DONÀ, Giovanni Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DONÀ (Donati, Donato), Giovanni Battista

Giuseppe Gullino

Nacque a Bergamo, dove il padre si trovava come podestà, il 6 marzo 1627, da Nicolò di Francesco e Piuchebella Contarini di Andrea di Battista.

Cospicuo il casato, che a Venezia risiedeva nel grandioso palazzo a S. Fosca, dotato di una ricca collezione di quadri e affreschi, e già appartenuto al duca di Urbino; questo ramo della famiglia, infatti, godeva di notevoli beni, fondati sulle proprietà padovane di Villanova, Montegalda, Arlesega e - ma soprattutto - su quella polesana di Villadose, di cui i Donà erano anche giurisdicenti.

Superiore a tali fortune era tuttavia il tenore di vita di cui la famiglia usava circondarsi, in sintonia con l'alto concetto ch'essa aveva di sé: il D. ebbe infatti sei fratelli (di cui il primogenito, Nicolò, sposò nel 1645 Paolina Valaresso del cavaliere e procuratore Alvise, dando origine a un nucleo famigliare distinto) e sette sorelle, cinque delle quali si unirono in matrimonio con esponenti delle migliori casate (Piuchebella con Leonardo Loredan, Orsetta con Giovanni Moro, Maria in primi voti con Francesco Grimani e poi con Camillo Contarini, Laura con Francesco Gussoni, Marina con Andrea Emo).

L'educazione che il padre Nicolò imparti alla numerosa prole fu consona alla tradizione nobiliare, ma il D. sembra ne approfittasse mediocremente, se nel 1675 l'anonimo autore della Copella politica, o Esame istorico politico di cento soggetti della Serenissima Repubblica di Venezia, non riusciva a trovare in essa la spiegazione del prestigio politico di cui il patrizio godeva allora in Senato: "in gioventù manco ha studiato, et di tre fratelli che professavano lettere amene, egli era il meno aplicato degl'altri, et con tutto ciò al presente è in concetto di homo di vaglia. Chi havesse voluto d'all'hora far presaggio della sua riuscita, lo haverebbe creduto più disposto agl'essercitij martiali, che alle speculationi di stato". In effetti gli esordi del D. nella vita pubblica furono piuttosto rivolti alla carriera militare che a quella politico-amministrativa, che per solito prevedeva il saviato agli Ordini: appena ventitreenne fu eletto nobile in Dalmazia (9 marzo 1650), dove partecipò alle operazioni dirette dal provveditor generale Foscolo contro i Turchi che minacciavano Traù; nella flotta rimase imbarcato più di un anno, e al ritorno in patria seppe abilmente sfruttare il prestigio che si era guadagnato, iniziando una rapida e brillante carriera: il 12 marzo 1653 fu eletto provveditore sopra Banchi, il 21 settembre provveditore alla Sanità (ma due giorni dopo optò per l'incarico di ufficiale alle Rason Nuove), il 31 genn. 1656 divenne savio sopra le Decime; ballottato ma non eletto savio di Terraferma il 14 apr. '57, il 30 giugno di quello stesso anno riusciva a ottenere tale prestigiosa carica, alla quale venne poi rieletto l'8 ag. 1658, e poi ininterrottamente per il semestre 1°ottobre-31 marzo negli anni dal 1659 al 1667 (nel 1665 fu savio alla Scrittura).

Nel frattempo (28 febbr. 1665) aveva sposato, nella chiesa del Redentore, Margherita Zenobio di Carlo, che gli avrebbe poi dato numerosi figli: Nicolò (nato il 13 luglio 1669), Pietro (24 luglio 1672), Andrea (15 genn. 1676), inoltre Lucrezia (che il 27 nov. 1700 avrebbe sposato Zaccaria Zanardi) ed Elisabetta (andata sposa a Bernardo Loredan l'11 ott. 1706).

Fu quindi savio del Consiglio per il periodo 1°ott. 1667-31 marzo '68, e poi esecutore deputato alle spedizioni del Levante (18 genn. 1669-17 genn. '70), savio alle Acque (19 ott. 1669-12 ag. '70), savio alla Mercanzia (9 luglio 1670-8 luglio '71), e ancora savio del Consiglio (13 ag-30 sett. 1670); quindi fece parte del Collegio delle pompe (7 maggio 1672-6 maggio '74), fu sopraprovveditore alle Biave (3 nov. '72-2 nov. '73), deputato sopra la Provvision del danaro per la guerra (7 maggio 1672-6 maggio '73), ancora savio alla Mercanzia (14 nov. 1674-31 marzo '75), depositario al Banco dei giro (19 ott. '75-18 genn. '76), nuovamente savio alle Acque (28 nov. 1676-30 giugno '77), provveditore sopra gli Ogli (21 genn--30 giugno '79); ma soprattutto fu costantemente presente tra i savi del Consiglio per il semestre marzo-settembre dal 1673 al 1676, e per quello luglio-dicembre dal 1677 al 1679.

