LAMPUGNANI, Giovanni Andrea

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LAMPUGNANI, Giovanni Andrea

Francesca M. Vaglienti

Figlio terzogenito di Pietro, dottore in entrambi i diritti, e di Orsina Vistarini, nacque intorno al 1430 forse a Legnano, dove il padre abitava il castello di S. Giorgio e gestiva il patrimonio del casato.

All'indomani della congiura contro il duca Galeazzo Maria Sforza, che aveva visto il L. protagonista ed esecutore principale, il casato Lampugnani, nel vano tentativo di evitare confische e condanne per complicità, giunse a inventare originali stratagemmi prosopografici per sostenere che l'omicida non apparteneva alla famiglia e che suo padre, Pietro, era in realtà un membro dei Litti, o Lissi, insignito dell'illustre cognome per volontà di Oldrado Lampugnani: in tal senso testimoniarono, nel 1477, sia Giovanni Lampugnani, del fu Erasmo, abitante nella parrocchia di S. Babila a Milano e commissario ducale a Novara, sia il nobile Giovanni Lampugnani, del fu Ambrogio, abitante nella parrocchia di S. Pietro alla Vigna a Milano. Un'ipotesi forse troppo fantasiosa, ora come allora, per confutare la nutrita documentazione che testimonia invece la legittimità dei natali del tirannicida, ma significativa della distanza che il casato voleva frapporre tra sé e l'autore dell'attentato contro lo Sforza.

Il L., insignito del titolo onorifico di nobiluomo, fu nominato cancelliere del Consiglio segreto il 1° ag. 1465 e fu riconfermato nell'incarico nel 1467. Impegnato più nella difesa del patrimonio familiare - cosa che gli procurò sempre forti opposizioni - che nell'ascesa sociale presso la corte ducale, sembra si sia poco interessato alla carriera amministrativa a Legnano, dove la violenza delle faide consortili influenzò tutta la sua esistenza e lo segnò anche nel corpo, poiché rimase claudicante: fu più volte coinvolto nelle lotte locali, come l'aggressione di Cristoforo da Iseo a lui e a Gabriele Cambiaghi nel 1466.

La compresenza a Legnano di un elevato numero di casati nobiliari con un passato di grande lustro e potenza - ma parzialmente emarginati dai gangli vitali del potere centrale - arroccatisi nelle sedi originarie di campagna, dove ancora contavano una vasta e fitta rete di clientele e potevano esercitare quel ruolo egemonico da cui erano stati esautorati a Milano, aumentava le occasioni di frizione. Inoltre, morto il potente Oldrado Lampugnani, i rami legnanesi della famiglia subirono un tracollo, in particolare per quanto concerneva i rapporti privilegiati sempre vantati sia con il potere ducale sia, soprattutto, con la Chiesa ambrosiana. A questo periodo risalgono infatti alcune controversie di grande rilievo per comprendere il progressivo declino cui andava incontro il casato, nonostante gli sforzi compiuti per mantenere una posizione se non egemonica, almeno di prestigio dal punto di vista politico, sociale ed economico, tanto nel contado quanto nella capitale del dominio. Significativo in proposito l'atteggiamento tenuto da Galeazzo Maria Sforza nei confronti di Cristoforo Lampugnani, cugino e protetto del L., in lite con la vedova e gli eredi del conte Ottone Mandelli. La controversia, tramandata da fonte successiva agli avvenimenti, era sorta perché Cristoforo aveva sposato in segreto una figlia naturale del conte, disonorandone la famiglia, e pretendeva "contra ogni iusticia" che gli venisse corrisposta la dote destinata alla fanciulla; poiché il Mandelli gliela aveva negata, "ditto Christophoro, cum instigatione del ditto traditore Johanne Andrea, fece lamenta al prelibato [duca], qual feci da digno principe como hera, dando resposta conveniente cum dire, viva voce et coram populo: se non se levava davanti il faria impichare per la gola et che may non voleva havesse niente et instanti comisse a lo magnifico d. Cicho [Simonetta] dovesse scrivere a tuti li soy senati et magistrati li dovesseno dare ripulsa, havendo oltremodo exoso simile machinamento cum vergogna" (Vaglienti, 1995, p. 153).

