CASTELLI, Giovanni Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 21 (1978)

CASTELLI, Giovanni Battista

Gigliola Fragnito

Nacque in data non precisabile a Bologna da una famiglia di antica nobiltà che, nel corso del XII sec., si era stabilita nella città emiliana proveniente da Milano. Il padre, Galeazzo, era stato creato senatore a vita e conte di Rocca Comeda e di Belvedere. Della madre nulla si sa, ma la dispensa “super defectu natalium” concessa al C. da Gregorio XIII, quando nel 1574 sarà designato vescovo di Rimini, testimonia la sua nascita da unione illegittima. Il 24 apr. 1540 diventò canonico della cattedrale di S. Pietro di Bologna, beneficio che manterrà fino al 28 marzo 1575. Frequentò lo Studio bolognese, dove il 17 maggio 1546 ottenne il dottorato utriusque iuris e dove dal 1546 al 1551 insegnerà diritto civile: dal 1546 al 1549 fu assegnato ad lecturam Institutionum, nell’anno accademico 1549-50 ad lecturam Digesti Veteris e nell’anno successivo passò ad lecturani Codicis. L’assenza del suo nome nei rotuli dell’anno successivo e la sua presenza a Trento, nel maggio dei 1551, tra i familiari del cardinale Marcello Crescenzi, legato al concilio, permette di congetturare che egli fosse diventato collaboratore del cardinale romano già nel 1550, durante la legazione del Crescenzi a Bologna. Nella congregazione generale del 31 ag. 1551, su proposta di Sebastiano Pighini, fu eletto promotore, ufficio che gli verrà affidato una seconda volta con breve di Pio IV il 4 marzo 1561.

A Trento, il C. non si limitava a dare istruzioni ai notai circa la compilazione degli strumenti, ma prendeva attivamente parte ai lavori conciliari in qualità di esperto canonista. Membro di numerose commissioni cui vennero affidate alcune questioni particolari, come la preparazione del salvacondotto per i protestanti invitati a recarsi al concilio, l’esame dei novantatré punti di riforma più urgenti presentati dal cardinal Seripando, o i lavori preliminari delle sessioni, egli dimostrava notevole competenza giuridica e grande intransigenza. Il Sarpi ricorda l’intervento in cui il C. difese abilmente i tribunali ecclesiastici e il diritto di appellarsi direttamente a Roma contro le rivendicazioni di Giovanni Gropper in favore del ripristino dei giudici sinodali e dell’appello al superiore immediato. Nella primavera del 1563 si recò a Innsbruck con il cardinale Giovanni Morone inviato a negoziare con Ferdinando l’accettazione dei decreti conciliari: per non indisporre i Tedeschi con una numerosa deputazione, lo accompagnarono, con l’incarico di illuminarlo su tutte le questioni da trattare, soltanto il C. ed i teologi Mariano Vittorio e Girolamo Parisetto. Durante la terza fase del concilio il C. lavorò costantemente accanto a Carlo Borromeo, Gabriele Paleotti e Ugo Boncompagni, che, avendo avuto modo di apprezzarne la dottrina e il rigore morale, si avvarranno in futuro della sua esperienza.

Dopo la chiusura del concilio il C. rientrò probabilmente a Bologna (una sua lettera del giugno 1564 da Bologna, in Prodi, I, p. 201), e l’anno dopo, dal 10 ottobre al 3 novembre, prese parte al primo concilio provinciale convocato da Carlo Borromeo di nuovo in qualità di promotore. Subito dopo accompagnava il cardinale Ugo Boncompagni inviato come legato a Madrid per il processo di Carranza, ma già nel dicembre il cardinale era sulla via del ritomo, sia per la morte di Pio IV, sia perché “gli Spagnuoli non gli hanno voluto dare il processo dell’Arcivescovo di Toledo et vogliono aggiungere altri giudicii et non volevano dar conto delle entrate riscosse fin’hora” (Tellechea Idigoras, p. 216). Il C. ritornò a Bologna intenzionato a stabilirvisi per affiancare il vescovo Gabriele Paleotti nell’opera di riforma e nell’attuazione dei decreti tridentini nella diocesi, ma il 29 giugno 1566 giunse a Bologna Nicolò Ormaneto, fino a poco prima vicario di Carlo Borromeo, e trattò lungamente con il Paleotti del desiderio del Borromeo di disporre della collaborazione del C. a Milano.

