FIESCHI, Giovanni Ambrogio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47 (1997)

FIESCHI, Giovanni Ambrogio

Maristella Cavanna Ciappina

Nato intorno al 1450, probabilmente a Genova, nella nobile famiglia genovese discendente dal conte Ugo di Lavagna (sec. XII), appartenne al ramo di Savignone, parallelo a quello di Gian Luigi il Vecchio, con il quale i Fieschi raggiunsero la loro massima potenza in età moderna. Padre del F. fu Giacomo di Ettore; la madre probabilmente, Selvaggia Fieschi fu Silvestro (Giacomo sposò in seconde nozze Bianca Gentile fu Francesco, che risulta vedova nel 1490).

Di Gian Luigi il gruppo familiare del F. condivise gran parte delle scelte politiche, secondo una tendenza già inaugurata dai Fieschi nel secolo precedente e sempre più drasticamente antipopolare. Tutti i fratelli del F. percorsero brillanti carriere, o nel campo ecclesiastico o in quello politico-diplomatico: Urbano (morto nel 1480) fu vescovo di Fréjus, Niccolò cardinale, Pietro arcidiacono, Francesco sacerdote e diplomatico, Ettore giureconsulto e abile diplomatico, Paride diplomatico e politico.

I legami matrimoniali del gruppo familiare - tradizionalmente privilegiati quelli con gli stessi Fieschi, i Lomellini, gli Spinola (tutte famiglie della nobiltà vecchia) - indicano nel F. una specifica predilezione per i Doria, secondo una scelta che sembra accompagnare l'avvicinamento delle due famiglie sul piano politico. Marito egli stesso prima di Maria Doria e poi di Bartolomea Doria, imparentò coi Doria anche due dei quattro figli.

La carriera politico-diplomatica del F. si aprì nel 1487-88, in un periodo di inquietudine politica della Repubblica di Genova.

Dopo dieci anni di contrastate signorie Adorno e Fregoso, lo stesso cardinale doge Paolo Fregoso, resosi conto della insostenibilità del proprio dominio, avviava segrete trattative con il duca di Milano per preparare a sé una abdicazione indolore e agli Sforza il ripristino del dominio su Genova.

Molto probabilmente fu proprio il F. uno dei mediatori di questo passaggio, anche se nel frattempo a Genova Ibleto e Gian Luigi Fieschi sollecitavano prima il ritorno di Battista Fregoso contro i tentativi di Agostino e Giovanni Adorno, poi l'intervento del re di Francia. Alla fine, abbandonati tutti gli altri progetti e destituito Paolo Fregoso, il Senato decise per la riconsegna della Repubblica al duca di Milano, Gian Galeazzo Sforza. L'ambasceria, decisa il 27 sett. 1488, era composta da sedici cittadini: tra loro il F. con G. F. Spinola e i due giuristi F. Soffia e G. P. De Marini.

Il giuramento di fedeltà al duca di Milano fu prestato in cerimonia ufficiale dal F. e dagli altri il 22 nov. 1488, con consegna di scettro, chiavi, insegne e sigillo, ma gli atti fondamentali erano già stati tutti siglati dopo laboriose e intense trattative ai primi del mese: in particolare, le preziose franchige alla città e al magistrato delle Compere di S. Giorgio erano state sottoscritte dal duca e dal tutore Ludovico il Moro il 2 novembre.

Durante il dominio del Moro, protrattosi per circa un decennio e coincidente con un periodo relativamente florido e politicamente stabile, nonostante il passaggio di Carlo VIII e i nuovi progetti del Fieschi e del Fregoso, il F. non ricopri incarichi significativi. Ma, allorché nel 1498 i rapporti si incrinarono - sia per l'atteggiamento antifrancese assunto dal Moro che finiva con il danneggiare i commerci genovesi sia sopra tutto per lo scarso sostegno di Milano nella questione di Pietrasanta - e il Moro ritenne opportuna una visita a Genova per riprendere il pieno controllo della situazione, i quattro ambasciatori dell'accoglienza al duca furono il F., A. Spinola, V. Borlasca e V. Sauli. Il F. e i suoi compagni partirono il 4 marzo per Tortona con l'incarico ufficiale di porgere al Moro il primo saluto di Genova e di notificare al Senato il giorno d'arrivo del duca in città; ma certo essi furono anche investiti degli aspetti politici dell'evento.

