BOCCACCIO, Giovanni

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1992)

BOCCACCIO, Giovanni

V. Branca

Nato probabilmente a Firenze nel 1313, morto a Certaldo nel 1375, B. è il fondatore della narrativa moderna, il maggior novelliere e romanziere europeo in prosa e in versi, tradotto rapidamente tra fine Trecento e primo Quattrocento nelle grandi nuove lingue (francese, inglese, tedesco, spagnolo, catalano). Ma anche la complessa e sempre, lungo i secoli, mobile interespressività parolafigura ha con B. - e particolarmente con i suoi Decameron e Teseida, De casibus e De mulieribus - espressione quanto mai significativa e esemplare, iridata e cangiante. È soprattutto significativa, per B., la realizzazione pratica della tradizione di figurare il gesto e l'azione, per dare loro un'efficacia maggiore e più diffusiva che nei testi scritti: la tradizione medievale cioè delle bibliae pauperum, del gesto catturato, con una immediatezza di immagini simile, da Giotto e da Dante.La narrativa - anche mitologica o storica o moralistica - di B. è prevalentemente icastica, caratterizzante, gestuale. Punta a risolvere i temi e gli intrecci nella forte caratterizzazione dei protagonisti e nel gesto: non più, come nei secoli precedenti, rituale o segno di maestà o di perfezione, ma significante o decisivo o allusivo, con il valore morale di 'fare un segno' in una società ormai avida di segni sociali. Basti pensare a Ciappelletto (Decameron, I, 1) o alla Belcolore (VIII, 2), a Ghismonda (IV, 1) o a Simona (IV, 7), a Federigo degli Alberighi (V, 9) o a Natan e Mitridanes (X, 3); a Didone e Enguldrada (De mulieribus, XLII e CIII), a Saul e Andronico (De casibus, II, 1 e IX, 11).La forte convergenza parola-immagine, affermazione-gestualità, narrazione-figurazione, risponde del resto in B. a una risentita coscienza dell'ambivalenza delle due espressioni (che sempre più si approfondisce in lui) e dell'arte aristotelicamente considerata quale imitatio naturae. B. già nell'Amorosa visione aveva presentato l'"uman man" di Giotto di "tanto ingegno" da poter rappresentare pienamente qualsiasi cosa, perché a lui "la bella / natura parte di sé somigliante / non occultò nell'atto in che suggella" (IV, vv. 13 ss.). E poi più esplicitamente nel Decameron: "Giotto ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose [...], che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse" (VI, 5,5). E conclude, a suggello dello stesso Decameron, con una sonante affermazione degli eguali diritti e doveri della parola e della figura: "alla [...] penna non dee essere meno d'auttorità conceduta che sia al pennello del dipintore" (Concl., 6). Riprende poi in senso più teorico il ragionamento nel trattato sulla poesia e le arti, che conclude la Genealogia, mettendo sullo stesso piano - e ancora una volta citando Giotto - "poemata ex poesia venientia" e "sculptura [...] et pingendi [...] artes" (XIV, 6; e si veda anche XIV, 18).Più chiara affermazione dell'equivalenza della parola e dell'immagine non vi potrebbe essere. Queste dichiarazioni non potevano non essere note agli artisti del tempo. E tanto più perché B. era uno degli esperti per le ordinazioni e le esecuzioni di opere d'arte: esperto di fiducia di grandi personaggi, come gli Acciaiuoli per la certosa di Firenze, e di potenti compagnie, come quella di Or San Michele. Doveva essere in contatto cordiale e continuo con gli artisti e apprezzarli e valorizzarli energicamente: per primo, già nel suo Zibaldone magliabechiano, li enumera fra gli uomini illustri accanto a Dante, Petrarca e Villani, a giuristi e medici; e include, sempre per primo, oltre che "Gioctu florentinus, pictor illustris", anche un grande scultore, Giovanni Pisano (c. 232); fatto notevole, perché di solito gli scultori erano trascurati quasi come spaccapietre e lo stesso Petrarca deprime la scultura del suo tempo (Familiares, V, 17). Nel Decameron, in ben otto novelle B. rappresenta gli artisti vivamente e simpaticamente, nella loro vita bohémienne e nel loro impegno professionale. Una novella (VI, 5) ha per protagonista Giotto sublimemente esaltato per l'arte ma affettuosamente caricatureggiato; un'altra riferisce, con testimonianza unica e preziosa, del grande affresco sull'Ospedale di San Gallo (VII, 9); cinque novelle (VIII, 3, 6, 9; IX, 3, 5) presentano il noto pittore Buffalmacco con il suo inseparabile amico e collega Bruno; e anche il personaggio più amato e più rappresentato, beffato e vezzeggiato nel Decameron, Calandrino, è un pittore. Ed è presentato quando è intento professionalmente - proprio secondo la precettistica del tempo - in S. Giovanni " a riguardare le dipinture e gl'intagli del tabernaculo il quale è sopra l'altare [...] non molto tempo davanti postovi" (VIII, 3, 6), cioè le opere di Lippo di Benivieni. Quelle storielle amene, fatte splendide novelle da B., dovevano essere raccontate dai frescanti sui palchi e dentro le botteghe fra le tavole in lavorazione. Dovevano essere, anche più delle prese di posizioni teoriche di B., popolari fra i pittori e dovevano fra di loro rendere popolare anche quell'affascinante novellatore. Si ha del resto notizia che alcuni fra gli artisti rinascimentali più intelligenti e rinnovatori - da Lorenzo Ghiberti a Filippo Brunelleschi, dai da Maiano a Sandro Botticelli - possedettero e usarono poi i suoi libri.