Il Paleotti, per la carenza di uomini validi che potessero aiutarlo nell’attività pastorale, oppose una certa resistenza, osservando, inoltre, che il “Castelli si trova liaver due chiese curate, nell’una ha un vicario perpetuo e l’altra unita col canonicato, con cura d’anime di più di 600...” (Prodi, II, pp. 71-72). Le insistenze del Borromeo finirono col convincere il Paleotti a cederglielo, sperando che “quando se ne sarà servita qualche tempo, si contenterà di rimandarlo qua, havendo egli benefici che ricercano la persona sua” (Marcora, p. 362). Alla fine di dicembre 1566 il C. si trasferì a Milano, non senza aver prima preso parte al primo sinodo diocesano tenuto dal Paleotti a Bologna fra il 15 C. il 17 ott. 1566, in cui fece uso della sua esperienza milanese adattandola alla situazione locale.

A Milano il C. prese il posto di Nicolò Ormaneto come vicario generale, ufficio di grande responsabilità sia per la mole delle riforme introdotte dal Borromeo sia per le sue frequenti prolungate assenze che lo costrinsero ad assumere precise posizioni nei gravi conflitti giurisdizionali con il governatore Luis de Requesens, riguardanti la famiglia armata arcivescovile, le esecuzioni contro laici, il controllo dei luoghi pii e l’economato regio apostolico dei benefici vacanti. L’energia con cui riuscì a fare rispettare dall’autorità civile i diritti dell’autorità religiosa gli varrà l’elogio di papa Gregorio XIII quando lo nominerà vescovo di Rimini. Nel 1572 dirigeva i lavori del terzo sinodo diocesano e redigeva i cinquantadue decreti disciplinari, che il Borromeo sanzionava al suo rientro da Roma. L’anno seguente si recava a Roma per i seguiti della scomunica comminata dal Borromeo al Requesens, che si era appellato a Roma e che ottenne, con disappunto del Borromeo, l’assoluzione alla fine di ottobre.

La fitta corrispondenza che il C. intrattenne col Borromeo durante gli anni del vicariato non soltanto getta luce su tutti i problemi della diocesi, ma attesta il consolidarsi del profondo legame di amicizia che unirà i due uomini fino alla morte e la forte influenza esercitata dal Borromeo sul C., ispirando la sua vita spirituàle a una rigida ascesi e inducendolo a incentrare la sua attività pastorale sull’attuazione dei decreti tridentini.

Frattanto il Paleotti, che non si era rassegnato alla perdita del C. per la diocesi bolognese, continuava a chiedeme il ritomo al Borromeo. La contesa tra i due vescovi per disporre di uno “tra i più abili artefici della riforma tridentina” (Prodi, II, p. 72) ebbe fine quando, nel concistoro del 29 marzo 1574, Gregorio XIII designò il C. alla diocesi di Rimini.