Una carriera, dunque, ricca di impegni di assoluto prestigio, e per di più ottenuti senza gli inevitabili dispendi conseguenti ai rettorati nella Terraferma, che per solito costituivano il necessario presupposto per raggiungere le più alte cariche dello Stato; maggiormente inspiegabile riesce allora l'elezione al lucroso e ambito bailato a Costantinopoli, conferitagli agli inizi del 1680.

Forse l'autore del già ricordato Esame istorico politico puòsuggerircene la ragione: "nelle Consulte è di profondo avvedimento, nelle concioni di discorso efficace, et quasi impetuoso, ornato ancora di eloquenza piccante, et acerba .... Non reformida di cimentarsi con più provetti .... Amatore al maggior segno di oligarchia, et fautore per quanto si può, et di genio pendente al Spagniuolo"; più esplicito il Freschot, qualche anno più tardi: "Il arriva ... que s'agissant de nommer un Baile à la Porte ... le chevalier Michiel, qui avoit déjà soútenu les Ambassades de Thurin, de Paris et de Vienne ... se presenta pour la demander .... Cependant, comme il n'etoit point de la sphère des Oligarches, une brigue de ceux-ci y nomma jean Baptiste Donat, qui n'etant jamais sorti de Venise pour aucun emploi etranger, se crut assez habile pour exercer celui-ci qui est sans contredit le plus hasardeux et le plus delicat".

Dunque furono le casate ricche, e legate a Roma e alla Spagna, a far ottenere il bailato al D., il quale però, secondo la testimonianza del giovane di lingua Antonio Benetti, cui dobbiamo una attenta relazione del viaggio e della permanenza dell'ambasciatore a Costantinopoli, volle prepararsi alla missione con scrupolo esemplare, circondandosi di persone capaci e - caso davvero insolito - giungendo persino ad apprendere i primi rudimenti della lingua turca, tramite l'armeno Giovanni Agop. Parti il 16 apr. 1681, accompagnato da diversi esponenti delle migliori famiglie del patriziato; giunto a Spalato a fine mese, prosegui poi via terra, per Cettigne, Belgrado, Sofia, Adrianopoli, arrivando così sulle rive del Bosforo il 2 luglio, dopo due mesi e mezzo di un viaggio utilizzato anche per compiere una quantità di osservazioni storiche, scientifiche ed astronomiche, puntualmente riportate dal Benetti.

Gli inizi della missione furono felici, giacché dopo la burrascosa partenza del bailo precedente, P. Civran, le relazioni tra Venezia e Costantinopoli sembravano essere improntate a maggior cordialità; nell'aprile '82 il D. ottenne anzi un duplice successo: la concessione di un firmano contro i pirati dell'Adriatico e l'eliminazione del traditore di Candia, Andrea Barozzi, il quale stava per consegnare ai Turchi i disegni delle fortificazioni di Corfú, e che invano i suoi tre predecessori avevano tentato di avvelenare.

Sono di questi mesi anche i restauri realizzati nella sede dell'ambasciata e la dedica al D. di due opere realizzate dai suoi interpreti, una Raccolta curiosissima di adagi turcheschi, poiedita a Venezia nel 1688, secondo la testimonianza del Cicogna, e la traduzione dal turco di una relazione sulla guerra contro i Russi in Ucraina.

Senonché, quando ormai sembrava che il corpulento bailo (un quadro di Nicolò Cassana, nel Civico Museo Correr di Venezia, che reca la data del 1682 ce lo mostra imponente, con lunga barba e piglio deciso) "fut retourné à Venise si gros et si rempli de l'estime de soy méme, qu'il eút fallu élargir les portes pour le laisser entrer", ci informa il Freschot che "par malheur il eút à deméler l'affaire la plus fácheuse qui lui pouvoit survenir..., il y échoua et donna, comme ori dit, du nés en terre".