È naturale quindi che una larga influenza poté avere B. sulla figuratività in un momento in cui essa, finendo il Trecento, svoltava decisamente verso interessi e raffigurazioni mondane e narrative: specialmente in quella vastissima produzione, tipicamente borghese come il Decameron, che furono fra Trecento e Quattrocento i tondi e i deschi da parto e i cassoni nuziali. Difatti sono spesso ispiratrici di quei dipinti le scene varie della 'cornice' e diverse novelle del Decameron, come quella di Alatiel (II, 7), di Ginevra (II, 9), di Ghismonda (IV, 1), di Nastagio degli Onesti (V, 8), di Tito e Gisippo (X, 8), di Torello (X, 9), di Griselda (X, 10), rappresentate in diecine e diecine di cassoni e di tondi.Anche prima di queste visualizzazioni e della splendida loro storia fra Trecento e Quattrocento è B. stesso che sperimenta, di sua mano, nell'autografo del Decameron (Berlino, Staatsbibl., Hamilton 90), il rapporto parola-figura con un eccezionale impegno che sposa in lui il narratore in scrittura con il narratore in immagini.Si tratta di un caso assolutamente eccezionale: uno dei più grandi classici antichi e moderni si è impegnato sincronicamente a esprimere in parole e in immagini la sua vis caratterizzante di uomini e di situazioni. Né Dante, né Petrarca, né alcun altro grande classico antico, medievale o rinascimentale tentò di illustrare direttamente il proprio capolavoro come ha fatto invece B. con il suo Decameron. Opera in lui già nel Teseida e negli Zibaldoni giovanili una sollecitazione costante - anche teorica e programmatica, come già è stato rilevato - verso le visualizzazioni. B. del resto rivela - come hanno constatato Berti (1966), Meiss (1967), Degenhart, Schmitt (1968), Di Benedetto (1971) e Avril (Boccace en France, 1975) - una mano da dilettante sì, ma esperta nelle maniere e nelle tecniche del disegno fiorentino a metà del Trecento.Quando egli volle, nella sua piena maturità culturale e umanistica, verso il 1370 - proprio al tempo della Genealogia e delle trascrizioni dantesche - dare più splendida vita al suo capolavoro, al Decameron, non solo lo corresse e lo rielaborò stilisticamente e narrativamente, ma si impegnò sistematicamente in alcuni tentativi di visualizzazione di personaggi.L'amore e l'impegno di B. sessantenne, proprio come scrittore, si rivelano naturalmente soprattutto nella desta attenzione rivolta a correggere e a variare il suo testo più affascinante. Sono migliaia gli interventi nuovissimi volti a rendere più icastici i ritratti delle persone e più colorito espressivisticamente e serrato il racconto. Corrispondentemente questo nuovo impegno espressivo di artista si appunta e si scopre in una direzione più singolare e in certo modo più arditamente rinnovatrice ma in senso del tutto coerente all'elaborazione stilistico-narrativa che caratterizza la trascrizione. B. eseguì quali 'richiami' sedici disegni a due o a tre colori di sua mano, come è stato dimostrato (Branca, 1962; Degenhart, Schmitt, 1968; Petrucci, 1970; 1974). Egli volle così rendere più evidente ora il realismo, ora la vis comica, ora l'altezza d'animo con le quali a volta a volta sono presentati protagonisti o personaggi delle novelle più significative ed esemplari e della stessa 'cornice'. Tre dei sedici ritrattini, alla fine di ogni fascicolo, non sono giunti per la caduta (o forse la sottrazione proprio in grazia dei disegni) del primo, del decimo e del dodicesimo quaterno. Ma quelli che sono rimasti, pur nella loro modestia dilettantesca e corsiva, rivelano chiaramente i caratteri dell'illustrazione voluta da Boccaccio.La mano di B. appare come quella di un disegnatore di doti native non sorrette però da un tirocinio tecnico seppure arricchite da una notevole cultura pittorica e visuale, particolarmente del costume. Specialmente nei profili femminili di Alatiel (II, 7; c. 23v), Neifile (III, intr.; c. 31v) e Jancofiore (VIII, 10; c. 95v) sono chiari i riflessi dello stile gotico tradizionale nei ritratti di sante: per le figure svettanti, per l'impostazione flessuosa, per la predilezione di linee curve. Sono in generale, quei ritratti, teste o mezzi busti, di profilo o di tre quarti, impostati secondo la tradizione, specialmente scultorea, dei secc. 13° e 14° in Toscana.Una capacità di osservazione psichico-gestuale e una volontà di caratterizzazione fino alla caricatura contrassegnano, con doti tutte narrative, queste figurine. In generale i disegni dell'autografo fermano il profilo parlante del protagonista della novella, ma non senza eccezioni provocate probabilmente dall'estro e dalle preferenze del narratore. Così la volontà di variare dai soliti uomini e donne borghesi e la predilezione fantastica per scene di armati fanno preferire proprio uomini d'arme nelle novelle che hanno a protagoniste Andreuola (IV, 6; c. 55v) e Agnolella (V, 3; c. 63v).È sempre l'occhio penetrante del novellatore a guidare la mano del disegnatore, dilettante felice per la capacità di rendere, con pochi tratti, il profilo, gli occhi e la bocca e il caratteristico portamento. L'icasticità verbale si riflette in quella figurativa nella sequenza delle illustrazioni tutte funzionali, spesso con intenti rafforzativi o intensivi in senso allusivo o espressivistico.Sembra che B., con i suoi disegnini, pur modesti e dilettanteschi, abbia voluto anzitutto dar rilievo alle due idee-forza, o meglio alle due concezioni-portanti del suo capolavoro, proprio come sono state identificate dalla più rigorosa filologia e dalla più accreditata critica: da una parte ai tre trionfi della Fortuna, dell'Amore e dell'Ingegno in cui si articola la multiforme commedia dell'uomo e 'de li vizi umani e del valore', rappresentata nel Decameron (quattro ritratti per ciascun 'trionfo'; mancano quelli