore dei Caracciolo, della stessa età della regina, già capitano con Ladislao, avrebbe esercitato la sua influenza lungo quasi tutto l'arco di regno di G., sia come compagno di letto sia come mentore in tutte le questioni di Stato. Lo spettacolo della regina divenuta un pupazzo nelle mani del Caracciolo provocò il biasimo pubblico ed erose ulteriormente l'autorità regale.

G. nel frattempo, alla fine di questo movimentato periodo, non era stata ancora incoronata e rimaneva incerto quale atteggiamento avrebbe avuto nei suoi confronti il futuro pontefice, suo signore feudale, che sarebbe stato eletto dai delegati del concilio di Costanza riunitisi per porre fine al perdurante scisma d'Occidente. Perciò rispose con premura alle richieste di aiuto lanciate dal governatore dello Stato pontificio contro il condottiere Andrea Fortebracci (noto con il nome di Braccio da Montone). Muzio Attendolo Sforza, antico rivale di Braccio diventato di recente gran connestabile del Regno, consegnò Roma a Giordano Colonna, guadagnandosi in questo modo i favori del fratello del Colonna, Ottone, che sarebbe diventato papa, con il nome di Martino V, l'11 nov. 1417. Tuttavia, quando lo Sforza ritornò a Napoli, nel mese di dicembre, trovò il Caracciolo ormai saldamente insediato nel ruolo di padrone della regina e della corte, animato esclusivamente dall'interesse e dall'ambizione personale, al punto da indurre molti, e tra gli altri la famiglia Mormile, alla ribellione. Inevitabilmente, intorno al vecchio soldato si raccolse tutta l'opposizione contro il favorito; prodighe elargizioni in favore dello Sforza, tra cui Benevento e Manfredonia, allentarono temporaneamente la tensione e lo persuasero a volgere la sua azione contro i contadini del Principato e i baroni della Basilicata. Ma nel settembre 1418 la frattura era già riaperta: lo Sforza, Francesco Mormile e i loro sostenitori marciarono su Napoli; ser Gianni e il suo nuovo alleato, Francesco Orsini, comandante militare di Napoli, si prepararono alla battaglia. Tuttavia, i cittadini furono così allarmati dallo svolgersi degli eventi che presero la situazione nelle loro mani e avviarono trattative dirette con lo Sforza, fino alla sigla di un patto che, ratificato ad Acerra dai suoi consiglieri (20 ottobre), G. fu costretta ad accettare. Tra le umiliazioni che esso le imponeva vi era il bando dei suoi consiglieri, incluso il Caracciolo, la liberazione di suo marito, il rilascio dei nobili imprigionati e un accordo, secondo il quale i deputati eletti dalla capitale potevano discutere affari di Stato con il loro sovrano. Solo il 14 febbr. 1419, in seguito alle pressioni di emissari pontifici e stranieri, G. accettò l'amara necessità di rilasciare Giacomo di Borbone, che si rifugiò proprio presso il suo avversario di un tempo, lo Sforza. Il legato pontificio, Pietro Morosini, era intanto giunto in gennaio: recava con sé una bolla di investitura (emessa a Mantova il 28 nov. 1418) e aveva l'autorità di incoronare G. una volta che ella avesse acconsentito alle condizioni impostele da Martino V.

Fra queste era contemplata la consegna di alcune fortezze del Patrimonio (Ostia, Civitavecchia, Castel Sant'Angelo) - compito affidato al Caracciolo -, nonché i servigi di Muzio Attendolo per allontanare una volta per tutte Braccio dallo Stato pontificio. Sia G. sia ser Gianni, che attendeva a Gaeta dopo aver eseguito la sua missione ed essersi recato a ossequiare a Mantova il pontefice, avrebbero volentieri gradito che lo Sforza partisse subito per ottemperare ai suoi obblighi, mentre questi insisteva per ottenere garanzie a cui si dovevano impegnare i deputati napoletani. Il gran connestabile era ancora ad Acerra quando Giacomo di Borbone, il 4 maggio 1419, salpò su un vascello genovese alla volta di Taranto, il principato assegnatogli dal patto sottoscritto nel 1416. Dopo essersi fintamente addolorata per la diserzione - ella temeva in realtà che potesse portare a una sollevazione favorevole alla fazione angioina -, G. richiamò con riluttanza lo Sforza a Napoli e incoraggiò gli Orsini, i precedenti signori di Taranto, ad assediare il marito fuggitivo. Alla fine del 1419 Giacomo ripartì di nuovo, diretto questa volta alla volta di Corfù, per poi recarsi a Venezia: la sua eccentrica vita ebbe termine nel 1438.