La città accolse lo Sforza con grande calore, tanto più che la sua visita sembrò preludere a un rilancio economico, stante la commissione da lui fatta di venticinque galee. Ma gli eventi immediatamente successivi alla partenza del Moro incrinarono irrimediabilmente l'intesa e misero in difficoltà i cantieri per la commessa interrotta. Le aspirazioni politiche ed economiche delle grandi famiglie tornavano a rivolgersi alla Francia e al dinamismo del suo nuovo sovrano. Perciò, mentre ufficialmente si inviavano truppe in difesa della Lombardia sforzesca minacciata da Luigi XII, si conducevano trattative con il re sotto pretesto di convenzioni commerciali. Dopo la difficile estate del '99, caduta Milano in mano al re, anche Genova si consegnò a lui.

La grande ambasceria inviata a Milano per discutere le convenzioni coi ministri francesi e procedere alla cerimonia solenne della dedizione fu eletta il 20 settembre e comprendeva ventiquattro ambasciatori, tra i quali il Fieschi. Già a Pavia avevano avuto inizio le laboriose trattative coi ministri del re, non disposti all'ampiezza dei privilegi richiesti da Genova: il 26 ottobre, raggiunto l'accordo, fu possibile la cerimonia ufficiale del giuramento. Il dominio francese suggellò a Genova l'ascesa politica di Gian Luigi Fieschi, cui il re concesse, per l'appoggio militare ricevuto, il governo della Riviera di Levante, dal Bisagno alla Spezia, traducendo in riconoscimento di diritto quanto dai Fieschi era esercitato di fatto da oltre due secoli.

Nei confronti del potente cugino, il F. sembrava mantenere un atteggiamento molto sorvegliato, meno avventuroso, più attento agli equilibri interni e alle oscillazioni internazionali e forse anche più sensibile agli interessi della collettività: tra il culto della forza e del prestigio del sangue e delle armi e le ragioni della politica intesa come continua mediazione, il F. propendeva decisamente per le seconde. Grazie a questo atteggiamento, capì probabilmente prima di altri la necessità di conservare ad ogni costo buoni rapporti anche con la Spagna, potenza con la quale non si potevano rompere le fruttuose relazioni commerciali.

Nel 1502 Luigi XII fu in visita a Genova, ospite di Gian Luigi Fieschi nel suo principesco palazzo in via Lata, tra splendide feste e rinfocolate invidie; poi la richiesta esplicita avanzata dal re nel 1503 perché Genova entrasse in guerra contro la Spagna provocò disordini così gravi da richiedere l'elezione di una nuova Balia, che oppose al re il rifiuto di un intervento diretto. Di questa Balia del settembre 1503, garante della fedeltà alla Francia ma renitente alla dichiarazione di guerra alla Spagna, fece parte anche il Fieschi. Il re di Francia, adirato, privò Genova dei rifornimenti granari provenzali, ma Genova era riuscita a mantenere la sua neutralità e a non rompere le relazioni ufficiali con la Spagna.

Mentre la tensione interna tra nobili e popolari cresceva, la morte di Alessandro VI e l'elezione di Giulio II richiesero a Roma la presenza di personalità di prestigio per l'obbedienza e le congratulazioni di rito al nuovo pontefice, ma sopra tutto per la conferma dei privilegi genovesi nella difficile congiuntura internazionale. Perciò il 16 nov. 1503 si adunò un Gran Consiglio per deliberare l'invio di dodici tra i cittadini più ricchi e autorevoli: tra questi il 20 novembre fu eletto il F. quale primo oratore.