L'incidente, che avrebbe segnato il fallimento della missione del D., fu rappresentato dall'uccisione di alcuni turchi, comandati da Assan Begh, fratello del sangiacco della Bosnia, Durac Bey, da parte di alcuni morlacchi sudditi veneti. Del tutto contrastanti, com'è naturale, le versioni che le due parti fornirono dell'accaduto, verificatosi a Zemonico, non lontano da Zara, nel settembre 1682, ma venuto a conoscenza del D. solo due mesi più tardi: secondo i musulmani, i Veneti, spalleggiati da numerosa truppa, si erano uniti alle incursioni poste in atto dagli Imperiali contro i Bosniaci, e avevano ucciso oltre 200 soldati di Assan Begli; a detta dei Veneziani, invece, erano stati i Turchi a incendiare deliberatamente le case dei Morlacchi, per prendersi le loro terre.

Il fatto, di per sé né troppo grave né inusitato, stante il temperamento bellicoso di quelle popolazioni, fu artificiosamente ingigantito dal visir, l'avido Kara Mustafà, che trovò in esso un facile pretesto per estorcere denaro alla Repubblica nel momento in cui l'esercito ottomano stava per muovere contro Vienna. Nei primi mesi della permanenza del D. a Costantinopoli, insomma, il visir aveva attuato una politica ispirata a benevolenza verso Venezia e il suo rappresentante proprio per prevenire eventuali collusioni con l'Impero, ma l'incidente di Zemonico, avvenuto quando nel Bosforo già erano state esposte le code ed il sultano era ad Adrianopoli presso l'esercito, gli fece intravvedere la possibilità di assicurarsi, oltre alla neutralità, anche il contributo finanziario di Venezia.

Al D. venne presentata una richiesta inaccettabile: doveva consegnare 224 sudditi veneti, da esser giustiziati a Costantinopoli o in Dalmazia; alla sua domanda di istruzioni, il Senato rispose, il 2 genn. 1683, che i colpevoli erano già stati puniti: cercasse dunque di porre a tacere la cosa ricorrendo ai donativi e ai regali soliti farsi ai Turchi in simili occasioni.

Il visir, però, giocò sul tempo, e prima che il messaggio pervenisse al bailo, affidò la trattativa a Cussein Agà, "barbaro fiero e sagace", che nei colloqui col D., secondo quanto costui scrisse al Senato, "aggrandi il successo in eccesso, se ne mostrò informatissimo", quindi suggeri che per convincere il sultano dei buoni sentimenti della Repubblica, per "aggiustare questo negotio, se bene era grandissimo", la via migliore, e più sicura, sarebbe stata quella di offrirgli 1.500 borse da 500 reali l'una, "che se no già stava il Gran Signore con gli stivali in piedi, e con la sciabola al fianco, che con un cenno haverebbe fatto tagliar tutti li Morlacchi in una calda scorreria". Era vero, in effetti: Maometto IV stava per muovere con l'esercito, ma in quale direzione? Verso l'Ungheria o verso la Dalmazia? Al D. - che nella circostanza si dimostrò quantomeno ingenuo - parve quindi di aver riportato una segnalata vittoria concludendo per 600 borse (oltre 100.000 zecchini veneziani), da essere così ripartite: 175.000 reali al sultano, 25.000 al visir e altrettanti a diversi funzionari.

Un tale accordo trovò tuttavia a Venezia cattiva accogliqnza: se infatti la prassi ammetteva la distribuzione di regalie a privati, la consegna di una forte somma direttamente nel "Casnà" (cassa) del monarca ottomano era novità inaccettabile, per cui una deliberazione del 15 maggio 1683 accusava il bailo di abuso di potere e lo sospendeva dalla carica, ingiungendogli di lasciare la città col pretesto di motivi personali.

Probabilmente l'umiliazione inflitta alla Repubblica costitui un errore politico per Kara Mustafà, giacché questa ennesima estorsione favori l'adesione di Venezia alla Lega santa: il D., infatti, non venne sostituito da altro bailo, ma da un semplice segretario, Giovanni Cappello, che giunse a Costantinopoli nell'estate dell'83 col solo incarico di pagare i debiti contratti dal D. con i mercanti cristiani. Il ritorno dell'ex ambasciatore avvenne nel febbraio '84 via mare, al fine di evitare incontri con reparti di turchi sbandati, reduci dal disastroso assedio di Vienna, e il D. seppe sfruttare questo viaggio, che lo portò a toccare Tenedo, Scio e Canea, per compiere rilievi e raccogliere informazioni sulla consistenza delle forze ottomane, in vista della guerra ormai imminente.