Preso possesso della diocesi nel maggio di quell’anno, il vescovo diede inizio alla visita pastorale che, nei sei anni che seguirono, si estese ad ogni parrocchia e vicariato dei dintorni di Rimini e della città stessa e fu eseguita con estrema cura e minuzia per potere meglio attuare la riforma. Suggerito dal dilagare di un’epidemia di peste, nel 1576 apparve un suo libretto intitolato Istituto dell’Orazione da farsi ogni sera in ciascuna casa con tutta la famiglia, esortazione per i suoi fedeli a riunirsi in preghiera e meditazione. Esemplificata sull’attività pastorale del Borromeo, cui si rivolgeva per consigli e per conforto, l’azione del vescovo di Rimini mirava a sorvegliare ed a dirigere la vita dell’intera comunità, attraverso le visite e i sinodi diocesani. Fra il 1577 e il 1580 riunì il clero tre volte e al termine dei lavori pubblicò gli statuti sinodali sulla riforma dei costumi e della disciplina. In essi le disposizioni più generali del concilio vengono adattate alla situazione locale e prescrizioni più precise tendono ad eliminare non pochi abusi in materia di amministrazione dei sacramenti, di responsabilità dei pastori, cui viene ribadito l’obbligo della residenza, di pratica religiosa, e a rafforzare l’autorità del vescovo col riservargli numerosi casi di assoluzione.

Il 23 apr. 1575 un breve di Gregorio XIII designa il C. visitatore apostolico delle diocesi di Pisa, Pistoia, Lucca e delle città di Pescia e di Colle, nel 1576 delle diocesi di Siena e Volterra, nel 1578 di quella di Parma, e infine nell’anno 1579 delle diocesi di Piacenza e Crema.

Lo spoglio di tutti i voluminosi verbali delle visite del C. non è stato ancora compiuto e, quindi, disponiamo di un quadro estremamente frammentario, limitato alle diocesi di Parma e di Lucca, alla città di San Miniato e ai monasteri femminili di Piacenza. A Lucca, che era stata governata dai due zelanti vescovi, Bartolomeo e Alessandro Guidiccioni, e a Piacenza, che negli otto anni (1568-76) dell’episcopato del cardinale teatino il beato Paolo Burali aveva visto concretizzarsi una energica azione di moralizzazione e l’attuazione dei postulati tridentini, la visita apostolica del C. “più che un’azione di rinnovamento si presenta come un’operazione di controllo ed una messa a punto di una riforma avviata, anche se non ancora giunta a completa maturazione” (Molinari, p. 723). Dagli atti di queste visite emergono la dottrina, l’esperienza di governo, la minuziosità e la concretezza del C., ma anche la sua talvolta eccessiva severità, che non mancò di creargli serie difficoltà in Toscana. Il suo comportamento a Volterra sollevò infatti le rimostranze di sacerdoti, frati, monache, autorità comunitative e giusdicenti fiorentini ed indusse Francesco I, nel maggio 1576, a chiedere al papa, tramite il cardinale Ferdinando, suo fratello, di “liberarci da questo terremoto, avendo stracco gli orecchi de’ lamenti e querele de’ preti e delle monache, dei laici e delle università che gridano al cielo per i modi di costoro” (A. D’Addario, p. 167). Né il granduca fu meno esplicito con lo stesso C. cui rimproverò di esser venuto nei suoi Stati “non per visita caritatevole delle chiese ma per seminare triboli e far danno al pubblico e al privato” e di cercar “di [metterlo] alle mani con Sua Santità con capricci e disegni di acquistare con Sua Beatitudine per questa via” (ibid., p. 165). Il conflitto si risolse con il richiamo del Castelli.

Nell’autunno del 1580, in seguito alla diffusione per iniziativa dei gesuiti del testo della bolla In Coena Domini, Gregorio XIII si vide costretto a richiamare il nunzio in Francia Anselmo Dandino; e la scelta del sostituto cadde sul Castelli.

Per la sua precaria salute il C. ritardò la partenza fino alla primavera dei 1581. Giunto a Blois il 24 maggio, non venne ricevuto da Enrico III prima del 4 giugno e gli inizi della nunziatura furono amareggiati dall’ostilità della corte nei suoi confronti. Sebbene la situazione politica negli anni della missione del C. fosse relativamente tranquilla, egli incontrò non poche difficoltà.

