CASTALDO, Giovanni Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 21 (1978)

CASTALDO, Giovanni Battista

Gaspare De Caro

Figlio di Carlo e di Mariella de Raynaldo, nacque nel 1493 nel borgo di Cesinola, presso Cava dei Tirreni. Nel 1515 si trasferì a Napoli, dove si arruolò nell'esercito spagnolo. A questi inizi di carriera, risale l'amicizia del C. con il marchese di Pescara, Ferdinando Francesco d'Avalos, col quale probabilmente partecipò nel 1516 alla spedizione contro Sora, feudo di Francesco Maria Della Rovere, dichiarato ribelle dagli Spagnoli.

Ripresa nel 1521 la guerra tra gli Imperiali e i Francesi, il C. vi prese parte come capitano di cavalleria, esordendo brillantemente contro un contingente di Svizzeri che calavano al soccorso dei Francesi assediati in Parma: insieme con Ferrante Castriota il C. li affxontò nella località di Carbonera, uccidendone circa duecento. Tolto dagli Imperiali l'assedio a Parma nel novembre, il C. prendeva parte a quello vittorioso di Milano e, il 29 apr. 1522, alla battaglia della Bicocca, dove impegnò con il suo reparto di cavalleria l'avanguardia di cavalleggeri francesi comandati da Francesco de' Medici. Mandato quindi a Pizzighettone, riceveva la resa del castellano francese. Inviato il Pescara a Genova da Prospero Colonna per ristabilirvi la signoria degli Adorno, il C. prese parte all'assedio e al successivo saccheggio della città.

Non si hanno notizie sicure relative alla partecipazione del C. alle successive fasi della guerra: quella, indiretta, che egli rimase stabilmente a fianco del Pescara, dopo che questi assunse, nel dicembre 1523, il comando dell'esercito imperiale consente di ritenere che il C. partecipasse anche alle campagne di Piemonte e di Provenza. Rioccupata Milano dai Francesi, il C. partecipò alle operazioni di disturbo abilmente impostate dall'Avalos contro l'esercito di Francesco I, in una tattica dilatoria, imperniata sulla resistenza di Pavia, che consentì agli Imperiali di recuperare le proprie forze, minate dalla spedizione provenzale.

In questa fase della campagna il C. è costantemente al fianco del Pescara, gode della sua confidenza e ne riceve incarichi pericolosi e di grande responsabilità: così nel 1524, quando Antonio de Leyva, al quale era affidata la difesa di Pavia, dovette temere un ammutinamento delle proprie truppe, da troppo tempo prive delle paghe, l'Avalos lo inviò nella città assediata con le somme necessarie al pagamento delle milizie e il C., capitano napoletano, dovette attraversare due volte il blocco dell'esercito francese per riportarsi, assolta felicemente la missione, nelle file del Pescara. Negli scontri che precedettero la battaglia decisiva, il C. si distinse comandando una parte della cavalleria spagnola nei ripetuti attacchi alle linee degli assedianti e a Binasco ebbe la meglio sui reparti francesi comandati da Galeazzo Sanseverino.1 da Teodoro Trivulzio e dal Bonald dei quali conquistò le insegne.

Nella battaglia di Pavia, il 24 febbr. 1525, toccò al C. prendere prigioniero il re di Francia, ottenendo poi del ricco bottino di Francesco I la corona d'oro, di cui si fece fare una collana. Al C. si era anche arreso il più illustre dei condottieri francesi, il vecchio signore de La Palice, che fu però ucciso, nell'atto stesso che consegnava la spada al C., da uno spagnolo invidioso della ricca preda.

Ormai il C. era divenuto uno dei più vicini e fidati collaboratori del Pescara e probabilmente dovette seguire da presso anche le segrete trattative intercorse tra il generale imperiale e il ministro del duca di Milano, Gerolamo Morone, dopo Pavia: e al C. il Pescara affidò il compito di recarsi in Spagna, presso Carlo V, per informarlo del disegno del ministro milanese, di una lega degli Stati italiani, preoccupati dalla preponderanza acquisita dagli Spagnoli a Pavia, contro lo stesso imperatore, una lega alla quale con le più lusinghiere promesse il Morone si ingegnava di guadagnare l'Avalos.

