DONI, Giovanni Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)

DONI, Giovanni Battista

Gianfranco Formichetti

Figlio di Francesco e Giustina Lapi del Tovaglia, nacque nel 1594 a Firenze. Iniziò i suoi studi a Bologna per passare poi a Roma presso i gesuiti. Di ingegno versatile, curò molteplici interessi: dalla retorica alla geometria, dalla letteratura greca alla geografia. Dal 1613 studiò diritto in Francia, a Bourges, per cinque anni e approfondì tra l'altro la conoscenza del francese e dello spagnolo. Nel 1618, tornato in Italia, conseguì a Pisa la laurea in utroque iure; in questo periodo ebbe interesse per lo studio delle lingue orientali, raggiungendo in particolare una buona conoscenza della lingua ebraica.

Gli studi giuridici lo entusiasmavano poco e per questo nel 1621 fu ben felice di entrare a far parte del seguito del cardinale Ottavio Corsini, inviato da Gregorio XV in Francia come legato papale. A Parigi ebbe modo di frequentare i gruppi culturali più in vista, conobbe intellettuali di varie tendenze, da M. Mersenne a P. Petau, a C. Saumaise. Questa vita così interessante ebbe però presto termine. La morte del fratello, per il quale nutriva grande affetto, e gravi problemi familiari di natura economica lo ricondussero nel 1622 a Firenze.

Nel novembre dell'anno successivo, al seguito del cardinale Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII, tornò di nuovo a Roma; nella corte pontificia zio e nipote erano punto di riferimento per la linea del barocco moderato dell'area umbrotosco-laziale. Il D. ebbe modo di conoscere e fece presto amicizia con numerosi intellettuali e in particolare con Virginio Cesarini e Girolamo Aleandro.

Come il cardinale Francesco, anche il D. aveva fin da giovinetto composto versi latini e lo stesso interesse per la musica appassionava mecenate e protetto.

Seguì il Barberini dapprima in Francia, dove ritrovò gli amici e colleghi che qualche anno prima aveva dovuto lasciare, e successivamente in Spagna, dove ebbe occasione di continuare e arricchire le ricerche di materiale archeologico, soprattutto epigrafico. Il D. con la sua eclettica personalità coltivava infatti anche interessi di natura antiquaria che aveva particolarmente intensificato durante il suo soggiorno fiorentino.

Nel 1628 pubblicò per la Camera apostolica l'Epinicium Lodovico Francorum regi Christianissimo. Ob receptam Rupellam, repulsamque Anglorum classem. L'anno successivo, quasi certamente stimolato da amici intellettuali che lo vedevano lavorare molto ma stampare poco, distribuì in numero limitato di copie una memoria intitolata Idea seu designatio aliquot operum, quae Io. Bapt. Donius partim absolvit, partem incepit. Dello stesso anno sono i Carmina quaedam ad diversos e la Corona Myrthea in nuptiis dd. Thaddei et Anna Columnae, entrambi stampati a Roma.

Nell'ambiente romano il D. continuava a coltivare soprattutto i suoi interessi per la musica e gli strumenti degli antichi. Nel 1635 pubblicò il Compendio del Trattato de' generi e de' modi della musica (Roma, Fei) e cinque anni dopo, ancora per Andrea Fei, le Annotazioni sopra il Compendio de' generi e de' modi della musica, in cui riprende e sviluppa i motivi del Compendio.

Si tratta di due opere di fondamentale importanza per la storia della musica del sec. XVII. Le due opere riordinano le teorie musicali dei generi e dei modi e hanno come riferimento per i generi Nicola Vicentino e per i modi Enrico Gloreano. Il D. riprese infatti del primo il discorso sulla musica cromatica ed enarmonica e lo criticò vivacemente dichiarando fallimentari tutti i tentativi innovatori tentati, compreso quello della fabbricazione di un nuovo strumento musicale a tastiera chiamato archicembalo. Le teorie del D. riprendevano i temi che Vincenzo Galilei aveva espresso nel suo Dialogo della musica antica e moderna. Per quanto concerne poi i modi, rapportò i moderni agli antichi concludendo che a parte pochissimi esempi (Monteverdi in particolare) composizioni cromatiche vere non esistono. Molto importante in queste opere è la chiara distinzione che l'autore pone tra il genere madrigalesco e lo stile recitativo, conseguente alla riforma della Camerata fiorentina.

Molto più rilevante avrebbe potuto essere il contributo ai problemi musicologici del tempo se tutti gli scritti del D. avessero visto la luce. Passerà invece circa un secolo prima che i suoi scritti più importanti e più significativi possano essere pubblicati. La convinzione che l'erudito, quale riteneva di essere, non giovasse con i suoi scritti ai contemporanei ma alla posterità portava il D. a ricercare un ideale di compiutezza elevato e difficile a concretizzarsi: il Bandini, suo biografò, nel 1755 parlava di oltre cento opere lasciate inedite, alcune completamente compiute, altre appena abbozzate.