Terre e onorificenze si accumulavano frattanto sui parenti del pontefice, mentre la fiacca campagna condotta contro Braccio nell'estate del 1419 riusciva alla fine ad assicurare a G. la tanto sospirata incoronazione. Questa ebbe luogo il 29 ott. 1419: la regina sedeva su un palco collocato di fronte a Castelnuovo, scortata da molte guardie ma chiaramente visibile dal suo popolo. Tuttavia, solo sei giorni più tardi, Martino V ridimensionò quell'atto con la nomina di Luigi III d'Angiò a suo erede, nel caso, ormai certo, che G. morisse senza lasciare discendenti. Quando poi, nel gennaio 1420, il pontefice persuase lo Sforza a trasferire la sua fedeltà all'Angioino divenne chiaro che egli intendeva che questi prendesse il controllo del Regno mentre la regina era ancora in vita. La nuova ascesa degli Angiò, sostenuta da uno Sforza pieno di rancore, faceva presagire un destino funesto a ser Gianni, che aveva nel frattempo ripreso il suo ruolo di padrone sulla regina e il Consiglio. Perciò egli riuscì a convincere G. che le si aprivano due sole possibilità: dissuadere il pontefice dal suo proposito, oppure cercare un alleato che la difendesse dal prossimo attacco.

L'ambasceria, guidata da Malizia Carafa, che ella inviò a Firenze nel maggio 1420, fu accolta piuttosto freddamente da parte del papa; ma nella città ebbe luogo anche l'incontro con un emissario di Alfonso re d'Aragona, il quale promise di conferire con il suo signore, impegnato in quel momento a consolidare l'autorità aragonese sulla Sardegna. Al ritorno dalla sua missione, Carafa trovò lo Sforza che minacciava Napoli e i baroni che agitavano lo stendardo angioino, mentre circolavano voci di una flotta genovese che si preparava a portare Luigi nel Regno. Piuttosto che inchinarsi alla volontà dei nemici, che minacciavano di colpire il suo favorito e, forse, persino di metterlo a morte, G. decise che doveva rivolgersi nuovamente all'Aragonese. Perciò, nell'agosto 1420, il Carafa salpò alla volta della Sardegna con l'incarico di promettere ad Alfonso l'adozione e la nomina a erede al trono di Napoli, a patto che venisse in persona ad allontanare definitivamente il suo rivale dal Regno.

Mettendo da parte possibili obiezioni, il giovane monarca colse l'occasione che gli si presentava e inviò rapidamente una consistente flotta a riprova del suo impegno. Le galee aragonesi entrarono nel porto di Napoli il 6 sett. 1420, senza trovare resistenza da parte dei Genovesi che avevano sbarcato tre settimane prima Luigi d'Angiò; il giorno seguente G. sottoscrisse davanti agli emissari di Alfonso gli articoli dell'accordo che stabiliva l'adozione. Successivamente lo investì del Ducato di Calabria, appannaggio tradizionale dell'erede al trono, consegnò Castel dell'Ovo a una guarnigione aragonese e fece giurare ai deputati napoletani fedeltà al futuro re. L'effetto fu un momentaneo allentamento della tensione e una ripresa del morale, che doveva fare posto, tuttavia, a nuove preoccupazioni, quando si seppe che Alfonso era salpato alla conquista della Corsica e intendeva spingere Braccio verso Meridione contro lo Sforza. G., in novembre, gli assicurò il controllo dell'intero Regno, a patto che fosse arrivato in tempo, ma nel frattempo, nel timore che la sua mossa si dimostrasse inutile, mantenne prudentemente aperte le trattative con la fazione angioina: "così tenea le mane in doe paste" (Diurnali del duca di Monteleone, p. 105).

