GIOVANNI ANTONIO da Brescia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIOVANNI ANTONIO da Brescia

Alessandro Serafini

Non si conosce la data di nascita di questo incisore, di cui nessuna fonte cinquecentesca menziona il nome e sul quale non esistono riferimenti documentari. La sua carriera è ricostruibile grazie a ventisette incisioni a bulino con le segnature "Io. An. Bx.", "Io. An. Brixia.s" o "Io. Anton. Brixian.", di cui solo tre datate, e ad altre a lui attribuite (Hind).

Probabilmente, quando era già abbastanza avviato nell'arte del bulino, G. si recò a Mantova per unirsi alla bottega di Andrea Mantegna. L'incontro dovrebbe essere avvenuto intorno agli anni 1485-90, periodo in cui Mantegna decise di servirsi di collaboratori specializzati nell'incisione, e forse di uno soltanto, per ottenere una più rapida ed efficace riproduzione e una maggiore divulgazione delle sue opere.

La presenza di G. a Mantova e il suo ruolo all'interno della cosiddetta scuola di Mantegna non sono però concordemente accettati dagli studiosi: il problema investe necessariamente anche la partecipazione dello stesso capobottega alla pratica dell'incisione, su cui esistono ipotesi discordanti, nonché il rapporto di G. con gli altri incisori mantegneschi, come Zoan Andrea, il Maestro del 1515 e Nicoletto da Modena. Sulla questione si è aperto un vivace dibattito critico in occasione della mostra su Mantegna tenutasi a Londra e a New York nel 1992: nei saggi del catalogo Boorsch e Landau, nonostante le loro differenti opinioni su Mantegna stampatore, hanno proposto una suggestiva revisione del profilo biografico di Giovanni Antonio. In particolare Boorsch (pp. 56-66) ha tentato di dimostrare come l'incisore che segnò ventuno stampe col monogramma "Z. A." non sarebbe stato, come finora si era creduto, Zoan Andrea, bensì lo stesso G., che in un primo momento - relativo grosso modo alla sua permanenza all'interno dell'entourage mantegnesco - avrebbe usato la sigla veneta ("Z. A." per "Zoan Antonio"), e solo più tardi quella latina ("Io. An. Bx." per "Ioannes Antonius Brixianus"). La cancellazione dell'opera calcografica di Zoan Andrea e l'assegnazione a G. di tutte le stampe siglate "Z. A." o "I. A.", e quindi di tutte le altre attribuite a Zoan, implica però l'ampliamento vertiginoso del catalogo di G., con il problematico spostamento della produzione firmata indubbiamente dallo stesso G. a una data più tarda, dopo la morte di Mantegna (1506), e un affollamento di opere, qualitativamente molto distanti, tra il 1506 e il 1507, anno in cui per la prima volta la firma latina compare associata a una data. Oltretutto, alcune stampe con la sigla "Z. A." sono desunte da Leonardo e presentano influenze della cultura figurativa milanese, il che si spiegherebbe solo supponendo da parte di G. un'eccezionale, se non unica, capacità di adattamento all'imitazione di stili così diversi. Queste difficoltà hanno indotto alcuni studiosi, come Furlotti e Oberhuber (1995), a rigettare l'ipotesi di Boorsch. In effetti, se la scomparsa di Zoan Andrea incisore, secondo un suggerimento peraltro non nuovo, è perfettamente credibile, l'identificazione di G. col monogrammista "Z. A." non chiarisce, e anzi finisce per complicare il percorso artistico del bresciano; né da sola risolve la questione intricatissima delle stampe mantegnesche, la cui attribuzione d'altronde - in un contesto di riproduzione meccanica spesso incontrollata e di riuso spregiudicato delle lastre già incise - rimane un problema secondario. Stando così le cose, per il momento è preferibile accettare la proposta di Matile (pp. 89-91) di isolare il gruppo delle stampe siglate "Z. A.", lasciandole a un incisore anonimo che le indagini future potranno identificare o meno in G.; rimane invece del tutto aperto il campo delle stampe non firmate, dove ogni attribuzione e datazione può basarsi soltanto su elementi materiali, tecnici e stilistici.