I contatti internazionali e la vita nella corte e nelle accademie romane avevano dato al D. un prestigio rilevantissimo tanto che Urbano VIII lo nominò nel 1629 segretario del S. Collegio dei cardinali. Un periodo oscuro si preparava però per il Doni. La morte di Girolamo Aleandro, suo grande amico, avvenuta nel 1629, lo aveva colpito particolarmente. tanto da comporre un'elegia immortalata poi sull'epigrafe della tomba. Ancora disgrazie familiari lo riportarono, questa volta definitivamente, nel 1640 a Firenze: dei due fratelli rimasti uno era stato ucciso in duello in Francia, nel 1633, e l'altro era morto dopo breve malattia.

Fu immediatamente ammesso nell'Accademia della Crusca e Ferdinando II de' Medici gli offrì la cattedra di eloquenza; fu inoltre console dell'Accademia Fiorentina nel 1641. Nello stesso anno sposò Margherita Fiaschi e in pochi anni ebbe numerosa prole. Nel 1643 pubblicò a Firenze l'orazione funebre Delle lodi della Cristianissima Maria regina di Francia e di Navarra. L'anno dopo uscì a Parigi la Dissertatio de utraque paenula, opera erudita sul vestiario degli antichi che il D. aveva presentato nell'Accademia Basiliana nel settembre del 1638.

La quiete familiare, l'insegnamento e gli studi musicologici davano al D. una vita tranquilla, che gli consentì di curare in particolar modo l'educazione dei figli. Alla fine di novembre del 1647 una febbre improvvisa lo costrinse a letto. Il 1º dic. 1647, a soli cinquantatré anni, moriva a Firenze lasciando grande rimpianto nei suoi stimatori.

Nello stesso anno della sua morte fu pubblicato il De praestantia musicae veteris. L'opera è divisa in tre libri: nel primo, in un dialogo a quattro, Caridoro, facendosi portavoce dell'autore, prende le difese della musica greca e cerca di dimostrarne, in polemica con Gaffurio, la superiorità. Vengono qui ribadite le accuse di scarsa e superficiale conoscenza dei teorici antichi che il D. aveva espresso a Nicola Vicentino nel Compendio. Nel secondo libro, antagonista di Caridoro è Filofono, che cerca di mettere in risalto i pregi della musica moderna. Caridoro replica accusando i compositori moderni di scrivere le musiche senza tenere conto del testo, adattando quest'ultimo a musiche composte in precedenza. Nell'ultimo libro prova la superiorità, sia nell'arte del canto sia nella scelta e nell'uso degli strumenti, degli antichi sui moderni, rilevando in particolare l'uso della omofonia presso i Greci: ad essi infatti non si adattava, perché troppo elaborata, la polifonia. Le pagine conclusive trattano dell'arte della danza e dei ballerini.

Gli amici e discepoli poco fecero alla morte del D. per la pubblicazione delle sue opere rimaste manoscritte. Solo i figli, vent'anni dopo la morte del padre ebbero cura di dare alle stampe il trattatello De restituenda salubritate Agri Romani (Firenze 1667) che era già ultimato nel 1631. Si tratta di un'opera encomiastica per la città che lo aveva ospitato: si considerano i pregi e i difetti di Roma e del territorio circostante, riportando poi le condizioni climatiche di altri luoghi.

Doveva passare circa un secolo prima che le sue due opere più importanti fossero pubblicate. Anton Francesco Gori, notissimo antiquario, preposto della basilica del battistero di Firenze e professore di storia, nel 1731 curò l'opera Inscriptiones antiquae. Vedeva così la luce a Firenze la grandiosa raccolta di documentazione archeologica che, con costanza e ferrea volontà, il D. aveva realizzato con le sue intense e instancabili ricerche fatte in Italia, Francia e Spagna. La parte più interessante è quella epigrafica con oltre seimila testimonianze. Lo stesso Gori stava inoltre curando l'edizione della Lyra Barberina, l'opera senza dubbio più importante della produzione del D. e di notevole interesse nella storia della musica del Seicento, che fu divisa in due libri dal Gori. Purtroppo il curatore nel 1757 moriva, lasciando però a Giambattista Passeri il completamento dell'opera. Nel 1763 a Firenze il capolavoro del D. vedeva così la luce suscitando ammirazione e nello stesso tempo rammarico per il ritardo con cui si era venuti a conoscenza di questo interessante lavoro musicologico.