Alfonso salpò per la Sicilia nel febbraio 1421 per passare in rassegna le sue truppe e attendere l'arrivo di Braccio a Napoli. Quando ciò avvenne si imbarcò per fare il suo ingresso trionfale nel Regno: l'8 luglio 1421, accompagnato dal Caracciolo e da Braccio, sfilò in processione verso Castelnuovo dove G. lo accolse in modo cordiale, consegnandogli le chiavi della fortezza; la regina e la sua corte trasferirono in seguito la loro residenza a Castelcapuano. Il 20 luglio G. stilò un diploma con il quale venivano conferiti poteri quasi illimitati al suo figlio adottivo.

Per l'ennesima volta l'atmosfera di euforia evaporò nel disincanto, a mano a mano che i mesi passavano senza che fosse intrapresa alcuna azione per spezzare il blocco angioino della capitale; allorquando, in ottobre, Alfonso prese la decisione di intervenire, le sue truppe rimasero impantanate dinanzi ad Acerra. A G. non rimaneva altro che affidarsi a quanto il Caracciolo le comunicava circa i piani degli Aragonesi. A smuovere la situazione di stallo fu l'intervento di Martino V e di Firenze; il primo non aveva i fondi necessari per finanziare il suo protetto angioino ed era preoccupato che Alfonso potesse rinfocolare le spinte scismatiche; Firenze, invece, era interessata al commercio con il Regno e aveva bisogno di Braccio per affrontare l'aggressione dei Visconti. Insieme i loro emissari riuscirono ad arrivare a una tregua che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto portare alla partenza di entrambi gli eredi rivali. Ma il temporeggiare favorì Alfonso: Luigi abbandonò il Regno nel marzo 1422; in maggio, lo Sforza, disposto a tutto per salvare le sue proprietà, firmò una condotta con Alfonso; i sostenitori dell'Angiò, ormai abbandonati al loro destino, si dettero gran pena per raggiungere la pace. G. non aveva altra scelta se non quella di seguire nell'ombra il suo erede trionfante. Quando la peste scoppiò a Napoli, nell'aprile 1422, entrambi trasferirono le loro corti a Castellammare e quindi, in giugno, a Gaeta, dove Alfonso proseguiva nel suo tentativo di ottenere la ratifica papale del suo titolo.

Ma a quel punto le cose cominciarono a muoversi nell'altra direzione. Il legato pontificio a Gaeta morì in una caduta misteriosa, fatto che permise a Martino V di interrompere i negoziati; mentre il Caracciolo, sempre più a disagio nel ruolo di membro passivo del Consiglio di Alfonso, cominciò a complottare per riportare G. fuori dall'orbita del re. Egli iniziò a realizzare il suo proposito separando le corti: quando Alfonso spostò la sua ad Aversa, G. e il suo favorito si trasferirono a Pozzuoli. Al momento del loro ritorno a Napoli, nel Natale 1422, entrambe le fazioni era convinte che fossero in atto dei complotti. Le relazioni si deteriorano al tal punto che ser Gianni non si arrischiava a entrare a Castelnuovo senza un salvacondotto. Tuttavia anche questa cautela si dimostrò inutile poiché fu Alfonso a colpire per primo. Il mattino del 25 maggio 1423 fece prigioniero ser Gianni quando stava per entrare nel castello, poi si diresse immediatamente verso Castelcapuano con l'intenzione, come sostennero alcuni, di giustificare la propria condotta alla regina; mentre altri credevano che intendesse completare il colpo facendo prigioniera anche la sovrana. Comunque, al suo arrivo, trovò le guarnigioni sull'avviso e la città in armi e dovette faticosamente guadagnarsi la via del ritorno a Castelnuovo; ormai persuasa del pericolo che correva, G. fece appello allo Sforza il quale vide in ciò l'occasione per riguadagnare la sua influenza. Il 27 maggio Muzio Attendolo arrivava a Napoli da Benevento e, dopo avere avere sconfitto un raccogliticcio esercito aragonese, occupava la città. La situazione fu rovesciata di nuovo due settimane più tardi quando l'arrivo di una flotta catalana permise ad Alfonso di riconquistare Napoli dopo due giorni di durissima battaglia. Lo Sforza dovette di nuovo salvare G., scortandola dapprima a Pomigliano, quindi al castello degli Orsini a Nola e infine ad Aversa, dove poté finalmente rivedere ser Gianni, liberato in cambio di alcuni baroni aragonesi fatti prigionieri dalle armate dello Sforza.