per la finale apoteosi della virtù della X giornata, perché le pagine sono quasi tutte cadute); dall'altra alla presenza, prepotente nell'ultima civiltà comunale, della nuova classe dirigente di cui nel Decameron egli volle scrivere l'epopea, cioè la chanson de geste dei paladini di mercatura (su dieci uomini rappresentati sei sono mercatanti).Accanto alla funzione delle figurazioni per rilevare la materia preponderante e il disegno ideale stesso del Decameron, una più intima e sottile ispirazione narrativa circola fra la splendida parola e la modesta grafica, pur nell'enorme differenza di tensione e di livello. È la vena espressivistica rivelata proprio dall'ultima redazione autografa nel prodigioso tessuto rappresentativo e nel ritmo fantastico del Decameron.B., si sa, è descrittore quanto mai sobrio di ambienti, di cornici materiali, di paesaggi. Punta tutto all'uomo e alle sue passioni; le ambientazioni stesse sono sempre più di spirito e di persone che di cose e di materia. Anche nei suoi disegnini fa posto esclusivamente a interpretazioni di uomini, in assoluto contrasto con i disegnatori e miniatori posteriori. Specialmente quelli d'Oltralpe sono generosissimi di paesaggi di ogni specie, di ambienti fastosi, di scene corali. Anche quando delineano figure quegli illustratori, pur felicissimi artisti - da Taddeo Crivelli (Oxford, Bodl. Lib., Leicester 531), a Jean Fouquet (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Gall. 6), ai maestri di Boucicaut (Lisbona, Mus. Calouste Gulbenkian, L.A. 143) e della Cité des Dames (Roma, BAV, Pal. lat. 1989) -, usano un calligrafismo convenzionale, un'eloquenza astratta lontani da una vera caratterizzazione del personaggio. Proprio invece a una forte, espressiva - alle volte esasperata e quasi caricaturale - caratterizzazione umana, parlata e dialettale, mira B. pur nella sua tutta artigianale capacità grafica, appunto come nella sua prosa. Le trionfanti corna e la rossa lingua penzolante, da scimunito, che risaltano sul cappuccio e la cocolla monastici, di cui era fierissimo, accentuano esasperatamente con il loro linguaggio becero, da lazzo parlato e quotidiano, la caratterizzazione della babbeaggine di quel bigotto cornuto che è Gianni Lotteringhi (VII, 1; c. 79v), visivamente assimilato alla paradigmatica figura dello 'stolto' nella pittura del tempo.Al di là del mediocre livello è chiara, anche nel B. disegnatore, la volontà tutta sua, caratteristicamente sua, di fare campeggiare nella sua narrativa l'uomo e solo l'uomo. Non volle ornamenti, decorazioni per il libro più caro, ma una sia pur modesta interpretazione visuale in quella chiave espressivistica che egli stava imponendo alla narrativa europea: con quelle convinzioni realistiche e caratterizzanti che egli esaltava in Giotto e che, come hanno dimostrato Prandi (1951-1954), Robertson (1963), Watson (1970; 1984), Gilbert (1991), erano al centro della sua estetica artistica.Nonostante queste impostazioni impegnative, B. volle mantenere le illustrazioni del Decameron su quel piano pratico, tipicamente borghese-mercantesco, che caratterizza il suo capolavoro. Egli, rivolgendosi intenzionalmente a interlocutori semplici (alle donne e agli uomini 'sanza lettere'), a un pubblico borghese e anche popolaresco, più vasto del consueto, si fece iniziatore di illustrazioni che in certo senso preludono a quelle del 'genere' fumetto. Sono proprio le forme che, prima di divampare nella nostra età, si sviluppano all'epoca di B. nelle figurazioni delle raccolte esopiche e dei cantari, dei romanzi di cavalleria e degli exempla, cioè nei testi di lettura della nuova società borghese.Un tutto diverso indirizzo ha l'illustrazione nell'autografo della Genealogia deorum (Firenze, Laur., Plut. 52.9): un indirizzo didascalico, chiarificatore, con gli eleganti alberi genealogici a tre colori che schematizzano la materia di ogni libro, le varie discendenze mitologiche.Nella visualizzazione del Decameron la lezione figurativa di B. non è senza udienza nell'età più sua: soprattutto in quel pubblico mercatantesco che aveva decretato il trionfo dell'opera, che se ne era disputato a colpi di bei fiorini d'oro le prime copie, come fin dal 1360 narra una lettera di casa Acciaiuoli (Branca, 1950, p. 48; 1958-1991, II, p. 163 ss.).Con ardimento e con risoluta coscienza narrativa in un codice ora a Parigi (BN, ital. 482), con diciassette graziosi disegni a penna e a bistro ombreggiati, sono puntualmente illustrate le varie giornate, l'Introduzione e la Conclusione.Il codice era di una famiglia di mercanti legata a quella di B.: il suo trascrittore, come segnala la soscrizione finale, fu Giovanni d'Agnolo Capponi, che dovette redigerlo, come rivela la mano, da giovinetto, prima di ricoprire alte cariche nella repubblica fiorentina, come quella di priore nella Signoria forse nel 1375 (proprio l'anno in cui B. morì) e per le Arti Maggiori nel 1378. E certa arcaicità nell'illustrazione conferma la probabile appartenenza del codice al settimo decennio del 14° secolo. Le architetture di fantasia sono romaniche; la natura e gli alberelli sono stilizzati, come nella pittura della prima metà del Trecento e come nelle Storie di Troia disegnate da Onofrius (Firenze, Laur., Plut. 62.13); le vesti riportano a metà Trecento (sono della stessa foggia di quelle negli affreschi a S. Maria Novella di Nardo di Cione o nelle Storie di Troia citate). Degenhart (Degenhart, Schmitt, 1968) nota anche che nel profilo stilizzato di Firenze (c. 214) sembrano emergere la vecchia torre di S. Reparata e la