Ma il successo della missione del F. e dei colleghi, rientrati a Genova a fine marzo 1504, anche se contribuì forse a qualche mese di tregua non evitò il precipitare della situazione interna attorno alla questione di Pisa.

Nel 1505 la città, stremata dal decennale assedio fiorentino, si offrì a Genova, con la clausola del consenso del re di Francia, ma quest'ultimo oppose un rifiuto, appoggiando la posizione di Gian Luigi Fieschi, che in Genova capeggiava il partito dei nobili ostile all'offerta per timore di un conflitto con Firenze e, forse, con la Spagna. La rinuncia esacerbò il malumore dei popolari, irritati dalle continue provocazioni dei nobili, che esibivano l'appoggio del re e del governatore francese. Una serie di violenze private e di agitazioni pubbliche si susseguirono tra la fine del 1505 e il 1506, finché, a fine giugno, i popolari - guidati dagli Adorno e dai Fregoso riconciliati per l'occasione - elessero una magistratura di dodici capitani da affiancare al Senato e al luogotenente francese Filippo Roccabertino.

I magnati reagirono eleggendo a loro volta quattro loro capitani, con pieni poteri circa le misure che la situazione conflittuale potesse richiedere: erano il F., Giovanni Doria (da questo momento il legame politico tra i due diventerà indissolubile), Luca Spinola, Angelo Cebà. Ma, con le rivendicazioni dei popolari sul diritto ai due terzi degli uffici pubblici, nella situazione che si faceva difficile specie per i Fieschi, a causa delle sempre più gravi provocazioni antipopolari di Gian Luigi e dei suoi armati, tra il 18 e il 20 luglio 1506 i nobili furono costretti ad abbandonare le loro case e la città. La mattina del 20 luglio il F. era ancora in città e si incontrava con il castellano francese nell'estremo tentativo di mantenere il controllo militare della situazione, mentre barche del Fieschi, cariche di armati della Riviera di Levante, approdavano a Sarzana; ma poche ore dopo il popolo in tumulto aveva la meglio sui soldati dei Fieschi e metteva a sacco i palazzi di Gian Luigi, del F. stesso, di Domenico De Marini e di altri nobili.

Anche il F. dovette trovare rifugio con gli altri Fieschi nel castello di Montoggio per circa un mese, fino al ritorno a Genova del governatore francese, Filippo di Cleves signore di Ravenstein, alla cui mediazione si erano appellati tanto i nobili, che accusavano il suo luogotenente Roccabertino di connivenza con i popolari, quanto i popolari stessi che ritenevano il luogotenente succube dei nobili. Ai primi di settembre Gian Luigi, il F. e gli altri Fieschi rientrarono nei loro palazzi, scortati da armati e artiglierie, suscitando una nuova così violenta reazione popolare che il Ravenstein fu costretto ad accettare l'espulsione di tutti i Fieschi da Genova e dalla Riviera di Levante.

Il moto rivoluzionario poi, tra l'ottobre 1506 (il 25 anche il Ravenstein abbandonò la città) e l'aprile 1507 (quando Paolo da Novi fu eletto doge popolare) si consumò e si esauri tra atti eroici, progetti velleitari (spedizione di Monaco), compromessi e pentimenti, e crollò, dopo una disperata difesa, alla fine d'aprile, di fronte alla forza dell'esercito francese, sostenuto da 4.000 uomini agli ordini dei Fieschi. Accettata la resa a discrezione della città, il re in persona entrò in Genova il 29 aprile, scortato da una cavalcata di gentiluomini capitanata dai Fieschi.

Ai primi di maggio, con il ritorno allo statu quo, favorito dalla proposta di Giovanni Doria, nel primo Gran Consiglio postrivoluzionario, di "lasciar andare quello era fatto e fare libro di nuovo", annullate tutte le magistrature degli ultimi dieci mesi e ricostituiti i vecchi uffici con nuovi membri, si costituì il nuovo ufficio di Balia con uomini "delli più prestanti della terra", tra i quali il Fieschi.