Il piano di sfidare il papa e l'Angiò era andato clamorosamente fallito e non lasciava a G. altra possibilità che una trattativa. In primo luogo, ruppe i contatti con l'Aragonese: con un decreto del 25 giugno venivano confiscate le proprietà dei sudditi di Alfonso; il 1° luglio revocò l'adozione. Al suo posto subentrò Luigi III d'Angiò che fu adottato con una cerimonia ufficiale svoltasi di fronte al Consiglio riunito il 14 settembre. Nel frattempo, Alfonso si difendeva strenuamente nelle sue roccaforti sulla costa, riuscendo persino, in agosto, a conquistare Ischia; tuttavia, le prospettive in Italia, sempre più incerte, sommate alle pressioni spagnole che lo richiamavano incessantemente in patria per ridare maggiore stabilità alla Corona aragonese, lo spinsero ad abbandonare il paese il 15 ottobre. Egli sosteneva comunque che la sua adozione a erede al trono costituiva un atto irrevocabile e incaricò pertanto il fratello minore, l'infante Pietro, a difendere la sua causa.

Un'altra figura di rilievo doveva venire meno il 3 genn. 1424: lo Sforza morì affogato mentre stava marciando per rompere l'assedio di Braccio all'Aquila. Fu poi Braccio stesso a morire, nel giugno 1424, dopo quella che fu la prima grande vittoria ottenuta dal figlio di Muzio Attendolo, Francesco. In aprile Napoli, Gaeta e altre città erano state strappate al dominio aragonese, sotto cui rimanevano invece Castelnuovo, Castel dell'Ovo e alcune città nel Sud della Calabria. Luigi III, da parte sua, non creò alcun problema e visse pacificamente alla corte di G. fino all'ottobre 1427, allorquando fece ritorno a Napoli, per stabilire quindi la propria residenza a Cosenza, che era la capitale del Ducato di Calabria. Due anni più tardi partì di nuovo, in guerra questa volta, per combattere con i Francesi.

Contro ogni aspettativa, quindi, G. e il suo siniscalco vissero diversi anni di relativa tranquillità, dei quali non ebbero però l'intelligenza di disporre con saggezza. Nel 1425 G. lo investì del ducato di Venosa e della città di Capua e lo nominò gran connestabile. La nobiltà guardò inevitabilmente con sospetto a questa ascesa improvvisa, nonostante le alleanze matrimoniali con cui egli aveva inteso guadagnarsi la loro acquiescenza. Essi trascurarono inoltre di mantenere buoni rapporti con Martino V, non pagando il tributo annuale dovuto a Roma e non consegnando le proprietà che erano state promesse al nipote, Antonio Colonna. Il pontefice accusò il Caracciolo di queste inadempienze, mentre ser Gianni da parte sua si andava convincendo che Martino stesse complottando per eliminarlo e persino per detronizzare G. in favore del nipote, Antonio Colonna. I suoi timori crebbero allorquando la salute fragile della regina, che aveva dovuto affrontare una seria malattia nel 1428 e la cui vista si stava sempre più indebolendo, metteva a serio rischio il suo controllo sul Regno. Con un tentativo disperato di evitare il pericolo il Caracciolo si affidò ad Alfonso. Le ambascerie che furono inviate in Spagna, apparentemente da parte della regina stessa, assicuravano il re che ella lo amava ancora "com si fos son propri e natural fill" (Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón, reg. 2692, c. 126v) e lo incoraggiavano a ritornare "com a bon fill e hereu e successor legitim" (ibid.). Ser Gianni fece ampie promesse che avrebbe fornito gli uomini e il denaro necessari per riconquistare il trono che si sarebbe presto reso vacante, "car madama era ja molt malata" (ibid., c. 127v). Ma Alfonso preferì temporeggiare non volendo gettarsi in tale avventura senza maggiori garanzie.