Il C. era nuovamente presso il Pescara quando questi morì il 3 dic. 1525. Secondo il D'Ayala, nel suo testamento l'Avalos avrebbe calorosamente raccomandato il C. all'imperatore. Il C. prese quindi parte, nell'esercito spagnolo ora comandato dal de Leyva, all'occupazione di Milano e poi alla campagna contro l'esercito della lega di Cognac. Nel 1527 era al Sacco di Roma; nel febbraio del 1529 nella fanteria spagnola e italiana che da Roma, guidata dal marchese del Vasto Alfonso d'Avalos, recò soccorso al principe d'Orange assediato in Napoli dal Lautrec. Quindi, ancora alle dipendenze dell'Avalos, fu in Puglia, dove i Francesi, collegati con i Fiorentini e i Veneziani, tenevano desta l'ultima resistenza contro gli Imperiali. Durante questa campagna fu promosso al grado di maestro di campo. Seguì quindi il del Vasto in Toscana, alla guerra contro la Repubblica fiorentina, prendendo parte alla conquista di Cortona, Prato ed Empoli, tra il settembre del 1529 e il maggio 1530, e infine all'assedio di Volterra. Si ignora che cosa facesse il C. quando il del Vasto, offeso della resistenza e dalle irrisioni degli assediati, abbandonò il suo posto di comando per fare ritorno a Napoli: pare probabile che rimanesse con il Maramaldo sino alla resa della roccaforte, prendendo quindi parte alla fase finale dell'assedio di Firenze.

Non si hanno notizie sull'attività militare del C. negli anni immediatamente successivi. Era comunque a Milano nel 1535, al momento della morte di Francesco II Sforza e il 2 novembre era inviato dal de Leyva in Spagna a darne notizia all'imperatore. Al suo ritorno presso il de Leyva fu noniinato provvisoriamente castellano di Cremona, ufficio che resse sino al febbraio 1536. Dopo aver preso parte alla campagna di Piemonte contro i Francesi, durante la quale fu incaricato della guardia di Vercelli, il C. servi per breve tempo nei contingenti imperiali impegnati in Ungheria contro Giovanni Szapolyai, ma già assai prima della conclusione di quella campagna, avvenuta con la pace di Varadino del 1538, aveva fatto ritorno in Italia, poiché Pietro Aretino gli scriveva nel marzo del 1537 accennando a un omaggio di trenta scudi fattogli dal C. "nel tornar dalla guerra d'Ungheria" (P. Aretino, Il primo libro delle lettere, p. 123).

È probabilmente a questo periodo che si deve riferire una notizia ricavabile dall'epistolario del Giovio, secondo il quale Ottavio Farnese sarebbe stato "discepolo" del Castaldo. Già in passato infatti l'imperatore aveva mostrato l'intenzione di affidare al capitano napoletano il compito di assistente militare del duca di Firenze Alessandro de' Medici, contemporaneamente destinato al matrimonio con Margherita d'Asburgo. L'assassinio del duca aveva fatto fallire entrambi i progetti, che è probabile fossero ripresi e attuati insieme quando l'imperatore e Paolo III decisero il matrimonio di Margherita con Ottavio Farnese.

Riapertosi nelle Fiandre il conflitto franco-imperiale con la ribellione del duca di Kleve, il C. seguì sul teatro di guerra fiammingo l'imperatore, quando questi vi si recò dall'Italia dopo aver incontrato Paolo III a Busseto. Nell'agosto del 1543 prendeva parte all'assedio di Dúren e all'occupazione di Júlich e Roermond. Quindi partecipò all'offensiva che portò l'esercito imperiale, sempre sotto il diretto comando di Carlo V, sulle rive della Sambre, a Landrecies, incontro a una forte annata francese comandata dallo stesso Francesco I.

Il C. faceva parte in questa circostanza del consiglio di guerra dell'imperatore e pare che avesse lucidamente preveduto la possibilità che il re di Francia si sottraesse allo scontro, proponendo opportune misure per tagliargli la ritirata, che invece avvenne senza il minimo disturbo da parte imperiale. I consigli del C. non ebbero probabilmente ascolto per le solite difficoltà finanziarie di Carlo V e per lo stato orinai avanzato della stagione invernale che impedivano una prosecuzione ad oltranza della campagna.

Durante la stasi invernale delle operazioni di guerra il C. accompagnò in Inghilterra Ferrante Gonzaga, che si recava presso Enrico VIII a stabilire il piano di guerra della imminente campagna contro la Francia. Ancora con il Gonzaga e con Guglielino di Fúrstenberg, il C. prendeva parte nel 1544 alla campagna per la riconquista del Lussemburgo e poi, nuovamente sotto il comando supremo dell'imperatore, all'offensiva della Marna, nella estate: era quindi all'assedio di SaintDizier, arresasi il 17 agosto, e alla successiva marcia di avvicinamento a Parigi, dalla quale Francesco I fu finalmente indotto alle trattative di Crépy che posero fine al conflitto.