Restaurato nel ruolo a lui più congeniale di mediatore politico, il F. riprese subito anche la sua specifica funzione diplomatica, non senza prendersi la feroce soddisfazione di una punizione esemplare, nello spirito di quei giorni di restaurazione e di legittimate vendette. Così, l'11 giugno 1507 fece impiccare a porta dei Vacca un giovane non ancora ventenne, sorpreso a rubare su un naviglio di sua proprietà merce per circa 15 soldi. Il giorno dopo il F. salpava per Portovenere insieme con M. Negroni, N. Giustiniani e C. di Zerbi, incaricati dal governatore francese di Genova e dall'ufficio delle Cose di Spagna di recarsi presso Ferdinando d'Aragona.

I quattro ambasciatori, nel nuovo clima di pace e solidarietà tra Francia e Spagna, dovevano ottenere prima di tutto la revoca delle rappresaglie perpetrate a danno genovese da don Pietro de Urrea e l'abolizione del divieto di esportazione dalla Spagna con navi non spagnole (divieto in contrasto con le antiche convenzioni ed esiziale per il commercio genovese), nonché una serie di risarcimenti per vari mercanti genovesi. Nei giorni successivi l'incontro con Ferdinando, avutasi notizia del suo ritorno in Spagna, il F. e i colleghi ebbero l'incarico di insistere, su precisa disposizione di Luigi XII, per una sua sosta a Genova (che avvenne infatti tra il 26 e il 27 giugno) e poi quello di accompagnarlo fino a Savona, dove era previsto il convegno tra i due sovrani. L'importanza dell'incontro, avvenuto con l'adesione del Papato e nel quale furono praticamente poste le basi dell'accordo di Cambrai, griustifica le pressanti raccomandazioni rivolte áal governo genovese al F. e ai suoi colleghi a "non partirsi mai da Sua Maestà", e per mantenersi bene informati sui grandi progetti internazionali e per controllare le ansie di emancipazione di Savona, che Genova cominciava a temere.

Conclusa con successo la legazione, il F. venne ancora impiegato in missioni politico-diplomatiche, nel 1508 presso Ch. de Chaumont, generalissimo delle milizie francesi in Italia, e nel 1510 al cardinale F. Sanseverino: missioni che alludono al delicato momento internazionale, dopo lo spostamento del papa su posizioni antifrancesi e, di conseguenza, antigenovesi. Poi, nel 1512, il ritorno del F. alla grande politica.

Il disastro francese a Ravenna l'11 apr. 1512 aveva offerto a Giano Fregoso l'occasione per rientrare a Genova, secondo volontà e con l'appoggio del papa. Il 26 giugno si radunava un Gran Consiglio e, dopo un lungo dibattito sul trapasso dal dominio francese a quello della Lega santa, si deliberava il nuovo ufficio di Balia, del quale anche il F. entrava a far parte. Tre giorni dopo Giano Fregoso fu eletto doge; ma, nonostante i festeggiamenti diffusi e il tripudio dei suoi, la situazione era tutt'altro che definita, con i Francesi asserragliati nella fortezza del Castelletto e alla Lanterna e un ufficio di Balia pieno di elementi tutto considerato filofrancesi, il F. compreso. E proprio il F. appare coinvolto, anche se forse in modo involontario, nell'evento che, undici mesi dopo, provocò la caduta del Fregoso.

L'avvicinamento di Adorno e Fieschi nel comune legame filofrancese, mentre G.G. Trivulzio scendeva in Italia con un nuovo potente esercito, preoccupava i Fregoso, il doge Giano e suo fratello Ludovico, ammiraglio della flotta. La tensione faziosa tornava a crescere: il 23 maggio 1513, scoppiò un violento diverbio in palazzo ducale tra Girolamo Fieschi, figlio di Gian Luigi, e Giacomo Lomellini; dopo l'apparente ritorno alla calma, Girolamo, mentre si avviava a casa accompagnato dal F., venne assalito e ucciso da Ludovico Fregoso e dagli altri fratelli del doge con i loro alabardieri.