Il periodo mantegnesco di G. è documentato da una serie di stampe, quasi tutte di buona qualità, databili tra l'ultimo decennio del Quattrocento e l'inizio del secolo successivo: sono per lo più copie tratte da lavori del maestro, ricavate sia dai suoi disegni, sia, e più spesso, da altre stampe. Nel novero delle incisioni firmate spiccano le due varianti di Ercole e Anteo, che Mantegna aveva studiato in più occasioni.

In una (Hind, p. 36 n. 3) Ercole alza il gigante di fianco come in un disegno conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze; nell'altra (ibid., n. 1) i due lottatori sono affrontati e l'eroe solleva Anteo petto contro petto. La popolarità del motivo spiega le tante repliche, non tutte autografe, e il costante riuso in contesti diversi, come nelle maioliche e nelle miniature (Mezzetti, 1961); mentre l'iscrizione "Divo Herculi invicto" è verosimilmente un omaggio a Ercole I d'Este, duca di Ferrara e padre di Isabella marchesa di Mantova, incarnazione moderna del semidio il cui mito riviveva a contatto con gli eroi della tradizione cavalleresca.

La dedica a Ercole I d'Este si trova anche nell'Ercole contro il leone Nemeo, che al pari dei precedenti, per l'acerbità e la goffaggine del segno, può essere indicato come uno dei primi lavori di Giovanni Antonio. Ragioni puramente stilistiche inducono ad attribuire a G. la Sacra Famiglia con i ss. Elisabetta e Giovannino (1495-1500), di cui si conoscono interessanti filiazioni nella pittura lombarda di primo Cinquecento (Agosti). Anche numerose incisioni anonime, un tempo lasciate genericamente alla scuola di Mantegna, sono assegnabili a G. e databili allo scorcio del secolo (Boorsch): così una versione delle Quattro muse danzanti, tratte dal cosiddetto Parnaso completato da Mantegna entro il 1497, le tre copie dai Trionfi di Cesare (Elefanti, Portatori di corsaletti e Senatori) e la Sepoltura di Cristo con tre uccelli, incisa nello stesso verso dell'originale ma con un volatile in meno.

Da un punto di vista tecnico tutte queste incisioni sono inconfondibilmente mantegnesche: la modellazione delle figure e le ombreggiature sono ottenute attraverso un tratteggio fine e regolare di tratti paralleli, con un ritorno di segni più leggeri posti tra le linee per ottenere maggiore spessore, integrati a volte da tagli a zig-zag. Mentre nei suoi primi lavori G. mostra una conduzione del bulino rigida e schematica, che lo porta a realizzare figure dure e metalliche, successivamente egli tenta di migliorarsi, adottando una tipologia di segni incrociati posti ad angolo acuto sopra i tratti diritti, producendo così un fondo grigio molto delicato ed efficace, come si vede nel secondo stato della Sacra Famiglia con i ss. Elisabetta e Giovannino (Londra, British Museum) e nel Cristo davanti a Pilato, databile al 1500-05 (Sheehan, p. 242).

Il salto di qualità rispetto alle prime incisioni è ben visibile anche in un gruppo di stampe non firmate, già attribuite a Zoan Andrea, ma che meglio rientrano nella produzione di G. all'inizio del Cinquecento, come la Sepoltura di Cristo, il Cristo risorto tra i ss. Andrea e Longino, il Cristo al Limbo e la Virtus combusta-Virtus deserta, tutte da Mantegna.

