MARINI, Giovanni Ambrosio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 70 (2008)

MARINI, Giovanni Ambrosio

Carlo Alberto Girotto

MARINI (De Marini), Giovanni Ambrosio. – Nacque a Venezia il 17 giugno 1596 da Giovanni Ambrosio (o Ambrogio De Marini) e da una non identificata gentildonna veneziana.

Il padre, procuratore e poi senatore della Repubblica genovese, ebbe dalla madre del M. un altro figlio, Marino, nato il 16 ag. 1594. Una volta tornato a Genova, sposò nei primi anni del nuovo secolo Maria Garbarino, dalla quale ebbe altri due figli, Niccolò, morto in giovanissima età prima del 1610, e Battina.

Avviato ai primi studi sotto la guida di tale Giovanni Maria Volgicapo, il M. fu iscritto insieme con il fratello, verosimilmente dopo il 1606, al collegio dei nobili di Parma, prestigioso istituto fondato da Ranuccio I Farnese nel 1601 e retto dai gesuiti. Per volontà paterna nel 1609 i due fratelli furono ascritti alla nobiltà genovese e alla morte del padre, nel 1612, in ottemperanza alle disposizioni testamentarie furono dichiarati eredi universali, per essere legittimati il 12 ott. 1612.

Conclusi gli studi a Parma, il M. si laureò in filosofia nel 1614 e la sua dissertazione (Conclusiones ex universa philosophia desumptae), fu pubblicata lo stesso anno (Giustiniani). Tornato a Genova, a seguito di una richiesta dei primi di aprile 1617 approvata dal Senato il 26 seguente, il M. e il fratello ottennero l’affrancamento dalla tutela degli zii Domenico, futuro arcivescovo di Genova, Francesco e Giovanni Agostino, futuro doge.

Nello stesso giorno il M. rilasciò un’ampia procura a favore del fratello per l’amministrazione di tutti i beni mobili e immobili derivati dall’eredità paterna. Tale procura è da collegare alla decisione del M. di diventare prete secolare, di cui, tuttavia, si ha prova documentaria solo in un atto del 1622 (Arch. di Stato di Genova, Atti del Senato, 1815), col quale il M., definito «reverendo», chiedeva di partecipare a una vertenza familiare in qualità di laico e non di religioso.

In quegli anni la situazione economica della famiglia De Marini risulta essere particolarmente delicata: le pesanti tassazioni che gravavano sull’eredità paterna e le scarse rendite di alcuni possedimenti a Roma e nel Napoletano richiesero soluzioni d’emergenza.

Il 18 dic. 1626 i due fratelli ottennero dal Senato genovese di poter alienare alcuni possedimenti cittadini per garantire la dote alla sorellastra Battina. Dopo essersi trattenuto fuori Genova per parecchi mesi, il 17 febbr. 1628 Marino chiese al Senato un salvacondotto di tre mesi per fronteggiare i numerosi creditori e il 5 aprile successivo i due fratelli presentarono in Senato un’ulteriore richiesta di sgravio fiscale. Pochi mesi più tardi, pressato dalle ormai irreparabili difficoltà economiche, Marino fuggì da Genova: rifugiatosi prima a Madrid e poi a Bruxelles, perfezionò le proprie conoscenze di tecnica militare, inventando un nuovo strumento di artiglieria leggera. Grazie a un salvacondotto bimestrale procuratogli dal M., poi rinnovato per altri due mesi, riuscì a rientrare a Genova nel settembre 1633, con l’intenzione di presentare l’arma alle autorità della Repubblica. Dell’invenzione diede notizia al Senato lo stesso M. in dicembre, riscuotendo unanime interesse e ottenendo garanzie economiche che stabilizzarono almeno in parte le sorti familiari.

Oltre questi fatti, la biografia del M. risulta ancora malcerta: i biografi secenteschi sono concordi nell’elogiarne gli «angelici costumi» e la «virtuosa ritiratezza» (Soprani, p. 138); il solo Buonarroti dà notizia di un figlio naturale, Ansaldo. Poco è noto dei suoi rapporti con le personalità della cultura di Genova, se non che fu frequentatore dell’Accademia degli Addormentati fondata da Anton Giulio Brignole Sale. Il suo nome è legato soprattutto alla produzione romanzesca, iniziata nel 1640 con la pubblicazione a Bracciano del suo primo e più fortunato romanzo, il Calloandro.

Erede della tradizione cavalleresca cinquecentesca, la selvosa vicenda di Calloandro, principe di Costantinopoli, e dell’amata Leonilda ha alla base una «dimensione paradossale» (Conrieri, 1974, p. 1017), che mira alla costruzione di un processo narrativo meccanicamente esatto. L’ambientazione esotica serve da sfondo a una fiorente inventiva, fatta di travestimenti, scambi di persona, amori apparentemente incestuosi e in realtà legittimi, nella quale hanno grande spazio le coordinate culturali del labirinto, del teatro, della macchina.