Il F. venne ferito al viso, ma riuscì a scampare fortunosamente alla morte. Lo stesso giorno la flotta francese entrava a Genova e il giorno seguente vi entravano gli Adorno, dopo aver sconfitto i soldati del Fregoso. La casualità della presenza del F. accanto a Girolamo nell'agguato che doveva preludere alla reazione del Fieschi - specie dei due fratelli del morto, Ottobono e Sinibaldo - e degli Adorno è sottolineata dal Senarega quasi a voler escludere nel F. qualsiasi tipo di connivenza, ed è probabilmente veritiera: per quanto su comuni linee filofrancesi, troppo diverso appare l'equilibrato e moderno senso dello Stato del F. dal personalismo dinamico e prepotente dei fratelli Fieschi per poter ipotizzare un comune progetto politico. E infatti le scelte del F. e dei fratelli del morto Girolamo divergono dopo la rapidissima esperienza del dogato di Antoniotto Adorno (26 maggio-16 giugno 1513). La sconfitta francese di Novara costrinse Adorno e Fieschi a lasciare di nuovo Savona, dove Ottaviano Fregoso entrò il 17 giugno alla testa di 3.000 soldati e 400 cavalieri forniti dal viceré spagnolo e dove il 20 giugno fu eletto doge.

Il F. non solo restò a Genova, ma fu nominato tra i dodici componenti la commissione chiesta e ottenuta da Giovanni Doria per studiare i provvedimenti atti a troncare la consuetudine di obbligare la città a pagare i debiti contratti dai fuorusciti con potenze straniere per riconquistare il potere.

Nonostante il sapore polemico proprio nei confronti di Ottaviano Fregoso, che aveva appena chiesto l'approvazione del pagamento del suo debito col viceré di Napoli, la richiesta del Doria e l'operato della commissione suonavano di monito anche ad eventuali nuovi tentativi degli Adorno e di quanti cercassero di rientrare a Genova con l'aiuto di truppe straniere. La commissione infatti ratificò il 13 luglio 1513 il decreto per cui chiunque, occupata la città con denaro straniero, avesse preteso far saldare il proprio debito al Comune di Genova, sarebbe caduto, ipso facto, nella condizione di nemico pubblico, e i suoi beni e quelli della moglie sarebbero stati confiscati.

Per il F. la partecipazione a questa coraggiosa iniziativa (1513) fu anche una sorta di testamento politico, poiché è il suo ultimo atto documentato.

Dal suo primo matrimonio nacque Francesco, poi sposato a Maria Doria di Agostino; dal secondo ebbe Maria (sposata allo zio paterno Ettore), Giacomo e Geronima (sposata prima ad Antonio Doria e poi a Giovanni Spinola). Resta da segnalare che il Burckard, nel riportare la notizia della legazione romana al nuovo papa Giulio II, designa il F. con l'appellativo di vescovo brugnatense, ma tale carica non viene confermata da altra fonte.

Fonti e Bibl.: I. Burchardi Liber notarum, a cura di E. Celani, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXXII, 2, pp. 434 s.; B. Senarega, De rebus Genuensibus commentaria, a cura di E. Pandiani, ibid., XXIV, 8, ad Indicem; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, I, Roma 1951, pp. 59, 63 ss., 100; F. Federici, Trattato della famiglia Fiesca, Genova [1646], pp. 5 s., 86; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, Genova 1833, III, p. 16; A. Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1854, II, p. 654; E. Pandiani, Un anno di storia genovese (1506-07), in Arch. d. Soc. ligure di st. patria, XXXVII (1905), pp. 15, 315, 318, 402, 414, 530 s.; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in Arch. d. Soc. ligure di st. patria, LXIII (1934), pp. 3, 48, 159.

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