Il primo libro dell'opera è diviso in cinque parti, ognuna delle quali è un vero e proprio saggio musicologico. La prima, intitolata Commentarii de Lyra Barberina, dà il titolo all'intera opera ed ha come argomento gli studi fatti dal D. sulla citaristica greca che lo portarono alla realizzazione della lyra detta "Barberina" in onore di papa Barberini che aveva protetto i suoi studi. Ispirata al "tripus" di Pitagora di Zacinto, essa è costituita da un treppiede rovesciato sul quale potevano collocarsi le intonazioni lidia, frigia e dorica. L'autore dimostrava che lo strumento poteva perfettamente essere usato nelle moderne pratiche musicali. La seconda parte di questo primo libro era già stata pubblicata nel 1647 con lo stesso titolo De praestantia musicae veteris. La terza parte, divisa in due capitoli, è intitolata Pro gymnastica musicae pars veterum restituta et ad hodiernam praxim redacta. La quarta riferisce della musica sacra recitata nell'Accademia Basiliana. L'ultima parte di questo primo libro è composta di due trattati, l'uno sopra il genere enarmonico, l'altro sopra gli strumenti musicali a tasti. Il secondo volume dell'opera "esamina e dimostra - come dice il titolo - la forza e l'ordine della musica antica e per qual via ridar si possa alla pristina efficacia la moderna". Può essere diviso in tre parti. La prima è intitolata Trattato della musica scenica; la seconda è costituita da una serie di lezioni tenute dall'autore nella corte pontificia e presso l'Accademia della Crusca: si va dal "modo tenuto dagli antichi nel rappresentare le Tragedie e le Commedie" a come rappresentare le azioni drammatiche "in musica in tutto o in parte" e concludono la rapsodia e il mimo antico; la terza parte contiene discorsi, osservazioni e lettere dell'autore e di altri musicologi.

Più interessante appare il Trattato della musica scenica che risulta diviso in sessantanove capitoli. I primi sono dedicati alla storia e all'uso della musica in scena; si considera poi l'alternanza di recitazione e canto, lo stesso concetto viene quindi ripreso più avanti quando si affronta il tema della improvvisazione degli attori. Per il D. è indispensabile affidare diverbi e colloqui a commedianti di professione, sempre professionisti debbono essere quei cantori ai quali vengono affidati gli a solo. Gli ultimi capitoli sono dedicati agli strumenti musicali e al loro uso nelle rappresentazioni, alla melopea, ai cori, al ballo; l'autore conclude con note sulla tecnica di costruzione e sulla grandezza dei teatri.

Molti sono gli inediti del D.; nel 1961 Teresa Lodi ha pubblicato, traendolo dagli scritti bibliografici, il Catalogus scriptorumFlorentinorum. Circa trenta manoscritti vengono analizzati e descritti con studio sapiente e approfondito; interessante appare la tesi sostenuta dalla Lodi nella presentazione dello studio, secondo la quale il D. sarebbe il primo a teorizzare, nel campo della bibliografia, un catalogo universale, precedendo in questo di almeno vent'anni l'Orbis literarius universus di Raffaele Savonarola.

A quasi certo che la nota musicale do derivi dalla prima sillaba del cognome del D. che per primo la introdusse nella scala musicale in sostituzione dell'ut della solmisazione di Guido d'Arezzo.

Fonti e Bibl.: L. Allacci, Apes urbanae..., Romae 1633, p. 149; Notizie letterarie, ed istoriche, intorno agli uomini illustri della Accademia Fiorentina, Firenze 1700, pp. 336-344; S. Salvini, Fasti consolari dell'Accademia Fiorentina, Firenze 1717, pp. 504-510; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, p. 245; G. Cinelli Calvoli, Bibl. volante, II, Venezia 1734, p. 245; A. M. Bandini, Commentarium de vita et scriptis Ioanni Bapt. Doni, Florentiae 1755; Elogi degli uomini ill. toscani, III, Lucca 1771, p. 337; A. Fabroni, Vitae Italorum doctrina excellentium qui saeculis XVII et XVIII floruerunt, XVII, Pisis 1778, p. 141; Biografia universale antica e moderna, Venezia 1824, pp. 197-200; F. Inghirami, Storia della Toscana, I, Fiesole 1843, p. 540; Isecoli della letter. ital. dopo il suo risorgimento, III, Torino 1854, p. 337; A. Belloni. IlSeicento, Milano 1880, pp. 321 s., 369 ss., 435; A. D'Ancona-O. Bacci, Manuale della letteratura italiana, III, Firenze 1901, p. 466; A. Solerti, Origini del melodramma, Torino 1903, pp. 186-228; F. Vatielli, L'autografo della Lyra Barberina di G. B. D., in La Nuova Musica, X (1905), 114, pp. 45 ss.; Id., La "Lyra Barberina" di G. B. D., Pesaro 1909; R. Schaal, Ein unbekannter Brief von G. B. D., in Acta musicologica, XXV (1953), pp. 88 ss.; T. Lodi, IlCatalogus scriptorum Florentinorum di G. D., Firenze 1961; C. Gallico, Discorso di G. B. D. sul recitare in scena, in Riv. ital. di musicol., III (1968), pp. 286-302; P. Ledda, G. B. D.: il De praestantia musicae veteris, in Congresso internazionale sul tema: Claudio Monteverdi e il suo tempo, a cura di R. Monterosso, Verona 1969, pp. 409-420; F. Testi, La musica italiana nel Seicento, Milano 1972, pp. 452-457; Enc. della musica Ricordi, II, p. 79; C. Schmidl, Dizionario universale dei musicisti, p. 455; Die Musik in Geschichte u. Gegenwart, III, coll. 673-78; The New Grove Dict. of music and musicians, V, pp. 550 ss.; Diz. enciclopedico della musica e dei musicisti, II, Le biografie, pp. 520 s.

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