chiesetta di S. Michele di Visdomini, ambedue demolite fra il 1359 e il 1370, e nota pure che nella fontana raffigurata a c. 4 sembra vedersi una riproduzione della Venere pudica che era sulla Fonte Gaia di Siena sino al 1357. Sono tutti indizi che convergono, con i suggerimenti dei dati archivistici, a far ritenere che Capponi scrivesse e illustrasse il suo codice vivente ancora Boccaccio. Ma le visualizzazioni, nonostante il modello boccacciano (forse però ignoto al disegnatore), già spostano l'attenzione dall'uomo all'azione, dalla caratterizzazione della persona alla narrazione, con un'ispirazione e un'impostazione un po' simili a quella dei cassoni e delle spalliere. L'illustrazione è evidentemente opera di mano fiorentina, nonostante qualche particolare gotico di gusto settentrionale specialmente nel primo e più impegnativo disegno per l'Introduzione (c. 4). È una mano forse di professionista, certo esperta e qualificata, di una garbata fluidità narrativa, retta da una sicura e diretta esperienza dei paesaggi, dei monumenti e dei costumi fiorentini.Ancora nella cerchia mercatantesca fiorentina, in una ricca famiglia di lanaioli, nasce e si muove il codice del Decameron con la più ampia e insistente illustrazione (Parigi, BN, ital. 63), scritto negli anni venti, come accerta la soscrizione finale (1427), da Lodovico di Salvestro Ceffini, probabilmente mentre era podestà a Cascia. Salvestro, nato verso il 1393, mercatante di famiglia attiva con la compagnia dei Bardi, è nel 1424 Operaio del Duomo e nel 1438 uno dei Dieci di Libertà. Il testo è accompagnato da centoquindici acquerelli a quattro o cinque colori (uno ogni novella, oltre uno per il Proemio, quattro per l'Introduzione, nove per le introduzioni alle giornate II-X, uno alla fine), opera di bottega, a più mani (Watson, 1984). Secondo i gusti del ceto medio, dei circoli borghesi e commerciali, le illustrazioni, lontane da ogni aristocratica fattura, hanno l'immediatezza di una traduzione visiva dei momenti salienti delle novelle. Sono vignette per lettori non letterati ma avidi di vicende appassionanti. Dalla vasta tastiera di rappresentazioni si potrebbe anche trarre, un po' come dal famoso codice Rustichi (Firenze, Seminario Maggiore Arcivescovile, Bibl.), una caratteristica descrizione della vita fiorentina del tempo, integrata dalla ripetizione di motivi iconografici della tradizione sia religiosa sia profana."Lo stile ripete, semmai, a distanza, i contemporanei modi del tardo-gotico profano" (Berti, 1966). Si può pensare vagamente ai disegnini in un codice di un'altra opera di B., il Filostrato (Firenze, Bibl. Naz., Magliabechiano II.II.90), o a quelli di certi romanzi italiani della Tavola ritonda (Delcorno Branca, 1980), o a quelli dello Speculum humanae salvationis (James, Berenson, 1926), o a certi cassoni del primo Quattrocento (Schubring, 19232, nrr. 56, 85, 88), o persino a certe predelle di Lorenzo Monaco.Al Tardo Gotico profano è legata specialmente una delle mani presenti nel codice (ve ne sono forse otto; Watson, 1984), che ricorda in qualche modo quelle che sono presenti in due codici di Esopo (Firenze, Bibl. Riccardiana, 1591; Bibl. Naz., Magliabechiano XXI.87). È di "una tipologia lunga e appuntita, con figurette inflesse nell'anchement e dalle mani tipicamente gesticolanti, rocce sforbiciate ed alberelli schematici (alla Domenico Veneziano), edifici tutti sghembi nella prospettiva errata. Tuttavia la rappresentazione ha una pungente vivacità e una qualche capacità di sintesi" (Berti, 1966) anche se ripete moduli diffusi (per es. quelli della Morte che sorvola a cavallo i cadaveri, dei musicanti, dei barcaioli). Altre mani nello stesso codice - che ricordano quella dell'illustratore delle Croniche di Giovanni Sercambi (Lucca, Arch. di Stato, Guinigi L266) - "schizzano invece più verso il tozzo e con una sciatteria talora quasi infantilesca" (Berti, 1966).Con questo vasto e puntiglioso ciclo di illustrazioni nel codice Ceffini sembra concludersi la prima fase di visualizzazioni del Decameron, quella nell'età stessa di B., cioè nel mezzo secolo seguito all'ultima redazione dell'opera. È una fase caratterizzata dalla volontà esplicita e manifesta di visualizzare il testo, di far circolare nella rappresentazione per tratto e per colore lo stesso spirito che animava la rappresentazione narrativa per suoni e per parole. È un impegno fondamentale comune così all'espressivismo figurale di B., disegnatore teso a dare evidenza visiva ai caratteri e ai temperamenti dell'uomo, come alla fluida episodicità e alla rappresentatività sociale dei disegnatori nei codici Capponi e Ceffini.In tutti e tre i codici l'illustrazione è legata strettamente al testo, gli dà coerentemente un'evidenza sul piano visivo. Chi disegna non solo conosce ma rivive con partecipazione ed entusiasmo il testo. È un fanatico del Decameron, un illustratore per passione, come erano fanatici e scrittori per passione i primi copisti dell'opera (Branca, 1950; 1958-1991, II).Ma al tramonto della società e della civiltà mercatantesca, comunale e tardomedievale, il rapporto tra parola e figura muta per il Decameron; come muta nelle affermazioni trionfali dell'opera, accanto al De casibus e al De mulieribus, alle corti francesi e borgognone tra autunno del Medioevo e primo Rinascimento. Dalla visualizzazione del testo si passa all'ispirazione figurativa tratta dal testo, dalla narratività all'ornamentalità, dal disegno o dall'acquerello artigianali, spesso quasi parlati, alla miniatura più raffinata o all'opera autonoma di