Sul piano delle relazioni internazionali, l’impegno maggiore della S. Sede era teso a scongiurare il pericolo di un conflitto fra Spagna e Francia in conseguenza dell’intervento militare del duca d’Angiò nei Paesi Bassi in soccorso delle province ribelli alla dominazione spagnola. Il C. si adoperò a convincere Enrico III e Caterina de’ Medici a ritirare l’appoggio che davano al duca d’Angiò con lo scopo di ottenere dalla Spagna concessioni nelle Fiandre e compensare i diritti che Caterina rivendicava sul Portogallo e a ostacolare il progetto di matrimonio tra il duca ed Elisabetta d’Inghilterra, che rischiava di mettere sul trono di Francia, alla morte di Enrico III, privo di prole, un principe protestante.

Nel timore di un imminente conflitto la S. Sede inviò ad Enrico III un ambasciatore straordinario, Orazio Ablaspina, che morì a Parigi: probabilmente Tolomeo Galli,. segretario di Stato di Gregorio XIII, non aveva molta fiducia nelle capacità diplomatiche del C., che avendo trascorso un’intera vita nell’attività pastorale mostrava, infatti, maggiore interesse e sollecitudine per i problemi della riforma ecclesiastica e per le relazioni tra Stato e Chiesa in Francia. Il primo problema che il C. dovette affrontare fu quello della revoca dell’arrêt del Parlamento di Parigi contro la bolla In Coena Domini: le trattative, protrattesi per sei mesi, si conclusero con l’impegno della S. Sede a non pubblicare in futuro la bolla e, da parte francese, con l’abrogazione dell’arrêt. Questo primo successo indusse il nunzio a sperare di riuscire a risolvere l’altra ben più spinosa questione della pubblicazione in Francia, con l’approvazione del re e del Parlamento, dei decreti tridentini, che trovava un grosso ostacolo nelle ordinanze di Blois, promulgate nel maggio del 1579, contenenti molti articoli relativi allo stato ecclesiastico che erano in contrasto con le disposizioni conciliari.

La ferma opposizione che incontrò in Francia l’introduzione dei decreti tridentini aveva radici remote: all’origine c’era stata la palese ostilità francese verso il concilio, accentuatasi con la ripresa delle sessioni nel 1561 e che certamente era stata fomentata da Caterina de’ Medici nell’intento di ristabilire la pace e l’unità religiosa nel regno dilaniato dalle guerre di religione, attraverso la promulgazione di editti concilianti che non inasprissero i rapporti tra ugonotti e cattolici. Ma accanto a motivi di politica intema, l’accettazione dei decreti disciplinari tridentini veniva ad urtare, per motivi di ordine giuridico ed istituzionale, contro gli interessi del clero, tenace difensore delle libertà della Chiesa gallicana, e dei parlamentari, da un canto custodi dei diritti della Corona e quindi gelosi anch’essi delle libertà gallicane, dall’altro magistrati timorosi di perdere una grossa fonte di guadagni con l’introduzione di disposizioni conciliari che li costringevano a rinunciare agli “appelli per abuso” e che, inoltre, abolivano il privilegio dell’indulto, grazie al quale, in determinate condizioni, essi diventavano titolari di benifici o usufruttuari delle loro entrate. Né va dimenticata, a spiegare l’opposizione parlamentare, la crescente laicizzazione della corte parigina durante il regno di Enrico III. Tuttavia, durante la nunziatura del C. parve che questa opposizione fosse superabile grazie al verificarsi di una serie di circostanze favorevoli: il ruolo conciliante svolto dal presidente del Parlamento di Parigi, Barnabé Brisson, che riuscì a contenere l’ostilità del Parlamento; la morte dell’avversario più intransigente, Christophe de Thou (10 nov. 1582), e la crisi mistica attraversata in quel periodo da Enrico III, che non rimarrà insensibile, pur nella sua ferma. difesa dell’autorità regia e dei diritti della Corona, ai pressanti richiami del C. alla sua coscienza di sovrano cattolico.