Alla guerra smalcaldica il C. partecipò come maestro di campo generale e membro del consiglio di guerra del duca d'Alba, prendendo parte alla lunga campagna del Danubio e poi, nella primavera del 1547, all'offensiva contro la Sassonia elettorale che si concluse con la sconfitta dei luterani a Múhlberg. In questi anni il C. ottenne da Carlo V i titoli di conte di Piadena e di conte di Cassano. Nel 1550 fu designato da Carlo V, su richiesta del re dei Romani Ferdinando d'Asburgo, a dirigere le operazioni di guerra in Ungheria contro i Turchi, formalmente come luogotenente di Massimiliano d'Asburgo, ma, sostanzialmente, con piene responsabilità politiche e militari e con una provvisione annua di 8.400 fiorini.

Questa pienezza di responsabilità, che per la prima volta era attribuita all'ormai anziano generale napoletano, servì a sottolineare le sue indubbie qualità di stratega, ma anche la sua impreparazione ad affrontare politicamente la situazione che gli era affidata, la quale, d'altra parte, era estremamente complessa ed ambigua. Da un quarto di secolo, orinai, l'abile e spregiudicata politica dell'ungaro-croato Giorgio Martinuzzi era riuscita a conservare un residuo di autonomia all'antico regno ungherese sottoposto al doppio urto degli Asburgo e del sultano. Anche dopo che, con la morte di Giovanni Szapolyai, Ferdinando d'Austria aveva potuto prendere possesso di gran parte del regno, egli era riuscito a conservare, con l'esplicito appoggio turco, il principato di Transilvania al figlio dello Szapolyai, Giovanni Sigismondo, assumendosi la tutela del giovanissimo principe e della regina vedova Isabella. Per un decennio il Martinuzzi aveva garantito con una spregiudicata politica di equilibrio tra la casa d'Austria e i Turchi la sopravvivenza del principato indipendente: ora però tale politica era giunta alla crisi definitiva e il Martinuzzi si accingeva a consegnare la Transilvania al re dei Romani, in cambio di un adeguato indennizzo per il principe detronizzato e per la regina vedova. In conseguenza di questa soluzione si temeva naturalmente una ripresa dell'offensiva turca e le difficoltà politiche che potevano insorgere dalle ultime resistenze del partito autonomistico ungherese: ad affrontare questa situazione fu designato appunto il Castaldo. Questi diede presto ampie dimostrazioni di efficienza militare, ma altrettanto presto dovette scontrarsi con il Martinuzzi, il quale intendeva ritardare con ogni possibile espediente la temutissima vendetta turca, continuando a protestare fedeltà al sultano, del quale il principato di Transilvania era vassallo. La crisi più grave si ebbe dopo che il C., delegato da Ferdinando d'Asburgo, ricevette con una solenne funzione la corona di S. Stefano dalle mani della regina vedova Isabella: con quest'atto Isabella e Giovanni Sigismondo rinunziavano ad ogni loro diritto ereditario sull'Ungheria e sul principato di Transilvania e abbandonavano il paese, del quale, quindi, il generale asburgico poteva prendere ufficialmente possesso. A questo punto cominciarono le difficoltà con il Martinuzzi, che pretese di continuare a pagare il tributo annuo a Costantinopoli, una determinazione dietro la quale il C. non seppe vedere altro se non l'ombra del tradimento da parte di un ministro noto Per la sua spregiudicatezza. In questa atmosfera di sospetto cominciò la campagna del 1551 contro i Turchi.

Il C., che in questa occasione fece ampio uso di temici e ingegneri militari italiani inviati dalla corte di Vienna e dallo stesso imperatore, provvide nell'imminenza della duplice offensiva turca proveniente da Buda e da Belgrado a rafforzare le difese delle zone controllate dal re dei Romani e in particolare quelle transilvaniche.

Concentratasi l'offensiva turca su Lippa, questa non resistette a lungo e fu occupata dai Turchi. La riconquista della piazzaforte fu probabilmente il capolavoro militare del generale napoletano, il quale, con un rapido concentramento di forze che non lasciava sguarnite le altre zone minacciate, nell'ottobre del 1551 pose l'assedio alla fortezza, determinandone presto la resa con un martellante uso delle artiglierie che travolse le difese turche.

Il pascià comandante della fortezza fu costretto quindi ad aprire le trattative per la resa, ma i suoi tentativi di garantire la salvezza del presidio sarebbero forse falliti, dopo tanti episodi di efferatezza turca contro i prigionieri asburgici, se nelle trattative stesse non fosse intervenuto il Martinuzzi, il quale riuscì a imporre la liberazione dei turchi. L'episodio apparve al C. una conferma, dei suoi sospetti verso il ministro. Temendo che il Martinuzzi meditasse un nuovo capovolgimento di alleanze informò del supposto tradimento la corte di Vienna e, con l'autorizzazione di Ferdinando d'Asburgo, il 17 dic. 1551 lo fece uccidere.