Ciò che salvò la cricca regnante dai suoi incubi non fu però l'invasione aragonese ma la morte di Martino V nel febbraio 1431. Il suo successore, Eugenio IV, caldamente assecondato dalla corte napoletana, si volse risolutamente contro la famiglia Colonna. Fedele alla propria indole, ser Gianni sfruttò la situazione a suo vantaggio per impadronirsi del ducato di Venosa; avrebbe anche consegnato il principato di Salerno a suo figlio se G., contro ogni attesa, non si fosse a questo punto opposta. Il rifiuto, che fu probabilmente occasione di un violento scontro tra i due, segnò una cesura radicale nella loro relazione. L'intimità sessuale era cessata da tempo, e sebbene ser Gianni avesse continuato a esercitare la sua influenza sul Consiglio per tutta l'estate fino all'inverno del 1431, mentre la corte risiedeva ad Aversa e a Pozzuoli, il suo potere diminuì rapidamente dopo che G. fece ritorno a Castelcapuano nel febbraio 1432. In età avanzata, la regina subiva ormai in maniera sempre maggiore l'influenza della cugina Covella Ruffo, duchessa di Sessa, dalla personalità decisa e nemica di lunga data del Caracciolo. Attorno alla duchessa si stringeva la fazione angioina, ostile ai legami che il siniscalco coltivava con l'Aragonese, e divenuta ancora più sospettosa quando Alfonso preparò la spedizione che lo portò in Sicilia nel luglio 1432.

Non ci volle molto a convincere G., da sempre abituata a che fossero gli altri a decidere al suo posto, che anche ser Gianni dovesse cadere. Con qualche apprensione ordinò che l'arresto coincidesse con una grande festa che si teneva a Castelcapuano per celebrare le nozze della figlia del Caracciolo. I suoi nemici, invece, fecero in modo che venisse ucciso nella sua camera da letto, nella notte del 19 ag. 1432, inscenando una sua resistenza all'arresto. La sentenza, che lo colpì dopo la morte, lo condannava per tradimento e usurpazione del potere reale. G. accettò tutto questo con la sua consueta passività.

Ben più pericoloso del favorito di G., ora assassinato, si doveva rivelare invece per il partito angioino Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, principe di Taranto, in quel momento dichiarato sostenitore dell'Aragonese. In risposta ai suoi inviti e a quelli dei suoi seguaci, Alfonso giunse a Ischia scortato da una grande flotta nel dicembre 1432, chiedendo di essere riconosciuto come successore di Giovanna. Tuttavia, venne a mancare il previsto sostegno dei baroni mentre il principe, da parte sua, esitò, cosicché la corte fu in grado di trascinare i negoziati finché Alfonso, reso impotente da una malattia che si era diffusa tra la sua flotta, acconsentì, il 7 luglio 1433, a una tregua di dieci anni e fece ritorno in Sicilia. Il principe di Taranto si trovava ora esposto a una ritorsione, che G., ignorando l'ammonimento del papa - "Tu hai spesso fatto esperimento dell'incertezza dell'esito d'una guerra" (Faraglia, p. 411) -, gli volle invece infliggere. La regina lo dichiarò ribelle e fece muovere contro di lui il suo capitano Giacomo Caldora, a cui si unì Luigi d'Angiò che ella richiamò a tale scopo dalla Calabria nell'estate del 1434. Essi stanarono l'Orsini da una città all'altra finché fu Taranto stessa a essere messa sotto assedio. Proprio nel corso dell'assedio il duca di Calabria si ammalò gravemente; riportato a Cosenza, vi morì il 15 nov. 1434 alla giovane età di trentun anni.

G. espresse la sua disperazione per questo tiro del destino: "Figliuol mio, ché non sono morta io? Mai sarò consolata quanto vivrò" (Faraglia, p. 413). Tuttavia, già dal 1427 G. aveva permesso che l'erede designato fosse messo in secondo piano; al punto che alla sua sposa, Margherita di Savoia, in occasione del viaggio che nel luglio del 1434 la doveva portare dal marito in Calabria, non era stato concesso nemmeno di entrare a Napoli.