Giunto a Venezia, e scontata la quarantena d'obbligo nel lazzaretto, il 29 maggio 1684 si presentava alle prigioni degli avogadori di Comun, commutate l'indomani nella residenza coatta a palazzo ducale, per motivi di salute. Le giustificazioni che addusse al proprio operato furono prontamente accettate, grazie all'intervento dei suoi protettori e partigiani, al punto che il 20 agosto poté leggere in Senato la sua relazione dell'ambasciata e, qualche giorno più tardi, riuscire eletto savio del Consiglio per il semestre ottobre '84-marzo '85; carica alla quale fu confermato l'anno seguente e che poi ricoprì ininterrottamente, per il periodo gennaio-giugno, sino alla morte, dedicando i restanti sei mesi dell'anno all'esercizio di altre magistrature: provveditore in Zecca alla cassa di ori e argenti (12 maggio-11 ag. 1685); provveditore all'Arsenale (6 apr.-31 dic. 1686 e 3 luglio-31 dic. '88); provveditore alle Artiglierie (5 luglio-31 dic. 1687, 7 luglio-31 dic. '91 e 15 luglio-31 dic. '93); savio all'Eresia (5 ag-31 dic. 1688, 24 luglio-31 dic. '90, 25 luglio-31 dic. '93, 7 luglio-31 dic. '94); quindi aggiunto ai fiformatori dello Studio di Padova (1688-89), conservatore delle Leggi (1690), nobile sopra i Lidi (1692), provveditore sopra la Sanità (1695), esecutore contro la Bestemmia dal luglio 1696 al giugno '99; l'11 apr. 1685, inoltre, era stato eletto sopraintendente alla compilazione delle leggi, in sostituzione dello storico Giambattista Nani.

Se per molti aspetti la figura e l'operato politico del D. possono suscitare riserve, degno di ogni considerazione risulta invece il suo impegno nell'ambito scientifico e letterario; come si è detto, sin dai mesi che precedettero la partenza per Costantinopoli il D. aveva dimostrato interesse per il mondo culturale turco: forse dapprima la sua fu semplice curiosità per i costumi e le espressioni artistiche di un popolo esotico e ancora largamente sconosciuto, certo è però che a quelle manifestazioni egli seppe accostarsi con uno spirito nuovo e sgombro da molti dei tradizionali pregiudizi. Al ritorno in patria, poi, trovò in questi studi un campo d'azione più consono alla sua personalità, e tale da garantirgli quel prestigio che la politica gli aveva negato: coadiuvato da Vincenzo Coronelli, sin dalla fine dell'84 fondò a Venezia l'Accademia cosmografica degli Argonauti, la più antica fra quelle di carattere geografico, che riscosse subito ampio favore, al punto che nel '93 essa contava ben 261 aderenti sparsi anche fuori d'Italia, dall'Inghilterra alla Polonia, tra i quali lo stesso re Giovanni Sobieski; maggiore importanza riveste tuttavia ai nostri occhi la pubblicazione, avvenuta a Venezia nel 1688, di un trattato Della letteratura de' Turchi, al quale collaborò, con la traduzione di numerosi testi, il dragomanno Gian. Rinaldo Carli.

Con tale libro - afferma Paolo Preto, che all'opera ha dedicato pagine fondamentali - "il Donà si propone l'obiettivo semplice e nello stesso tempo impegnativo, per la novità del tema, di delineare un panorama completo della cultura letteraria turca seguendo una partizione in generi desunta dalla tradizione erudita occidentale" (in Storia della cult. ven., cit., p. 338). II lavoro sarebbe rimasto insuperato per un secolo, sino alla Letteratura turchesca di G. B. Toderini, ma la sua azione pionieristica ebbe importanza decisiva: "in realtà - scrive ancora il Preto - la progressiva ma radicale revisione di giudizi nei confronti della civiltà ottomana operata dalla cultura veneziana del '700 non è frutto solo dell'impatto con le idee illuministi che ma anche della felice riscoperta dell'ignota e misconosciuta letteratura turca operata dal Donà" (ibid., p. 335).