Si può ben immaginare lo scandalo suscitato a corte dalla dura reazione dello Sforza e la profonda ferita all'onore del casato Lampugnani da essa inflitta. Un ulteriore evidente segno della disgrazia in cui versava il casato nella seconda metà del secolo si era del resto già manifestato quando l'arcivescovo di Milano, Stefano Nardini, aveva stabilito, intorno al 1465, di non rinnovare la conduzione della possessione di Legnano ai fratelli Giacomo e Rainaldo Lampugnani, i quali - pronti a contrastare a tutti i costi la decisione del prelato - progettarono di "innovare cose asai in questo facto et investire massari de ditta possessione, non perché ad questo tempo bisogna, ma per loro appetito" (ibid.).

Ancora più gravida di conseguenze e drammatica nella forma la frattura intervenuta, nello stesso periodo, tra i Lampugnani e il monastero di Morimondo, per i beni che Bartolomeo Lampugnani con il L. e suo fratello Bernardo detenevano a livello, insieme con Antonio da Mozzate e Pietro Birago. Si giunse alla revoca e all'annullamento pontifici della "investitura facta per lo abbate de Morimondo" e il papa Paolo II intimò al religioso e ai suoi monaci "sotto pena de excomunicatione debbano anchora loro revocare et annullare essa investitura come ha facto luy" perché "facta con grandissima iactura et danno del monastero" (ibid., pp. 153 s.). Mentre Pietro Birago, con il fratello Francesco feudatario di numerose località della Lomellina pavese, dal 1466 sarebbe divenuto uno dei più importanti favoriti del duca Galeazzo Maria, al L. toccò sorte inversa. Egli infatti rischiò di essere scomunicato dall'abate di Morimondo, Matteo Castiglioni, dovette pagare al duca una sanzione di 200 ducati e assistette impotente all'assegnazione dei beni controversi al vescovo di Como e consigliere segreto Branda Castiglioni, il quale pare non avesse esitato a minacciare l'incolumità del L. sino al maggio 1476.

Perso l'aperto favore ducale, infatti, il casato divenne facile bersaglio di una serie considerevole di attacchi, più o meno violenti e giustificati, da parte di famiglie e consorterie tradizionalmente nemiche che solo la protezione accordata dai signori di Milano a Uberto prima e a Oldrado poi aveva sino ad allora frenato nella loro volontà di vendetta: così, intorno al 1470 i fratelli Ottaviano, Battista e Zanotto Visconti minacciarono Stefano Lampugnani di farlo "tagliar in peze" per meglio procedere all'usurpazione della possessione di sua moglie, Caterina d'Arlate (ibid., p. 155). In questo quadro non stupisce la crescente acrimonia del L. contro il duca Galeazzo Maria, causa della disgrazia in cui da oltre un decennio versava il casato e a cui il L. opponeva feroce resistenza contro i suoi stessi congiunti: quando si trattò di versare alla Camera ducale i 200 ducati per avere contravvenuto alle disposizioni del principe sull'assegnazione dei beni di Morimondo, il L. tentò, insieme con il fratello Bernardo, di estorcerli a Bartolomeo Lampugnani, come denunciò lo stesso allo Sforza, peraltro ringraziandolo di aver avuto salva la vita in cambio di una sanzione pecuniaria.

Orfeo Cenni da Ricavo, fedele al duca assassinato, ebbe occasione di definire il L. "cattivo, maligno, superbo, colericho, vendichativo, sciellerato e della peggiore natura e condizione che nascesse mai"; di contro il bolognese Nicola Capponi, detto Cola Montano, lo ricordava "di maschia indole, generosa e aperta" (Belotti, p. 61). Di certo, le testimonianze documentarie tratteggiano una personalità dalle forti tinte tragiche che proprio il fortuito incontro con Cola Montano, nel 1474, avrebbe fatto emergere in tutta la sua potenzialità distruttiva.