Particolarmente complessa è la vicenda redazionale dell’opera. Nella prima edizione, in due parti pubblicate a Bracciano tra il 1640 e il 1641, per celare il proprio nome il M. ricorse a una serie di pseudonimi: l’opera sarebbe un romanzo di tale «Gio. Maria Indris boemo», perfetto anagramma del nome del M., tradotto in italiano dal di lui amico romano «Giramo Bisii», parziale anagramma del nome precedente. Negli scritti che precedono la seconda parte compariva invece il nome di tale «Dario Grisimani» che, denunciando la falsità dei precedenti anagrammi, dava a sé la paternità del romanzo. Dopo una ristampa veneziana non autorizzata nel 1641, nello stesso anno fu pubblicata a Genova un’edizione, anch’essa in due parti ma ampiamente mutata; in questa seconda redazione, venuti meno gli pseudonimi, compariva il vero nome dell’autore, che in una Lettera al lettore spiegava i motivi delle precedenti coperture. La redazione definitiva dell’opera comparve infine in tre parti a Roma nel 1653: il testo presenta numerose modifiche, la più appariscente delle quali riguarda il comportamento del protagonista, che in un episodio centrale (I, 3) dimostra la propria fedeltà all’amata Leonilda: di qui il nuovo titolo di Calloandro fedele.

Salutato dai contemporanei come uno dei romanzi più felici dell’epoca, il Calloandro godette sin dalla sua prima apparizione di un’ampia fortuna critica, come documentano gli elogi di Tobia Pallavicino (Degli amori fatali di Clidamante ed Erinta, Genova 1653, cc. A4r-5v) e di Francesco Fulvio Frugoni (Del cane di Diogene i quinti latrati cioè il tribunal della critica, Venezia 1687, pp. 282 s.). Dal secolo successivo fu invece considerato per unanime giudizio critico come un esempio del cattivo gusto della produzione romanzesca del Seicento. Ciononostante, l’opera ebbe grande fortuna editoriale: si danno più di trenta stampe in lingua italiana, l’ultima delle quali risale addirittura al 1887. Ampio il successo avuto anche fuori d’Italia: la prima traduzione è quella tedesca, curata da Johann Wilhelm von Stubenberg (Norimberga 1656), che seguiva il testo della prima redazione secondo la stampa veneziana. Al 1668 risale la prima traduzione francese, curata da Georges de Scudéry e limitata alla sola prima parte (Paris 1668; la traduzione del seguito è conservata a Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal, Mss., 2294); a questa fece seguito una seconda traduzione di Anne-Claude de Tubières, conte di Caylus, pubblicata ad Amsterdam nel 1740 e poi a Lione nel 1788, preceduta da un’importante prefazione di Claude Delandine sul romanzo di cavalleria (su cui cfr. la recensione anonima in Journal encyclopédique ou universel, IV [1788], parte 3, pp. 425-433). Indice della fortuna in Francia è la lunga segnalazione di Louis Poinsinet de Sivry che compare nella Bibliothèque universelle des romans (I [1779], pp. 3-136). Da ricordare anche due edizioni polacche (s.l. né d., e Cracovia 1762; si conoscono anche otto versioni manoscritte) e un’edizione svedese (Stoccolma 1785).

In data prossima all’ultima stesura dell’opera, il M. compose anche una versione teatrale, che pubblicò solo qualche anno più tardi, dedicandola alla nipote Placidia (Il Calloandro fedele, tragicomedia, Genova 1656). Come risulta dalla lettera al lettore, questa trasposizione fu recitata da una compagnia di teatranti fermatasi a Genova intorno al 1655 e, a dispetto del calore con cui fu accolta, il M. non intendeva darla alle stampe. Il copione tuttavia cominciò a circolare manoscritto e il M., per evitare arbitri editoriali, si decise a pubblicare il dramma. Isolato testimone della circolazione manoscritta è il ms. 2469 della Biblioteca Angelica di Roma, riconducibile a quegli stessi anni: pur nella complessiva identità testuale con la stampa, esso presenta un diverso assetto nella partizione delle scene e degli atti (tre nel manoscritto, cinque nella stampa), e reca alcune lezioni peculiari. Il romanzo conobbe altre trasposizioni teatrali di mano di Partenio Russo (L’Endimiro creduto Uranio, Napoli 1670) e di Andrea Perrucci (Il Calloandro, ovvero L’infedele fedele, ibid. 1698).

Nel 1644, a Milano, comparve il secondo romanzo del M., Le gare de’ disperati.