professionisti e di artisti qualificati. È la nuova storia del Decameron aristocraticamente visualizzato mentre da libro da camera e di divertimento borghese, da best seller e da lettura di consumo mercantile, passa a libro di biblioteca signorile, di lettura cortigiana, di alta letteratura canonica ed esemplare. È stato spontaneo riferirsi, sia pur per opposizione, alla grande pittura fiorentina fra gli ultimi decenni del Trecento e i primi del Quattrocento per i tre più antichi codici del Decameron illustrati nell'ambiente stesso di Boccaccio. Anzi, questi riferimenti possono aprire prospettive sulla presenza determinante, nelle arti, dell'esempio e dell'opera di Boccaccio. Il Decameron infatti - come è stato dimostrato (Branca, 1950; 1958-1991, I; Berti, 1966; Bec, 1967) - dovette circolare presto, per lettura diretta o per racconti orali, tra borghesia mercantile e pubblico femminile; ma circolò, come già rilevato, anche tra quella categoria di temperamenti naturalmente estrosi che sono gli artisti.Tuttavia bisogna avvertire che in quel momento, a fine Trecento, non esisteva "un punto di agevole contatto e di sintesi - l'illustrazione appunto - tra l'immaginazione degli scrittori e la fantasia dei pittori o miniatori. L'illustrazione si verifica, ma i binari sono in effetti ben separati (fra testo e figure) e piuttosto distanti" (Berti, 1966). È molto probabile che B. abbia contribuito, insieme ad altri autori e fattori letterari, allo sviluppo di una tradizione figurativa diversa da quella svoltasi sulla linea Giotto-Michelangelo: cioè a un gusto di fantasiosità profana, di descrittivismo cortese e di allegri ludi mondani, soprattutto amorosi, e di narratività rapida e di notazione umoresca. È la tendenza che si manifesta nella pittura fiorentina, già prima di Paolo Uccello, Botticelli e Ghirlandaio, in quella vastissima produzione, tipicamente borghese, che furono - tra la fine del sec. 14° e il primo scorcio del 15° - i deschi da parto e i cassoni nuziali.Un cassone, in parte a Venezia (Fond. Cini) e in parte a Firenze (Mus. Naz. del Bargello), di scuola fiorentina forse ancora del Trecento, vuole rappresentare la fiabesca novella del Saladino (X, 9). Un altro cassone del primo Quattrocento, attribuito ad Apollonio di Giovanni (Venezia, Mus. Correr), interpreta fiabescamente le incredibili, fresche e insieme maliziose, avventure di Alatiel attraverso il Mediterraneo (II, 7), rappresentate anche in un più tardo cassone attribuito a Parentino (Vienna, Weinmus. Schlumberger, inv. nr. 628). Un altro (Edimburgo, Nat. Gall. of Scotland), attribuito a Giovanni Toscani e databile tra 1420 e 1430, presenta la celebre storia della moglie virtuosa Ginevra, apparentemente adultera per gli inganni di un calunniatore, Ambrogiuolo, e che poi trionfalmente si fa riconoscere innocente dal marito Bernabò che l'aveva condannata a morte (II, 9).Era un tema tale da confortare i mariti viaggiatori ad avere fiducia nelle mogli, anche contro le più evidenti male voci. Proprio per questo si vede la novella figurata nei cassoni delle camere nuziali accanto alle storie di Adalieta (X, 9) e di Griselda (X, 10), spose fedelissime (per es. Venezia, Fond. Cini; Firenze, Mus. Naz. del Bargello; Modena, Gall. e Mus. Estense; Bergamo, Accad. Carrara; Firenze, Coll. Serristori; Milano, Coll. Bagatti Valsecchi; Londra, Nat. Gall.). A parte la scarsa levatura, è facile però constatare che il pittore del cassone di Edimburgo non sa trovare nel testo sufficienti agganci per la traduzione figurativa. Deve, per es., immettere particolari nuovi nella scena centrale, come i gruppi di monelli, che sono "aggiunte gratuite ma atte a movimentare" (Berti, 1966).Nei pannelli di questi e di altri cassoni (se ne conoscono una ventina) le vicende umanissime e realistiche delle novelle decameroniane tendono a impreziosirsi e a trasfigurarsi, proiettate come sono in un mondo fiabesco, in un mondo incantato, ma convenzionale, derivato dal Tardo Gotico e dal Gotico fiorito delle illustrazioni dei romanzi cavallereschi e dei cantari. Basti ripensare ai pannelli dorati e gentileschi e smagati dedicati alla sensuale e realistica novella di Alatiel.Gli artisti-artigiani dei cassoni e quelli chiamati a illustrare un libro borghese come il Decameron non avevano, in generale, l'estro e neppure la cultura per porsi all'altezza della forza umana e narrativa di Boccaccio. Non sempre, del resto, dovevano leggere il testo; dovevano in generale eseguire le figurazioni sulle scarne indicazioni loro fornite da committenti e imprenditori. Alle volte, specialmente Oltralpe, si direbbe anzi che lavorassero quasi in serie, come facevano del resto gli illustratori dei romanzi cavallereschi. Riprendevano, senza leggere, pigramente da modelli fissi adattandoli, alla meglio, alla novella boccacciana: fino a sovrapposizioni e a equivoci quasi umoristici. Per rappresentare, per es., l'avventuroso incontro clandestino di due amanti, Ricciardo e Catella (III, 6), in uno di quei bagni napoletani detti 'stufe' (che erano divenuti equivoche case d'appuntamento), il Maestro della Cité des Dames (Roma, BAV, Pal. lat. 1989) utilizzò disinvoltamente, apportandovi solo lievissime varianti, nientemeno che il modulo figurativo canonico per la nascita della Vergine (Meiss, 1967).Ma con questo emerge anche un'altra questione, di carattere pratico e addirittura economico: i borghesi fiorentini che si procuravano (magari copiandoseli da sé) esemplari del Decameron, non solevano tuttavia destinargli né miniature sontuose, né miniatori