I negoziati intavolati dal nunzio fin dalla prima udienza regia si proponevano in primo luogo la revoca o quanto meno la revisione di quegli articoli delle ordinanze di Blois che contrastavano con i decreti disciplinari tridentini ed in secondo luogo la pubblicazione del concilio di Trento.

Enrico III su consiglio del C. nominò una commissione, composta dallo stesso C., da jean de la Guesle e da Barnabé Brisson, la quale suggerì la pubblicazione di un editto che promulgando i decreti disciplinari tridentini avrebbe annullato le ordinanze, purché la S. Sede avesse fatto alcune concessioni. Di fronte al rifiuto di Roma le trattative si arenarono e non furono riprese prima dell’estate del 1582 con un intervento del re sul Parlamento a favore del progetto di pubblicazione, che incontrò la ferma resistenza del Parlamento. Nel novembre Enrico III fece riprendere i lavori della commissione; questa sottopose all’esame della Congregazione del Concilio alcuni quesiti relativi al potere dei vescovi di fungere da esecutori testamentari nelle cause pie e al divieto fatto ai vescovi di fulminare censure su richiesta dei giudici secolari. La risposta, questa volta favorevole, della S. Sede giunse nel gennaio del 1583, quando ormai per il rimaneggiamento voluto dal re della commissione, in cui, sotto la presidenza del cardinale di Borbone, furono inclusi tre ecclesiastici ed un avvocato regio, i negoziati si fecero più difficili e di lì a poco il progetto naufragò. La ferma opposizione dei parlamentari, sostenuti dal partito protestante, basata soprattutto sulla teoria della superiorità del concilio sul papa, che spogliava il papa dei diritto di convocare il concilio e di dame conferma, e la minaccia di Enrico di Navarra di una ripresa dei disordini qualora le costituzioni tridentine fossero state introdotte in Francia, nonché la pubblicazione, nel genn. 1583, di un libello anonimo, attribuito a Jacques Faye d’Espesses e istigato dai parlamentari e dagli ugonotti, resero vana l’opera paziente e risoluta del Castelli. Tuttavia, per suo tramite, la S. Sede era riuscita per la prima volta “à engager la discussion du problème de l’adoption du concile de Trente, en la portant, par la voie diplomatique normale, sur le terrain méme de son adversaire le plus convaincu: le Parlement, défenseur de principes, de privilèges, de droits, de coutumes contraires au nouveau droit de l’Eglise” (Toupin, p. 71).

Più volte durante il suo soggiomo in Francia il C., logorato dalle molteplici vicissitudini della sua missione, depresso dai non pochi insuccessi della sua pur instancabile e coraggiosa attività diplomatica, incapace, austero e severo vescovo interamente dedito alla vita pastorale, di adeguarsi alla vita delle corti, fiaccato fisicamente dalla malattia e da un forma di esaurimento, più volte aveva chiesto a Roma di essere richiamato da quello che gli era parso un vero e proprio esilio per fare ritorno alla sua Chiesa. Ma le sue richieste non furono esaudite, ed il 27 ag. 1583 morì all’hôtel de Sens, sede della nunziatura, e fu sepolto nel coro di Notre-Dame. La morte di quest’uomo di grande integrità morale e di vita esemplare, che, se non aveva dimostrato di possedere la statura del grande diplomatico, aveva certo dato prova di assoluta dedizione agli interessi della S. Sede e della Chiesa, costernò profondamente Enrico III che, più tardi, volle accostarlo a s. Carlo Borromeo nel rimpianto per la scomparsa di due tra i più santi vescovi del suo tempo.

Fra le sue opere sono: Istituto dell’orazione da farsi ogni sera in ciascuna casa con tutta la famiglia, Rimini 1576; Decreta generalia a I. B. Castellio, Piacentiae 1580; Decreta diocesanae synodi primae ariminensis a Rev. P. Dom. Ioan. Baptista Castellio, Dei et Apostol. Sedis gratia Arimini episcopo habitae, Rimini 1593.

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