Il primo incontro tra il L. e il Montano avvenne in occasione della raccomandazione mossa in favore di Alessandro Albico, esule fiorentino, che aspirava alla carica di capitano ducale di Parma, ottenuta proprio grazie all'intercessione del Lampugnani. Complice una condivisa avversione verso lo Sforza, nacque tra i due una forte amicizia, poi estesa al giovane Girolamo Olgiati, tra i primi allievi del Montano.

Poco credibile, sebbene pittoresca, l'ipotesi - ripresa dal Belotti - che l'idea della congiura sia nata dal risentimento del L. per il fallito tentativo del duca di possedere sua moglie nel lontano 1468: lo stratagemma di allontanarlo da Milano, inviandolo a Genova, per commettere più agevolmente lo stupro è confutato dal fatto che il L. non si recò mai nella città ligure, cui era stato in un primo tempo destinato per accogliere, insieme col resto del seguito ducale, Bona di Savoia, promessa sposa del principe. Più probabile che le ragioni dell'astio risiedessero nell'indifferenza che Galeazzo Maria dimostrava per il caso di Morimondo, ormai saldamente nelle mani di Branda Castiglioni, sempre più arrogante nel difendere i propri diritti. Di sicuro, lo Sforza non avvertì mai lo stato di crescente odio che il L. andava maturando nei suoi confronti, se lo nominò, proprio nel 1474, membro del Consiglio generale di Milano.

Nel 1476 il clima politico ormai incandescente finì per agevolare i piani degli avversari del duca, tra i quali i suoi stessi fratelli, Sforza Maria e Ludovico, che in giugno, nel corso di una seduta consiliare nel castello di Pavia, tentarono di pugnalarlo. Tra la fine di agosto e i primi di settembre 1476 prese corpo il progetto di uccidere lo Sforza, cui non furono estranei né Luigi XI di Francia né i fratelli Sforza Maria e Ludovico. L'organizzazione della congiura fu affidata al L., che coinvolse nel piano, oltre all'amico Girolamo Olgiati, Carlo Visconti e una eterogenea e nutrita schiera di favoreggiatori, cui affidò un ruolo secondario. Tra i congiurati fu anche il fratello del L., Bernardo, impiccato dopo l'assassinio del duca. Scelti gli uomini, il L. concentrò la sua attenzione sul luogo e il momento: fu deciso di sfruttare la consuetudine dei duchi di recarsi alla messa nel giorno di S. Stefano nella chiesa omonima. La mattina del 26 dic. 1476 il L., G. Olgiati e C. Visconti, scortati dai loro seguaci, si recarono nella chiesa di S. Stefano in attesa del duca. Mancò poco, tuttavia, che l'intero piano fallisse, perché lo Sforza e il suo seguito, scoraggiati dall'imperversare del cattivo tempo, furono tentati di rinunciare all'impegno; sennonché il duca, nel timore di deludere le aspettative dei sudditi, decise infine di recarsi alla celebrazione.

Entrato in chiesa, Galeazzo Maria fu fermato dal L. che - fattosi largo tra la folla di feudatari, gentiluomini, cortigiani e dame stretti intorno al principe - cadde alle sue ginocchia per presentare una pretestuosa supplica in favore del suo casato. Il duca reagì irritato, ritenendo "illum […] non aptum colloquio tempus" (D'Adda, p. 287) e il L. replicò conficcando il pugnale, nascosto sotto il mantello avvolto intorno al braccio, nell'inguine del duca. L'oratore mantovano Zaccaria de' Saggi, che si trovava a fianco dello Sforza, diede al L. una spinta "de la mano nel petto, non lo cognoscendo e credendo che 'l fosse un pazzo. Lui replicò un'altra botta pur nel petto [dello Sforza] et alhora conobbi che 'l haveva ferrito el prefato signore a morte, el quale non cridoe né parloe altra parola, se non che me guardoe e disse: Io sonno morto" (Arch. di Stato di Mantova). Dopo il secondo colpo del L., che raggiunse Galeazzo Maria allo stomaco, gli altri due congiurati si avventarono sul duca e tutti insieme lo finirono a colpi di pugnale. Nella chiesa si scatenò il panico; il L., fuggendo, inciampò nelle vesti di una dama, cadde e fu ucciso sul posto dal Moro, o Moretto, fedele provvisionato del duca che, dopo lo sbandamento iniziale, si diede affannosamente a colpire e catturare quei congiurati che, meno lesti di altri, non si erano ancora dileguati.