Soprattutto l'ultima, composta da due incisioni unite una sopra l'altra, è un lavoro tecnicamente molto elegante, caratterizzato da una complessa iconografia che illustra il contrasto tra la Virtù e l'Ignoranza, così come era stato formulato da Leon Battista Alberti nel dialogo Virtus, scritto intorno al 1450 (Opera inedita et pauca separatim impressa, a cura di G. Mancini, Firenze 1890, pp. 132-135). Per la vicinanza tematica e stilistica con la Pallade che scaccia i vizi (1502), anche quest'immagine deve essere stata ideata da Mantegna per lo studiolo di Isabella d'Este; e d'altronde la ricercatezza del soggetto rimanda alla cultura umanistica che si veniva elaborando nella corte mantovana di Francesco II Gonzaga e di sua moglie, dove le citazioni classiche e le allegorie dal difficile simbolismo trovavano occhi pronti alla comprensione e alla speculazione, in un gioco divertito di rimandi e di allusioni erudite.

La morte di Mantegna, nel settembre 1506, mise fine al primo periodo dell'attività di G.: egli, che fu un abile incisore di riproduzione, pressoché incapace di inventare stampe originali, fu costretto a cercarsi un altro artista col quale intraprendere una relazione d'affari simile alla precedente. Esistono infatti dei lavori che, sebbene ancora legati alla tecnica del tratteggio parallelo, sono per il resto indipendenti da Mantegna e mostrano invece l'influsso dell'incisore vicentino Benedetto Montagna. Non si sa se G. abbia soggiornato realmente a Vicenza. Di certo intorno al 1506 egli venne in possesso della lastra di Benedetto con la Vergine in adorazione del Bambino, che reincise apponendovi la sua sigla latina: l'impressione conservata al British Museum di Londra presenta le tracce originarie dell'inchiostro rosso, testimonianza tra le più antiche di una pratica che in quegli anni non doveva essere insolita (Landau - Parshall, pp. 384 s. n. 113). Egli adattò poi in controparte la versione piccola della S. Caterina, sempre di Benedetto Montagna, per un'incisione non firmata rappresentante S. Barbara.

Entrambe le stampe, derivate più o meno legittimamente dal maestro vicentino, dimostrano come G. fosse perfettamente integrato al mercato che ruotava intorno alle calcografie; egli acquistava le lastre di altri stampatori, sostituiva la vecchia segnatura con la propria, ne tirava diverse prove che poi vendeva come sue creazioni: ciò che facevano anche altri incisori, quali Nicoletto da Modena e Israel van Mackenem.

Nello spirito di Benedetto Montagna, e del padre di questo, Bartolomeo, G. eseguì e firmò altre incisioni, databili alla metà del primo decennio: la Vergine col Bambino in un paesaggio, il S. Pietro, dal panneggio ingombrante e angoloso, la Giustizia e la Natività, in cui lo scenario con alberi e case manifesta la conoscenza dei paesaggi di Albrecht Dürer. Tra il 1505 e il 1510, infatti, G. ebbe modo di studiare il maestro di Norimberga copiando (e firmando) quattro suoi bulini: la Famiglia del satiro, datato 1507, il Figliol prodigo, il Grande cavallo, con notevoli modifiche rispetto all'originale, e il cosiddetto Sogno del dottore (o la Tentazione dell'accidia).

Sebbene si tenda a ritenere trascurabile l'influenza di Dürer sulla sua arte, rimane il fatto che la costante curiosità di G. verso i raggiungimenti degli altri stampatori e anche la semplice applicazione all'imitazione di opere di così alta raffinatezza aggiunsero sicuramente qualità alla sua tecnica.

È del 1509 la seconda opera datata di G., la Flagellazione di Cristo.