L'immediata esperienza dimostrò quanto la spregiudicata politica del Martinuzzi fosse stata necessaria per frenare i Turchi. Questi, prendendo proprio pretesto dalla sua uccisione, l'anno successivo invasero in forze la Transilvania. Il C. oppose loro una disperata difesa a Varadino, ad Alba Iulia, a Temesvár, ma non poté ottenere alcun successo duraturo, né tanto meno riusci a ricacciare gli invasori: e infatti nel 1556 la Transilvania era completamente perduta e i Turchi vi richiamavano Giovanni Sigismondo Szapolyai e la regina vedova Isabella.

Il C. aveva tuttavia abbandonato il comando assai prima della sfortunata conclusione della guerra. Dall'epistolario del duca d'Alba egli risulta infatti ritornato a Milano almeno dal 1555.

È probabile che il suo ritorno dall'Ungheria fosse dettato da ragioni di salute: infatti il 13 genn. del 1556 il duca d'Alba scriveva a Ruy Gomez de Silva che "el Castaldo está tan enfermo que no está para trabajo y será mejor para consejero" (Epistolario del III duque de Alba, I., p. 347). Il suo esonero non pare dovuto, in ogni caso, a sfiducia della corte viennese verso il suo operato militare e politico, poiché, in riconoscimento di questo, il C. ottenne da Ferdinando d'Asburgo il feudo transilvanico di Cibinio (Nagyszeben).

Sebbene il C. avesse ricevuto sin dal 1551 un'offerta da Cosimo de' Medici per assumere la carica di tenente generale dell'esercito mediceo e quella di supremo consigliere di guerra, non pare che dopo il ritorno dall'Ungheria si allontanasse da Milano, dove si trovava comunque nel 1559. Nonostante la tarda età ebbe ancora un eminente incarico militare nel 1562, allorché Filippo II gli affidò il comando dei contingenti spagnoli inviati in Francia in aiuto del duca di Guisa. Il C. partecipò così alla campagna contro gli ugonotti del Coligny e del Condé, terminata con la vittoria cattolica di Dreux il 19 dicembre di quello stesso anno. Forse ritornò a Milano dopo la conclusione della pace di Amboise nel marzo del 1563.

Non si conoscono notizie successive intomo al C. e non è nota neanche la data della morte.

Aveva fatto testamento il 25 marzo del 1560, in favore della moglie, la milanese Mattea Stampa, e del figlio Ferdinando, che gli successe nel titolo di marchese di Cassano. La data della morte va fissata presumibilmente dopo il 1565, poiché in quell'anno il Centorio gli dedicava la seconda edizione dei suoi Discorsi.

A partire dal 1557 il C. cominciò a dettare al segretario Ascanio Centorio le sue osservazioni sulla tecnica militare del tempo, confortate da una così lunga e significativa esperienza. L'opera fu data alle stampe sotto il nome del Centorio e con il titolo di Discorsi di guerra. Ebbe una buona fortuna editoriale, poiché fu più volte ristampata dopo l'edizione iniziale di una prima parte avvenuta in Venezia nel 1558; non aggiunge molto, tuttavia, agli altri numerosi trattati di arte militare che videro la luce in quei medesimi anni, sulla base delle rinnovatrici esperienze belliche della prima metà del secolo.

Fonti e Bibl.: Scelta di lettere, a cura di B. Zucchi, Venezia 1595, 1, p. 495; II, p. 221; P. Aretino, Il primo libro delle lettere, a cura di F. Nicolini, Bari 1913, ad Indicem;Id., Il secondo libro delle lettere, a cura dello stesso, Bari 1916, ad Indicem; Etistol. del III duque de Alba don Fernando Alvárez de Toledo, Madrid 1952, I, pp. 324, 338, 347; Paolo Giovio, Lettere, a cura di G. G. Ferrero, II, Roma 1958, ad Ind.; Catal. XXIII del Arch. de Simancas. Papeles de Estado. Milan y Saboya, a c. di R. Magdaleno, Valladolid 1961, ad Ind.; G. M. Crescimbeni, Dell'istoria della volgar poesia, V, Venezia 1730, p. 143; M. D'Ayala, Vita di G. C. famosissimo guerriero del secolo XVI, in Arch. stor. ital., s. 3, V (1867), 1, pp. 86-124; G. Senatore, La patria di G. B. C. (generalissimo di Carlo V), Napoli 1887; L'opera del genio italiano all'estero, L.A Maggiorotti, Architetti e architetture militari, II, Roma 1936, ad Indicem; F. Chabod, Lo Stato di Milano nell'Impero di Carlo V, Roma 1934, pp. 16, 18; Id., L'epoca di Carlo V, in Storia di Milano, IX, Milano 1961, p. 8.

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