Sulla volontà comune di garantire la continuità del potere ducale testimoniano i resoconti, ufficiali o meno, trasmessi ai potentati italiani e stranieri per illustrare l'accaduto: sulle evidenti analogie che i congiurati intesero stabilire con la tradizione dei tirannicidi resi giuridicamente legittimi dall'iniquità manifesta del principe, tanto i presenti quanto i cronisti tacquero volutamente, preferendo rifarsi alle gesta, universalmente condannate, di Catilina e dei suoi seguaci: così Zaccaria de' Saggi ricorda che "Zohanne Andrea da Lampugnano […] era malissimo disposto verso il signore, come s'è visto per effetto, ha tenuto de' modi di Catilina per tirarse qualche desviati e malcontenti al suo proposito, costui ha continuato un buon pezzo di dare cena la sera a molti disviati giovani - come ho detto - et in casa sua, oltre le cene, si facevano molte altre dissolutione convenente al suo proposito" (ibid.).

Il governo di reggenza si dimostrò riluttante a prendere provvedimenti che, oltre lo stretto indispensabile per salvare le apparenze, colpissero le persone marginalmente coinvolte nell'attentato, come le famiglie dei congiurati o "quelli che andarono a la dicta ecclesia, ma del nefando tracto innocenti" (Arch. di Stato di Milano, Potenze sovrane, cart. 1462). Del destino del L. fornì una puntuale e feroce sintesi la duchessa Bona, reggente per il giovane Gian Galeazzo, ai castellani di Masserano e Crevalcuore: "Havereti inteso del inopinato et infelice caso de la morte intervenuta al nostro illustrissimo consorte, el quale heri matina in la Ghesia de Sancto Stefano sotto spezia de visitatione fu percoso da più ferite da uno traditore Johanne Andrea da Lampugnano et certi altri pochi suoi seguaci et lui poi fu subito tagliato a pezi e stracinato per li piedi per tutta la nostra cità da li puti. La qual cità ha facto e fa grande demonstratione de la fede et devotione sua verso nuy et Stato nostro et sta costante in la solita fedeltà soa et piange la missione et la perdita del suo signore; il simili han facto et fano le altre citadi del dominio nostro" (Andenna, p. 354).