In questo caso, per realizzare lo sfondo neutro egli utilizza nel primo stato il vecchio sistema dei tratti paralleli (Parigi, Bibliothèque nationale); mentre nel secondo stato si avventura in un finissimo tratteggio a linee incrociate che deriva direttamente da Dürer (Vienna, Albertina). La Flagellazione assume dunque un ruolo fondamentale nella comprensione del percorso artistico di G., non solo perché firmata e datata, ma anche perché mostra relazioni profonde con modelli diversi da quelli fino ad allora sperimentati. Oltre a quella di Dürer, difatti, si possono riconoscere influenze ora dell'arte fiorentina, in particolare delle incisioni di Francesco Rosselli e di Antonio Pollaiolo, ora della scuola ferrarese, anche se la brutalità dei flagellatori e le loro espressioni feroci tendenti al grottesco, come pure il motivo dell'aguzzino che punta il piede sul fianco di Cristo, suggeriscono piuttosto la presenza di modelli dell'arte tedesca. La varietà dei riferimenti culturali di questa incisione può spiegarsi con la vivace circolazione delle stampe, sia italiane, sia d'Oltralpe, senza necessariamente ipotizzare un soggiorno di G. a Firenze o a Ferrara (Zucker, pp. 322-326).

Probabilmente nel 1513 G. giunse a Roma. Il segnale inconfondibile del suo arrivo nella città papale si riscontra in due lavori, inediti per stile e soggetto. Il primo, non firmato, è un Ritratto di Leone X, che non può essere stato inciso prima del 1513, quando il Medici fu eletto pontefice. Il secondo, firmato, è una Venere che, come recita l'iscrizione, rappresenta una statua da poco riscoperta a Roma, forse, ma con alcune varianti, la cosiddetta Venus Felix, che fin dal 1509 si trovava nelle collezioni papali.

Se la figura e il panneggio con le ombre a segni paralleli recano ancora l'impronta della sua prima maniera, il trattamento düreriano del paesaggio, con strisce di terreno sovrapposte, suggerite da linee curve ora dolci ora spezzate, denuncia l'influenza dalle stampe di Marcantonio Raimondi. La Venere, inoltre, presenta tracce di un precedente lavoro eseguito sulla stessa lastra non perfettamente brunita: è un piede con sandalo, assai simile a quello che compare nella Giuditta con la testa di Oloferne, una stampa siglata "Z. A." ricavata da un prototipo mantegnesco (Boorsch, pp. 59 s.): il che però di per sé non è una prova dell'identità tra G. e il monogrammista "Z. A.", visto il costante e indiscriminato riuso da parte di G. di lastre proprie e altrui, peraltro giustificato dal costo elevato del rame (Matile, p. 98).

Lo stile di Marcantonio, dal modellato più continuo e con una più efficace resa spaziale, ottenuta grazie all'integrarsi di tratteggio parallelo e tratteggio incrociato, torna in un'altra incisione tratta da una statua antica: è il cosiddetto Torso del Belvedere - ora nei Musei Vaticani, ma all'inizio del Cinquecento situato ai piedi del colle Quirinale - cui G. aggiunse le gambe.

La riproduzione dei reperti classici, che caratterizza tutto il periodo romano di G., era comunque perfettamente adeguata al particolare clima ideologico e culturale della Roma medicea, dove il fascino per l'antico faceva tutt'uno con la celebrazione del potere pontificio; la replica a stampa delle sculture acquistate dal papato serviva anche a testimoniare la nuova politica di tutela e salvaguardia dei beni artistici, per cui alla conservazione e valorizzazione del reperto erano saggiamente collegate la sua diffusione e pubblicizzazione.

Sempre attento alle novità tecniche proposte dalla calcografia tedesca, dopo il 1513 G. copiò, apponendovi la sua sigla, l'Ecce Homo di Luca di Leida.

Nel primo periodo della permanenza a Roma l'influsso di Raimondi fu però così forte da annullare quasi totalmente il carattere del bresciano, che finì per adottare uno stile impersonale, di semplice e asettica riproduzione dei modelli raffaelleschi, come si vede nella Madonna col Bambino sulle nuvole, nella S. Veronica e nella Donna che versa acqua su una pianta (o la Grammatica).