«Nate fra gli ozi di una breve assenza dalla sua patria» (p. 7), le Gare presentano una mole più asciutta, ferme restando le peculiarità di un elaborato intreccio narrativo. Il romanzo narra le vicende di due principi nemici, Radamantero e Formidauro, che si contendono l’un l’altro la palma di cavaliere più sfortunato: ciascuno dei due, infatti, è innamorato di quella che crede essere la propria sorella; alla fine tutti gli enigmi sono felicemente risolti. L’opera fu riveduta e ampliata dallo stesso M., che la ripubblicò a Genova nel 1653 (secondo Soprani nel 1654) col titolo di Nuove gare de’ disperati; se si esclude una ristampa genovese del 1665, le numerose edizioni successive (in numero quasi pari a quelle del Calloandro) riproducono tutte il testo della prima redazione. Come già era accaduto per il Calloandro, le Gare furono oggetto di una versione teatrale d’autore (Le gare de’ disperati, tragicomedia, Genova 1660), che anche in questo caso metteva in scena la seconda redazione dell’opera. La versione romanzesca conobbe discreta fortuna anche fuori d’Italia, in special modo in Francia (cinque edizioni tra 1731 e 1788).

Gli scherzi di fortuna a pro dell’innocenza, l’ultimo romanzo del M., furono pubblicati a Genova nel 1662.

Ambientato tra Spagna e Paesi arabi, mette in scena la vicenda di Cleonte, figlio del re di Granada, e di Ramira, damigella al servizio della figlia del re di Marocco. Anche qui particolarmente accentuato è il gusto per la complicazione dell’intreccio (scopo del M. è «rinvenir gli accidenti, unirli, intrecciarli, scioglierli e spiegarli», c. †7r) e per lo stupefacente scioglimento degli eventi; a differenza dei precedenti romanzi, l’ambientazione è ora cristiana. Nel 1666, sempre a Genova, il M. ne pubblicò una redazione più ampia con il titolo Nuovi scherzi di fortuna.

Accanto alla produzione romanzesca si hanno del M. alcuni scritti a carattere devozionale, nei quali peraltro egli fa mostra di sconfessare i propri romanzi.

Primo di questi è il Cras et nunquam moriemur (Roma 1646, seguito da almeno cinque ristampe): preceduto da una dedica all’arcivescovo di Genova Stefano Durazzo, si divide in due parti, nelle quali si mostra la brevità della vita terrena e si invita alla redenzione in vista della vita celeste. Nel Caso non a caso (Genova 1650) si esorta il cristiano a riconoscere nel mondo non una serie di accidenti casuali, quanto piuttosto il disegno del progetto divino. Posteriore sarebbe la Schiavitudine mondana ridotta in libertà (Milano 1652), pubblicata anonima e ancora irreperibile. Di rilievo, infine, è la Settimana santa ben avventurosamente sfuggita (Genova 1657), sorta di Decameron religioso, nel quale si immagina che sette giovani, ritiratisi fuori Genova, si narrino le vite dei santi durante la settimana santa.

Del M. restano infine alcuni carmi latini in lode del medico genovese Sebastiano Bado (in S. Bado, Anastasis corticis Peruviae, seu chinae chinae defensio, Genuae 1663, cc. a3v-a4v), cui il Bado rispose dedicando al M. il suo Phlebotomiae necessitas, asserta in variolis, morbillis, exanthematis etiam apparentibus (ibid. 1663, cc. A2r-v).

Il M. morì a Genova il 26 giugno 1668. La sua tomba è tra quelle della famiglia De Marini nella cattedrale di S. Lorenzo.

Parti del Calloandro fedele e della prima redazione degli Scherzi di fortuna si leggono in Trattatisti e narratori del Seicento, a cura di E. Raimondi, Milano-Napoli 1960, pp. 769-822, 823-829; ampi stralci del Calloandro in Romanzieri del Seicento, a cura di M. Capucci, Torino 1974, pp. 259-461; alcuni brani in traduzione francese sono in H. Albani, Invitation à la lecture des romans baroques: quelques pages traduites de Biondi et de M., in Chroniques italiennes, I (2000), pp. 252-271.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Mss., 495, p. 232; Arch. segr., 2859.B (14 genn. 1609); Senato, Sala Senarega, 1726 (12 ott. 1612); 1768 (26 apr. 1617); 1815 (14 luglio 1622); 1848 (18 dic. 1626); 1864 (5 apr. 1628); 1925 (3 sett. 1633); 1928 (29 dic. 1633); Genova, Biblioteca civica Berio, m.r. VIII.2.30: F.A. Buonarroti, Alberi genealogici di diverse famiglie nobili, p. 413; X.2.186: A. Della Cella, Famiglie di Genova antiche e moderne, estinte e viventi, nobili e popolane, pp. 923 s.; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, Roma 1667, pp. 303a-304a; R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova 1667, pp. 138 s.; A. Oldoini, Athenaeum Ligusticum, Perusiae 1680, p. 294; A. Albertazzi, Il più famoso romanzo del Seicento, in Lettere e arti, II (1890), pp. 447-449; Id., Romanzieri e romanzi del Cinquecento e del Seicento, Bologna 1891, pp. 198 s., 250-280; Id., Il romanzo, Milano 1902, pp. 93-98; G. 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