L'uccisione del duca a opera di un Lampugnani compromise pesantemente il destino di tutto il casato, che invano tentò di dimostrarsi estraneo alla congiura: sin dal 1447 Baldassarre Lampugnani gestiva l'ospedale di S. Erasmo, ma dopo il delitto dovette rinunciare alla carica in favore di Gian Rodolfo Vismara; la torre angolare sudest del castello di Sulbiate, infeudato a Paolo Lampugnani nel 1452 dal duca Francesco, venne mozzata e alcuni beni della famiglia confiscati. Le case del L., a Milano e a Cambiago, furono saccheggiate, e il suo intero patrimonio fu confiscato dalla Camera ducale.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-sforzesco, Potenze sovrane, cart. 1462; Fondo famiglie, cart. 95, Lampugnani; Arch. di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, Carteggio degli inviati e diversi, cart. 1625; B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, II, Torino 1978, pp. 1408-1413; C. Santoro, Gli uffici del dominio sforzesco (1450-1500), Milano 1948, p. 33; C. Cantù, Nozze di Bona Sforza e lettere di Tristano e Galeazzo Maria Sforza, in Arch. stor. lombardo, II (1875), pp. 179-188; G. D'Adda, La morte di Galeazzo Maria Sforza, ibid., pp. 284-294; A. Bertolotti, Spedizioni militari in Piemonte sconosciute o poco note di Galeazzo Maria Sforza duca di Milano, Milano 1883; E. Motta, Un documento per il Lampugnano uccisore di Galeazzo Maria Sforza, in Arch. stor. lombardo, XIII (1886), pp. 414-418; A. Cappelli, Per un libello contro Galeazzo Maria Sforza, ibid., XXIV (1897), pp. 141-161; E. Casanova, L'uccisione di Galeazzo Maria Sforza e alcuni documenti fiorentini, ibid., XXVI (1899), pp. 299-332; E. Motta, Ancora sull'uccisione di Galeazzo Maria Sforza, ibid., XXXVI (1909), pp. 403-413; G. Sutermeister, Il castello di Legnano, in Memorie della R. Deputazione lombarda di storia patria. Sezione di Legnano, VIII (1940), pp. 64-66; F. Catalano, La fine violenta di Galeazzo Maria Sforza, in Storia d'Italia (UTET), II, Dalla crisi della libertà agli albori dell'illuminismo, Torino 1959, pp. 71-100; F. Fossati, Una "piacevolezza" dell'abate di Casanova, in Arch. stor. lombardo, LXXXVII (1960), pp. 414-418; B. Belotti, Storia di una congiura (Olgiati), Milano 1965; V. Ilardi, The assassination of Galeazzo Maria Sforza and the reaction of Italian diplomacy, in Violence and civil disorder in Italian cities. 1200-1500, a cura di L. Martines, Berkeley-Los Angeles-London 1972, pp. 72-103; P. Orvieto, Capponi, Nicola, in Diz. biogr. degli Ital., XIX, Roma 1976, p. 84; E. Garin, La cultura a Milano alla fine del Quattrocento, in Milano nell'età di Ludovico il Moro. Atti del Convegno…, Milano 1983, pp. 21 s.; P. Pissavino, Stato regionale e potere. Appunti su scritture politiche d'età visconteo-sforzesca, in Metamorfosi di un borgo. Vigevano in età visconteo-sforzesca, a cura di G. Chittolini, Milano 1992, p. 409; R. Fubini, Italia quattrocentesca. Politica e diplomazia nell'età di Lorenzo il Magnifico, Milano 1994, pp. 107 s.; F. Leverotti, "Governare a modo e stillo de' Signori…". Osservazioni in margine all'amministrazione della giustizia al tempo di Galeazzo Maria Sforza duca di Milano (1466-1476), in Arch. stor. italiano, CLII (1994), pp. 3-134; G.P. Lubkin, The court of Galeazzo Maria Sforza, duke of Milan (1466-1476), Berkeley-Los Angeles-London 1994; E. Saita, Fra Milano e Legnano: il testamento di Gian Rodolfo Vismara (1492), in L'alto Milanese nell'età del Ducato, a cura di C. Tallone, Varese 1995, pp. 40, 52, 61 s.; F.M. Vaglienti, "Non siando may puniti de li excessi fati, ogni dì presumono fare pegio": violenze consortili nella Legnano di fine '400, ibid., pp. 153-155; L. Pesavento, L'umanista e il principe. La "Vita ducum" di Pietro Lazzaroni, Pisa 1996, pp. 90, 92; G. Andenna, "L'opportunità persa" ovvero La residenza ducale di Galliate nel secondo Quattrocento, in Vigevano e i territori circostanti alla fine del Medioevo, a cura di G. Chittolini, Abbiategrasso 1997, pp. 354, 363; F.M. Vaglienti, Anatomia di una congiura. Sulle tracce dell'assassinio del duca Galeazzo Maria Sforza tra scienza e storia, in Atti dell'Istituto lombardo. Accademia di scienze e lettere di Milano, 2002, n. 4, pp. 237-273; Id., Visioni e controllo politico dell'immaginario nella società lombarda fra XIII e XIV secolo, in Contado e città in dialogo…, a cura di M.L. Chiappa Mauri, Milano 2003, pp. 491-510.

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