Risale al 1516 l'ultima opera datata di G.: si tratta di quattro illustrazioni per l'Eneide di Virgilio, copie speculari da altrettanti disegni incisi su un singolo foglio da Raimondi, dove quello centrale, il Quos Ego o Nettuno che placa i venti, è sicuramente un'invenzione di Raffaello. Dipende invece da Amico Aspertini la Caccia al leone, databile tra il 1515 e il 1520, che riproduce un disegno dell'Aspertini dal rilievo di un sarcofago antico. Degli stessi anni sono due stampe di soggetto mitologico che rappresentano un ritorno di G. ai temi giovanili: Ercole e il toro di Creta ed Ercole e Nesso.

Il primo, dal tratteggio incrociato libero e irregolare, deriva da un modello classico ben conosciuto dagli artisti del Cinquecento; il secondo, di attribuzione non unanime, fa parte di un gruppo di quattro incisioni con le Fatiche di Ercole, di cui le rimanenti tre sono di mano di Marcantonio Raimondi (Faietti, pp. 171-175).

In linea col gusto antiquario che trionfò negli appartamenti privati dei maggiori esponenti della corte pontificia, G. eseguì in questi stessi anni una serie di quindici pannelli ornamentali, di cui quattro firmati e uno copiato da Nicoletto da Modena (la Victoria Augusta), che con il loro repertorio decorativo, legato alla moda delle grottesche e forse suggestionato dalle ricerche che nello stesso campo stavano svolgendo Amico Aspertini e Giovanni Pietro da Birago, sarebbero state destinate a molteplici applicazioni sia nell'oreficeria, sia nella decorazione parietale.

In questo stesso arco di tempo G. produsse altre stampe con soggetti molto ricercati da architetti, artigiani e collezionisti: Dettagli architettonici, desunti ancora dai resti della Roma imperiale, e Vasi ornamentali, di più incerta assegnazione.

Tra la fine del secondo decennio e l'inizio del successivo si può collocare una serie di lavori che presentano una migliore qualità tecnica, con i segni del bulino tracciati sottili e radi, disseminati in senso regolare secondo una disciplinata struttura formale. Tra questi vanno segnalati Abramo e Melchisedech, copia in controparte dell'affresco raffaellesco delle logge vaticane, completate entro il 1519, la Scoperta della coppa di Giuseppe, che riproduce un disegno di Baldassarre Peruzzi conservato al British Museum di Londra, databile al 1520 o al 1521 (Pouncey), e la Presentazione della Vergine al tempio, che discende da un prototipo sconosciuto di Raffaello o forse di Giulio Romano, ma visibile in un disegno attribuito a Giovan Francesco Penni (Parigi, Louvre, Cabinet des dessins, inv. n. 4264). Stilisticamente vicine sono le due stampe con Sibille e angeli che riproducono in maniera speculare, ma con alcune varianti, l'affresco della cappella Chigi in S. Maria della Pace a Roma, eseguito da Raffaello quasi un decennio prima (Massari, p. 147).

Sicuramente prima del 1523 deve essere stato inciso anche il Laocoonte, che rappresenta una delle prime riproduzioni a stampa, se non la prima in assoluto, del celebre gruppo scultoreo rinvenuto a Roma il 14 genn. 1506 e subito acquistato da Giulio II, che lo fece sistemare nel cortile del Belvedere. G. lo raffigura in controparte nello stato originario parzialmente rovinato, senza le braccia alzate del sacerdote e del figlio a sinistra: si tratta perciò di un fondamentale documento per l'archeologia e la storia del gusto, in quanto riproduce il Laocoonte prima dei restauri che fin dal 1523 portarono all'integrazione delle parti mancanti (Zucker, p. 352).

Questi sono gli ultimi lavori databili di G. e si può credere che la sua carriera non si sia estesa troppo oltre questa data.

Non si conosce l'anno di morte di Giovanni Antonio.

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