qualificatissimi, come invece avviene più tardi presso i principi italiani o presso le corti di Borgogna e di Francia. Anzi il Decameron, come detto, non era considerato nel Trecento libro da biblioteca: era sentito come un'opera amena e 'da camera', "per cui sarebbe parso a Firenze un lusso quasi riprovevole se proprio ad esso si fossero dedicati dei grossi impegni artistici" (Branca, 1966). Non si deve dimenticare, poi, che fin ben dentro il tempo mediceo, si prolungò tra i fiorentini un clima, almeno esterno, di austera moralità civile, che culminò - nel primo Quattrocento - con l'Umanesimo di Francesco Bruni. E difatti, anche a scorrere il regesto delle miniature fiorentine del tempo (Levi D'Ancona, 1962), si ha l'impressione che le cure maggiori fossero riservate ai testi religiosi di uso pubblico; solo dopo di essi venivano testi laici, soprattutto classici, che avessero però grande dignità e utilità dichiarate. Sia per la sfasatura tra momenti letterari e momenti artistici, sia per le particolari qualità del 'genere' novellistico, sia infine per le condizioni sociologiche contemporanee di Firenze, non si ebbero in campo figurativo tutte quelle immediate ripercussioni che avrebbe prospettato il successo vasto delle cento novelle.Solo nel tardo Quattrocento dalla tradizione figurativa umilmente caratterizzata e caratterizzante, avviata da B. e conservata nell'età più sua, il Decameron - accanto alle opere moralistiche, storiche, erudite - viene assunto nell'altra tradizione, quella nobile ed esornativa. È un passaggio che avviene quando l'opera di B. viene fatta ascendere decisamente nell'olimpo letterario: in Italia dal Rinascimento 'volgare' e dalle librerie principesche, Oltralpe dal raffinato e gaudente o moralistico gusto tardogotico delle corti provenzali, borgognone, francesi, anglosassoni.Quarant'anni separano il citato grande ciclo di illustrazioni che Lodovico Ceffini fece eseguire nel 1427 e quello commissionato nel 1467, nella corte del duca di Ferrara Alberto d'Este, per Teofilo Calcagnini, alla raffinatezza miniatoria di Taddeo Crivelli (Oxford, Bodl. Lib., Leicester 531). Crivelli s'impegnò con il suo squisito repertorio rinascimentale di filigrane a candelabre e fregi, di rosette e bottoni e foglioline auree, di iniziali e girari e cartigli, di animaletti e mascheroni allusivi. Ma la S. Maria Novella del frontespizio è un'aula di pura fantasia; le altre figurazioni si riducono a ritrattini del tutto convenzionali del novellatore che regna per ogni giornata. Si tratta di un capolavoro di eleganza esornativa, di purezza stilistica più che di un saggio di impegno narrativo, di interpretazione realistica dei testi.È noto che anche Marco dell'Avogaro, un collaboratore di Crivelli, ebbe in quegli stessi anni l'ordinazione di un Decameron per la corte degli Este, appassionata di letture in volgare. L'opera era ormai salita in Italia alle biblioteche auliche, come testimoniano altri lussuosi esemplari del Decameron dei re di Napoli (Parigi, BN, ital. 63) o anche il Filocolo di Luigi III di Mantova (Oxford, Bodl. Lib., Canon it. 85). E frattanto la grande pittura, fiorentina e non, sotto l'influenza della cultura letteraria di Lorenzo il Magnifico e di Angelo Poliziano, ne traeva soggetti. Botticelli, probabilmente in occasione di un matrimonio del 1483, "in casa Pucci - scrive Vasari (Le Vite, III, 1971, p. 514) - fece di figure piccole la novella del Boccaccio di Nastagio degli Onesti in quattro quadri, di pittura molto vaga e bella" (tre sono ora a Madrid, Mus. del Prado, il quarto a Firenze, coll. privata) e ripeteva la scena centrale della novella insieme ad altre boccacciane, anche dai poemi e dai trattati, nella Calunnia (Firenze, Uffizi). La stessa storia attirava l'impegno di botticelliani o comunque di artisti fiorentini dell'epoca e forse di Ercole de Roberti o allievi (Schubring, 19232, nr. 573). Apollonio di Giovanni, Francesco Pesellino, forse Filippo Lippi e Luca Signorelli o la sua bottega fissavano l'apoteosi della virtù di Griselda (X, 10) in dipinti o in cassoni oggi a Modena (Gall. e Mus. Estense), Bergamo (Accad. Carrara), Firenze (Coll. Serristori), Milano (Coll. Bagatti Valsecchi), Londra (Nat. Gall.). E la stessa novella esemplare era figurata nel castello di Roccabianca, nel castello Visconteo di Pavia, nel casino dell'Ariosto il Mauriziano (Reggio Emilia) da vari artisti settentrionali.Non solo però quale fornitore di soggetti narrativi alla pittura profana B. è presente nell'arte tardomedievale e rinascimentale. Una presenza anche più interessante e sollecitante è quella nelle vesti di creatore o rinnovatore di tipologie artistiche, proprio in grazia alla sua potenza ed evidenza di narratore e alla forte icasticità delle sue rappresentazioni.