Questi morì a Venezia, nel suo palazzo di S. Fosca, l'11 sett. 1699, "da apoplessia et infiamation", mentre ricopriva la carica di provveditore alle Biave.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii..., III, cc. 313 s.; Ibid., Archivio privato Donà, b. 346/310; Ibid., Avogaria di Comun. Libro d'oro nascite, schedario 192, ad Indicem; Ibid., Avog. di Comun. Libro doro matrimoni, schedari 170, 185, ad Indices; Ibid., Avog. di Comun, b. 159/2: Necrologi di nobili, ad diem; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 16 (= 8305): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto..., II, cc. 34v-35r. La consistenza patrimoniale dei D. e dei suoi fratelli è documentata in Arch. di Stato di Venezia, Archivio privato Donà, bb. 127, 195-209. Per la carriera politica, Ibid., Segr. alle Voci. Elez. Pregadi, reg. 18, cc. 5, 7-10, 11 reg. 19, cc. 2-6, 34 s., 42, 54, 57, 70, 80, III, 113; reg. 20, cc. 7-11, 40, 42, 71, 96, 109, 116, 152, 157; reg. 21, cc. 1-3, 80, 138, 144, 153, 155; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 843 (= 8922): Consegli, c. 131v; cod. 844 (= 8923): Consegli, cc. 64r, 96r, 97r, 239r; cod. 845 (= 8924): Consegli, cc. 75v, 87r; un suo discorso e due lettere, in Venezia, Bibl. d. Civico Museo Correr, rispettivamente Mss. P. D. 194 C, c. 46; Mss. P. D. C 1067/47, 676; per il giudizio dell'anonimo, Ibid., Codd. Cicogna, 1511: La Copella Politica..., cc. 37r-38r. Sull'ambasceria a Costantinopoli cfr. Arch. di Stato di Venezia, Senato. Dispacci Costantinopoli, ff. 162-163; Ibid., Inquisitori di Stato, b. 420: Dispacci dai baili a Costantinopoli. (1682-1684); per le accuse rivolte al D. e la sua incarcerazione, Ibid., Avogaria di Comun. Misc. penale, b. 223/13; la sua difesa, in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 1644 (= 8829), cc. 88-109: Difesa del n. h. ser Gio. Batta Donado bailo in Costantinopoli. In Senato; la relazione, in Le relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneziani nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi-G. Berchet, Turchia, II, Venezia 1872, pp. 287-351. Cfr. inoltre: A. Benetti, Vigggi a Costantinopoli di G. B. Donado..., Venezia 1688; P. Garzoni, Istoria della Repubblica di Venezia in tempo della Sacra Lega, I, Venezia 1705, pp. 43-46; C. Freschot, Nouvelle rélation de la ville et République de Venise..., Utrecht 1709, pp. 264-268; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, V, Venezia 1842, pp. 18, 230; VI, ibid. 1853, pp. 37, 59, 888; G. Pavanello, Il tradimento nella caduta di Candia, in Ateneo veneto, XXVII (1904), I, pp. 212, 215 ss.; D. Levi Weiss, Le relaz. tra Venezia e la Turchia dal 1670 al 1684 e la formazione della Sacra Lega, in Archivio veneto-tridentino, VII (1925), pp. 34-43, 45; VIII (1925), p. 80; P. Donazzolo, Iviaggiatori veneti minori, Roma 1927, pp. 249 s., 317; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle orikini alla caduta della Repubblica, Bergamo 1929, p. 69; T. Bertelè, Il palazzo degli ambasciatori di Venezia a Costantinopoli e le sue antiche memorie, Bologna 1932, pp. 154, 156 s., 159, 217-220, 232, 244 s.; N. Stavrinidis, Andreas Baroffis, ho prodotis tu Megalu Kastru, in Kritika Chronika, I (1947), pp. 422 s.; G. Natali, Il Settecento, in Storia letteraria d'Italia, I, Milano 1950, p. 570; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, p. 343; Il Museo Correr di Venezia. Dipinti del XVII e XVIII secolo, a cura di T. Pignatti, Venezia 1960, p. 59; S. Savini Branca, Il collezionismo veneziano nel '600, Firenze 1965, p. 215; P. Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975, pp. 62, 91, 100 106, 109, 207, 282, 338-351, 407, 409, 511, 528 (dello stesso autore, una sintesi concernente la Letteratura de' Turchi, in I Turchi e la cultura veneziana del Seicento, in Storia della cultura veneta, IV, Il Seicento, 2, Vicenza 1984, pp. 335-341); Diz. biog. degli Italiani, XVIII, p. 20; XXIX, p. 305.

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