Non rimase molto tempo per rammaricarsi delle scelte più avvedute che avrebbe potuto fare, poiché G. morì a Napoli il 2 febbr. 1435.

Fu seppellita con semplicità, come ella aveva desiderato, di fronte all'altare maggiore della chiesa dell'Annunziata: la sua lapide era costituita da una pietra semplice con sopra il suo nome, i titoli e la data della morte. Il testamento, che nominava come suo erede Renato d'Angiò (il fratello dello scomparso Luigi, in quel momento prigioniero in Borgogna), rifletteva gli interessi della corte e del Papato, e probabilmente anche le sue ultime volontà. La sfida alle tenaci ambizioni di Alfonso condannarono il suo Regno ad altri sette anni di guerra civile.

G. è stata oggetto di giudizi severi: da quello di Pandolfo Collenuccio che la ritrae come "instabile ed impudica" (p. 330), all'affermazione del Pontieri secondo il quale la regina fu "debole, volubile e per dippiù sensuale" (p. 76). Lungo tutta la sua vita rimase una figura nell'ombra, priva di quelle virtù del carattere necessarie a una regnante e di solide opinioni personali nelle questioni di Stato; giunta al trono impreparata e senza consorte, ella finì con il riporre una fiducia illimitata in uomini che si guadagnarono la sua confidenza attraverso gli affetti e che la sfruttarono per realizzare i loro interessi particolari. In assenza del comando spietato di cui il Regno necessitava, il governo centrale si atrofizzò e il potere cadde nelle mani di avventurieri militari e dei magnati che dominavano le province. I conflitti dinastici durati mezzo secolo spinsero i clan nobiliari a riunirsi in ampie e instabili coalizioni, a favore dei pretendenti al trono, i Durazzo o gli Angioini. L'elevata incertezza che dominò la questione della successione lungo tutto il regno di G. rafforzò inevitabilmente queste fazioni ed esacerbò le violenze tra di loro e contro lo Stato.

Un periodo così prolungato di quasi-anarchia ridusse il Regno a una condizione di indigenza e di insicurezza. Al momento della loro partenza nel dicembre 1421, gli ambasciatori fiorentini si espressero in questo modo: "Ci pare essere oramai fuori dello inferno; et in ogni luogo oltre alla guerra, fame e mortalità non piccola" (Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, p. 360). Non stupisce perciò se furono ben pochi, o quasi nessuno, i segni di vitalità nelle arti e nell'economia che contraddistinsero il regno di Giovanna. Una devozione convenzionale, più che un autentico amore per la musica, spiega verosimilmente la presenza di un piccolo coro che ella volle nella cappella reale. Dei suoi rari interessi per le arti figurative rimane a testimonianza ben poco tranne il monumento in stile gotico decadente che fece erigere in onore del fratello. I progressi nella letteratura furono nulli. In un Regno caratterizzato dall'uso della giustizia sommaria e dalla manipolazione della legge da parte dei favoriti, il sistema legale ebbe a mostrare purtuttavia alcuni progressi dovuti a brillanti giuristi tra cui Marino Boffa. Nel 1428 fu istituito un Collegio di dottori in diritto civile e canonico, che seppe completare negli ultimi anni di regno la codificazione della procedura che atteneva alla Corte suprema, la Magna Curia della Vicaria.

La guerra civile devastò e spopolò la capitale, aggravando in tutto il Regno l'effetto della peste e la penuria dei raccolti. In questa situazione di stagnazione, se non di vera e propria regressione economica, i mercanti fiorentini mantennero il loro dominio negli scambi a lunga distanza, sostenuti nei loro privilegi anche da G. stessa, che si trovava spesso in necessità di chiedere alla Repubblica prestiti e aiuti diplomatici. Le comunità ebraiche, che costituivano uno dei pochi esempi di iniziativa commerciale tra i suoi sudditi, acquistarono concessioni per scuole, sinagoghe, celebrazioni, cimiteri e pratiche commerciali, a eccezione di un breve periodo nel 1427 allorquando l'influenza di Giovanni da Capestrano aprì la strada a un'ondata di persecuzioni negli Abruzzi che ebbe termine, come era tipico, non per la saggezza di G. ma per una reprimenda proveniente dal pontefice.

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