È un intervento, quello di B., che acquista particolare significato nella storia dell'iconografia e delle implicazioni fra letteratura e pittura, quando lo si vede agire in direzioni varie: per es., con la novella di Cimone (V, 1) nell'allegoria dell'amore nobilitante e nello stabilire il canone della 'nuda' non più in piedi ma sdraiata e contemplata (per es. Botticelli, Palma, forse Tiziano, Bonifacio Veronese, ecc.; Branca, 1987a); con la novella di Ghismonda (IV, 1) nella raffigurazione del cuore come emblema dell'amore, ostenso nella sua fisicità (Cima, Bachiacca, Mei, Hogarth); con la novella di Nastagio (V, 8) nel rinnovamento del tema della caccia infernale in senso redentore (Botticelli, Giovanni di Paolo; Branca, 1958-1991, II; 1990a; in corso di stampa). E così in trasformazioni profane di atteggiamenti o inquadramenti iconologici religiosi (le amanti con il corpo dell'amante morto atteggiate come la Madonna nelle più classiche Pietà, IV, 1; lo sposalizio di Griselda arieggiante allo sposalizio della Vergine, X, 10), in risoluzioni novellistiche di temi biblici (la genovese Ginevra al posto di Susanna come bella innocente calunniata, II, 9), in sostituzioni di personaggi novellistici a eroi mitologici o storici (come Carlo Figiovanni al posto di Ercole al bivio, X, 1; Torello ospite grazioso al posto di Bauci e Filemone, X, 9).Ritornando alle illustrazioni vere e proprie del Decameron, la prima storia di esse in Italia si può concludere con le centoquattro xilografie dell'edizione veneziana di De Gregori del 1492 riprodotte nelle stampe del 1498 e del 1504 con soppressioni e disordini. Sono illustrazioni garbatamente limpide ed euritmiche e semmai un po' svagate; sono veramente esemplari di una contaminazione fra le due tradizioni - la narrativa e la decorativa - operata nella cultura sempre anacronistica e sempre spregiudicata di Venezia, tesa, dopo la caduta di Costantinopoli, alla conquista della sua nuova via commerciale, cioè del mercato librario europeo. I legni - dovuti a due mani diverse - sono stati concordemente ammirati come piccoli capolavori per la ricchezza di fantasia, l'eleganza della tecnica, la felice visualizzazione degli episodi; si è persino frettolosamente parlato di influenze o di bottega di Vittore Carpaccio.L'assunzione di B. nel più alto empireo letterario è celebrata nello stesso periodo dai suoi ritratti e dalle sue varie raffigurazioni. Erano state limitate nel Trecento a quelle strumentali e naturali come 'offerente' nelle tavole da lui donate alla sua chiesa di Certaldo e come autore nei codici dei suoi scritti (Parigi, BN, ital. 482, del 1370 ca.; Firenze, Laur., Plut. 34.49, del 1379; Bibl. Naz., Magliabechiano II.II.38, del 1397; Venezia, Bibl. Naz. Marciana, it. X.127, del 1450). Si citano solo alcuni ritratti che potrebbero avere qualche pretesa di autenticità prescindendo da quelli - numerosissimi - tutti convenzionali e in cui B. è stilizzato come 'l'autore' (specialmente nel De casibus e nel De mulieribus). Solo ai primi del Quattrocento si ha notizia di progetti a Firenze di ritratti monumentali di B. fra altri uomini famosi: nel duomo (secondo una delibera del comune mai messa in atto), in Palazzo Vecchio, in una serie di ventidue illustri per cui Coluccio Salutati compose i tituli (affresco distrutto), nella sede dei giudici e notai in Palazzo del Proconsolo verso il 1405 (ne resta qualche frammento, in cui è difficile identificare con sicurezza B.). Bisogna giungere al 1449-1451 per avere un ciclo di 'uomini famosi', conservato con venerazione e ancor oggi visibile, in cui appare B. ritratto da un grande pittore come Andrea del Castagno (ciclo di villa Carducci a Legnaia, ora a Firenze, Uffizi). Da allora B. entra nelle figurazioni del Parnaso poetico: dall'ironico disegno leonardesco delle 'tre corone' (Venezia, Gall. dell'Accademia) accanto a Dante e Petrarca e dal Parnaso di Raffaello nella stanza della Segnatura, ai sei Poeti toscani di Vasari (due versioni: Oxford, Oriel College; Minneapolis, Society of Fine Arts, Inst. of Arts), alle varie e diversissime medaglie rinascimentali fino al ritratto con Dante e Petrarca dipinto da Bronzino e ricordato da Vasari (Le Vite, VI, 1987, p. 232) e alla scomparsa raffigurazione seisettecentesca nel duomo di Udine. Per non parlare dei tardi e convenzionali ritratti nelle stampe, che prima si rifanno spesso a quelli monumentali ricordati o al busto marmoreo di Francesco Rustici posto nel 1503 sulla tomba certaldese; poi si impennano in interpretazioni fra il Barocco e il Rococò, come per es. nell'edizione parigina del 1757 illustrata da Gravelot e Boucher (Kirkham, 1985-1985; 1987; Donato 1988).In quello stesso pieno e tardo Quattrocento il Decameron e con esso il De casibus e il De mulieribus (in originali e traduzioni) trovano, come già accennato, una nuova ricchissima affermazione visuale nella società civile e culturale dello splendido autunno del Medioevo in Provenza, in Francia, in Borgogna. Basti citare solo una dozzina di codici del Decameron fra il centinaio di esemplari illustrati di mano francese, borgognona o fiamminga: quello di Giovanni Senza Paura duca di Borgogna (Roma, BAV, Pal. lat. 1989) e il suo derivato per il figlio Filippo il Buono (Parigi, Ars., 5070; Filippo si fece miniare anche il codice di Oxford, Bodl. Lib., Douce 213), quello dei duchi di Normandia (Parigi, BN, fr. 129), quello della corte di Blois forse di Diana di Poitiers (Parigi, BN, fr. 239), uscito dall'atelier del 'Maître de Sir John Fastolf', e quello derivatone di Eugenio di Savoia (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 2561), quello di Filiberto de la Mare (Parigi, BN, fr. 240), quello del duca di Gloucester (Parigi, BN, fr. 12421, dello stesso atelier del fr. 239), quello del duca di Somerset (Londra, BL, Add. Ms 35322-23), quello di Filippo di Clèves (Aia, Koninklijke Bibl., 133.A.5), quello di Etienne Chevalier (Cambridge, MA, Harvard Univ. Lib., Richardson 31), quello del re Edoardo IV dipinto a Bruges (Londra, BL, Royal 19.E.I). Si ha l'impressione che nel Quattrocento la presenza di una copia lussuosamente illustrata del Decameron o del De casibus o del De mulieribus fosse d'obbligo, quasi uno status symbol in ogni libreria aristocratica, e che certi grandi signori, non solo in Francia ma in Borgogna e in Provenza, ne facessero volentieri collezione.Al punto iniziale delle illustrazioni decameroniane in terra di Francia stanno proprio le cento miniature del codice vaticano (Pal. lat. 1989), eseguite tra il 1414 e il 1419. L'autore principale delle miniature, il Maestro della Cité des Dames, è stato identificato e caratterizzato (Meiss, 1967) in un caposcuola francese, attivo a Parigi nei primi decenni del Quattrocento e specializzato nell'illustrare testi profani. Egli ignorava la tradizione fiorentina e non aveva autorevoli precedenti iconografici che gli servissero di modello per illustrare il Decameron. Ricorse perciò a soluzioni suggerite da figurazioni estranee alla visualizzazione di opere narrative, cioè a suggestioni delle tradizioni sacra e cavalleresca.Chi miniava poi un secondo codice (Parigi, Ars., 5070), nelle Fiandre orientali, era il Maestro di Guillébert de Mets. Per illustrare a metà del Quattrocento il codice di Filippo il Buono quel maestro aveva tuttavia un sicuro modello: la visualizzazione decameroniana ora citata del Maestro della Cité des Dames. Ma al secondo illustratore non bastava quel modello; e poiché egli, fiammingo, non capiva evidentemente il francese del testo, per le miniature da eseguire ebbe bisogno di indicazioni nella sua lingua, come ha rilevato Meiss (1967), che provocarono anche vari fraintendimenti.Come certi cassoni, anche le più raffinate raffigurazioni francesi e fiamminghe non sono tanto visualizzazioni o interpretazioni del testo quanto eleganti variazioni o decorazioni sul testo. Chi dipingeva o miniava in pieno Quattrocento non leggeva bene la pagina, non era fondamentalmente occupato o preoccupato dalla novella in sé stessa, quanto piuttosto dagli spunti che essa poteva offrire all'arte pittorica o miniaturistica, ai suoi moduli e alle sue eleganze.Forse anche per la lontananza e la difficoltà del testo negli ambienti oltremontani, per la scarsa preparazione culturale dei fruitori (da quella alfabetica a quella storica e mitologica e ambientale italiana), la visualizzazione in Francia e nei paesi fiamminghi, specialmente nel De mulieribus e nel De casibus, tende tuttavia nel Quattrocento, più sistematicamente che in Italia, a essere non tanto espressiva od ornamentale quanto strettamente ausiliaria al testo. I destinatari di quei manoscritti devono anzitutto essere immediatamente sedotti e captati dalle figure; e poi loro stessi vogliono vedere la narrazione, l'esempio, anche al di là e al di fuori della lettura e dell'ascolto. Le illustrazioni si configurano anche in ausili diretti alla parola, quasi glosse esplicative e con un ruolo attivo, che favoriscono la comprensione dell'exemplum in quanto tale, al di là della narrazione boccacciana, che forse restava un po' lontana dal fruitore anche per i riferimenti alla mitologia e alla storia antica, per la lingua originaria estranea, per le allusioni a tradizioni culturali aristocratiche e remote.In poco più di un secolo, dalla fine del Trecento a quella del Quattrocento, più di nove migliaia di illustrazioni hanno visualizzato quei testi diversissimi nei manoscritti e negli incunaboli boccacciani, questi ultimi, specialmente quelli tedeschi, corredati da xilografie a volte lussuosamente colorate. Esse si allineano in quel secolo in una serie di quasi trecento codici o stampe. Sono stati eseguiti e lavorati soprattutto nelle varie regioni dell'Italia e della Francia, ma anche nelle Fiandre e in Olanda, in Austria e in Germania, in Spagna e in Inghilterra.Accanto alla visualizzazione libraria trionfa per due secoli quella delle espressioni d'arte autonome, volte spesso, come detto, anche al ritratto e alla caratterizzazione dell'autore. Sono quasi mezzo migliaio di opere nelle più varie arti e tecniche (affreschi e tavole e tele, bassorilievi e sculture, cassoni e deschi, ceramiche e smalti, legni e poi rami, arazzi).La storia delle illustrazioni, fin dalle non equivoche indicazioni figurative di B. stesso, può confermare così la fisionomia sociale e l'intonazione umana del messaggio del Decameron, quali sono ormai definite dalla più solida e avveduta critica. La radice ideologica e fantastica di questo primo capolavoro della narrativa moderna è medievale, così come lo è quella delle opere storico-morali di B. e viene irrimediabilmente fraintesa - come in quelle visualizzazioni cortigiane - nella cultura rinascimentale e poi in quelle successive che ne seguono i modelli. Allo stesso modo l'intonazione del Decameron, fondata sulla dialettica tutta medievale tra forze della Provvidenza e forze della persona, viene deformata quando è trasferita in un'atmosfera apollinea, rinascimentale.E tuttavia, dopo l'assoluto silenzio dei trecentisti maggiori, per la prima volta nella storia della nostra cultura figurativa e del nostro gusto pittorico proprio queste arti, la tardogotica e la protorinascimentale - così lontane dal genio medievale boccacciano del composito -, sembrano tutte prese dalla malia inventiva e narrativa di B., molto più che da quella tutta rinascimentale di Ariosto. Non sono tanto i citati esemplari di corte a dimostrarlo, quanto veri e autonomi capolavori ispirati da B. a tutta una serie di pittori di fortissima personalità, che, in opere del tutto indipendenti dall'illustrazione del libro, è affascinata dai temi umani e poetici di certe novelle o di certi episodi coloritamente drammatizzati nelle opere storiche e mitologiche, e ne vuole liberamente visualizzare i significati, pur fraintendendoli e deformandoli.

Bibl.:

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